Copertina di Eroine

Un viaggio femminista che comincia dalle serie tv

«Now TV isn’t one that I watched five hours straight, but a movie is the one that I don’t turn on because it’s two hours. I don’t want to be in front of my TV for two hours I want to be in front of the TV for one hour five times».
Tina Fey e Amy Poehler, monologo di apertura ai Golden Globe 2021.

 

 

Quando Amy Poehler ha fatto questa battuta nel monologo iniziale della settantottesima edizione dei Golden Globe ho riso molto, ma soprattutto mi sono sentita chiamata in causa e stranamente compresa. Spesso, nelle serate infinite e tutte uguali che quest’ultimo anno ha saputo regalarci, mi sono trovata davanti alla smart tv, telecomando in mano, indecisa non solo su che cosa guardare, ma addirittura su che icona di un servizio d’intrattenimento cliccare per cominciare a cercare. L’unica mia certezza era che non avevo voglia di vedere un film, di impegnarmi per conoscere da zero un personaggio, affezionarmici e poi lasciarlo andare nell’arco di due ore. Avevo voglia di riprendere uno dei personaggi che già conoscevo, e vedere come andava avanti la sua storia. Avevo voglia di una serie tv.

Nell’ultimo ventennio, probabilmente, le serie tv sono diventate la principale fonte d’intrattenimento per il mondo occidentale. Più dello sport, più del cinema, più dei reality. E, ovviamente, più della vita fuori dallo schermo; in competizione, forse, solo con i social network.

Una parte così importante e pervasiva della vita di moltissimi di noi (sicuramente della mia) ha bisogno di essere analizzata con cura, in caso contrario rischieremmo di sminuire e perdere di vista l’influenza che questo tipo di narrazione ha sulla nostra società, contribuendo a costruire e mantenere i rapporti di forza al suo interno.

Marina Pierri ha pienamente ragione, dunque, quando dice che siamo immersi nelle storie delle serie tv e che le loro narrazioni ci aiutano a comprendere il reale, attraverso personaggi che escono dallo schermo e finiscono per guidarci nel nostro vissuto quotidiano. Per questo è da accogliere con entusiasmo il suo volume, Eroine. Come i personaggi delle serie tv possono aiutarci a fiorire (Tlon, 2020).

Il libro si propone di analizzare l’influenza della narrativa seriale sulla vita, cosciente e inconscia, delle donne che sullo schermo vedono agire altre donne, le seguono nella loro crescita, si immedesimano o provano empatia, e grazie a quello che vedono scoprono qualcosa su loro stesse, e sul loro viaggio. Per farlo, Pierri si concentra sulle serie tv e sui personaggi degli anni Dieci appena conclusi per fotografare e raccontare il presente, grazie a un’ampia conoscenza sia delle stesse serie tv, sia della letteratura filosofica, psicologica e narratologica, in particolare gli studi sul “viaggio dell’Eroe”. La sua analisi si sofferma in particolare sui personaggi-archetipo incarnati dalle Eroine, che si manifestano durante il viaggio narrativo e risuonano in noi che guardiamo.

Gli archetipi dell’Eroina hanno una carica universale: arrivano al singolo come immagini, rappresentano momenti e atteggiamenti femminili arcani, riconducibili alle figure della mitologia greca, e portano sulle spalle lo sviluppo della narrazione e la ricezione della narrazione stessa da parte dello spettatore, in un susseguirsi di stati incarnati e possibili per la donna. Per esempio, nel suo viaggio l’Eroina, dopo essere stata Guerriera come la Angela Abar di Watchman e Alex Levy (Jennifer Aniston) in The Morning Show, diventa Angelo Custode, rispecchiandosi in Mave, madre disperata che fa di tutto per ritrovare sua figlia in Westworld, e nella combattiva ma accogliente Ruth di Glow. Ed ecco quindi l’identificazione: «La Guerriera ha bisogno di riposare. La integriamo all’Angelo Custode quando combattiamo la misoginia online degli psicologi e dei sociologi da strapazzo; quando rivendichiamo la validità e l’amore nei confronti dei nostri corpi non conformi; quando ci schieriamo con un’altra donna in una discussione dove impera il mansplaining; quando ricopriamo un ruolo di potere e ci adoperiamo affinché anche ad altre donne, diverse da noi, vengano offerte delle possibilità per farsi strada».

Uno dei grandi pregi di questo libro, quello che più me lo ha fatto amare, è che pur raccontando storie diverse, ciascuna delle quali nasce da idee, immaginazioni e fantasie di moltissime persone diverse (showrunner, sceneggiatrici e sceneggiatori, registe e registi, ecc.), l’analisi di Pierri è riuscita a penetrare nel profondo della mia storia personale, e a farmi sentire compresa. Pensando a Fleebag, Kimmy Scmidth, Nadia Vulvokov, Miriam Masel, Raffaella Cerullo, Jane Villanueva e altre Eroine in questa chiave, ho conosciuto meglio me stessa e alcune fasi del mio percorso di crescita personale.

Il personaggio di una serie tv è una porta attraverso la quale chi guarda può accedere a elementi archetipici capaci di agire sulla sua mente, sulla sua sensibilità e sul suo vissuto. Pierri riflette su come alcune serie tv si smarchino dal paradigma classico, pienamente immerso nella cultura patriarcale, del viaggio dell’Eroe, creando nuovi archetipi che prendono vita e si rivolgono al mondo femminile. Ne nasce un testo profondamente femminista e militante, che aiuta a immaginare e costruire una società paritaria. Il viaggio di distruzione e coscienza di sé dell’Eroina, che per progredire deve necessariamente confrontarsi con i limiti e le imposizioni di una società che la considera inferiore, che la cancella e le impone standard impersonali e violenti, è lo stesso che noi donne che leggiamo sentiamo di dover fare, e sentiamo di stare facendo, anche se ognuna con il suo passo e la suo storia. Gli archetipi delle Eroine – i vari modi di essere in viaggio e di affermarsi – ci mostrano le possibili strade. E la strada andrà ripercorsa più volte, inciampando e ricominciando da capo dopo l’arrivo, ma ci porterà molto lontano.

Nelle parole dell’autrice: «Anche se Eroine è un libro femminista, il femminismo non è un pacchetto Office pronto per l’installazione. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo grazie alle donne che mi circondano. Se è vero che il fulcro del Viaggio dell’Eroina è il raggiungimento progressivo di una consapevolezza circa l’erosione interiorizzata del patriarcato, allora non ho finito di smantellare le impalcature obsolete che nascondono la facciata del mio palazzo in costruzione. La natura del Viaggio prevede che sia insieme finito e non finito. […] Ci si rimette in marcia, ogni volta più risolte, o almeno meno irrisolte di prima».

La rappresentazione, nelle storie, è esistenza sociale, e grazie a Eroine ogni lettrice potrà sentirsi viva e consapevole.

 

(Marina Pierri, Eroine. Come i personaggi delle serie tv possono aiutarci a fiorire, pref. di Maura Gancitano, Tlon, 2020, pp. 238, euro 16, articolo di Elisabetta Sangiorgio)

Semplice di Francesco Motta

La fine dei vent’anni è stato uno squarcio  nel panorama musicale italiano del 2016. In un momento in cui l’indie diventava definitivamente mainstream e la trap faceva prepotentemente irruzione nel mercato discografico, pareva di aver trovato qualcuno che potesse prendere il testimone di  una tradizione che si metteva coscientemente di traverso nei confronti dello showbiz: per attitudine, forma, contenuto. Motta aveva scritto l’equivalente degli anni ’10 di Canzoni per spiagge deturpate.

Seguiva, e segue, una linea che parte dai Cccp, passa per gli Afterhours e i Marlene fino a Le luci della centrale elettrica, con tutte le mutazioni dovute dal cambiare della società.

Dopo il suo esordio c’è stato Vivere o morire, che ha confermato il buono e i limiti della sua proposta, e ora arriva al suo terzo lavoro, Semplice.

Diverso approccio rispetto ai suoi predecessori: non ci sono pezzi che suonano come instant classic della sua produzione  (se non l’ottima “E poi finisco per amarti“). Meno d’impatto e meno immediato. Più vago, sfuggente. Continua, in quest’ottica, sulla scia di Vivere o morire, senza però  avere la sua coerenza di fondo. Una scelta? Qualcosa di più contemplativo? La suggestione della semplicità come sofisticatezza?

