Emons: un nuovo modo di fare letteratura

Un libro può aprirsi in modi diversi. Non solo spalancando le pagine.
Un libro è aperto quando schiude la sua storia. Quando riesce a liberarla.
Per questo i libri come idea e non come oggetto precedono di secoli la carta, quando il solo involucro ad avvolgerli era l’aria. Tagliata da una voce. La voce che scrive parlando.
Che rende accessibile l’incontro con il mondo altrove.
Perciò, in questo nuovo appuntamento mensile, ci imbattiamo in una casa editrice in cui i titoli davvero fanno rumore. In cui ogni parola ha un peso specifico. Quello del suo stesso suono.
Si tratta di Emons, casa editrice interamente dedicata alla pubblicazione di testi in formato audio. Fondata a Roma nel settembre del 2007 per iniziativa dell’editore di Colonia Hejo Emons, insieme a Viktoria von Schirach (direttore editoriale) e Axel Huck, forti della loro esperienza tedesca. Il progetto all’inizio sembra azzardato in Italia, anche se in altri paesi europei il mercato è curioso, ampio e in espansione. Il progetto come tale, parte come un’avventura.

È proprio Viktoria Von Schirach ad affermare divertita: «Alla prima fiera di Roma, Più libri più liberi, dovevamo ancora spiegare che cosa erano questi audiolibri. Alcune persone ci guardavano scandalizzate, dicendo con disprezzo che non li avrebbero mai comprati perché loro “amavano i libri”. Altri ci spiegavano che non erano mica ciechi». Si avvia il motore con quattro audiolibri: Caos calmo scritto e letto da Sandro Veronesi,Testimone inconsapevole scritto e letto da Gianrico Carofiglio, Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren letto da Marina Massironi, L’Italia spensierata scritto e letto da Francesco Piccolo.

Infondere vita alla parola stampata vuol dire quindi scegliere la voce giusta, perché «l’attore o l’attrice devono in qualche modo corrispondere al libro».

In cinque anni di attività il catalogo consta di più di ottanta titoli. Perché a crescere è stata la risposta del pubblico, la consapevolezza dell’utilità del prodotto, non soltanto destinato alla nicchia dei pigri o dei non vedenti. Un’alternativa reale e di grande qualità tecnica, che prevede esclusivamente versioni integrali delle opere selezionate e che ha coinvolto attori e autori sempre più di rilievo, diversificando i target e le varie esigenze. Perché la frenesia quotidiana di chi a esempio viaggia in macchina o ha gli “occhi occupati” o la lentezza di chi invece presenta difficoltà di lettura non diventino un limite, ma paradossalmente un punto di forza.

Perché la letteratura ha bisogno di scavarsi altri canali per raccontare il tempo in cui cammina.

Le categorie abbracciate sono molte: i classici, l’epica, il fantasy, la narrativa straniera, quella italiana, quella per ragazzi, i gialli, le raccolte di racconti, i saggi e la sezione dedicata ai viaggi.

Si differenziano otto collane:

Bestseller, che include successi consolidati tra cui La lunga vita di Marianna Ucria di Dacia Maraini, letto da Piera Degli Esposti e Ragionevoli dubbi di Gianrico Carofiglio, interpretato dallo scrittore stesso.

Classici, che comprende Cuore di tenebra di Joseph Conrad, per la voce di Francesco De Gregori e Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, letto da Paola Cortellesi.

Contromano, dall’omonima collana della Laterza focalizzata sulla letteratura di viaggio.

Emons-Feltrinelli, in collaborazione con la grande casa editrice. Tra i vari titoli spiccano Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi, raccontato da Sergio Rubini e Novecento di Alessandro Baricco, letto da Stefano Benni.

Pop, in cui segnaliamo I 36 stratagemmi, a cura di Gianluca Magi e letto daDino Gentili.

– Gold, che contempla Accabadora, scritto e letto da Michela Murgia e Vita, per mano e voce di Melania Mazzucco.

– Noir, dov’è inserito Casino Totale diJean Claude Izzoper la voce di Valerio Mastrandrea.

– Zic, ultima apparsa lo scorso febbraio, che propone brevi letture della durata di 20 minuti.

Emons si avvale quindi di importanti collaborazioni, annoverando coedizioni con Feltrinelli, Marsilio, l’Espresso e Libreria Editrice Vaticana. Inoltre, insieme a Full Color Sound e Il Narratore ha fondato Aedo, Associazione Editori di Audiolibri, a cui in seguito si sono aggiunti altri sette membri.


Ma se dovessimo avvicinarci adesso, e mettere in valigia, o nel serbatoio di storie da ascoltare, qualche titolo preciso, vi proporremo queste tre possibilità:
Il Grande Gatsby di Francis Scott- Fitzgerald, letto da Claudio Santamaria.
Cecità di José Saramago, interpretato da Sergio Rubini.
Le notti bianche di Fedor Dostoevskij, letto da Fabrizio Bentivoglio.

La certezza di tre capolavori, vissuti, animati, capaci quasi di prendere corpo nella gola di tre grandi voci.

È il caso di dire che la pagina vibra, oltre a farci vibrare.

Nel valore editoriale di quella che non è più una semplice scommessa.

“Dexter”: la settima stagione

[Attenzione: questo articolo contiene spoiler]

Un altro anno in compagnia di Dexter, il serial killer più amato della tv. Avete ragione, mi correggo: Dexter non è un semplice pluriomicida. È l’assassino dei killer. Il giustiziere con il Codice, accompagnato dal Passeggero Oscuro, intento a ripulire il mondo dai cattivi. Ematologo della scientifica di Miami di giorno, cacciatore di feccia umana di notte.

