Percorsi di scrittura. Un’idea di Murakami Haruki

Einaudi pubblica agli inizi di novembre la terza parte di 1Q84 di Haruki Murakami (la prima e seconda parte hanno visto la luce nella traduzione italiana nel 2011) riservando gli onori della copertina rigida e di una sovraccoperta ben studiata a quello che non da pochi è considerato il capolavoro dello scrittore che ha sfiorato il premio Nobel per la letteratura lo scorso ottobre.

Prima di addentrarsi nell’analisi è bene sottolineare l’ovvio: stiamo parlando di un autore giapponese. È un fenomeno studiato nel campo delle relazioni internazionali, da non confondersi con lo scontro di civiltà di huntingtoniana memoria, quello rappresentato dalla difficoltà, per i partecipanti a una cultura quale può essere quella occidentale contemporanea, a riconoscersi e a comprendere una cultura molto distante dal punto di vista socio-culturale e valoriale come quella giapponese. Senza approfondire tematiche che non sono qui di interesse, vale la pena notare però come la poca familiarità con azioni, ritmi e filosofie con cui l’occidentale non è in grado di entrare in consonanza renda le storie, già punteggiate di surrealismo, maggiormente affascinanti. Una migliore definizione del proprio stile la dà lo stesso autore proprio in questo romanzo: «Sebbene la trama sia nell’insieme fantastica, le descrizioni dei dettagli sono estremamente realistiche. L’equilibrio tra questi due aspetti è eccellente». E ancora: «Come storia è molto interessante e trascina con una forza irresistibile il lettore fino alla fine, ma […] galleggiamo fino all’ultimo in una piscina piena di misteriosi punti interrogativi». Possiamo azzardare, leggendo queste righe, che tale godibilissimo esperimento di metaletteratura denoti, da un lato, una maturità artistica che non si carica di superbia dal momento in cui incorpora la voce dei critici, e dall’altro la disponibilità a venire incontro alle perplessità del lettore. 1Q84 è infatti il romanzo che meglio ci offre l’occasione per ripercorrere la lunga produzione del celebrato autore, offrendo al lettore le chiavi per interpretarla, poiché raccoglie all’interno di un unico contenitore narrativo tutti gli elementi essenziali della sua prosa.

Aomame e Tengo sono i due protagonisti del romanzo. La prima è una giovane istruttrice all’interno di uno esclusivo club sportivo, il secondo un professore di matematica. Due vite che a prima vista scorrono molto distanti l’una dall’altra ma tra le quali si distendono numerosi ponti in grado di trasformare il parallelismo su cui è impostato il romanzo in un sentimento di incerto determinismo, tenendo il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima pagina. L’autore tesse un intreccio al limite dell’improbabile i cui snodi sono costituiti da elementi che si presentano quasi sempre come di secondaria importanza, ma che ricompaiono nel corso di tutta la storia accrescendo il proprio peso e scandendo il tempo con un ritmo cadenzato.

Il tempo, in Murakami, è un elemento fluido che scorre liberamente attraverso espressioni franche quali: «Le settimane passavano senza che nulla accadesse». Il dilatarsi del plot non è un fattore di cruccio: come avviene in 1Q84, in molti dei suoi romanzi trascorrono interi mesi tra l’inizio e la fine delle vicende. D’altro canto, grazie ai flashback, l’autore addensa la mistura e cesella i suoi personaggi conferendo loro invariabilmente un passato che, se non è sempre possibile definire ingombrante, racchiude in ogni caso almeno una vicenda fondamentale alla comprensione della storia che viene narrata al presente. Esemplare a tal riguardo è il caso di Norvegian Wood, una Who I Am Story che si dipana lungo un unico lungo flashback. Norwegian Wood è un romanzo sul conflitto tra il desiderio di essere integrati e il bisogno di percepirsi degli individui. Murakami esplora la dimensione interiore dei personaggi mentre sullo sfondo tratteggia una delle sue Tokyo più riuscite, quella rivoluzionaria degli anni Settanta, fervente di proteste giovanili. Toru, il protagonista, è un solitario. Poco sicuro di sé, viene, da un lato, continuamente assalito dal dubbio, mentre, dall’altro, è guidato da un ostinato e personale senso della morale. Diviso tra due ragazze, Naoko, ricoverata in un ospedale psichiatrico incapace di superare il suicidio del fidanzato già migliore amico dello stesso Toru, e Midori, una ragazza con gravi problemi familiari, non può fare altro che decidere o aspettare che la vita, un equilibrio instabile tra futuro e passato, decida al suo posto.

Ma anche in A sud del confine, a ovest del sole è solo il ricordo di un’esperienza passata quello che permette al protagonista, Hajime, di reinterpretare il proprio presente. Hajime (traducibile con «inizio») nasce la prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del XX secolo. Figlio unico, stringe amicizia con una figlia unica, Shimamoto, dalla gamba offesa dalla poliomielite. Il passaggio alla pubertà separa i due prima che possano riconoscersi innamorati. Il caso li riunisce troppo tardi, quel tanto che basta perché Hajime possa colmare i vuoti della sua vita prima che Shimamoto torni al nulla da dove era piovuta. A sud del confine, a ovest del sole potrebbe essere un’ideale continuazione di Norwegian Wood dal momento in cui approfondisce, pur senza la stessa incisività, la solitudine dei personaggi coinvolti nella vicenda e i loro sentimenti più nascosti. A differenza del suo ideale progenitore però, recupera una dimensione onirica suggerita al lettore dai dettagli e dalla capacità potenziale di condurre oltre la realtà dei sensi attraverso mani che si stringono anche solo per dieci secondi.

In 1Q84 Tengo e Aomame sono accomunati in primo luogo dalle storie della propria infanzia. Entrambi hanno dovuto confrontarsi con genitori fanatici, seppure ciascuno a modo proprio, ed entrambi hanno scelto di emanciparsi in tenera età dalla famiglia. Intuiamo subito, ma scopriamo solo dopo qualche centinaio di pagine, che, inoltre, i due protagonisti si sono conosciuti a scuola e all’età di dieci anni hanno sperimentato l’esperienza che li lega indissolubilmente e li determina all’età di trenta, quando ha luogo la vicenda narrata. Ma le connessioni tra le vicende dei protagonisti sono molteplici e vanno al di là del passato che condividono. Entrambi svolgono un lavoro segreto, il primo illegale, ma giustificato in termini etici, il secondo legale, ma eticamente disprezzabile. Il lettore, per quanto libero di formarsi un giudizio, non è chiamato, in questo caso come in altri, a dare una valutazione morale delle azioni dei personaggi. In questo romanzo i protagonisti si incaricano personalmente di giudicarsi e il giudizio è talmente minuzioso e la valutazione finale talmente perentoria che ciascuno dei protagonisti si trasforma in uno dei mondi lungo la strada del Piccolo Principe: piccolo, spesso assurdo, ma sorretto da una logica interna inattaccabile.

Questa dimensione fortemente etica dei personaggi la riscontriamo anche in altri testi. In Kafka sulla spiaggia, ad esempio, un ragazzo-adulto di quindici anni e un vecchio-bambino si incamminano separatamente e ignari l’uno dell’altro da Tokyo verso Taka-matsu, nel Sud del Giappone. Il ragazzo, che ha scelto come pseudonimo Kafka, è in fuga dal padre, scultore geniale e oracolo di Delfi, con cui vive in solitudine dall’età di quattro anni. Il vecchio, Nakata, fugge invece dalla scena di un crimine abbandonando una vita fatta di abitudini e rallegrata dai gatti. Kafka e Nakata vivono incardinati ai propri imperativi categorici – cui l’età intellettuale dei due personaggi dà diverso spessore morale – che si rivelano per l’uno la necessità assoluta di non replicare il destino di Edipo e tentare di sfuggire alla predizione e per l’altro il recarsi a svolgere, anche a costo della propria vita, un compito.