Può essere che l’intento fosse questo. Ma quello che ne esce fuori, invece, è un discorso che ha a che fare con le fondamenta della poetica di Motta, i suoi cardini, la sua scrittura, i suoi testi.

La sensazione è che riesca a dare il meglio in canzoni che abbiano la forza del singolo (sempre in un contesto alt) e che invece quando cerca di staccarsi, provando strade più contorte per quelli che sono i suoi standard, perda di efficacia.  L’esempio immediato è nella de gregoriana “Qualcosa di normale“, dove si nota come tutto l’architettura poetica non riesca a stare in piedi.  Ed è un discorso che attanaglia quest’album, e che già in passato si subodorava.

Emerge, in Semplice, quello che è sempre stato uno dei limiti, ovvero la stesura dei testi: il confondere una scrittura asciutta con una tendenzialmente piatta, dove si lavora sempre sulle stesse sinapsi e lo si fa in maniera quasi adolescenziale. In passato questo veniva nascosto (quasi sempre) da brani che funzionavano anche se avesse fatto un cut up dei testi dei Gazosa e dal suo incredibile timbro vocale. Ma che oggi invece non possiamo non vedere (esempio “Quello che non so di te“).

Motta pare senza  punti di riferimento (salvo in rare occasioni), soccombe ricercando una chiave di lettura a cui non riesce a dare un senso e una direzione. Le ballate che ci propone sono piuttosto anonime e anche quando aumenta i giri (tranne nella già citata “E poi finisco per amarti”), non riesce a dare quel tocco che in passato lo ha assurto ad alternativo tra (finti) alternativi. E si accontenta di un album che banalmente si lascia ascoltare ma che lascia davvero poco.

Il tentativo è stato quello di fare un passo in avanti, il risultato invece è stato un mezzo passo indietro. Non è un problema di sedimentazione di un codice che è cambiato, di tempo per abituarci a questo Motta, ma proprio di una problematica strutturale con cui Motta dovrà fare i conti.

 

 

 

Copertina di I poteri forti di Giuseppe Zucco

Sinistri e rassicuranti: i poteri forti

In L’età della febbre (a cura di Alessandro Gazoia e Christian Raimo, 2015), la tradizionale perlustrazione di metà decennio condotta da minimum fax nel campo della narrativa italiana, compariva soltanto un racconto di un esordiente. Quell’esordiente si chiamava Giuseppe Zucco, quel racconto si intitolava “Il prodotto interno lordo”, ed era con ogni probabilità il migliore di tutta la raccolta, o quantomeno il più visionario.

Già in quella prima prova, Zucco mostrava una qualità assai preziosa per un autore, e cioè il coraggio di fidarsi della propria immaginazione. Infatti, se a tratteggiare una situazione ai limiti dell’assurdo son buoni in tanti, molti meno sono coloro in grado di percorrerla fino in fondo, di costruire da uno spunto clamorosamente fantasioso una storia solida, che abbatta il confine tra realtà e interiorità.

Tutto può essere una storia, e ogni storia può raccontarci. Pare essere questo il filo conduttore che ha guidato la scrittura di Giuseppe Zucco negli ultimi anni, in principio nella raccolta Tutti bambini (Egg, 2016), poi nel primo e incerto tentativo di romanzo (Il cuore è un cane senza nome, minimum fax, 2017), adesso in questo I poteri forti (NN Editore, 2021), che segna il ritorno dell’autore calabrese alla forma racconto. Forma racconto che non è necessariamente forma brevissima, se si considera che l’opera è costituita da cinque scritti che vanno dalle ventisei pagine di “I poteri forti” alle quaranta di “Giuditta”.

Ma cosa sono i poteri forti? Zucco trasla l’espressione tanto cara ai cospirazionisti – che solitamente identifica la trama ordita da lobby invisibili e fortissime – a una dimensione interiore che ci muove nel mondo, spesso in maniera inconscia.

Non ci sono “disegni più grandi” a manovrarci, sembrano voler suggerire questi racconti, siamo sempre noi, i soli in grado di trasgredire o aderire alle nostre stesse aspettative.

Eppure i personaggi di queste storie, almeno in partenza, non sembrano intenzionati a cogliere questa rivelazione. I poteri forti che li scavano nel profondo lavorano indisturbati, inchiodandoli a un regime di insoddisfazione e mediocrità più facile da ricondurre a un colpevole “esterno” (una moglie spaventosa, il lavoro, un violento aguzzino).

La passività dei protagonisti – tutti uomini, quasi tutti tra i trenta e i quarant’anni – viene trasfigurata in una forma di orrore quotidiano che in qualche modo li rassicura e li assolve.

«Lui non aveva mai tradito sua moglie. Non ne aveva il coraggio».

«E siccome più passavano le notti, più il viso di sua moglie s’illividiva, s’imbruttiva, acquisendo un’aria sadica, e rivelando che qualcosa andava montando inesorabilmente, lui si scoprì codardo, e tanto ignobile, e divenne sempre più accondiscendente verso sua moglie».

«Si accomiatò da se stesso sapendo che sua moglie sarebbe presto riuscita lì dove la sua codardia non gli avrebbe permesso di rivolgersi un’arma contro o di fissare il vuoto da un cornicione».

E così, in “Giuditta”, capita che il desiderio di un uomo di evadere dal suo matrimonio, anche per il tempo di una scappatella, venga fustigato dalla maschera mostruosa della moglie addormentata, e dalla convinzione che lei lo voglia uccidere.

Zucco combina con efficacia reale e surreale, sogno e veglia, per tracciare i confini di uno spazio altro nel quale i personaggi e le loro fantasie possono finalmente venire a contatto (“Quarant’anni”, una favola che riprende il bestiario di Il cuore è un cane senza nome), il più delle volte in senso conflittuale (“La pietanza”, disperato tentativo di nutrire una redenzione ormai tardiva).

Non tutti si mostrano rassegnati o inermi. C’è anche chi prova un colpo di coda per sfuggire al proprio destino, come accade in “Un ramo spaccato in due”.

Ma la volontà di un individuo può rivelarsi più forte del potere forte del conformismo che dimora in ognuno di noi, e che trova comode sponde in quello degli altri?

«Poteva cambiare lavoro, città, continente, la sua ombra l’avrebbe seguito comunque».

«Qualcosa della sua vita precedente, una vita più ottusa, e meno limpida, ma calda e rassicurante, lo richiamava a sé».

L’autore parrebbe scettico a riguardo: per quanto in ogni racconto compaia una relazione sentimentale travolgente tra un lui e una lei che turba la stasi iniziale dei personaggi, l’amore sembra essere un potere instabile, o almeno non sufficientemente forte per prevalere del tutto sul resto.

Prima o poi, nel partner affiora sempre una faccia nascosta, spaventosa, ma questo lato oscuro non è altro che una proiezione delle paure di chi sta guardando («vergognandosi per lui, alla fine provò vergogna per se stessa»).

Supportate da una scrittura finemente decorata di immagini, queste cinque storie affascinano per la loro capacità di rivelarci, ora con contorni grotteschi, ora con tono fiabesco, che l’orrore non alberga nello sconosciuto, ma nel fin troppo conosciuto.

Noi siamo il nostro nemico. E non lo ammetteremo mai.

 

(Giuseppe Zucco, I poteri forti, NN Editore, 2021, 176 pp., euro 17, articolo di Martin Hofer)
Imago Lux di Angelini Sut

Il conflitto (e la somiglianza) tra luce e buio

«Non siamo noi ad aver avviato il primo soffio, né saremo noi che decideremo quando esalare l’ultimo. Chi parla di libero arbitrio non sa quello che dice. Facciamo tenerezza, imbottiti di psicofarmaci, droghe e alcol per non accettare l’unica verità da cui non si scappa: non abbiamo il controllo. Di nulla. Non lo abbiamo sulla nostra vita, figuriamoci su quella degli altri». Scardina tematiche profonde Imago Lux, l’ultimo romanzo di Adriano Angelini Sut (Ensemble, 2020), punti nevralgici di una contrapposizione antica ma più che mai moderna e attuale: il conflitto (e la somiglianza) tra la luce e il buio.

La consapevolezza si mescola all’ingenuità delle scelte, la forza si impasta con la fragilità, la patina del razionale si sfalda in eventi incredibili e tutto si concretizza in una narrazione che scorre rapida, con un lessico delicato ma al contempo tagliente: Angelini Sut questa volta struttura un thriller esoterico che richiama i grandi classici che hanno affrontato il tema del Maligno. Pensiamo ai versi del Faust in cui Mefistofele dice: «Io sono una parte di quella forza che eternamente vuole il Male e eternamente opera il Bene»; a Il maestro e Margherita di Bulgakov, fino a L’ eterna notte dei Bosconero di Santi: romanzi in cui l’umano viene risucchiato in un vortice di situazioni che mostrano le prospettive più nere e più terrificanti, a contatto con il “contrabbando” dell’anima, che viene divisa appunto tra luci e oscurità.