La complessità e la profondità del personaggio – interpretato da un epico Michael C. Hall – hanno reso la serie Showtime tra le più amate, seguite e studiate del decennio. Negli anni, di avventure con l’agente Morgan ne abbiamo vissute svariate e intense. Sicuramente, il colpo di scena finale della sesta stagione rimane tra i più clamorosi e destabilizzanti: Debra – sorella, collega, e quasi amante di Dexter – ha scoperto la vera natura del fratello. E come se non bastasse, è diventata sua complice, bruciando la chiesa in cui si è svolto l’epilogo. Per non parlare del vetrino con la goccia di sangue caduto a terra. Insomma, gli elementi per attendere freneticamente i nuovi episodi c’erano tutti.

Ciò che colpisce subito della settima stagione è la mole di eventi intrecciata dagli sceneggiatori. La frattura con le stagioni precedenti è netta: il killer del camion frigo, il macellaio di Bay Harbor, l’amicizia col procuratore distrettuale, Trinity, Lumen e il killer dell’Apocalisse sono stati i temi basilari delle serie passate e ogni episodio affrontava e sviscerava la questione nella maniera più accurata e coinvolgente. Tutto il resto, passava in secondo piano.

Invece, nella settima stagione abbiamo contemporaneamente: la Nemesi, alias Maria LaGuerta e i suoi dubbi sul caso del macellaio di Bay Harbor. L’Antagonista: Isaac Sirko, capo della mafia ucraina, coinvolto nell’omicidio della prima puntata. L’Amore: Hannah McKay, ragazza dal passato criminale. La Famiglia: Debra, e il suo rapporto distorto con il fratello. Infine, il Criminale: il fantasma piromane, che uccide le persone ma incolpa un misterioso Bobby.

Come si muoverà il nostro Dexter tra questi elementi?

Forse sarebbe stato meglio concentrare tutte le puntate sul rapporto tra Dexter e Deb. Di spunti e sviluppi narrativi ce ne sarebbero stati numerosi. Per anni i seguaci dello show hanno ipotizzato uno scenario del genere, e ora che è avvenuto, il vederlo annacquato da tante altre trame non convince pienamente. Sicuramente, i punti di forza della settima stagione sono la relazione con Hannah – ennesimo fatale angelo biondo del canzoniere dexteriano – e le indagini del capitano LaGuerta sul vero responsabile dei massacri della baia. Riuscito anche l’innesto di Sirko – forse ucciso troppo presto? – mentre è sicuramente inutile la presenza del caso procedurale del fantasma: questa stagione aveva bisogno di meno thriller e più profondità d’analisi dei personaggi.

Solo nelle ultime due puntate si respira l’enfasi magica capace di catturare completamente lo spettatore. Il dilemma conclusivo sottoposto a Debra è di una tensione terribile e la sua scelta cambierà ancora una volta le carte in tavola. Ma per quanto la situazione sembri impossibile,  sapremo che Dexter riuscirà sempre a venirne fuori. Fino all’ultima goccia di sangue.

 

“Il secondo bene” di Flavio Ermini

Le strade dell’editoria sanno ancora percorrere vie impervie per raggiungere un gruppo cosciente di lettori d’altopiano, in barba alle carovane di pianura che adattano allo spettacolo masse di lettori-che-(si)-consumano inconsapevolmente.

Ancora prima che il contenuto, di questo Il secondo bene di Flavio Ermini (Moretti e Vitali, 2012), saggio sul compito terreno dei mortali, ci piace sottolineare l’identità editoriale. Ventiseiesima uscita della collana Narrazioni della coscienzadiretta dallo stesso Ermini, questo saggio chiaro e sibillino ci appare come una scrittura preziosa, ideata per chi ha la volontà di scovarne i plurisensi accompagnando la lettura del ricordo alla lettura delle pagine.

Dalla nascita alla scomparsa Ermini ci accompagna in una ricostruzione-analisi delle vicende umane, orientate al nulla esistenziale, «al segno negativo cui la realtà soggiace, che si perpetua nel ventre generante di cui non si ha memoria», leggiamo nella descrizione del penultimo capitolo, e segue, dopo una pausa che ha poco di teatrale e molto della constatazione lucida di un ragionamento asettico, «poi lo sguardo si abitua alla notte»

Il linguaggio di questo saggio che, con gli occhi piccoli della tradizione novecentesca, peggio se accademica, si fa fatica a definire per l’appunto saggio, si divide tra l’apostrofo enigmatico delle scritture meditative, in mimesi con quelle sacre, e la calma equilibrata sintassi di una dimostrazione naturalistica. Ne scaturisce una prosa interessantissima, stupefacente per malizia e maestria, capace di non scoprire mai le proprie zone d’ombra e di non cedere al gesto spazientito o al facile lirismo. Insomma, Ermini è scrittore radicale, ben consapevole della sua azione comunicativa, e poco o affatto incline ad assecondare il lettore.

Nel percorso che propone Il secondo bene, lungo le significazioni di tutta l’esistenza fino alla piena inverazione del secondo bene, in cui la vita umana scioglie se stessa nell’incontro con la sorella del sonno, ci si trova sospinti in una mostra dal sapore bizantineggiante, a due dimensioni, in cui le icone linguistiche, le ripetizioni, le frequenti divisioni e le riprese hanno il secondo fine di una descrittività allusiva, altra e poi altra in senso ascensionale. Ma trovandoci di fronte un saggio, scrupoloso seppure sui generis, il discorso riceve conferme da citazioni dei maggiori poeti e pensatori della tradizione.

Come dichiara Franco Rella nella postfazione al volume, intitolata «Elogio dell’ombra», Ermini non afferma soltanto che dare figura alla morte è dare figura a se stessi, o che il proprio dell’uomo, vale a dire del mortale, è la morte. Afferma che la morte è un compito. Un doppio movimento ci porta verso la dissipazione e verso noi stessi. Verso la morte e verso il nostro io. E questo movimento è compito e destino.