Aomame e Tengo si cercano. Il tema della ricerca e dell’assenza che determina la ricerca è un elemento che Murakami inserisce in tutti i suoi romanzi. Ne La ragazza dello Sputnik le storie d’amore a senso unico che i personaggi vivono si risolvono nella scomparsa di Sumire; in Kafka sulla spiaggia, come in uno specchio, è Tamura Kafka a dare inizio alla vicenda “scomparendo”; in Nel segno della pecora si inverte l’ordine degli addendi dal momento in cui, in un certo senso, tutto quello che non si riesce a trovare è lì presente, ma il risultato non cambia. Ne L’Uccello che girava le viti del mondo, la ricerca è, però, il cuore dell’intera vicenda. Toru Okada, il protagonista è un felice non-occupato che si dedica alla casa e alla moglie. Quando il gatto scompare si mette in moto un meccanismo di trasformazione della vita dell’uomo che lo porta in un viaggio fiabesco in cui egli diventa l’eroe incaricato della liberazione della principessa-moglie dal drago-cognato. Attraverso questo viaggio verso la moglie il protagonista intraprende un percorso parallelo alla scoperta del mondo dentro di sé e di ciò che era diventato impossibile tacere. I comprimari sono essi stessi parte dell’immaginario, e vivono contemporaneamente all’esterno e all’interno di Toru. Tra questi spicca May, un’adolescente laconica e lunatica, che spinge il protagonista verso una verità raggiungibile solo dal fondo di un pozzo inondato dalla luce della luna.

I personaggi delle storie appena nominate, sia che scompaiano sia che si incarichino della ricerca, a un certo punto del loro percorso incappano in un’altra realtà. Il lettore si accorge sempre troppo tardi di aver cambiato dimensione e la sensazione di sorpresa che si prova dal momento in cui lo straniamento si palesa, accompagnato da un filo di angoscia, è esattamente quello che rende grande Murakami e fa sì che la somma di tutti gli elementi in cui si può scomporre la sua letteratura sia comunque più grande del valore degli elementi stessi. In 1Q84 il topos dell’alterità, inteso nella suddetta maniera, viene assunto a titolo del romanzo e il passaggio di Tengo e Aomame alla nuova realtà viene indicato dalla sensazione fisica di torsione che i due avvertono dal momento in cui casualmente inciampano sulla soglia tra i due mondi. Ma il testo che in questa direzione meglio esalta la forza immaginifica dello scrittore è indubbiamente La fine del mondo e il paese delle meraviglie, la cui struttura a due binari riconosciamo anche in 1Q84. Si tratta di un romanzo che gioca con i generi letterari: da un lato una realtà cyberpunk e dall’altro un’ambientazione fiabesca in cui vivono gli unicorni che progressivamente si sovrappongono, si intrecciano e complessivamente travalicano le norme dell’uno e dell’altro genere di riferimento. Forte e destinata a rimanere impressa è anche l’immagine dell’ascensore con cui si confronta Yuki, in Dance, dance, dance.

Altre immagini sono invece come delle impunture fatte con il filo rosso che abbiamo appena tessuto: i gatti, la luna, il telefono e la musica sono infatti, differentemente combinati, la firma di Murakami. I gatti e la luna sono strettamente relati all’ambiguità e al mistero e l’autore àncora sui primi o sulla seconda le chiavi di volta per la comprensione da parte dei personaggi della loro nuova realtà; il telefono, sempre fisso e immaginato da chi scrive tale e quale ai vecchi apparecchi SIP con la ghiera per la composizione dei numeri, è il tramite per il quale passano le comunicazioni tra l’uno e l’altro mondo; la musica, infine, è la colonna sonora interiore del testo, introdotta con apparente noncuranza e invece sempre intonata al mood del libro più che alla circostanza in cui compaiono i titoli.

1Q84 è, alla radice, anche una storia d’amore e Murakami si dimostra tanto un maestro nel generare suspense quanto nell’indagare i sentimenti dei suoi personaggi. Da notare qui il paradosso per cui tanto potente è l’amore che si concretizza invariabilmente in gesti minimi e simbolici, quanto poco sensuale risulta, nelle righe di questo autore, il sesso. L’immagine della mano di Tengo stretta in quella di Aomame (come già in A sud del confine, ad ovest del sole dieci secondi bastano alla mano dell’una per lasciare un’impronta indelebile nella mano dell’altro) rappresenta con forza primitiva un legame amoroso che non può che perdere un po’ del suo smalto dal momento in cui il legame diventa carnale e convenzionale. Toru, in Norvegian Wood, grazie a Nagasawa, personaggio-sensale con cui fa conoscenza all’università, farà sesso più spesso con sconosciute cui non è legato da nulla che con Naoko e Midori, attorno alle quali ruota, invece, il suo centro di gravità.

Sembra in ogni caso strano ricordare solo alla fine che di storia d’amore si tratta, così come solo alla fine ci si ricorda di notare che Kafka sulla spiaggia è un romanzo di formazione, ma forse ciò avviene naturalmente nel lettore che segue l’istinto e che, come suggerisce Emily Parker nell’articolo “How to Read Haruki Murakami”, non si sofferma troppo a lungo a sezionare il cadavere alla ricerca dei significati nascosti, perché Murakami imposta le immagini e lascia il lettore libero di decifrarle come vuole e concede tempo-pagine sufficienti per immergersi nell’ambiente circostante e smettere di metterlo in discussione affinché il lettore si possa semplicemente godere il libro e il flusso delle parole nella sua interezza.

Afro al Museo Carlo Bilotti di Roma: una mostra da centenario?

Il Museo Carlo Bilotti, piccolo edificio nel verde di Villa Borghese, ospita fino al 6 gennaio la mostra Afro. dal progetto all’opera. 1951-1975, realizzata in occasione del centenario della nascita del pittore. Scopo della mostra, come suggerisce il titolo e come dichiarato dagli stessi curatori, Barbara Drudi, Peter Benson Miller e la Fondazione Archivio Afro di Roma, è quello di svelare i complessi processi creativi che vi sono dietro l’opera astratta di Afro Basaldella.

L’intento è quello di mostrare al pubblico il lungo lavoro di preparazione che l’artista intraprendeva prima di giungere alla realizzazione dell’opera al fine di sfatare quel diffusissimo luogo comune che è spesso associato all’arte astratta o all’arte concettuale e che si può riassumere con l’affermazione: «questo lo so fare pure io».

In effetti, chiunque abbia anche solo una superficiale conoscenza dell’arte astratta, sa perfettamente che questo genere di opere, a partire da Kandinsky e Mondrian, non è il frutto di un momentaneo e improvviso impulso creativo dell’artista, ma il risultato di un’elaborazione concettuale superiore che funge da medium tra l’immagine reale, fisica, dell’oggetto, e la sua rappresentazione artistica, in cui è l’universo emotivo e intellettuale dell’artista a descrivere e raffigurare l’oggetto. Afro stesso descrive perfettamente il suo lavoro artistico in questo modo: «I miei sentimenti più profondi, i miei ricordi, i miei giudizi sulle cose, le mie insofferenze e persino i miei errori e terrori si condensano nell’andamento di una linea, nella luminosità di un tono»; il suo lavoro è quindi il risultato fenomenologico di un’esperienza più emotiva che sensoriale. Eppure, nonostante il grande lavoro introspettivo, emotivo e intellettuale che vi è dietro a un’opera di arte astratta, la tentazione di giungere alla conclusione che anche noi saremmo stati degli ottimi astrattisti è molto forte.