Imago Lux racconta attraverso tre linee temporali la storia di una famiglia segnata dal plagio e dall’incontro con delle forze oscure, che si muovono indisturbate accanto a quelle benefiche. «Ogni cosa ha un suo Kairos, il suo momento opportuno, dicevano i greci. E come in ogni storia che si rispetti, va stabilito un punto di partenza. Nel mio caso, l’origine della discesa nelle tenebre: il 3 settembre del 1968, la mia festa di diciotto anni».

Il maggio francese era arrivato a Roma: università occupate, la cultura come movimento di liberazione dall’oppressione di una società considerata piena di regole, divieti, perbenismi assurdi. I figli delle famiglie borghesi sfilavano a Villa Giulia, scontrandosi con i poliziotti, quelli che Pasolini definiva i veri poveri, e la città era imperversata dalle scintille sessantottine, ma la protagonista, Eva Roscioli, voce narrante del romanzo, era ben lontana dal prendere parte alle contestazioni studentesche e ai collettivi, anzi, viveva nella normalità della ragazza di buona famiglia, col fidanzato giusto e l’ammirazione per la sorella maggiore, Liliana, che appena rientrata dagli Stati Uniti aveva una visione rivoluzionaria del mondo. E un compagno eccentrico: Luc Alibrandini, conosciuto col nome d’arte Apofi (il dio egizio dei morti). La sera del compleanno di Eva, la sorella annuncia di essere incinta del suo compagno e che stabilirà la sua dimora in una comune, lontana dagli affetti famigliari.

«Luc/Apofi dipingeva cose oscene. Le sue tele erano caratterizzate dal nero, dal buio, dalle tenebre. Gli sfondi tutti scuri, erano a mala pena chiazzati da qualche striscia giallo, verde, puntini, incisioni. A volte si distinguevano volti. Le tenebre ricorrevano sempre nel suo immaginario». Il suo dipinto più noto è appunto Imago Lux. Un personaggio oscuro, sinistro, che sin dalle prime pagine, attraverso il racconto di Eva che ormai ha settant’anni, una carriera avviata, un marito storico, due figlie e quattro nipoti, si intuisce come esaltato e fuori dalle consuetudini: ha una figlia di primo letto, Joy, e una vita impostata sull’arte e sulle regole della comune che si riunisce in una catacomba etrusca sull’Aurelia antica.

Quando Liliana scompare, dopo aver scritto una lettera alla sorella in cui svela di essere prigioniera, Eva inizia le ricerche per ritrovarla. E con un crescendo di suspense e di indagini sulla vera identità di Luc Apofi e l’ingresso di personaggi che faranno luce sulle coincidenze e sui riti oscuri che si svolgevano all’interno della comune, come Marco, il ragazzino autistico che avverte il pericolo e le presenze negative o Carola, la “carceriera” di Liliana, si giunge al ritrovamento della ragazza, in un monastero in Francia, ma sarà completamente diversa, trasfigurata e irrecuperabile.

Eva avrà di nuovo paura anche molti anni dopo, per sua nipote, Giulia: timore che possa essere ingoiata in un vortice dal quale tornare salvi è impossibile, come lei sa bene.

L’autore, che cattura l’attenzione con diversi colpi di scena, interviene con suggerimenti da studioso esperto, e apre la riflessione su tematiche complesse, esistenti da sempre, come diceva già Parmenide: «Ma dal momento che tutto è denominato luce e tenebra e queste secondo le loro attitudini sono applicate a questo e a quello, tutto è pieno insieme di luce e di tenebra invisibile, pari l’una e l’altra, perché né con l’una né con l’altra c’è il nulla».

Sarà il professor Malvolti, ordinario di Storia delle religioni, durante l’incontro con la protagonista a fare un sunto di quanto sia antica la battaglia tra il bene e il male, tra il potere corrotto della Chiesa e le collettività che vengono definite eretiche. Eva non smetterà mai di farsi delle domande, lottare contro il Maligno, nemmeno quando il nemico sarà la pandemia, riesumando le paure di un mondo senza luce, consegnato al buio.

Il romanzo ci consegna il messaggio che non esistono confini netti e definiti e che raggiungere un equilibrio è il frutto comunque, sempre, di una scelta.

 

(Adriano Angelini Sut, Imago Lux, Ensemble, 302 pp., euro 15, articolo di Antonella De Biasi)

 

Zero Poster italiano

Nuovi protagonisti, vecchi difetti

C’era un po’ di attesa intorno a Zero, la serie tv tratta dal romanzo Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano. Attesa e curiosità per un progetto che si preannunciava moderno e innovativo per gli standard italiani, con il coraggio di parlare di super poteri e integrazione e andare oltre i classici confini di genere.

La presenza di Menotti come ideatore e supervisore di serie sembrava una garanzia. Già sceneggiatore di Lo chiamavano Jeeg Robot, Menotti avrebbe potuto garantire il giusto inquadramento per un nuovo quasi cinecomic all’italiana. Purtroppo non è andata così.

I pregi di Zero si fermano alla capacità di raccontare una Milano – e di conseguenza un’Italia – che ancora riceve troppo poco spazio: quella dei giovani italiani nati da genitori provenienti da altri paesi e culture. Fedele al suo impegno per l’inclusività, Netflix ha trovato nei bestseller e nella figura di Dikele Distefano un ottimo spunto di partenza.

La storia è quella di Omar, un ragazzo figlio di genitori senegalesi, orfano di madre e con il sogno di diventare fumettista. Vive nel Barrio,  un generico quartiere periferico di Milano, dove si guadagna qualche soldo consegnando pizze a domicilio. Un giorno, mentre scappa da un apparente malintenzionato, scopre di poter diventare invisibile. Decide di sfruttare il suo super potere per aiutare un gruppo di nuovi amici a difendere il quartiere dagli interessi senza scrupoli di un investitore immobiliare.

La scoperta casuale di un super potere è un punto di partenza classico di fumetti e cinecomic. Qui diventa metafora dell’invisibilità sociale di Omar, timido e sognatore, incapace di trovare un posto preciso tra le tradizioni del padre e il suo bisogno di cambiare.

Menotti non è riuscito a replicare la formula vincente del Jeeg Robot diretto da Gabriele Mainetti. Zero assume in sé tutti i difetti del cinema italiano che prova a confrontarsi con i generi. Non è questione di inadeguatezza di mezzi, ma di incapacità di calarsi in un linguaggio senza adattarlo a una realtà diversa da quella di Hollywood.

È probabile che nelle intenzione originali dei produttori Zero dovesse diventare una versione ripulita senza sesso e droghe di Misfits, lo show britannico che univa periferia e supereroi disagiati. Non ci sono riusciti.

In questa serie troviamo invece gli stessi identici e imperdonabili errori dei due film di Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores: un prendersi sul serio senza motivo, un’incapacità totale di dire qualcosa di interessante, originale o anche solo divertente sul tema dei super poteri.

Dopo un avvio discreto nei primi episodi, Zero perde presto lo slancio e precipita in una scrittura sciatta e in una recitazione decisamente non all’altezza. I giovani protagonisti ci mettono del loro meglio, ma non sono serviti da dialoghi credibili o da una regia che provi a non farli sembrare ridicoli.

Zero finisce in fretta per rivelarsi un contenuto vuoto, incapace di raccontare gli adolescenti come altri prodotti recenti hanno dimostrato di saper fare molto bene – Skam Italia, su tutte –, o di descrivere la periferia in modo inaspettato come per esempio il film Attack the Block di Joe Cornish.

Se Netflix sta lentamente prendendo le misure con il nostro cinema con produzioni interessanti, come L’incredibile storia dell’isola delle rosesulle serie tv c’è ancora tantissima strada da fare.

Nel cantiere della memoria di Focardi

La precisione della storia, contro l’uso politico del passato

Come sostiene Adriano Prosperi in un recente e fortunato libello, quello in cui viviamo è ormai Un tempo senza storia (Einaudi, 2021), in cui sono venuti meno i meccanismi sociali che riconnettono l’esperienza dei contemporanei alle generazioni precedenti. Se però diamo uno sguardo alle classifiche di vendita, il libro di storia sembrerebbe attraversare un periodo d’oro.