(Flavio Ermini, Il secondo bene. Saggio sul compito terreno dei mortali, Moretti e Vitali, 2012, pp. 207, euro 18)

     

“Chi ti credi di essere?” di Alice Munro

Nel 1971 Ennio Flaiano aveva scritto sulla sceneggiatura di un documentario in 16 mm intitolato Oceano Canada: «È un Paese dove fuori dalle grandi città, la solitudine può essere la condizione normale, la chiave dell’esistenza. Un giorno sarà forse un territorio popolatissimo, oggi, teoricamente, chi infilasse un sentiero e continuasse ad andare, dopo quattro o cinquemila chilometri, sarebbe al Polo Nord senza incontrare nessuno».

Fin dalla sua prima raccolta di racconti, risalente alla fine degli anni Sessanta, Alice Munro ha scelto come sfondo, su cui ritrarre le dinamiche interiori dei suoi personaggi soprattutto femminili, la provincia canadese dell’Ontario. Piccole comunità periferiche con le loro frustrazioni, i loro conflitti, disagi e ottusità vengono così a costituire un mondo che si dilata a universo, un mondo dove abitano personaggi, di ieri come di oggi, a noi familiari, gli everyman come tanti altri con i mali e i tormenti di tanti altri.

La grande e pluripremiata scrittrice canadese ne indaga psicologie e comportamenti a partire da aneddoti ordinari, a volte insignificanti, facendo del genere narrativo di breve respiro il genere ideale per esaltare la forza espressiva della parola, la sua capacità non solo informativa ma anche performativa, ossia la sua efficacia trasformatrice e liberatrice.

Più volte paragonata a Čechov, la Munro, proprio come il vetturino Iona Potapov, protagonista del racconto “Malinconia”, talmente povero e solo da chiedere al primo passante la carità di ascoltarlo, sente questo insopprimibile bisogno di comunicare, rappresentare, narrare, ma a differenza di Potapov riesce a trovare modo di sfogarlo grazie all’attenzione che, a ogni nuova uscita, il suo pubblico, soprattutto di connazionali, le riserva.

Chi ti credi di essere? (Einaudi 2012), un’opera del 1977 che le valse per la seconda volta il Governor General’s Literary Award, si compone di dieci racconti autonomi ma che potrebbero essere altrettanti capitoli di un romanzo di formazione con protagonista Rose, una bambina, poi adolescente e infine donna matura, originaria di West Hanratty, una cittadina protestante e sbiadita dell’Ontario.

Nei racconti, che si segnalano per la naturalezza con cui, narrando storie dalle trame semplici al limite del banale, la scrittrice riesce a sfumare le diverse tonalità dei sentimenti umani, si srotola infatti la microstoria di Rose e della sua matrigna Flo, osservate da un narratore onnisciente nei loro minimi risvolti psicologici ed emotivi.

Inizialmente vediamo Rose, bambina testarda e capricciosa: «Oh quante arie ti dai, dice Flo, e un attimo dopo, Ma chi ti credi di essere, poi?». Quindi la osserviamo adolescente, intimidita dalla figura rigida e introversa del padre («Rose si vergognava anche solo di trovarsi in una stanza in sua presenza»), alla ricerca di una propria identità, ricerca resa ancora più difficile dall’ingombrante esempio di donna della matrigna, in realtà una donna scialba e ignorante che crede che Spinoza sia un ortaggio: «Perciò una parte della vergogna di Rose dipendeva dall’essere femmina ma per sbaglio, dal non essere destinata a diventare una donna come si deve». Dopo la morte del padre, Rose avrà la possibilità di lasciare Hanratty e andare in città, a Toronto, con una borsa di studio per il college dove incontrerà un giovane di buona famiglia, dottorando in storia, Patrick Blatchford.

Successivamente la riscopriamo giovane sposa, imprigionata in un matrimonio che la eleva socialmente ma che non la appaga. E ancora ci si rivelerà nella veste di madre divorziata, distratta da amori passeggeri e dall’aspirazione a diventare attrice famosa.

Infine la vedremo tornare nella sua cittadina natale per sistemare Flo, ormai affetta da demenza senile, in una casa di riposo e fare così i conti con se stessa e il proprio passato.

Affiorerà di nuovo alla memoria quell’interrogativo trasudante gretta superbia, «Chi ti credi di essere?», come quella volta che sfidò la maestra recitando, senza sbagliare una virgola, una poesia che i suoi compagni faticavano a imprimere nella mente anche dopo averla mandata per iscritto: «Non era la prima volta che qualcuno glielo chiedeva; anzi, quella domanda spesso assumeva alle sue orecchie la monotonia di un gong, e Rose non ci badava più».

Definita da Jonathan Franzen «la più grande scrittrice vivente del Nord America» in uno dei saggi raccolti in Più lontano ancora (Einaudi 2012) in cui ne esalta le doti narrative, Alice Munro, pittrice di dettagli, centillinatrice di quotidianità e fotografa di stati d’animo che tutti noi conosciamo, ci regala ancora una volta dei ritratti indimenticabili partendo dall’ordinario e un libro imperdibile. E ancora una volta la misura del racconto si rivela misura aurea nella sua penna.

(Alice Munro, Chi ti credi di essere?, trad. di Susanna Basso, Einaudi, 2012, pp. 280, euro 19,50) 

“Benedette foto! Carmelo Bene visto da Claudio Abate” al Palazzo delle Esposizioni

In occasione del decimo anniversario dalla scomparsa di Carmelo Bene, il Palazzo delle Esposizioni dedica al geniale artista una sala espositiva con gli scatti di Claudio Abate: circa 120 fotografie, in bianco e nero e a colori, scattate tra il 1963 e il 1973, durante il debutto – e talvolta anche durante le prove – di dieci tra i suoi spettacoli teatrali.
La collaborazione con molti artisti rende Claudio Abate non solo uno dei maggiori esponenti della fotografia italiana, ma anche il “testimone oculare” del fermento artistico dalla metà degli anni Sessanta fino a tutta l’avanguardia del decennio successivo.
 Le sue foto sono senza dubbio l’emblema di quel periodo.