La mostra, in due piani di esposizione, intende smentire questo pregiudizio e lo fa attraverso l’esposizione dei disegni preparatori che l’artista eseguiva, affiancati spesso, ma non sempre, all’opera finita, così da mettere in evidenza le linee cancellate, ricalcate, rifinite e perfezionate dei disegni e svelare la meticolosità dell’opera di Afro, la sua lunga ricerca verso la “giusta linea” da eseguire.

Un bellissimo e completo esempio di questo lungo lavoro concettuale è fornito dai disegni e dagli acquarelli del dipinto “Il ragazzo con il tacchino”, esposti a fianco della tela originale del 1954 proveniente dal MoMa. L’episodio del ragazzo con il tacchino, come rivela lo stesso Afro, deriva da una personale esperienza infantile: la visione di un ragazzo di campagna che strangolava un tacchino, scena che appare evidente anche nel quadro, una tela lontanamente ispirata dalle esperienze cubiste e in cui si scorgono distintamente un viso sorridente e una mano in corrispondenza della gola di una figura chiaramente identificabile con un tacchino. L’opera trasmette con inquietudine un senso di gioco, di leggerezza e di giocosità uniti a un’impressione di orrore e violenza, quel misto di innocenza e crudeltà proprie della genuinità infantile, sensazioni rafforzate dalle scelte cromatiche basate quasi interamente sulla tonalità del rosso, colori caldi e violenti che suggeriscono un clima di festa e insieme di brutalità, unite a una macchia scura, sul blu, da una lato, quasi a voler evidenziare la zona d’ombra, l’oscurità, delle attitudini umane.
 


Il primo schizzo, a inchiostro blu e di piccole dimensioni, è l’origine spontanea, lo scheletro, dell’opera; qui il tratto è più libero e istintivo, è l’emergere del ricordo. Nel secondo e nel terzo, l’immagine è più grande e il tratto più marcato, più controllato e ponderato, inoltre, l’inchiostro inizia a fungere da pittura e nascono anche le prime decisioni circa le tinte, i pieni e vuoti del dipinto. Finalmente si giunge al disegno preparatorio vero e proprio, un disegno ad acquarello e carboncino in cui anche i colori iniziano a essere definiti. In questi disegni si capisce come il lavoro di Afro sia un lavoro di «accumulazione», come la stessa curatrice Barbara Drudi scrive nel catalogo, durante tutte le fasi del suo lavoro Afro passa da uno scheletro a un corpo attraverso l’elaborazione e la formalizzazione di un pensiero originario che prende forma.

Il taglio che si è voluto dare alla mostra, così centrata sul disegno preparatorio e sul processo elaborativo, è sicuramente un’idea molto intelligente per trattare l’astrattismo. Anche decidere di sviluppare quest’idea attraverso l’opera di uno dei massimi esponenti del genere a livello internazionale, quale Afro è stato, è indubbiamente un’iniziativa lodevole. C’è comunque da dire che per una mostra in occasione del centenario della nascita dell’artista, personalmente, mi sarei aspettata molto di più.

L’esposizione risulta un po’ scarna nell’insieme, la visita non richiede più di mezz’ora o al massimo quaranta minuti, ed è inoltre priva di “effetti speciali”, di almeno un’opera simbolo o un disegno veramente notevole che possa dare l’idea di “mostra da celebrazioni”: è quindi decisamente inferiore alle aspettative che si possono avere sentendo parlare di esposizione per il centenario. Un modo sicuramente migliore per festeggiare questa ricorrenza può essere, ad esempio, quello di recarsi alla vicina GNAM che ospita nei suoi spazi la collezione Brandi, molto più ricca e significativa, soprattutto perché proprio Cesare Brandi fu il principale “sponsor” dell’artista; naturalmente anche vederle entrambe sembra un’ottima soluzione.

Altra nota non positiva è la mancata indicazione dei prestatori; solo guardando il catalogo si può conoscere la provenienza delle opere in mostra, quasi tutte peraltro provenienti da collezioni private, una sola dal MoMa di New York, “Il ragazzo con il tacchino”, e un’altra proveniente dalla Fondazione Archivio Afro. Il dubbio che sorge spontaneo è se effettivamente sia esistito un progetto chiaro e specifico circa questa mostra o se essa non sia il risultato migliore che si potesse ottenere in poco tempo e con risorse limitate a seguito dell’annullamento dell’altra annunciata mostra su Mimmo Rotella.

Il biglietto è di 8€ intero o 7€ ridotto, forse leggermente sproporzionato rispetto all’offerta, ma una cifra comunque investibile, magari al posto di un cinema, per riempire una domenica di passeggiata nel verde di villa Borghese.

 

Afro. dal progetto all’opera. 1951-1975
Dal’11 ottobre 2012 al 6 gennaio 2013 presso il Museo Carlo Bilotti, Roma.

Per ulteriori informazioni:
http://bit.ly/SmqCal

“Mi chiamo Irma Voth” di Miriam Toews

«Il mondo sembrava spettacolare e bello e calmo, come il sacro cuore di Gesù, avrebbe detto mia madre. Il mondo che stavamo lasciando. Ma immagino che il mondo faccia sempre così. Ti risucchia dentro facendosi bello proprio nel momento in cui sei pronto per andartene».

È Irma che parla, Irma che se ne va perché sceglie di essere libera. Pagando un prezzo altissimo, ma consapevole di iniziare a vivere. Per tornare, anche, alla fine, ma diversa, migliore e magari pure felice. Parto dalla fine, che poi è un inizio; una fine che nasce da un incipit scioccante: «Jorge ha detto che non sarebbe tornato finché non imparavo a essere una moglie migliore». La sua storia, in mezzo. Temi forti raccontati in prima persona senza drammi, senza eccessi, con un filo di ironia che rende più piacevole e leggera la narrazione.

Edito da marcos y marcos, Mi chiamo Irma Voth, di Miriam Toews, è un romanzo che cattura, particolare e insolito per ambientazione e qualità della scrittura.

Siamo all’interno di una comunità mennonita, Irma parla messicano, inglese e basso tedesco e non sopporta le regole rigide che la circondano, le consuetudini della sua comunità. Vittima di un padre violento e possessivo, chiude con lui ogni rapporto quando decide di sposare un messicano non mennonita contravvenendo alle regole, sperando di iniziare con lui una nuova vita. Delusa dal suo uomo che le imputa di essere una cattiva moglie (è invece lui a essere un pessimo marito, tanto da abbandonarla dopo pochi mesi di convivenza), Irma si ritrova a fare da interprete all’attrice tedesca Marijke, dopo l’arrivo nel deserto di una strampalata troupe cinematografica.

«Spero che un giorno qualcuno mi chiederà dov’ero quando ho fumato la mia prima sigaretta, perché gli potrei dire bè, sai com’è, ero sul letto di mia zia e mio zio con un’attrice tedesca di quattordici anni che aveva un figlio di ottanta. Niente di che».

Si apre per lei un mondo nuovo, che seduce anche sua sorella Aggie, come lei donna pensante e dunque scomoda, che decide di seguirla. Ma nemmeno quello è il loro posto, sebbene affascinante e interessante. Irma allora, coraggiosa e inquieta, desiderosa di essere semplicemente donna, decide di lasciare Diego, il suo film e le regole di quest’altro mondo (che in fin dei conti non era poi migliore per costruirsi una personalità libera ma concreta), alla volta di Città del Messico. Insieme a Aggie e alla neonata Ximena, che la madre ha appena partorito e che affida alle sorelle maggiori per sottrarla a una vita impossibile, iniziano le dis-avventure di questo terzetto assortito e per certi versi comico: Irma si improvvisa doppiamente mamma, cambiando pannolini alla piccola ed emozionandosi quando Aggie diventa improvvisamente grande sporcandosi di sangue.