Questa apparente contraddizione suggerisce che forse il problema non è la carenza di storia, ma l’uso politico e ideologico che se ne fa. Forse, più che alla «distruzione del passato» che Eric Hobsbawm additava quale tratto tipico della società tardo-novecentesca, siamo di fronte a una serie di gravi distorsioni nell’elaborazione del passato, sempre più banalizzato nelle formule retoriche della “memoria”.

«La memoria umana» scriveva Primo Levi in I sommersi e i salvati, «è uno strumento meraviglioso ma fallace». Non era la memoria, a suo dire, il nemico dell’oblio, ma la precisione. E mai lezione fu più dimenticata: la piega che ha preso il dibattito pubblico sulla storia, in particolare quando si tratta di nazifascismo, Resistenza e Shoah, conferma i timori di Levi.

La memoria della Seconda guerra mondiale si è trasformata negli ultimi trent’anni in una guerra della memoria. In Italia, ma non solo, allo studio della storia come indagine del passato e comprensione delle radici del presente si è sostituita troppo spesso – anche a livello istituzionale – una contrapposizione fra memorie di parte, che rivisita il passato per giustificare scelte e convenienze politiche del presente. Come quasi sempre accade, si vis pacem, para bellum: l’obiettivo strategico delle guerre di memoria non è l’affermazione di una particolare idea del passato in opposizione all’altra, ma la costruzione di un’impossibile “memoria condivisa”, che confonde e annacqua fatti e responsabilità, decontestualizza gli episodi dai processi e getta ogni cosa in un calderone di reticenze, parzialità, equiparazioni cerchiobottiste.

Il revisionismo sulla Resistenza, derubricata a “guerra fratricida”, e la nuova vulgata sul dramma delle Foibe, che omette ogni riflessione critica sull’oppressione fascista delle popolazioni slovene e croate in Istria e Dalmazia e sui crimini di guerra italiani in Jugoslavia, sono solo i casi più noti di una rivisitazione pretestuosa del passato che, a cavallo del nuovo millennio, la sinistra istituzionale italiana non si è fatta problemi ad assecondare, in un’ansia di rilegittimazione postcomunista che ha fatto il gioco delle destre.

Per chi, nella settimana che segue al 25 Aprile, volesse affilare gli strumenti intellettuali per sfuggire alle trappole della memoria condivisa, il lavoro dello storico Filippo Focardi offre un vastissimo repertorio. Il suo ultimo libro Nel cantiere della memoria, che nel settembre 2020 ha inaugurato la collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri pubblicata da Viella, è un esempio della precisione invocata da Primo Levi. Focardi è uno dei principali studiosi italiani delle retoriche pubbliche e del calendario civile, ossia dei meccanismi attraverso i quali si forma la memoria: una costruzione sociale che lo storico ha il compito di decostruire, o perlomeno di depurare da stereotipi e manipolazioni.

Il primo e forse più radicato mito da smontare è per Focardi la contrapposizione tra i «bravi italiani» e i «cattivi tedeschi» nel ripercorrere le responsabilità del secondo conflitto mondiale. Non bastano certo l’8 settembre e la Resistenza a rimuovere le colpe italiane nell’innesco della guerra, eppure la condotta a fianco del nazismo viene deformata da uno sguardo autoassolutorio. Da un lato i brutali epigoni del Terzo Reich, sanguinari e ciecamente razzisti, dall’altro gli italiani ragionevoli e generosi anche nei panni dell’occupante. Una distinzione smentita dai fatti, ma che si è diffusa soprattutto a causa della propaganda degli Alleati, interessati a non far ricadere le responsabilità sul popolo italiano ma su Mussolini e il regime, che avevano consegnato il paese nelle mani di Hitler. Se è vero che, dopo l’armistizio firmato da Badoglio nel settembre ’43, questa distorsione dei fatti fu decisiva per mobilitare gli italiani contro «l’oppressore tedesco e il traditore fascista» e poi per ottenere una pace non punitiva, in seguito il mito del buon italiano e del cattivo tedesco ha avuto un ruolo altrettanto fondamentale anche nel ridimensionare il fascismo come un regime all’acqua di rose, al confronto con il monolite sterminazionista del Terzo Reich.

La conseguenza è devastante: la mancata resa dei conti con gli aspetti totalitari, liberticidi e criminali dell’epoca mussoliniana. E, in un circolo vizioso, la scelta di evitare ai criminali di guerra nostrani una “Norimberga” ha contribuito a tramandare l’idea degli “italiani brava gente” a dispetto della vastissima ricerca storiografica, che dimostra la gravità dei delitti fascisti nelle colonie e nei territori occupati in Europa. Non solo: la mentalità storica e il discorso pubblico italiano restano pesantemente segnati dalla poco verosimile opposizione fra la smania genocida antisemita dei tedeschi e le virtù umanitarie degli italiani “salvatori di ebrei”, che sminuisce non solo l’ideologia razzista connaturata al fascismo, ma soprattutto il ruolo dell’Italia, storicamente comprovato, nella Shoah. Così, mentre la memoria storica tedesca si segnala per lo sforzo incessante di riconoscimento e accettazione delle proprie colpe, da noi capita che la legge con cui nel 2000 è stata istituita la Giornata della memoria in ricordo dello sterminio degli ebrei non menzioni mai la parola “fascismo”.

Ed ecco l’uso pubblico della storia, a cui Focardi dedica la seconda parte del libro. Leggendo Nel cantiere della memoria, si ha l’impressione che nel dopoguerra le fondamenta della Repubblica siano state poggiate sul terreno minato di un’insanabile contraddizione: da un lato l’esaltazione della Resistenza e un’avanzata Costituzione antifascista, dall’altro un immaginario diffuso che pullula di alibi e versioni auto-assolutorie. Con la fine della guerra fredda (e dopo le prime avvisaglie degli anni Ottanta), la contraddizione è esplosa di pari passo con l’avvio di un’eterna e feroce transizione politica e istituzionale.

È così che si scatena definitivamente il processo di «defascistizzazione retroattiva» del fascismo (qui Focardi cita Emilio Gentile), al quale hanno prestato la loro penna anche grandi firme del giornalismo quali Montanelli, Pansa e Vespa: non una rimozione, ma un annacquamento del passato fascista.

Sul piano della retorica pubblica, in nome della riconciliazione si è affermata una sorta di par condicio della memoria per cui a una via dedicata a un partigiano si accompagna una piazza che ricorda i “Martiri delle Foibe”, e al Giorno della memoria segue nel calendario il Giorno del ricordo. Ma naturalmente «il revisionismo storico diventa in primo luogo lo strumento di un agguerrito revisionismo politico». L’affermazione di un nuovo paradigma anti-antifascista, che si affretta a parificare comunismo e fascismo, sfocia nel superamento della Resistenza quale matrice etico-politica della Repubblica, aprendo la strada ai vari tentativi di stravolgere l’assetto costituzionale. E più di recente favorisce il diffondersi di sentimenti postfascisti e di un populismo di destra ormai sotto gli occhi di tutti.

Anche per questo è tempo di fare uno sforzo in più, al di là della memoria e della commemorazione: coltivare la precisione della storiografia e liberarci per sempre dagli alibi che ci impediscono di riconoscere le colpe dell’Italia nell’epoca più tragica della storia umana. Nel cantiere della memoria è un prezioso punto di partenza per superare finalmente le illusioni storiche sugli italiani vittime del fascismo e sul fascismo vittima dell’alleanza con la Germania.

 

(Filippo Focardi, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, prefazione di Paolo Pezzino, Viella, 2020, pp. 356, euro 29. Articolo di Paolo Ortelli)

 

Copertina di Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo

Intersezionalità in versi sciolti

Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo (Sur,  2020, trad. di Martina Testa) si colloca nel panorama letterario come un vitale nucleo pulsante.

Prima vincitrice nera del prestigioso Booker Prize − ex aequo con I testamenti di Margaret Atwood – Evaristo con il suo romanzo ci dona un oggetto potente, quasi sciamanico, in grado di irraggiare intorno a sé una forte luce, la quale illumina le zone d’ombra che fino a un attimo prima non eravamo neppure capaci di scorgere.

Se Atwood, immergendosi nuovamente nel mondo distopico di Il racconto dell’ancella, torna per dirci che «la Storia non si ripete, ma fa rima con sé stessa», Evaristo decide di plasmare un romanzo circolare in cui dodici figure si succedono riunite in gruppi di tre procedendo nella narrazione quasi fossero delle terzine incatenate.