I due si incontrano in uno dei luoghi di ritrovo della vita notturna romana agli inizi degli anni Sessanta, ed è grazie alle pellicole di Abate che il poliedrico artista salva la sua reputazione scagionandosi dall’accusa di oltraggio: nella sua prima biografia, se ne ricorda scrivendo «Benedette foto!», esclamazione che dà il titolo all’esposizione. Le fotografie offrono uno spaccato degli oggetti, dei personaggi e dei protagonisti in relazione con lo spazio circostante. L’importanza data ai costumi, ai trucchi e alle maschere di bigiotteria utilizzate così spesso, ritagliano quello spazio così “massacrato” e sfruttato da Bene. La grana impastata che restituisce le mille sfaccettature della personalità di Bene è impreziosita spesso da colori caldi e avvinazzati.
 


 

Carmelo Bene venne considerato un affabulatore, un presuntuoso “massacratore” dalla critica, ma fu ben visto dalla maggior parte della società e addirittura amato dall’“intellighenzia” dell’epoca (Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini, per citarne qualcuno), che lo reputò quasi un genio.
Un genio, che si scagliò contro il teatro di testo, per proporre quello da lui definito “scrittura di scena”: un teatro del dire e non del detto, perché, per Bene, il teatro del già detto non dice, appunto, niente di nuovo ed è solo un citare a memoria parole scritte altrove. 
Si percepisce in queste foto la potenza assunta dal regista e l’eccezionalità di un teatro che non ha imitatori né precursori, che nasce dalla scena stessa, in cui vibrano già le forme, le luci e le ombre. Elementi che saranno per sempre lo scopo della sua ricerca inarrestabile, ricerca che quasi assaporiamo, tra una serie e l’altra, in un continuo evolversi camaleontico.

Claudio Abate scatta fotogrammi precisi e istanti memorabili, realizzando una collezione eccezionale di cui il patrimonio artistico e culturale italiano si nobilita.
I contorni nitidi, i bianchi sempre limpidi e i contrasti di luce ammettono tonalità di colori prorompenti, spesso vivaci come in “Pinocchio 66”.
 


 

Sono foto corali, come in “Arden of Feversham”, interpretato dai quattro soggetti della foto: Giovanni Davoli, Manilo Nevastri, Lydia Mancinelli, Franco Giulà; ma anche primi piani ripresi da varie inquadrature e sotto varie luci più o meno dirette, come nel primo piano di Carmelo Bene durante le prove di “Il rosa e il nero da di G.M. Lewis” andato in scena nel 1966 al Nuovo Teatro delle Muse.
Le stampe, quasi tutte da negativi e ritoccate a mano, sono di un’ottima densità, facendo risaltare i colori, le forme e i movimenti dei soggetti. Tra le opere fotografate anche “Cristo 33”, “Salvatore Giuliano. Vita di una rosa rossa”, “Nostra Signora dei turchi” e il lungometraggio “Salomè” del 1972.

L’esposizione non si cura della cronologia degli scatti, né delle date degli spettacoli andati in scena. Il percorso si chiude con le foto del “Don Chisciotte” del 26 ottobre 1968dal TeatroCarmelo Bene in Roma. Del variegato artista non ci restano che decine su decine di scatti incorniciati da un’esperienza totalizzante di teatro e dall’abilità di un Maestro della fotografia.

Benedette foto! Carmelo Bene visto da Claudio Abate
Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma
4 dicembre 2012 – 3 febbraio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito http://www.palazzoesposizioni.it

“Flumen” di Filippo Strumia

Avete mai pensato che i benzinai siano malvagi? Che i barboni siano talmente strani da appartenere a un’altra dimensione? Che siano dei rettili dall’intelligenza sopraffina, degli dei?

Un benzinaio viene trovato morto nel centro di Roma, legato con una catena e arso vivo. Intorno a lui sei lucertole carbonizzate a formare un esagono; la settima è nella sua bocca.

Flumen di Filippo Strumia (Elliot, 2012) è un poliziesco, un noir. Strumia, psicologo, già poeta per Einaudi, scrive un primo romanzo disarmante e scorrevole come pochi.

Dietro l’apparente semplicità del meccanismo narrativo poliziesco è tutto troppo studiato per essere casuale. I personaggi sono simboli della loro funzione nel romanzo: i poliziotti Capuano e Lombardo, mai chiamati per nome, agiati nella burocrazia, ironici ma senza speranze e senza fede; Carlo e Flaminia, mai chiamati per cognome, romantici e indifesi dal mondo, gestori di un centro accoglienza per i meno fortunati; Edmondo, collega del benzinaio trovato morto, primo sospettato, uomo di grandi gusti e cultura, filosofo e probabilmente un po’ tocco.

Flumen, il titolo del romanzo, è il Tevere di una Roma mai menzionata se non nelle pagine finali. Flumen è soprattutto però un’incubatrice, è il momento intermedio tra il regno delle idee e il mondo reale. E ognuno ha il proprio Flumen. Per l’ispettore Capuano e l’assistente Lombardo è il caffè, insostituibile rito mattutino. Per Carlo e Flaminia è l’aiuto ai senzatetto, agli invalidi, ognuno con le proprie ragioni – Carlo ne prova paura, Flaminia solo compassione. E quando dopo il primo delitto sparisce il barbone Adam, sospettato a causa di uno screzio avuto col benzinaio qualche giorno prima dell’omicidio, il mistero si infittisce.

Non c’è un vero antagonista. Nemmeno l’assassino stesso che continua a uccidere si può considerare tale; è solo un mezzo per arrivare allo spiazzante finale. Neanche Trimarco, il commissario opposto a Capuano per indole e carattere, arrivista, ruffiano, sbruffone, riesce a suscitare antipatia. Anzi, tutto per lui è uno dei capitoli più belli del romanzo; si direbbe un racconto breve incastonato in una trama più ampia.