Originale e realistico allo stesso tempo e sicuramente molto autobiografico, in questo romanzo la Toews riesce a indagare i dolori e gli interrogativi della vita di tutti i giorni, senza la pretesa di dare delle risposte, soltanto con la speranza di portarci a riflettere. E lo fa con un modo di raccontare così vicino al parlato e all’immediatezza, mantenuto in modo eccellente dal traduttore Daniele Benati, che riesce a rendere la narrazione particolarmente fluida e avvincente. La forza di una donna e la spinta della libertà in un romanzo che merita di essere letto, anche dagli uomini.


(Miriam Toews, Mi chiamo Irma Voth, trad. di Daniele Benati, marcos y marcos, 2012, pp. 304, euro 17)

[TFF30] Sintesi della sesta e settimana giornata del Torino Film Festival 2012

La pioggia ormai incessante in quel di Torino spinge a chiudersi in sala fino alla fine del giorno, complice un programma giornaliero sulla carta assai interessante.

Si parte con l’anglocubano Una Noche, interamente ambientato a L’Avana ma girato dalla giovane londinese Lucy Malloy. Triste storia di fuga verso Miami da parte di tre teen-ager assai diversi tra loro. Specchio tanto della quotidianità della capitale cubana quanto della nevrosi, dell’ansia e dell’insoddisfazione dei giovani isolani, il film affascina per uno stile registico coerentemente nevrotico e disordinato. Punti di vista insoliti e montaggio frenetico restituiscono l’elettricità negativa che permea la storia, con ambienti e atmfosfere curati ben più di una storia fragile e scarsamente approfondità e personaggi caratterizzati più dai visi ed espressioni dei tre sorprendenti non attori protagonisti che non da un soggetto eccessivamente lineare. La Malloy però ha talento, idee e personalità, e la giovane età e l’esperienza danno la sensazione che sia opportuno tenerla d’occhio.

L’egiziano Baad El Mawkeaa si porta dietro un carico d’interesse non da poco, essendo tra i primi esempi di cinema di finzione radicato profondamente nelle vicende della recente rivoluzione egiziana. Reem è una pubblicitaria, donna indipendente e progressista, tanto da sembrare per modi e aspetto più europea che egiziana. Incontra per caso Mahmoud, un allevatore di cavalli che ha partecipato alla “Battaglia dei cammelli” in piazza Tahrir, in cui uomini a cavallo seguaci di Mubarack attaccarono i manifestanti. Emarginato e deriso, Mahmoud è personaggio solo apparentemente sempliciotto e superficiale. L’incontro tra i due all’insegna della passione porta Reem a scoprire un mondo a lei sconosciuto, dominato da fraintendimenti, legato a doppio filo alle contraddizioni del paese e della rivoluzione stessa. L’opera soffre enormemente della stringente attualità e, pur volendo utilizzare le armi del cinema e del racconto di finzione per indagare ed esplorare le dinamiche sociali in atto, finisce solo per mettere continuamente in bocca ai personaggi proclami e punti di vista, trasformando il tutto in un, seppur equilibrato, manifesto del cambiamento. Personaggi interessanti su carta vengono scarsamente approfonditi ed interagiscono tra loro con dinamiche sbrigative e incomprensibile facilità. Un vero peccato e il segnale di quanto il cinema abbia sempre e comunque bisogno di raccontare storie di singoli in un contesto globale per poter comprendere a fondo quest’ultimo.

Pochi commenti possono restituire l’entusiasmo e la fascinazione che è in grado di generare la folle opera dell’ungherese György Pálfi. Final Cut: Ladies & Getleman è il mash-up filmico definitivo o quantomeno la testimonianza di quanto il suddetto approccio possa riservare sorprese e potenzialità assolute. Immaginate una storia d’amore raccontata utilizzando spezzoni di centinaia di film, tra i più amati della storia del cinema, una storia vera, fatta di gesti, momenti e soprattutto emozioni, ebbene questo è lo strardinario lavoro prodotto da Béla Tarr. Indescrivibile e commovente, il cinema del cinema, semplicemente geniale.

Conclusione di giornata con il dimenticabile eppure onesto progetto di animazione belga che va sotto il nome di Coulour de peau: miel. Diretto dal belga Laurent Boileau e illustrato dal coreano Jung, altro non è che la biografia di quest’ultimo, bimbo coreano adottato da famiglia belga. Storia commovente ma didascalica, animata con garbo e stile. Un tratto forte e deciso misto a dettagli accennati e una leggerezza generale di grande impatto offrono una interessante quanto naturale fusione della solida tradizione dell’illustrazione belga con le peculiarità dell’animazione coreana.

In mattinata a dire il vero si è visto, ma lo si vorrebbe aver rimosso, anche Sun Don’t Shine dell’americana Amy Seimetz e il meglio che si può dire è che Malick e Casavettes andrebbero lasciati in pace. Film assolutamente indifendibile in cui si salva solo la magnifica apparizione animata del titolo.

Domani è un altro giorno e si spera migliore.


Si comincia invero come peggio non si potrebbe, rimpiangendo perfino quel Sun Don’t Shine disprezzato il giorno prima.

Inutile giraci intorno cercando un modo sobrio per dirlo. Pavilion di Tim Sutton è il peggior film visto in questo festival. Risulta persino difficile definirlo brutto o mal fatto, perché tutto ciò presupporrebbe un’identità, un’idea, un percorso narrativo, magari sbagliati ma presenti. Invece no, Pavilion è opera grandemente inutile perché inconsistente. Storia di teenager dell’America di provincia che bivaccano tra skate, BMX e qualche tuffo nel lago, parole poche e poco interessanti, sguardi e gesti di sconcertante vuotezza. A peggiorare il tutto un’estetica e un girato che tentano la carta del distacco e dello sguardo esterno senza cogliere mai nel segno. Difficile immaginare una peggior vanificazione dello spirito cassavettiano e del senso di libertà e identità insiti nell’andare in skate o in bici per molti ragazzi americani. Indifendibile e urticante.

A proposito di L’etoule du jour si potrebbe direche non nel solo Leos Carax vive un certo approccio onirico e surreale del cinema francese. Sophie Blondy crea un prevedibile dramma permeato di malinconia e decadenza. Prevedibile, certo, ma non per questo meno efficace. L’ambientazione circense è il terreno ideale per echi felliniani e rimandi metaforici alla teatralità del cinema e della vita stessa. Iggy Pop coscienza di un Denis Lavant pagliaccio malinconico farebbero pensare al capolavoro che non è perché stancante e di emotività data per scontata e accennata. Un peccato, dato lo stile impeccabile e i momenti onirici in riva al mare di grande impatto. Opera vitale, comunque, sebbene non molto personale, permeata però da un attitudine da cinema degli albori che affascina e farebbe assai bene alla contemporaneità.

Quando ci sono di mezzo i Monty Python tutto fa brodo e se anche A Liar’s Autobiography – The Untrue Story of Monty Python’s Graham Chapman non è il loro nuovo film, averli quasi tutti riuniti e veder narrate le fintevere gesta di quello che fu probabilmente il più folle e maledetto tra di loro, emoziona e colpisce. Esperimento di animazione multipla e differenziata, il film racconta e inventa episodi di nonsense assoluto e anarchica comicità british. Non certo indimenticabile ma operazione nel suo complesso stimabilissima.