Dodici sguardi, dodici voci, dodici storie. Dodici tableau messi in scena sul palcoscenico che Evaristo ha allestito per loro. E non è un caso che la narrazione inizi in medias res, con Amma Bonsu che passeggia lungo le rive del Tamigi la mattina che precede il suo grande debutto al National Theatre con L’ultima amazzone del Dahomey, opera teatrale indomita che vuole farsi portavoce della potenza narrativa di ciò che non può essere catalogato come mainstream.

Le figure che prendono vita in queste storie possono essere donne, nere, omosessuali; oppure no. Perché se c’è una cosa che sta a cuore a Evaristo e che diventa il vessillo di tutta la sua opera è proprio quella di andare contro la claustrofobia delle etichette. Le sue protagoniste vanno dalle giovani appena uscite dall’adolescenza alle ultranovantenni, sono figlie e madri in tempi diversi, hanno visto la luce in terre lontane tra loro, hanno affrontato sfide differenti, e hanno viaggiato geograficamente e dentro di sé, per poi approdare nella realtà che si fissa nelle pagine di questo libro, raccontata da una scrittura ipnotica, un misto di prosa e poesia che la stessa autrice chiama fusion fiction, perfettamente in grado di rendere la musicalità di questa polifonia di voci che si affollano per raccontarci le viscere del loro sentire. E la realtà che ci circonda.

Sì, perché Evaristo con il suo romanzo ci racconta una realtà troppo spesso rimasta nascosta, inespressa, orfana di una penna che potesse darle corpo. «I wanted to put presence into absence», queste le parole dell’autrice che esprimono tutto il suo desiderio di far penetrare la «presenza» nel vuoto dell’«assenza». Una presenza viva, fatta di corpi veri che amano, si arrabbiano, falliscono e si rialzano. E non dobbiamo più accontentarci abulicamente di ascoltare le storie di Carole, Bummi, Shirley, Winsome e le altre, narrate in modo stereotipato e fatto per interposta persona. Con Ragazza, donna, altro Evaristo dice a tutti che sono tante le storie di emancipazione da raccontare e rappresentare ed è necessario dare spazio a voci nuove che sappiano raccontarle non in modo mediato. Così, ora che questo velo di disconoscenza si è irrimediabilmente stracciato, davanti ai nostri occhi si apre un’infinita e caleidoscopica rappresentazione del reale.

E come la scrittura è fratta, evanescente in alcuni punti, sicuramente evocativa, allo stesso modo le donne e non solo descritte da Evaristo si mostrano davanti a noi con le loro cicatrici, i propri vuoti e gli abissi, ma lo fanno nude, danzanti e in qualche modo orgogliose di illustrarci ogni minimo particolare che le rende uniche, seppur unite da una sottile linea che le congiunge tutte quante.

Il passaggio da una storia all’altra è segnato da un cambio di registro, magistralmente tradotto, che dichiara in modo semplice la singolarità delle voci che si susseguono nella narrazione. Accelerazioni, dilatazioni, anacoluti, per descrivere sentimenti profondamente differenti e, allo stesso tempo, incredibilmente interconnessi.

Ragazza, donna, altro è un romanzo corale dallo sguardo inclusivo che racconta le donne nere britanniche, ma c’è spazio anche per altro, che sia Penelope la femminista bianca che non ha propriamente a cuore chi ha la pelle più scura della sua, o Megan che non si sente Megan, piuttosto Morgan, che ha lottato per la sua libertà e non vuole assolutamente sottostare a un ingabbiamento semantico.

Dodici protagoniste, ma se ne potrebbe aggiungere una tredicesima, un personaggio ermafrodito pieno di contraddizioni: si tratta di Londra, o più in generale della Gran Bretagna, che fa da sfondo e collante a gran parte della narrazione. Dalla sua anima coloniale alla più recente Brexit, una patria acquisita, oppure disconosciuta dalle protagoniste di questo libro, accettata nonostante le sue colpe e soprattutto le sue mancanze nei confronti di un universo − che Evaristo sa descrivere alla perfezione − di persone le quali hanno calcato e calcano questa terra che ha saputo attrarle, accoglierle, ma che non ha mancato anche di mostrarsi frigida e inospitale, costringendole a fare i conti con l’essere other, altro.

Tenendo sempre ben a mente il concetto tanto caro a Evaristo dell’intersezionalità, e del femminismo intersezionale, l’approccio alla letteratura dell’autrice britannica può essere definito a pieno titolo attivismo letterario, con una scrittura che si fa politica per raccontarci che può esistere una solidarietà inclusiva. «Scrivo per tutti quelli che non si sentono inclusi, per tutti quelli che sono considerati degli outsider» ha avuto modo di affermare la scrittrice in occasione dell’ultimo Bookcity. L’otherness può avere innumerevoli volti, ma Evaristo ci chiede di andare oltre l’altro per accogliere la bellezza della moltitudine che dall’otherness si genera.

Ragazza, donna, altro ci offre l’incredibile opportunità di entrare in contatto con le sue protagoniste e di innamorarci di questi spiriti volitivi, così pregnanti e intimamente umani. Nella danza di queste figure, che appaiono scompaiono e riappaiono per tutte le cinquecento e più pagine, diventa sempre più chiaro l’invito al lettore a rileggere il reale che lo sostanzia e lo circonda per ripensarsi senza stereotipi o pregiudizi e avvicinarsi così a quello che diventa il manifesto di tutto quanto il libro, espresso in vibranti versi sciolti: «non si tratta di provare qualcosa o di pronunciare parole / si tratta solo di essere / insieme».

 

(Bernardine Evaristo, Ragazza, donna, altro, trad. di Martina Testa, Sur, 2020, 520 pp., euro 20, articolo di Giulia Eusebi)
Minari poster italiano del film

Pastorale coreana

Il grande cinema riesce a raccontare storie universali in cui chiunque si possa identificare sotto una veste solo all’apparenza particolare. Minari ne è un esempio perfetto. Dietro una vicenda di immigrazione e integrazione si nasconde un film che parla di capitalismo, famiglia, tradizioni e di due grandi temi che da sempre caratterizzano Hollywood: la frontiera e il sogno americano.

Negli anni Ottanta, la famiglia Yi si trasferisce dalla California all’Arkansas per inseguire il sogno lavorativo del padre Jacob. Vuole diventare un imprenditore agricolo e rifornire gli oltre 30.000 coreani che ogni anno arrivavano negli Stati Uniti con i suoi prodotti. La vita, fatta di casa su ruote, campi senz’acqua e lavoro durissimo, regala molte meno soddisfazioni del previsto. Il piccolo David – punto di vista del film – osserva la propria famiglia disgregarsi tra le ambizioni paterne e i retaggi tradizionali della nonna, arrivata per dare una mano con il suo bagaglio di corna di cervo e preparati tradizionali.

Lee Isaac Chung ha riversato la propria esperienza personale in Minari e ha ottenuto il film di un asiatico statunitense più apprezzato fino a questo momento. Il gran premio della giuria al Sundance e le sei nomination agli Oscar tra cui miglior film, regia e sceneggiatura originale, fanno del lavoro di Lee un importante esempio di come Hollywood deve e può integrare la diversità culturale all’interno delle proprie produzioni.

È chiaro che il successo senza precedenti di Parasite lo scorso anno abbia portato a un aumento dell’attenzione mediatica verso i cineasti coreani. Minari però non può essere in alcun modo paragonato al film di Bong Joon-ho. Il racconto di Lee potrebbe fare a meno della radice coreana per applicarsi tranquillamente a qualsiasi famiglia.

La difficoltà degli Yi nella nuova vita in Arkansas è la stessa di chiunque si trovi a spostarsi per inseguire un sogno di lavoro. L’ossessione per la terra di Jacob rispecchia il mito individualista radicato nella cultura statunitense ed esasperato dall’edonismo reaganiano anni Ottanta. Quella mitologia del lavoro autonomo a ogni costo, della realizzazione economica, del lavoro per produrre denaro e non benessere.

In Minari l’ostinazione agricola porta il padre a disperdere i risparmi, a lasciare la famiglia senz’acqua, ad allontanarsi sempre di più dalla moglie che non capisce la sua pulsione e vorrebbe che anche lui si accontentasse di quello che hanno. Si può intravedere lo stesso tipo di mania che portava Harrison Ford in Honduras nel quasi dimenticato Mosquito Coast di Peter Weir. E la natura, qui, è dominante, silenziosa e assoluta come nei momenti migliori del cinema di Terrence Malick, senza però alcun tipo di elegia.