Il libro stesso, l’oggetto, è un Flumen, punto d’incontro tra la mente del creatore-scrittore e il mondo dei lettori. Si crea un rapporto teso e sfuggente, evidenziato dalla difficoltà di abbracciare con una definizione la forza di questo romanzo: una godibilissima storia noir raccontata in maniera incalzante e mai noiosa, dal linguaggio solido, a tratti divertente, sempre colmo di spunti – religiosi, filosofici, sociali. Leggetelo, sarà più semplice.

(Filippo Strumia, Flumen, Elliot, 2012, pp. 317, euro 16,50)

[Oscar 2013] “The Master” di Paul Thomas Anderson

Ci si aspettava un’accoglienza diversa da parte dell’Academy per The Master di Paul Thomas Anderson. Le nomination come miglior film, o per la regia, la fotografia, la colonna sonora, erano nell’aria ma non sono arrivate. Il film ha ricevuto solo le candidature per i tre protagonisti e le possibilità di vittoria non sembrano essere molte.

California, 1949. Freddie Quell (Joaquin Phoenix) è un reduce di guerra instabile e ossessionato dal sesso. Eredita dal padre una distruttiva dipendenza dall’alcool che non solo lo porta a non avere controllo sulle sue reazioni fisiche ed emotive, ma lo induce anche a confezionare misteriosi intrugli alcolici potenzialmente velenosi che testa su se stesso e sugli altri. Il suo destino è segnato, ma l’incontro con il carismatico leader del movimento laCausa, Lancaster Dodd (Philippe Seymour Hoffman) sembra cambiare, almeno inizialmente, la sua sorte. Hoffman interpreta un uomo affascinante e colto, avvolto da un’ aura di misticismo che trasmette istintivamente a tutti i suoi seguaci. Questi hanno fatto di lui un semidio, un angelo traghettatore tra le loro “vite passate” (così vengono chiamate le esperienze di trance indotte dalle tecniche di ipnosi praticate nelle sedute di Dodd) e la dura realtà. La Causa però non è solo la sua missione, ma anche quella di tutta la famiglia che, come nella migliore tradizione americana, viene coinvolta e in certi casi persino investita (la figura del figlio di Dodd è emblematica in questo senso) dalla potenza del movimento. Nasce così un’ amicizia “terapeutica” tra i due. Freddie segue Dodd e i suoi nei lunghi viaggi per la diffusione del loro credo, mentre Dodd riceve in cambio un servo devoto e un amico sincero, capace di metterlo a contatto con la sua parte più oscura. La moglie di Dodd, una bravissima Amy Adams, tenta la strada del catalizzatore, si offre da filtro, ma il loro animo inquieto non trova comunque la pace, nella consapevolezza che non c’è via d’uscita da ciò che li attanaglia. Freddie, nonostante le sedute massacranti a cui si sottopone, non riesce a sfuggire al suo demone interiore che come un Hyde esce fuori di colpo con tutta la mostruosità che Phoenix è innatamente abile a incarnare. Dodd, dal canto suo,  si è auto-somministrato una cura giornaliera di tracotanza che a piccole dosi lo ha reso sensibile a ogni critica e obiezione, persino da parte dei suoi seguaci più fedeli. Per certi versi ricorda il Kurtz di Coppola che, rifiutando l’anti-etica americana finisce in seguito per trasformarsi da ribelle in male militare, in hybris.

I due volti del dolore, remissività e aggressività, si fondono nelle personalità dei due uomini che Anderson ci mostra come insieme compenetrante. Ed è proprio questo equilibrio di ruoli a fruttare al mistico e al marinaio il meritatissimo ex aequo per la Coppa Volpi a Venezia. perché non esiste, davvero, un unico protagonista in questo dramma profondo, viscerale. The Master è un continuo gioco di fuochi che si percepisce sia fisicamente, nella splendida fotografia di Mihai Malaimare Jr., che nelle musiche dell’ormai cavallo affidabile Jonny Greenwood. Il chitarrista dei Radiohead ha un’intesa particolare con P.T. Anderson (con cui aveva già lavorato ne Il petroliere) e produce una colonna sonora capace di dare un senso al tempo senza preponderare arrogantemente.
Il tempo, questo si che è una nodo importante nel film di Anderson, intento a mostrare una California post-guerra perfetta, certosina, tanto che non sembra un azzardo guardare a questi grandi spazi americani, alle gite in barca e persino ai pranzi della famiglia Dodd come parte di uno stile molto vicino alla meticolosità rosselliniana. Tutto questo lavoro però, riesce a non pesare allo sguardo dello spettatore, colto com’è dall’emozione dei protagonisti.
Paul Thomas Anderson è un uomo e un regista di vero cuore, come il cuore puro vede e narra il dolore così come si presenta, rendendo semplice la più complessa delle relazioni.

(The Master, di Paul Thomas Anderson, 2012, drammatico, 137’)

 

“La notte del gatto nero” di Antonio Pagliaro

La notte del gatto nero (Guanda, 2012) è il terzo romanzo di Antonio Pagliaro, che ha scelto di ambientare la narrazione, ancora una volta, a Palermo, sua città natale. Gli ingredienti essenziali del noir ci sono tutti: il senso di rassicurazione sociale e il lieto fine, propri del genere giallo, cedono infatti il passo alla confusione, all’incertezza e ai dubbi che si annidano nella mente di Giovanni Ribaudo nella disperata ricerca della verità sul figlio.