In serata arriva uno dei film più attesi da chi scrive e non solo: Shadow Dancer. L’attesa era tanta per il ritorno alla fiction cinematografica di uno dei più apprezzati documentaristi degli ultimi anni, quel James Marsh autore dell’incantevole Man on Wire e del sorprendente Project Nim. Capace come pochi di immergere lo spettatore nelle storie, al punto tale da far dimenticare di assistere a un opera documentaria, Marsh imbastisce un thriller politico con l’IRA da un lato e i servizi segreti inglesi dall’altro, nel mezzo una donna con sensi di colpa, personalità non strutturata e un forte amore per il figlio a sorreggerla. Parte lento e attento, prendendosi tutto il tempo necessario, indugia su visi e piccoli gesti, costruisce un atmosfera e delinea psicologie. Un dramma dà inizio a tutto e la ferita aperta conseguente lambisce tutto il film donandogli una perenne aura dolente. Purtroppo si risolve tutto qui, nel preparare magnificamente una salita di tono e un accumulo di tensione che semplicemente non ci sono e il dispiegarsi di una storia che non decolla mai, accennando personaggi stereotipati neanche poi sufficentemente delineati. Un soggetto anonimo e sostanzialmente mal scritto vanificano il chiaro intento di offrire una personale e autoriale via al thriller politicospionistico. Una via che non trova sbocco, smarrita come è sugli stessi sentieri che invece rendevano i documentari di Marsh così unici. Senza dubbio la più grande delusione di questo festival.

Indecisi se porre fine qui al nostro festival o recuperare qualche film smarrito il giorno successivo, un fortissimo raffreddore decide per noi, dunque come ogni buon film arrivano i titoli di coda su di un festival eccellente e su cui si tornerà in sede di commento, ma questa è un altra storia.

The End

A tu per tu con Jonathan Morali, leader dei Syd matters

I Syd matters, francesi, sono attivi dal 2001 e hanno quattro album sulle spalle. Poco conosciuti in Italia, meriterebbero una diffusione molto più ampia. Per saperne di più, iniziate ascoltando “I Might Float”, non c’è bisogno di aggiungere altro.

A Cagliari, questa estate, ho incontrato casualmente Jonathan Morali, il cantante, che ringrazio ancora per la disponibilità. Dopo uno scambio di e-mail, ho deciso di fargli qualche domanda per Flanerí.

Prima di tutto, Jonathan, una curiosità: è la tua prima intervista per una rivista italiana? Sarebbe un grandissimo onore per noi!

Sì, se la memoria non m’inganna, è la mia prima intervista italiana. È un onore per me.


Una domanda che ti avranno fatto tantissime volte: cosa significa Syd matters?

Syd matters è un riferimento a Syd Barret, il primo cantante dei Pink Floyd. Lo ascoltavo molto quando iniziai a pensare al nome del mio progetto. «Syd matters» significa «Syd è importante». Registrò pochi singoli e un solo album con i Pink Floyd, ma la sua influenza è riscontrabile lungo tutta la carriera della band.


Sono passati due anni dal vostro ultimo album, Brotherocean, e un tour mondiale: com’è andata?

Il tour di Brotherocean è stato il più lungo di tutti. Abbiamo iniziato pochi mesi prima dell’uscita dell’album e ci siamo fermati solo lo scorso marzo. Due anni in giro per il mondo. È stato fantastico, ma anche un po’ stancante.


Dopo Brotherocean, quale direzione prenderanno i Syd matters?

Sento il bisogno di esercitarmi di più, per essere un musicista e un compositore migliore. Forse è arrivato il momento di prendere qualche lezione… Sono un autodidatta: la cosa è divertente, ma ha anche i suoi limiti. Ora come ora penso di dover migliorare ancora prima di rimettermi a comporre.


Cos’è cambiato da A Whisper and a Sigh a Brotherocean?

Penso che la mia idea di musica non sia cambiata. È come se avessi provato a scrivere la stessa canzone per dieci anni. Una frase che ho provato a pronunciare correttamente per tanti anni. Molti musicisti hanno bisogno di cambiare stili e modi di cantare per esprimersi… altri scavano a fondo in un’unica idea. Io scelgo la seconda.


Le canzoni dei Syd matters sono complesse, sia nelle armonie sia nelle strutture: esistono dei limiti nella musica pop?

Ciò che definisce la musica pop è che non ci sono regole. È musica per amatori, per non specialisti. Teoricamente puoi fare quello che vuoi, purché sia accessibile. Se a volte è complessa nelle strutture e nelle armonie, ottimo, ha qualcosa in più, ma deve rimanere fluida e semplice da ascoltare.


Scrivere in inglese: scelta o necessità?

Non sono mai stato estroverso, quindi per me è sempre stato impossibile cantare nella mia lingua. Sono troppo timido per farlo. Cantare in inglese mi permette di dire quello che non riuscirei a dire direttamente in francese.


È difficile per un artista francese, che scrive nella sua lingua, essere notato dalle etichette discografiche?

Sì, è difficile, ma è ancor più difficile per un artista francese che canta in inglese! Ora va meglio, ma quando ho iniziato, molti critici dicevano: «Sì, non è male, ma perché canta in inglese? Non scriveremo nulla su di lui fino a che non scriverà in francese…»


Qual è la situazione della musica alternative/pop francese? Ci suggerisci qualche gruppo?

Ok, sono miei amici quindi non sono molto oggettivo ma… H-Burns e Shore Billy sono pazzeschi, Thousand è il migliore, e Bertrand Belin è il mio cantante preferito in lingua francese.


Avete suonato in Italia una volta, a Venezia, nel 2009. Com’è stato?

Abbiamo suonato durante la Biennale. È stato uno dei momenti più divertenti e strani della breve storia dei Syd matters. Suonavamo delle versioni “hippie” delle canzoni che poi avrebbero fatto parte di Brotherocean, eravamo tutti vestiti di bianco con due ballerini nudi che ci ballavano attorno… è stata dura rimanere concentrati. Ci siamo divertiti molto.


Grazie mille, Jonathan, à bientôt!

 

“Cosimo e Nicole” di Francesco Amato

Durante il G8 di Genova Cosimo (Riccardo Scamarcio) soccorre Nicole (Clara Ponsot), giovane francese ferita alla testa. I due si innamorano in fretta, rimangono insieme, iniziano a lavorare per Paolo (Sassanelli) che organizza concerti in città. Quando però tutto sembra perfetto qualcosa arrivare a turbare la quiete: mentre allestiscono un palco, un operaio guineano precipita schiantandosi al suolo. Per sfuggire alla polizia e all’inevitabile sequestro della struttura, Paolo convince i ragazzi ad aiutarlo a nascondere il corpo. Sarà l’inizio di una crisi per Cosimo e Nicole, con lo spettro dell’africano a incrinare il loro rapporto.

Ha più pregi che difetti, Cosimo e Nicole, opera seconda di Francesco Amato, fresco vincitore nella sezione Prospettive Italia dell’ultimo Festival del Film di Roma. Partendo dai difetti: pecca di giovanilismo, di esaltazione retorica delle situazioni dei vent’anni, ostenta ciò che è stato già visto più e più volte, esalta per l’ennesima volta un’Africa lontana come terra di spontaneità e purezza di rapporti. I due protagonisti fanno l’amore con passione, sono giovani e belli, bevono, fumano, si aggirano semi vestiti in ambienti alternativi, vivono in una baracca abbandonata in riva al mare che più bohemienne non si può, sono liberi di una libertà stucchevole. Affidano le loro considerazioni all’inutile voce fuori campo, urlano lo spirto guerrier che entro gli rugge a caso, così, tanto per passare il tempo.

Però, il film di Amato non è banale. Ha dei meriti che consentono di soprassedere sulle ingenuità della gioventù celebrata. Pur narrando una storia privata e chiusa, come già il titolo indica, dice molto sull’attualità, partendo da Genova e arrivando all’Europa Unita, passando per le morti bianche, l’immigrazione clandestina, il lavoro nero e i recentissimi incidenti di palco in Italia e in Europa (Radiohead, Jovanotti, Pausini), e lo fa bene.