Lee Isaac Chung è riuscito a trasformare una storia intima in un ritratto d’epoca, in uno spaccato sociale che non ha bisogno di toni accademici o didascalici. Il registro di Minari si adegua al momento e sa essere struggente e ironico, tenero e spietato con la stessa energia.

Nella corsa continua verso un successo che non si sa bene come sia fatto, la felicità arriva dalle cose più inaspettate. Come il minari, una pianta tipica della cucina coreana, che la nonna ha portato negli Stati Uniti per avere sempre con sé un pezzo di casa.

(Minari, di Lee Isaac Chung, 2020, drammatico, 115’)

copertina di L'uomo senza qualità

L’eredità di Musil, confronto tra letteratura e cinema

«In questa città può cambiare tutto all’improvviso», dice Rick Dalton, il personaggio dell’attore di medio calibro della nona pellicola di Quentin Tarantino C’era una volta a… Hollywood (2019). Questo film contemplativo e intimo, lisergico e spiazzante, che già dal titolo si offre come moderna favola che racconta una storia impossibile, riflette appieno lo spaesamento dell’uomo contemporaneo di fronte alla sfuggevole, liquida indeterminatezza della realtà. Chissà se il regista americano abbia mai letto Robert Musil o Schopenhauer, tuttavia sembra affermare con quest’ultimo che alla fine il mondo non è che volontà e rappresentazione, e sempre finisce per somigliare a chi lo pensa. Difatti il suo percorso cinematografico, soprattutto da Bastardi senza gloria (2009) in poi, nel crollo del nesso tra vita e ideologie evolve verso quel potere salvifico, trasformativo e catartico dell’arte, che presenta echi del pensiero tanto del filosofo tedesco dell’Ottocento quanto del grande scrittore austriaco della prima metà del XX secolo. In sostanza il nostro io, col proprio personale punto di vista sulle cose, può averla vinta e cambiarle, perché noi siamo più grandi di ciò che succede o è successo.

«Un uomo che vuole la verità, diventa scienziato; un uomo che vuol lasciare libero gioco alla sua soggettività diventa magari scrittore; ma che cosa deve fare un uomo che vuole qualcosa di intermedio tra i due?», si chiede Ulrich, il protagonista del capolavoro incompiuto di Musil L’uomo senza qualità, ai cui primi due volumi pubblicati a Berlino tra il 1930 e il 1933 seguirà il terzo e ultimo, postumo, nel 1943. Tale domanda, che nella sua contraddittorietà pone le basi di quell’«utopia del saggismo» propria della sua opera letteraria, vincolando tra loro tesi e antitesi partecipa della composita evoluzione dello spirito moderno. Se difatti Ulrich è l’uomo senza qualità fatto di qualità senza l’uomo, personaggio immobile o in moto apparente in un mondo impenetrabile in perenne trasformazione, le figure che animano C’era una volta a… Hollywood sono naufraghi della sottocultura hollywoodiana, stuntman, stelline dello spettacolo, attori di serie b dei film western e delle produzioni televisive poliziesche degli anni Sessanta che, lottando per affermare la propria individualità senza riuscirci, crollano sotto il peso dell’incapacità di comprendere i meccanismi del mondo che ruota intorno a loro.

La realtà impossibile di Ulrich, con il comitato dell’Azione Parallela per i festeggiamenti del settantesimo anniversario del regno dell’imperatore Francesco Giuseppe che, alla ricerca di un’idea centrale da celebrare quale fondamento della civiltà austriaca, tuttavia non la trova, è di fatto un azione che non esiste, priva di un centro e di una conclusione, così come avvitati su se stessi e senza sbocco appaiono gli sforzi dei personaggi di C’era una volta: da Rick Dalton, la cui carriera di attore non decolla, a Cliff Booth, la sua controfigura che, di fronte all’amara ammissione di Rick circa il proprio fallimento professionale, gli replica con rassegnazione: «di che ti lamenti, io non so neanche che cos’è, una carriera».

Già laureato in ingegneria e in filosofia, Musil si dedicò inoltre agli studi di psicologia, matematica e fisica, in quanto convinto che il romanzo saggistico, ovvero il tentativo di trasporre la scienza nella vita, sia l’unico atteggiamento adeguato per indagare la complessità di una realtà sempre più sfuggente e incomprensibile. Con grande anticipo rispetto ai propri tempi, teorizza infatti l’inarrestabile espandersi e proliferare della tecnica quale radice di quella frattura tra sé e altro da sé che caratterizza la nostra epoca: «ogni cosa ha mille lati, ogni lato ha cento rapporti, e a ciascuno di essi sono legati sentimenti diversi. Il cervello umano ha poi fortunatamente diviso le cose, ma le cose hanno diviso il cuore umano». A sanare il conflitto di questo presente non configurabile è dunque necessario un connubio tra scienza e arte, perché «il dominio pratico del mondo ha fatto progressi da capogiro […] mentre il concetto di cultura che dovrebbe dominare il reale è rimasto antiquato». Per Musil si rende cioè indispensabile risolvere la scissione tra ideologie e vita attraverso quella che chiama «letteratura come utopia», vale a dire il luogo in cui i nuovi modelli della scienza sono in grado di rivelarci i loro multiformi significati nascosti, restituendo un senso al nostro vissuto e riscattandolo.

Ma allo straordinario progresso tecnico-scientifico della rivoluzione industriale, che dalla seconda metà dell’Ottocento ha ridotto l’uomo a una minuscola rotella di un ingranaggio alienante e massificato, dal 1914 si affianca la catastrofe della Prima guerra mondiale, con la conseguente fine dell’Impero austro-ungarico e la nascita di una nuova società dinamica e in divenire. Se già nei due saggi L’Europa inerme: ovvero viaggio di palo in frasca (1922) e nell’incompiuto L’uomo tedesco come sintomo (1923) Musil affronta il tema del tentativo di comprensione di un oggi la cui poliedricità sfugge a ogni manovra di contenimento, in L’uomo senza qualità oggetto prediletto dell’analisi diventa interamente la coscienza lacerata dell’essere umano nel proprio tempo, ossia nella storia, il cui cammino «non è quello di una palla da biliardo che, una volta data la stoccata, corre lungo una traiettoria determinabile, bensì somiglia al cammino delle nuvole».

Nella confusa contemporaneità della società globalizzata del dopo undici settembre, a opera della scienza e tecnica moderne saltate ormai irrimediabilmente le millenarie categorie di spazio, tempo, bene e male, Tarantino sembra riprendere il concetto musiliano di «letteratura come utopia», trasponendolo nell’ottica di un suo personale «cinema come utopia» capace, nel porsi in qualche modo al di fuori delle vicende reali, di risanare i conflitti umani. Punto focale de L’uomo senza qualità era difatti stato, nell’equilibrio tra autobiografico e oggettivo, saggio e romanzo, temporale e atemporale, il situarsi contemporaneamente al di qua e al di là del corso degli eventi storici, in un orizzonte dell’irrealtà che finisce per soverchiare quello concreto fino al punto di dissolverne i contorni.

«Abolizione della realtà» che, però, non comporta il ripiegamento ombelicale e vittimistico di una concezione negativa delle cose, piuttosto l’accettazione in senso nietzschiano del male, quale non eliminabile caso estremo e fuorviato del bene. Al caos dell’inconoscibilità della storia, «manicomio di Babilonia», l’Ulrich di Musil oppone la necessità della ricerca costante e mai conclusa del districare l’inestricabile: lo scrittore non si arrende allo smembramento che vede intorno a sé, ma lo prende a oggetto. Infatti, di fronte al corso degli eventi esterni che vede l’inesorabile avanzata del nazional-socialismo, Musil immagina l’avvento di una utopica «società estatica» in cui si attui un’esperienza mistica e redentrice che, distruggendo le vicende storiche e relegando Ulrich e gli altri personaggi del romanzo ai loro colloqui nel giardino, ne rappresenti al contempo un’evoluzione e una liberazione. Nulla esiste davvero – sembra cioè dirci – e tutto ciò che è reale è solo un frammento riposizionabile di un discorso interiore.