Chi era davvero Salvatore? L’immagine che Giovanni aveva dipinto con le sue aspettative di padre era quella di un ragazzo che si sarebbe dovuto laureare alla facoltà di Legge o Medicina in cinque anni al massimo, garantendosi così un futuro brillante, senza preoccupazioni. Ma davanti alla diretta del posticipo di serie A Chievo-Torino, Salvatore aveva affermato con forza il suo desiderio di libertà, di indipendenza e la voglia di partire per gli States una volta finiti gli esami di maturità. La vita di Giovanni Ribaudo, rispettabile docente e cittadino palermitano, è stravolta. Il preludio del dramma viene annunciato con il trillo del telefono alle tre e trentadue di una notte solo in apparenza come le altre. Una donna cerca con una certa urgenza Salvatore che, però, non è ancora rincasato e, per di più, ha il cellulare spento. Nulla di strano se un giovane si trattiene fino a tarda ora fuori casa. La preoccupazione diventa angoscia laddove il mattino seguente il letto è ancora vuoto. Scomparso. Ritrovato. Perso per sempre. «Il mondo di Giovanni si era rimpicciolito. Il mondo di Giovanni era Salvatore, solo Salvatore».

La giustizia, valore che Giovanni era sicuro di aver insegnato a Salvatore all’età di sei anni, e per se stesso principio guida di tutta un’esistenza, diventa nel corso degli accadimenti una parola svuotata dei suoi ideali e farcita con del sangue, di “vittime” più o meno innocenti. «Prima di Salvatore, Giovanni nutriva l’illusione che la giustizia degli uomini esistesse. Era sicuro che il suo diritto alla giustizia fosse inalienabile, suo e di ogni altro cittadino. Era sicuro che da qualche parte esistesse sempre un giudice che decideva la cosa giusta. Ma le sue sicurezze erano quelle del moscone che crede di poter uscire. Ormai aveva abbandonato questa idea. Il Giudice era morto. Il Diritto era morto. Era stufo di crederci e stufo che le sue speranze venissero infrante. Non si sarebbe più concesso di credere alla Legge».

Antonio Pagliaro focalizza l’attenzione sulla psiche umana, sulla costruzione e la perdita delle certezze. Ne La notte del gatto nero non c’è spazio per i moralismi. I diversi punti di vista offerti dalla varietà dei personaggi guidano verso la comprensione di una realtà multiforme. I fatti parlano da soli. Presente e passato si intrecciano.

«Volevo un gatto nero, nero, nero, mi hai dato un gatto bianco, e io non ci sto più». Salvatore da piccolo adorava ascoltare questa canzoncina. Ci ballava  su e la cantava storpiando le parole. Oltrepassando la porta del Gatto Nero Pub, Giovanni affoga nell’alcol la memoria del figlio e segna un passaggio decisivo nella sua storia personale. Se fino a questo momento nel romanzo prevalgono sentimenti di smarrimento, di dolore e di incredulità, d’ora in poi si assisterà a un’escalation di atteggiamenti distruttivi e aggressivi che, sfociando nella disperazione più pura, inevitabilmente inaspriscono anche i toni narrativi.

L’incontro casuale nel pub, con un amico di vecchia data che non vedeva da trent’anni, dai tempi dei banchi di scuola, apre la mente del professor Ribaudo a nuove strade percorribili. «Giovà, vuoi sapere qual è l’unico modo per avere giustizia? Ci devi pensare da solo».

Ne La notte del gatto nero, oltre al dramma del professore e di sua moglie, vengono evidenziate questioni di più largo interesse collettivo che conducono il lettore a una profonda riflessione sulla realtà attuale. Un domani chiunque potrebbe trovarsi nei panni di Salvatore e/o di suo padre. Il romanzo di Antonio Pagliaro è senza dubbio un noir dalla lettura scorrevole, resa tale anche da una trama più che convincente.


(Antonio Pagliaro, La notte del gatto nero, Guanda, 2012, pp.206, euro 14,50)

“End of Daze” delle Dum Dum Girls

Di solito si dà poca importanza agli Ep. Vengono considerati una via di mezzo, un riempitivo, un assaggio di qualcosa più grande, e magari più bello. In parte, il ragionamento funziona nella stragrande maggioranza dei casi. Però, se il prodotto brilla di bellezza e la qualità di ogni singola traccia è così lampante da lasciare il critico e l’ascoltatore piacevolmente stupito, allora bisogna scriverlo. Proprio come stiamo facendo ora, con End of Daze delle Dum Dum Girls.

Messe sotto contratto dall’istituzione Sub Pop di Seattle (di cui non citeremo tutti i gruppi affiliati per non degenerare sulla lunghezza del pezzo), la band rigorosamente tutta al femminile di Dee Dee s’impone nel 2010: undici brani, mezz’ora di musica battezzata I Will Be. Per intendere lo stile e il genere delle ragazze basta analizzare il nome, unione dell’album Dum Dum dei The Vaselines e il brano “Dum Dum Boys” di Iggy Pop. Insomma, un brioso rock lo-fi, accattivante e noise, che una volta sorpassati i timpani non lascia più il cervello. Dopo aver pubblicato nel 2011 altri due Ep – He Gets Me High e Only In Dreams – dove la forma di I Will Be sfociava superbamente del pop-punk, ora le DDGs chiudono la trilogia con il lavoro più riuscito: End of Daze.

La grezza chitarra che apre e accompagna la voce di Dee Dee per l’intera durata dell’iniziale “Mine Tonight” è un ottimo spunto per vedere come la band stia lavorando – con notevoli esiti – su una forma canzone più lenta e melodica. Ma, come a non voler deludere il fan storico, la successiva “I Got Nothing” è la quintessenza del sound Dum Dum Girls: batteria martellante sul rullante, linee melodiche ipnotiche e ritornello indimenticabile. “Trees and Flowers” è il momento più romantico ed emotivo dell’ep: riuscitissimo. Qui gli arpeggi s’intrecciano su archi e distorsioni per sostenere la toccante performance vocale. È ancora la batteria a segnare il passaggio tra uno stato d’animo e l’altro: adesso tocca a quella di “Lord Knows”, il brano dream pop di End of Daze, uscito infatti come primo singolo. La conclusione è in grande stile. “Season in Hell” è il modo migliore per suggellare lo stato di salute musicale e compositivo del gruppo: tutto suona perfetto. Infatti, quando il brano si conclude cantando proprio il titolo dell’ep, ecco venir fuori una dolceamara delusione: i venti minuti delle cinque tracce sono già passati.
Ora, è ovvio concordare con la schiera di critici e fan che attendono calorosamente un altro album, ma va detto che nell’attuale panorama musicale, di dischi capaci di contenere almeno cinque pezzi di tale valore sono davvero rari. Purtroppo. Quindi, nell’attesa, meglio concentrare l’ascolto su pochi ma ottimi brani. Per il futuro, Dee Dee e socie ci permettono di essere più che ottimisti.