Pur scivolando in alcune debolezze, soprattutto sul piano della sceneggiatura (dialoghi superficiali, coincidenze inverosimili, improbabili occasioni di lavoro), il film si mantiene per tutta la durata. Sembra chiaro che la fascia di pubblico cui si vuole rivolgere è quella dei più giovani. Il contesto da centro sociale in cui tutta la vicenda è calata, la musica alternativa (presenti sullo schermo Marlene Kuntz, Bud Spencer Blues Explosion, Verdena e Afterhours) nelle scene dei concerti molto ben girate, il sesso tra i due giovani protagonisti torbido ed esplicito a sufficienza, la presenza di Scamarcio, il fascino della giovanissima e convincente Ponsot, conferiscono a Cosimo e Nicole quegli attributi per poter diventare, se distribuzione e pubblico saranno complici, un piccolo cult generazionale dotato quantomeno di un minimo di spessore.


(Cosimo e Nicole, regia di Francesco Amato, 2012, drammatico, 101’)

“Il peso della grazia” di Christian Raimo

Scrivere racconti non è un affare minimo. Ogni creatura, anche alta poche righe, deve avere un corpo perfetto, proporzioni calibrate ai battiti. Deve appagare sguardi corti, anche un soffio di centimetri. Insomma, minuscolizzare è un atto coraggioso. Niente affatto leggero.

Ma è altrettanto vero che un romanzo è pur sempre un romanzo. Malato di bellezza tautologica. È il miracolo, la grande avventura che prende forma. Il primo appuntamento con se stessi e con chi chiamerà “autore” quel nome qualunque sdraiato su un foglio. Un appello incontenibile, a cui ha risposto anche Christian Raimo, traduttore, procreatore di articoli e raccolte di racconti per minimum fax. E adesso, anche romanziere. È questo Il peso della grazia (Einaudi), quello che cade sul suo esordio?

Sicuramente è questo il titolo della sua storia. Quella in cui cammina Giuseppe, ricercatore di fisica applicato da anni a uno studio che promette di andare in fumo. Fatalmente uno studio sulle fiamme. La sua idea è stabilizzare, equilibrare un fenomeno nato per muoversi e non farsi imbavagliare. Turbolento, premiscelato. Ma è possibile architettare il fuoco? Anche quello che non brucia e rosseggia sotto pelle? Quello battezzato mille volte in mille isterici modi diversi?

Il progetto comunque rallenta. Niente fondi, gironi universitari così loffi e macchinosi da non saper essere nemmeno inferno e a Giuseppe non resta che reinventarsi. Prima come precettore e poi, quando in quella stessa casa scarseggiano i soldi per le ripetizioni, si propone come governante per tutta la famiglia, etichetta appena più nobile di quella di “sguattero”, addetto alle pulizie che ha ben poco da dire. Se non combinare il bicarbonato all’aceto e aspettare che la chimica imponga il suo verbo.

Un’esistenza nebulosa, pendolante tra i binari di un treno svogliato. Peppe ha una famiglia scomoda e per questo dispersa; non ha amici, eccetto Lubo, un polacco residente ai margini. Delle parole che sbaglia, della vista che si acceca. Della vita che non gli spetta. Che lo lascia sgobbare per ore senza numero, in un limbo dove le garanzie non riesce a immaginarle. Peppe non ha compagnia, eccetto una fede cattolica in cui si rifugia, ma che, come una coperta di lana vecchia, comincia a pungere i polsi, a irritare la pelle e anche i pensieri. Perché gli altri sono un problema. I loro vestiti, i loro sapori, la flanella banale dei loro gesti. Quella comunità che non riesce a farsi “ecclesia”. Che forse è solo una porta socchiusa, davanti a cui subodorare un po’ di salvezza, nel purgatorio di un’attesa troppo lunga. La grazia non arriva con la preghiera. Sbuffa, arranca senza ingranare le marce dovute.

E poi invece spunta di notte, in un reparto oculistico, in cui accompagna Lubo in seguito a un infortunio. La grazia ha gli occhi di Fiora, il medico in cui s’imbatte. La grazia ha la forma delle sue mani, delle vene che pulsano sotto il collo febbrile. L’unico impatto che riesce a distrarlo, un asteroide di carne a cui non sa resistere.

Perché in fondo l’amore è uno scontro di molecole. Turbolente, mal miscelate. È il continuo tentativo d’imbrigliarle e di ferirsi con le schegge, con gli sforzi evaporati. Nel caso di Peppe è una via di fuga dal grigiore spalmato su ogni giorno. Ma anche la voglia di esserci, di riconnettersi, il palmo teso verso una realtà che altrimenti si opacizza. Che resta sfuocata, perché ha poco da offrire. E da definire.

Lui e Fiora sono entità fragili, ondeggianti su una Roma dissestata, fatta di discariche e muri graffiati senza troppe speranze. L’altro è un fantasma dissolto nelle banchine di una stazione. E riuscire a guardarlo, a strapparlo dall’aria e differenziarlo, è la sfida orticante dei nostri tempi. In cui vortichiamo tra turbini di persone inesistenti. Mollemente confuse tra ciò che scansiamo. Per poi lamentarci di essere soli. Peppe si accorge di Flora, smette quindi di volersi difendere e il romanzo fluisce come una superstite storia d’amore, un algoritmo impossibile sotto un cielo screpolato. Perché il senso è accettare l’Amore come mostro che nutre e poi affama. E infine decide di mangiarci, di finirci come un pasto spogliato.

Una prova in cui Raimo getta tutto se stesso, la massa spessa e nervosa della sua scrittura, delle sue metafore possenti e di un’ironia impietosa. Le prime due pagine sono un esempio straziante della sua visione, un davanzale da cui affacciarsi per intuire il panorama di quello che verrà. Che affonda le dita sul lettore. La pioggia di un debutto in cui l’autore si tuffa senza risparmiar-ci/si. Con un peso ben poco aggraziato. Ma incapace di andarsene dopo l’ultima scena.


(Christian Raimo, Il peso della grazia, Einaudi, 2012, pp. 464, euro 21)

[TFF30] Quinta giornata del Torino Film Festival

La pioggia imperversa ininterrotta su Torino e la cosa potrebbe anche incidere pericolosamente sulle scelte di programma, considerando gli spostamenti da zona Mole a zona Stazione Porta Nuova non esattamente immediati. Non ci si fa però spaventare e ci si bagna e non poco. Con risultati qualitativi neanche sempre all’altezza dell’umidità assorbita, ma quel che di bello c’è val bene un po’ d’acqua ed è il caso di Good Vibrations.
Belfast a cavallo degli anni ’70 e ’80, non il miglior posto dove vivere. Gente pronta a uccidere e distruggere una città in nome dell’appartenenza religiosa, bombe e pallottole come pane quotidiano, tanto da render strade e locali deserti. Eppure anche in una situazione così drammatica qualcuno non si dà per vinto ed inizia a sognare di cambiare le cose, non con la politica, non con il fuoco ma con la musica. Good Vibrations è la vera storia di Terry Hooley, strampalato dj irlandese che un bel giorno decise di pacificare le persone vendendogli musica nel bel mezzo di Great Victoria Street, la celeberrima “via delle bombe”. Appassionato di musica reggae, una sera quasi per caso in un vecchio locale scopre il punk e comprende che quella è la via per dare vita ad una alternativa possibile. Da lì inizierà a incidere dischi di band locali, organizzare concerti e promuovere quella musica in tutto il Regno Unito, portando al successo gli Undertones e al culto gli Outcast.
Opera di grana grossa ed emozioni forti, spreme ogni analogicità possibile da una pellicola dai toni caldi in cui sono impresse emozioni e passioni irrefrenabili. Raro esempio di film sulla musica con il tiro giusto, con la musica protagonista ma non assoluta, strumento e veicolo di vite alla ricerca di identità e libertà. Ascesa, caduta e risalita di un uomo, delle sue azioni ma soprattutto del suo spirito, la storia di una attitudine che abbatte barriere e unisce. Tutto genuinamente e dannatamente rock’n’roll. Uno dei migliori film visti in questo festival.