In modo non dissimile Tarantino, già in Bastardi senza gloria, deflagra la storia riscrivendola, ovvero immaginando di sterminare in un unico rogo Hitler insieme alle più alte gerarchie delle SS, così come in Django Unchained (2012), ambientato nel 1858, gli schiavi afroamericani prendono il sopravvento sulla realtà e la cambiano, vendicandosi dei propri schiavisti e riconquistando la libertà perduta. C’era una volta spinge ancora oltre il tentativo utopistico di forzare fatti e azioni accadute, arrivando per mezzo di anonime e perdenti figure della quotidianità a riscattarne il male, offrendo così ai vinti l’opportunità di pareggiare i conti con gli apparenti vincitori. Ecco dunque che l’orrendo fatto di cronaca nera che nel 1969 ha macchiato la coscienza di Hollywood, l’eccidio di Cielo Drive a opera della setta di Charlie Manson, cioè l’omicidio, nella villa del regista Roman Polansky, di sua moglie l’attrice Sharon Tate, incinta di otto mesi, di tre suoi ospiti e un vicino di casa, si offre sullo schermo come potente riscrittura e catarsi del passato.

Saranno infatti proprio Rick Dalton e Cliff Both, personaggi in declino nel contesto in cui si muovono e marginali rispetto agli eventi storici, quelli che saranno inaspettatamente in potere di cambiarne il corso. Di fronte alla gratuità e incomprensibilità del gesto folle dei seguaci di Manson, parabola e specchio di una realtà schizofrenica che non siamo più in condizione di decifrare e interpretare, Tarantino oppone il riscatto dell’impossibile, e nel finale del film la speciale macchina del tempo del cinema farà sì che Sharon Tate e le altre vittime si salveranno, mentre al contrario a morire saranno i loro carnefici. A novant’anni di distanza dalla pubblicazione del capolavoro di Musil, le coordinate che vi ha tracciato si rivelano dunque più che mai attuali e l’imprevedibilità dei fatti – da quelli mondiali a quelli personali di ciascuno di noi – lontanissimi dalla deterministica traiettoria di una palla da biliardo, somigliando sempre più all’inafferrabile e cangiante percorso delle nuvole. Da ciò che ci appare senza senso ci possiamo differenziare, e l’arte – letteratura, cinema – può a suo modo salvare il mondo, perché tutto è ancora possibile.

Nostralgia dei Coma Cose

Il problema di Nostralgia, ultimo album dei Coma Cose, non è la durata.  Può esserlo al massimo di ritorno. Il duo formatosi a Milano sembra fuori fuoco, spaesato, vestito in fretta e furia di qualcosa altro da quello che è.

Il tentativo di staccarsi da quell’ibrido hip hop/pop e da una scrittura sicuramente innovativa, divertente e intelligente fatta di intrecci lessicali – paradossalmente ancora nel titolo -, è un salto nel vuoto.  La melodia ricercata è uno sforzo che non è riuscito a trovare risposte valide e le liriche non emergono in maniera particolare.

Non bisogna essere conservativi per fare un album convincente. La soluzione non sarebbe stata bissare Hype Aura.  Ciò che esce fuori da Nostralgia è un gruppo che ha buttato lì sei brani (più un messaggio vocale come settimo brano) per cavalcare la presenza a Sanremo. Approfittare del mercato per avere tra le mani qualcosa di monco. Di non ragionato. Un lavoro che non rende giustizia a quanto ci era stato raccontato nei due precedenti episodi.

L’album parte con “Mille Tempeste” e le sensazioni sono più che positive: si intuisce un allaccio con il suo predecessore  e un taglio più cupo, quasi angoscioso, ancora più urbano. Ambizioso. Con le dovute distanze:  Nostralgia poteva essere l’Untrue di Burial dei Coma Cose.

Ma rimane una sensazione: perché gli spunti seguenti sono tanti, troppi, confusi. Una massa che copre il filo conduttore testuale, il passato come qualcosa che brucia ancora nel presente.

La canzone dei lupi” pare un pezzo dei Beach House con delle sfumature Thegiornalisti; “Discoteche abbandonate“, forse il pezzo più Inverno Ticinese, suona invece come una canzone scartata da Giorgio Poi; “Fiamme degli occhi“, lo sappiamo, è un pezzo pop radiofonico che è rimasto nel circuito del post Sanremo e che spunta nell’album come caso isolato e quasi immotivato (ma è un pensiero che si può fare su ogni canzone dell’album); “Novantasei“, con chitarre e distorsioni, qualcosa tra Smashing Pumpkins e in generale un indie rock anni ’90, sarebbe buono per il concerto di fine anno di scuola. Poi c’è “Zombie al Carrefour“,  una ballata al piano vera e propria, dai tratti  alla Calcutta, dove emerge un’attitudine più convincente, ma che non è stata giocata nel migliore dei modi.  Il vocale finale, “Outro (skit)“,retorico e che sa di spiegone, rientra nell’estetica hipster su cui si fonda parte del loro progetto, ma che in un lavoro del genere somiglia più a una presa in giro che altro.

I Coma Cose sono tra le più belle sorprese degli ultimi anni della musica italiana, ma con Nostralgia non riescono ad andare oltre a un lavoro anonimo e parzialmente dimenticabile. Purtroppo.

 

Copertina di Mentre tutto cambia di Guarnaccia

Una Polaroid dell’estate 1989

Ci sono romanzi che sembrano dei frame di una pellicola: un film che è la vita. È questa l’operazione che mette in scena Fabio Guarnaccia nel suo terzo romanzo Mentre tutto cambia (Manni Editori, 2021). A voler continuare questa metafora, direi che Guarnaccia ha tirato fuori dal cassetto una foto Polaroid dell’estate 1989, coi colori accesi che tendono a sbiadire come tutte le foto Polaroid dopo parecchi anni.

La storia prende il via tra Gorla e Precotto nella periferia milanese, ai tempi degradata e che oggi invece va assumendo sempre più i contorni di un nuovo salotto. Ci sono quattro adolescenti, anzi quattordicenni per essere precisi, che hanno appena finito l’anno scolastico, il primo delle superiori. Davanti a loro si prospetta l’immobilità dei giorni di vacanza, l’afa milanese, le giornate lunghe e uguali, in attesa di quelle poche settimane di mare che faranno. Nel frattempo giocano in una vecchia casa diroccata di fianco a una discarica a cielo aperto. Quello è il loro rifugio, anzi la loro sede – è roba loro, e come accade spesso a quell’età, ci si appropria di qualcosa e si comincia a difendere il territorio, a escludere gli altri, o a invitarli facendo sì che chiunque lo percepisca come una concessione. Ed è così che un giorno il Vela (il narratore), il Best, Ivan e Paolino (questi i nomi dei quattro amici) fanno una lugubre scoperta che li sconvolgerà e sancirà la definitiva uscita dall’infanzia: nel rifugio trovano il cadavere di un ragazzo un po’ più grande di loro, morto nella notte di overdose. Lì per lì non sanno cosa fare. È la prima volta che si misurano con la morte, che la vedono, che la annusano. Hanno il terrore che la denuncia di quel ritrovamento possa far perdere loro quella via di fuga che rappresenta il nascondiglio. Poi un po’ per caso finiscono col seppellirlo tra i rifiuti.

In quell’occultamento, però, c’è un senso di colpa che li pervade. Cercano di lenirlo improvvisando un funerale con l’acqua santa della nonna del Vela. Ma non basta. Comincia a risentirne anche la loro amicizia, o meglio il disagio creato da quella situazione inizia a far trapelare i non detti tra di loro. Fabio Guarnaccia rappresenta con una certa arguzia narrativa l’amicizia adolescenziale maschile impastata da lunghi silenzi, sfottò, prove di forza ed emulazioni. Poi si addentra nei meandri familiari, nelle dinamiche quotidiane dei personaggi. In particolare quella del narratore, il Vela, che vive in un piccolo appartamento ed è costretto a dividere la stanza e il letto con sua nonna. Suo padre è un marxista-leninista irriducibile, nonostante stia finendo il decennio del «Riflusso» e manchi poco alla caduta del Muro, di cui però ormai si percepiscono gli scricchiolii. Le tensioni familiari si ripercuotono su di lui, che è appena stato bocciato al primo anno di un istituto tecnico. L’autore descrive bene il mondo interiore in fermento del protagonista che però al contempo comunica poco e niente con gli altri, anche con i suoi amici. È innamorato di una ragazza, che a differenza sua è molto più sfacciata e sicura di sé. Desidera il Caballero, il motorino che ha il suo amico Paolino, che gli fa sognare la libertà. Osserva i confini della periferia che sono il centro del suo mondo, mentre «Milano era un’entità indefinita con la quale le nostre vite confinavano, ci attraeva ma non ne avevamo veramente bisogno, era lì come una frontiera invisibile che non avremmo varcato». Poi un giorno varca quel confine e arriva fino in centro, in un negozio in cui compra un braccialetto borchiato identico a quello che indossava il ragazzo morto per overdose.