(Dum Dum Girls, End of Daze, Sub Pop, 2012)

 

L’ispirazione spira

L’ispirazione spira.

Di noia, le più volte. O di saturazione: tanto hai scritto di una cosa (o pensato, ed è lo stesso) che ti viene naturale per un po’ fare come bimbo stufo del balocco preferito. Lo riponi in un cassetto e non ci pensi: altri giochi esistenti o immaginari ti popolano i sogni. E se torni a giocarci controvoglia, peste te ne incoglie: quello che ti piace a inizio settimana o un giorno prima, ti pare ora melenso, trito, e tutto da buttare. E rischi di farlo per davvero: prendi il gioco come l’è, con la scatola il corredo e gli accessori… e lo butti nella tromba delle scale.

Quando l’ispirazione spira, meglio non insistere. Meglio dedicarsi ad altro, davvero. Tanto non c’è verso (oops, letteralmente…): le idee non vogliono proprio saperne di mostrarsi e a spremersi le meningi non è che se ne cavi succo… Solo grandi emicranie. Quando l’ispirazione spira e di mestiere si campa di parole è proprio un gran casino. Non tanto sul profilo dei dané (i poeti, si sa, so’ parsimoniosi e formicoidi) ma in autostima: «E che faccio se non torna? A che servo se non forgio di pensieri e di parole? Vero, Mamma, vero, era meglio Medicina!»

Di norma va così. Quasi sempre. Perché ogni tanto, invece l’ispirazione spira ed è un bene che lo faccia. Meglio: è inevitabile, che spiri. Succede quando vita si fa verso e le parole di ogni giorno letterate. Quando l’ispirazione spira di vita, ecco. Nei gesti. Nei pensieri spontanei. Nelle pose ritrovate, specie se dimentiche per anni. Negli sguardi, o in quei moti di gratitudine verso l’Universo l’Esistente Dio, per chi ci crede, che ancora una volta e per l’ennesima volta hanno cospirato a realizzare la tua felicità.

Certe volte se l’ispirazione spira è perché sei innamorato cotto e l’oggetto (ok, il soggetto…) del tuo desiderio è lì ed è lei (ok, oppure lui…) e non ti va né poco o punto di muover bocca se non incontro alle sue labbra e penna ancora meno perché poco c’è da inventare o ricordare quando la vita di affetti ed emozioni è solo presente e tutta in divenire. Quando ogni tuo fiato è afflato e la misura del senso delle cose è nel sorriso che scopri speculare o complementare, e davvero poco cambia chi o cosa, quando e dove e chi per primo.

Se l’ispirazione spira perché ami, chi non ti legge più se ne sa fare una ragione e in cuor suo spera di non leggerti ancora per un pezzo (e bello) perché è bene, che le tue parole siano intese a due orecchie sole e il tuo intimo svelato a chi ne ha titolo davvero e te lo plasma. Chi non ti legge più rilegge indietro, e scruta tra le righe quanto di arguzia pathos e voglia di vivere davvero hai trasformato in gioco di parole, rima lieve o stizza artata. Chi non ti legge più ma ti vuol bene è grato che a spirare, foss’anche solo per un giorno o voglia Iddio la vita intera, sia stato ciò che muore invero mai…

… ma si trasforma.

“Il destino di Hartlepool Hall” di Paul Torday

Il destino di Harlepool Hall (Elliot, 2012) è il sesto romanzo di Paul Torday, vincitore del Bollinger Everyman Wodehouse Prize per la scrittura comica nel 2007 e autore di Pesca al salmone nello Yemen, portato sul grande schermo da Lasse Halltröm nel 2012.

Protagonista di questo libro è Ed Hartlepool, un personaggio degno delle pagine della letteratura inglese più classica: un dandy da XIX secolo trasposto alla data corrente, chiamato a confrontarsi con la pressante realtà delle e-mail, invece che con la romantica consistenza delle missive scritte a pennino, conservando il tipico atteggiamente distratto e svaporato verso ciò che lo circonda.

Ed vive in Francia, dove è fuggito inseguito dai debiti, in uno stato di splendido isolamento che va improvvisamente in frantumi quando giunge la notizia, a lungo attesa, della possibilità di rientrare nell’amata Inghilterra. Il ritorno sul suolo natio riporta Ed tra i vecchi amici, almeno quelli sopravvissuti allo scorrere impietoso del tempo, e tra tutti da Annabel Gazebee, ma lo obbliga anche ad affrontare il fallimento della fortuna di famiglia e il destino della mastodontica e impraticabile Hartlepool Hall.

Il romanzo racconta una storia apparentemente lineare ponendo una domanda semplice: cosa accadrebbe a Bertie Wooster, orfano di Jeeves, nel 2012? Ed Hartlepool purtroppo non se la cava affatto bene. In primo luogo deve soccombere al confronto con Geoff Tarset, in uno scontro tra dandismo e snobismo che vede il primo armato di una spada senza filo contro il secondo armato di bazooka. In secondo luogo Annable Gazebee non è una degna eroina austeniana, mancandole levità e fascino, seppure conservi quel tratto sofferente tipico delle gentildonne della campagna letteraria inglese. Infine i domestici di Hartlepool Hall non serbano nemmeno un lumicino di ingegno e si dimostrano incapaci di soccorrere il padrone in difficoltà.