Meno appassionante, e segno di quanto oggi il Regno Unito sappia convincere ben più degli americani, è il successivo The Sessions.
Mark O’Brien è un poliomelitico non si dà per vinto e prova a vivere una vita normale, studiando, laureandosi e scrivendo articoli e poesie. Ma non basta, anche perché la sua vita realmente normale non potrà mai esserlo, dato che è costretto a vivere in un polmone d’acciaio e che è immobile dalla testa in giù. Un giorno si innamora di una una bella e giovane assistente e si dichiara, ma lei scappa via. Da qui il desiderio di scoprire e conoscere il sesso prima che sia troppo tardi. The Sessions è la storia dell’avvicinamento, delle nevrosi e delle paure legate al sesso da parte di chi non ha esperienza o non riesce a relazionarcisi serenamente. Pregio principale del film è il riuscire a trattare le problematiche inerenti il sesso quasi prescindendo dalla disabilità del protagonista, trattando patologie psicologiche potenzialmente appartenenti a chiunque. O’Brien, qui interpretato da un quasi irriconoscibile John Hawkes, si affida ad un “surrogato sessuale” per provare quel che da solo probabilmente non potrà mai, nonostante sia egli capace di dare ben più di quanto crede alle donne con cui entra in contatto.
Nonostante la tematica forte trattata con garbo e leggerezza,The Sessions soffre però dei principali difetti di un ormai prevedibile e abusato cinema indipendente americano a uso e consumo del Sundance Film Festival, desideroso di sospendersi tra sorriso e pianto più per esigenza che per scelta, non riuscendo mai a raggiungere la densità e l’intensità necessaria. Un buon film incapace però di segnare e commuovere quanto potrebbe.

La pioggia nel frattempo sembra dare un po’ di tregua, ne approfittiamo per spostarci di sala. La tregua però dura poco e ci si bagna un bel po’ e in tal senso l’ambientazione interamente al coperto del film successivo pare quasi una presa in giro.
Noto ai più come attore di serie tv, tra tutte Big Love e American Horror Story, e di cinema per quel gioiellino che fu The Last Days Of Disco, Matt Ross realizza il suo primo lungometraggio e sceglie una via impervia. 28 Motel Rooms, come da titolo, è interamente ambientato in camere d’albergo, luoghi dove i due unici protagonisti consumano quella che dapprima è una semplice e irrefrenabile passione ma che ben presto diviene amore. Amore sotterraneo perché i due coltivano parallelamente proprie storie ufficiali che crescono e si alimentano fino a raggiungere soglie difficilmente abbattibili.
Matt Ross coglie il segno nello scegliere i due attori su cui tutto si poggia, bravi perché estremamente espressivi, con smorfie e sorrisi abili più di tante parole a descrivere sentimenti ed emozioni. Parole però ve ne sono inevitabilmente molte in un film del genere che si inerpica nel voler raccontare e indagare le mille problematiche di un rapporto travolgente e indistruttibile seppur racchiuso e limitato. Parole non sempre al posto giusto e troppo poco inframmezzate da momenti di un lirismo visivo tutt’altro che trascurabile. Se solo il buon Ross avesse osato di più, facendo parlare le immagini e l’eros e l’affettività in esse contenute, il risultato sarebbe potuto essere ben migliore, cosi resta un lavoro con spunti di interesse ma tutt’atro che a bersaglio.

A conclusione di una giornata così giunge benedetta la sezione Rapporto Confidenziale, pullulante di thriller, horror e intrattenimento.
Altro esponente del nascente filone “Block-Movie”, l’irlandese Citadel è un interessante esempio di come il Regno Unito di questi tempi pulluli di autori in grado di creare un cinema di intrattenimento funzionale e personale.
Quartiere periferico in dismissione. Tutti fuggono via da una desolazione prossima a scenari post-bellici, i pochi che restano sono vittime di attacchi e violenza, come lo sventurato Tommy che, proprio a causa di un’aggressione, perde la moglie incinta subito dopo che ha dato alla luce la loro bambina. Un incidente che segna la psiche di Tommy, divenuto agorafobico e tendenzialmente psicotico, legato alla vita ormai solo dal desiderio di preservare la propria piccola. Il tentativo di lasciare quelle lande sub-urbane è spesso reso difficile dalle sue paure e da situazioni prossime a scenari da Distretto 13: brigate della morte di John Carpenter. Tutto è assai diverso da come sembra, però, e il film assume con equilibrio i tratti del soprannaturale dando vita ad una molteplicità di spunti e fusione di generi giostrati spesso con personalità e decisione. Molte le scene efficaci ad alto tasso di tensione, non meno però anche situazioni rivedibili e tirate via con eccessiva fretta, specie nella parte finale. Opera non riuscitissima, ma ennesima conferma della vitalità ed imprevedibilità del cinema di genere del Regno Unito.
Si torna a casa bagnati, tutto sommati felici e decisamente raffreddati, consapevoli che la giornata successiva sarà densa e pregna, tra un cubano, un egiziano, un ungherese e un belga.

“I sette pazzi” di Roberto Arlt

Los siete locos (I sette pazzi): già pensarlo un titolo così è a suo modo un’avventura. Roberto Arlt, scrittore argentino (Buenos Aires 1900-1942) che alcuni forse esagerando considerano fra i massimi del grande paese sudamericano, non ha goduto tuttavia di grande fortuna in vita, e per molti anni è rimasto fuori dai circuiti più accreditati e della critica e del pubblico. Nel periodo di maggiore diffusione della romanzeria sudamericana in Europa, fra gli anni ’60 e ’70, Arlt non era fra gli scrittori più frequentati. Gli si preferivano autori e lavori molto più corrivi e sentimentali – ma vero è che dopo si è fatto di peggio (i nomi li sanno tutti, la Allende, Mastretta, Sepulveda…).

Invece Arlt è uno scrittore dall’immaginazione in perenne cortocircuito, spiraliforme, al servizio di personaggi border-line che si arrotolano su se stessi e sanno raccontarsi come pochi. Almeno così accade a Erdosain, il più in vista dei sette pazzi di questo che è considerato il romanzo fondamentale (1929) dello scrittore e giornalista di Buenos Aires. Già stretto nell’angustia di una vita ai margini, senza un soldo e incline a rubare fino a quando si caccia nei guai, Erdosain è capace però di vivificarla a suo modo immaginandosela sempre peggio. Con un certo talento, bisogna dire, per scenari fra il grottesco e il surrealista (senza disdegnare il macabro), in virtù di una fantasia poco disciplinabile e cedevole piuttosto a un’iconografia nera.

«All’improvviso ebbe la sensazione di camminare sulla sua stessa angoscia trasformatasi in tappeto. Come i cavalli che, sventrati da un toro, s’ingarbugliano nelle loro stesse budella, a ogni passo che dava i polmoni restavano senza sangue».

Non mancano le goffaggini, è evidente, e qualche scivolata in un immaginario più convenzionale dovuta – lo ricorda nell’appassionata prefazione Julio Cortàzar, peraltro convinto, come del resto Borges, che I sette pazzi sia un capolavoro– alla formazione quasi avventizia di Arlt. Ma i passi involuti dicono anch’essi benissimo il carattere tortuoso che traccia la vita di Erdosain. Lui e i suoi amici – altrettanto sgangherati – per un po’ non fanno che chiacchierare (sembra di stare in un romanzo di un Bolaño, come dire, “fulminato”); ma poi provano a uscire dalle secche di un’esistenza orribile nella Buenos Aires degli anni ’20, nelle sue suburre di briganti e cialtroni in modo impensabile. All’epoca in Europa, ma anche altrove nel mondo, e da parti opposte, si favoleggiano “uomini nuovi”: lo fanno anche i sette pazzi. Intenzionati a mettere le basi per una rivoluzione definitiva, prendono a spunto la vita da pappone di uno di loro. E mettono su una catena di bordelli per finanziare il progetto. Il delirio è più lucido di quanto non si pensi, però: sanno che alla base dell’associazione sovversiva deve esserci l’obbedienza.