Questa semplice azione diventa la prima grande conquista del Vela, una vera e propria autoaffermazione, tanto è vero che decide di dare un nome al ragazzo morto e seppellito nella discarica. Lo chiama «il Troisi», perché assomiglia all’attore napoletano, e comincerà a chiamarlo così anche con gli altri. Non è ancora un passaggio del protagonista da comprimario a soggetto alpha del gruppo ma è di certo una presa di coscienza di sé. L’autore, attraverso la memoria di quegli eventi, sottolinea le criticità di quell’età ancora adesso spesso dimenticate o relegate in secondo piano. E Guarnaccia lo scrive apertamente, quando il Vela – dopo aver risposto a suo padre che gliene chiede la provenienza – afferma che «quel braccialetto mi faceva sentire diverso, pericoloso, come un ragazzo maledetto che se la fa con cose più grandi di lui».

Mentre tutto cambia è la ricerca di quel punto di non ritorno che ciascuno di noi ha vissuto nell’adolescenza, una presa d’atto a posteriori, un’accettazione di ciò che si è diventati. Alla fine è guardare quella foto Polaroid senza la nostalgia o la malinconia che accompagna quel genere di narrazioni.

Mentre tutto cambia è un romanzo spiccatamente milanese, dalla voce del narratore alla lingua dei dialoghi e alla costruzione delle frasi, eppure ha un respiro universale, quello del ricordo di ciascuno di noi quattordicenne, quello delle periferie che da Nord a Sud travolgono o hanno travolto il Paese. In un’Italia sempre più romanesca, nelle scelte talvolta ridicole di un certo cinema o di alcune serie nostrane, il romanzo di Guarnaccia riesce a inquadrarsi geograficamente, a essere vero, vivo e al contempo a portarci alle sensazioni ataviche che chiunque di noi ha vissuto.

Molto riuscito è un passaggio in cui, per restare in ambito di metafora cinematografica o teatrale, l’autore crea una sorta di freeze, che lui definisce «un paesaggio nell’ambra», nel quale il narratore ormai adulto passa in mezzo ai personaggi e all’intera scena immobilizzata. È un punto di contatto fra presente e passato, tra l’adesso e la memoria, in cui il protagonista cerca di rimettere a posto dei tasselli che a quel tempo non era in grado di comprendere fino in fondo, appunto perché allora era in transizione, stava cambiando.

A voler essere critici, forse alcuni passaggi potevano essere sviluppati maggiormente: in particolare il rapporto con Gloria, la ragazza di cui il Vela è innamorato, si chiude repentino e, tranne un passaggio in cui il protagonista ne parla con il Best, non resta molto altro; a quattordici anni i primi approcci sessuali portati a conclusione diventano forse ancor più mitici di quel che nel romanzo si racconta, perlomeno nell’intimità del personaggio.

Al di là di questo e di alcuni dialoghi cui si sarebbe potuto dare più consistenza, la scrittura di Guarnaccia è aderente alla narrazione, ben equilibrata, evocativa ed esatta nelle immagini, senza eccedere mai in analogie e metafore; inoltre risuona fortemente regionalizzata pur senza mai incorrere in forme dialettali macchiettistiche, un’operazione complessa e ben riuscita.

 

(Fabio Guarnaccia, Mentre tutto cambia, Manni Editori, 2021, 144 pp., euro 14, articolo di Fernando Coratelli)
I superflui di Dante Arfelli

Ritratto di un minore di successo

Il silenzio lo scegli o ti sceglie, il problema è che non sai mai se sei tu ad essergli andato incontro o viceversa. Una regola che può funzionare nella vita (ma in verità niente funziona in maniera assiomatica) e che, come suggerisce la parabola di Dante Arfelli, può essere applicata alla scrittura.

A cento anni dalla nascita di Dante Arfelli la neonata casa editrice readerforblind ripubblica I superflui, il capolavoro dello scrittore romagnolo, con la prefazione di Gabriele Sabatini. Sarebbe già tutto qui se non fosse che Arfelli è sconosciuto ai più, almeno al giorno d’oggi. Perché al tempo della prima pubblicazione, nel 1949, il romanzo di Arfelli fu un vero e proprio caso letterario: stampato da Rizzoli, capace di vincere il Campiello, edito in America da Scribner, che in quegli anni pubblicava Ernest Hemingway, venduto in numero di copie esorbitanti. Bastò un altro romanzo dalla tiepida accoglienza per ridurre Arfelli al sopracitato silenzio.

Ma forse un certo mutismo era già in Arfelli, pur all’apice della fama. Uno spaesamento esistenziale che era proprio della sua generazione. Nato negli anni Venti in Emilia, trasferitosi a Cesenatico, fin da giovane frequenta grandi in essere – il poeta Marino Moretti – e in potenza – il compagno di scuola Federico Fellini –, prima di compiere gli studi a Bologna, inframezzati dall’esperienza come artigliere alpino in Montenegro durante la Seconda guerra mondiale. Una vita di provincia che viene sconquassata dalla guerra, un passaggio sul palcoscenico della storia, bardati dalla divisa e dalle morti dei compagni, per poi ritornare nell’umbratile quotidianità. L’allucinazione di una gioventù del genere aveva segnato Arfelli e tanti altri come lui.

Il disagio esistenziale che permea I superflui nasce proprio da questo: ci troviamo di fronte un romanzo che segue le vite in tono minore di pochi personaggi, Luca, appena sbarcato a Roma in cerca di un lavoro, Lidia, una prostituta di cui si innamorerà, i pigionanti di una pensione sdrucita che nulla ha da invidiare a quella di Madame Vauquer in Papà Goriot. Sono parabole che raccontano l’immediato dopoguerra e la disillusione di una ricostruzione lenta, permeata dalla sfiducia in un futuro perito sul campo di battaglia. Capitolo dopo capitolo la tensione del romanzo di formazione viene elusa: ogni tentativo di emancipazione si risolve in un buco nell’acqua. Lidia sogna di emigrare in Argentina e cerca un protettore degno di questo nome, confondendo i bisogni materiali con la sfera dei propri desideri. Luca vede nella città il campo da gioco per la sua affermazione e spera che una raccomandazione gli valga un posto sicuro, ma la lettera del parroco del suo paese e quella del segretario della sezione locale del Partito socialista non basteranno, le piccole forze che governano la provincia italiana si eclissano al confronto con la feroce vita urbana, si fa strada l’amaro sentimento della superfluità.

Volendo parafrasare: Arfelli ci racconta cosa succede allorquando il partigiano Johnny torna dalla guerra ed è costretto a trovare un’occupazione. Basta questo per innescare la catarsi generazionale e fare di Arfelli un autore afferrato, una fama forse incontrata per caso, perché l’opera del giovane scrittore si discosta dalla predominante vulgata neorealista: la Roma di Arfelli è scarna, accennata, un campo neutro in cui si disegnano le carambole di personaggi senza meta; e così la prosa, precisa e avulsa dai regionalismi, sobria come le passioni dimesse mostrate dai protagonisti, i dialoghi puliti, mai sopra le righe. Ci approcciamo ai lidi interiori di Camus più che ai solidi ambienti di Moravia.

Il romanzo successivo, La quinta generazione, che indagava sostanzialmente gli stessi temi, ebbe un buon riscontro, senza però raggiungere i fasti del precedente. Successivamente Arfelli diradò le frequentazioni letterarie e si impiegò come docente nella sua città, pubblicando solo dopo decenni alcune opere per editori locali. Non è dato sapere l’intima ragione per cui Arfelli si lasciò eclissare velocemente, ma possiamo intuire che, per la visione della vita espressa in I superflui, il mondo non gli appartenesse. Il corso della storia è andato da un’altra parte, l’avvento della società dei consumi ha colmato in altre maniere il vuoto della generazione nata fra le due guerre, lo smarrimento esistenziale si è manifestato per altre vie. E Arfelli, consciamente o meno, ha deciso di celarsi nel periplo della ricerca interiore, in attesa che sensibilità affini, come forse in questo momento storico, lo riscoprissero.

 

(Dante Arfelli, I superflui, readerforblind, 2021, 320 pp., euro 17, articolo di Giovanni Bitetto)