Insomma tutto va al contrario in questa vicenda: il racconto perde il suo splendore comico dopo nemmeno cinquanta pagine e la discrasia tra il passato e il presente finisce per mettere il luce solo la grevità di un presente che mastica i vizi di Hartlepool come la ricchezza culturale che va con essi a braccetto. Ignari del consiglio di Tommasi di Lampedusa, i personaggi non sono in grado di «cambiare tutto per non cambiare niente» e l’incapacità di evolversi condanna ognuno di loro a una triste fine. Il protagonista stesso della vicenda esce dalla trincea ridimensionato e, oltretutto, privo anche del pur minimo spirito ironico, ed eroico, che lo aiuti ad affrontare le gioie della prossima fase contadina della sua vita.

L’autore si lascia, inoltre, distrarre dal carattere bizzoso e bizzarro che sviluppa il personaggio di Annabel e si dilunga per costruire un piccolo giallo attorno alla figura di lei e del di lei padre che sfilaccia la trama senza arricchire la vicenda principale, quanto piuttosto gonfiandone l’argine per sfociare in un rivolo nemmeno abbastanza corposo perché si possa conferire ad Annabel lo scettro di pazza.

Il destino di Hartlepool Hall è comunque un romanzo scorrevole, che ha il pregio di incuriosire il lettore sulla produzione complessiva di Torday, grazie agli appigli comici e alla capacità dell’autore di costruire una narrazione globalmente fluida; ed è proprio in virtù di questi pregi che il lettore perdona all’autore un’ultima pagina traditrice aperta e chiusa da uno scolastico: «La casa è ancora lì. Domandatevi pure se è vera, se è esistita davvero, se è mai esistita».
 

(Paul Torday, Il destino di Hartlepool Hall, trad. di Luca Fusari, Elliot, 2012, pp.244, euro 18,50)

“Miss.Tic” alla Wunderkammern, Roma

Nascosta tra le strade del quartiere di Tor Pignattara, a Roma, si trova un’accogliente galleria che fino al 16 marzo accoglie le opere di Miss.Tic. Questa artista viene considerata una delle regine della street art, nonché una delle prime (e tra le poche) a essere riconosciuta dalla critica e non solo. Infatti l’enciclopedia Larousse le ha commissionato alcune illustrazioni per l’edizione speciale, le poste francesi una serie di francobolli ed è stata riconosciuta anche dal mondo della moda e del cinema. Miss.Tic è francese o meglio parigina, classe 1956. Invade le strade di Parigi già dal 1985 e ci regala la sua prima personale in Italia, ormai più matura e consapevole del suo lavoro.

La mostra alla Wunderkammern è strutturata in modo accurato e preciso, divisa su due piani. Al piano terra, che si intravede dalla strada, troviamo le opere più grandi, così da venire immersi direttamente nella poetica dell’artista, come ha voluto il curatore Giuseppe Ottavianelli.

Appena si entra, sulla destra è impossibile non rimane catturati dal forte richiamo del colore rosso che proviene dall’opera “La réciprocité est un mystère” (ripresa nella locandina), la più grande tra quelle esposte: l’abbraccio rappresentato quasi a passo di danza che sta per tramutarsi in bacio, ci fa venire in mente la passione tra due personaggi di un fumetto pop, come Eva Kant e Diabolik.

Si prosegue lungo un corridoio che porta alle scale verso il seminterrato e si passa dal supporto in tela ai ritagli di cartelloni pubblicitari e, al piano inferiore, al metallo.

La figura principale è sempre la bella ragazza mora ammiccante, che viene affiancata da frasi in lingua francese che si riferiscono all’amore, alla vita, alle donne. “L’arte nuoce alla stupidità”: questa è l’unica frase in italiano che troviamo su una tela, prima di scendere nel seminterrato.
 


Emerge l’attenzione e l’impegno che l’artista ha verso la società e nei confronti dell’arte, come fosse un grido contro l’ignoranza. Le sue opere, circa venti, coinvolgono grazie alla forza del colore puro del monocromo che evidenzia il corpo femminile. La donna erotica e allo stesso tempo eroica che urla contro la società, in un mix tra Crepax e Godard.

Il piano sotterraneo è quello che incuriosisce di più: è una grotta con tanto di passerelle per non bagnarsi, ricavata da un ex deposito di arance. Qui troviamo dieci opere che hanno come supporto il ferro. L’ambiente è suggestivo e l’accostamento ferro tufo risulta vincente. Al piano terra vi era un rapporto dialettico tra donna-uomo-arte, qui negli “inferi” si incentra tra uomo-donna e la penombra rende il tutto ancora più convincente. Notevole l’opera “Infidelités généuses”, dove le due anime femminili sono rappresentate in un trittico in cui al centro c’è la figura maschile. Le due figure laterali si contrappongono a quella maschile, esaltando il potere delle donne.
 


Queste tematiche si possono ritrovare anche nell’opera “Prêt a porter”, nella quale la donna porta sulle spalle l’uomo, diventandone la guida sia fisica che morale. «È un donna giovane, timidamente sicura col suo erotismo naturale, ha gambe atletiche e sottili caviglie, un tubino nero che si adagia come seconda pelle… giovane e bellissima, la nostra Lei domina tutto senza irretimento machista, senza durezza militare, solamente con l’energia dell’esserci, e senza parlare si prende il centro della nostra scena, della nostra circolazione sanguigna, del nostro ossigeno».

 

Miss.Tic
Dal 19 gennaio 2013 al 16 marzo 2013
Wunderkammern, Via Gabrio Serbelloni 124, Roma
Per ulteriori informazioni:
http://www.wunderkammern.net/misstic/misstic.htm