«È il metodo industriale […]. Il misticismo industriale […]. Lei crede che le future dittature saranno militari? Nossignore. Il militare a confronto dell’industriale non vale niente».

Era una secolo fa, più o meno. Alla finanza non c’erano arrivati, ma avvicinati sì.

(Roberto Arlt, I sette pazzi, trad. di Luigi Pellisari, Sur, 2012, pp. 330, euro 15)

“La fila indiana” di Ascanio Celestini

Che Ascanio Celestini avesse scelto di cestinare le narrazioni dall’interno di eventi e situazioni storiche lo si sapeva. È ormai palese da tempo che l’attore romano preferisca dedicarsi ai brevi frammenti semi-surreali di chiaro impatto televisivo. Ciò che giunge nuovo è il suo definitivo collocarsi nel teatro che ripete se stesso. Come la fatidica fila indiana di individui omologati descritta da Celestini, i suoi spettacoli si collocano uno dietro l’altro senza sostanziali variazioni di tema e registro. È così che Il razzismo è una brutta storia, spettacolo di qualche anno fa, si ricicla in La fila indiana, che quest’anno viene proposto dal teatro Augusteo in una rassegna dal nome Le parole e il potere. In tempi di crisi ci si ricicla e i vecchi spettacoli possono tornare utili anche su un palcoscenico dagli interessi solitamente diversi. È così che Celestini si mette in fila indiana. La lunga fila indiana degli attori in crisi che parlano della crisi (altrui o propria) con il linguaggio della crisi. Si parla a quegli spettatori che, evidentemente nauseati dalle istanze della fila indiana del potere, scelgono la fila indiana di quella sorta di anti-potere che in Italia fa rima con la fantomatica anti-politica. Qualcuno dovrebbe forse sussurrare che ogni potere si fonda sempre sulla sua apparente nemesi, almeno quanto si fonda su stesso. Invece il teatro di Celestini è purtroppo diventato quel piccolo moto di ripulsa che talora è necessario effettuare per dis-identificarsi con il potere che ogni giorno si finisce per esercitare. È un processo catartico di conferma interiore, più che un’acquisizione di un messaggio sconvolgente, sempre ulteriore a se stesso. Le storie sul razzismo al caffè, sulla discriminazione sul bus, sull’Africa come giardino incolto da osservare al sicuro, da una parte sembrano smascherare i tiepidi razzisti italiani, ma dall’altra danno loro un porto sicuro in cui riposare indisturbati, quello con l’insegna dei democratici, dei moderati. Celestini è purtroppo diventato un gadget dell’anti-potere, una pillola serale da assumere per rilassarsi dopo l’esercizio di razzismo quotidiano. Un meccanismo esattamente analogo al “rilassati, respira” delle televisioni che Celestini evidenzia. Non fa niente che i pezzi dell’attore sul palco siano datati, che la loro struttura si ripeta ogni volta, perennemente uguale, perché, in definitiva, le parole non contano, conta andare a vedere Ascanio Celestini e magari ostentarlo il giorno dopo al bar. Le parole e il potere, si diceva. Ma se le parole non contano, cosa rimane sul palcoscenico?

 

La fila indiana
di Ascanio Celestini

Andato in scena al Teatro Augusto di Napoli il 5 novembre 2012.

“Odissè – In assenza del padre” di Gabriele Russo

Esiste un teatro che cerca di andare oltre le regole tradizionali, invadere spazi, costringere spettatori, violentare l’immagine. Bene. Esiste poi un teatro che recita il primo teatro. In apparenza si tratta della medesima condizione, eppure c’è qualcosa di diverso. La regola trasgredita diventa ostentazione della trasgressione. La costrizione dello spettatore diviene funzionale alla sua soddisfazione. L’immagine violentata non si solleva mai dall’immagine stessa. La violenza e la lacerazione non sono altro che un modo per strizzare l’occhio al placido conformismo che formalmente vorrebbero contestare.

Questa recita della recita si nutre di concetti essenziali, eppure, se proprio volessimo porre un discrimine nel punto di passaggio dal teatro al suo doppio, forse l’aspetto più rimarchevole è la pronuncia della maledizione. L’invettiva pronunciata mette nella parola l’energia che la sua ipotetica attuazione finirà per perdere. Irrimediabilmente. La società malata in cui si vive. Il dominio della classe dirigente. La corsa verso obiettivi preconfezionati. Motivi che pervadono le vite di ciascuno. Motivi messi in catene dalla parola.

Se il teatro è allusione che sprona alla concatenazione di pensieri, è evidente che il suo ruolo sta proprio nel fornire pensieri spezzati che interroghino chi li ricomponga. La composizione dei concetti sulla scena, il loro impacchettamento in una rappresentazione che fa della violazione delle regole la propria regola, non fa che proporre un messaggio già costituito, confezionato, codificato e, in definitiva, morto. Il messaggio esplicito si esaurisce sulla scena in un intellettualistico rimando autoreferenziale. Il teatro muore nella studiata lacerazione sociale che cerca di riprodurre. È il teatro delle magniloquenti scenografie, il teatro degli abiti sapientemente lisi, il teatro dell’ostentazione di corpi che predicano sregolata violenza per incarnare la norma. Lo spettatore è stupefatto, certo. Il palco che si allunga nella platea, panche a sostituire le comode poltrone, grandi movimenti corali, registri alterni, sono parti di un’opera estetica che finge di porre il pubblico in una posizione anomala, quando invece non fa altro che compiacerlo, in un falso “alter-nativismo” che non è altro che l’altra faccia del conservatorismo. Non c’è infatti “Altro” oltre la scena. Il messaggio è chiuso, compatto, già detto, e tutte le scene, i costumi, le musiche, tendono a questo scopo.

Odissè – In assenza del padre è opera che asseconda un pubblico che attende un grazioso compiacimento da quella che dovrebbe essere la perturbante ricerca dell’alterità. È un dramma incistato, che non fa che pronunciare – e quindi disperdere, ridurre, negare – i simboli di sofferenza sociale. Telemaco è alla ricerca di sé dopo la perdita del padre. Sullo sfondo un’umanità abbrutita e soggiogata a un gruppo di potere. Si tratta tuttavia di una rappresentazione manichea dell’autorità, di cui si ripetono insipidi stereotipi: la voce tonante, il guinzaglio e così via. La pretesa di identificare il potere non fa altro che il gioco di un potere che non è, se non nella sua perversa dispersione in ogni punto del reale. Per questo motivo il potere non può essere rappresentato semanticamente, perché ogni rappresentazione ne è una pericolosa riduzione.

Intanto le singole cifre attoriali si perdono nel tentativo di inscenare una presunta coralità. Salvo rare eccezioni, non si tratta infatti di un patimento che trascenda i singoli corpi per divenire sofferenza gruppale (e quindi metaforicamente sociale), ma una recitazione che muta spesso di soggetto nell’ambito di un gruppo di voci ben distinte. Smaccatamente e arrogantemente pedagogica è poi la figura/voce fuori campo che riproduce le frasi fatte dei media. Anche in questo caso la provocazione al pubblico è puramente funzionale alla sua soddisfazione, diviene il completamento della narcisistica posizione critica della borghesia. È uno scambiarsi messaggi (di apparente critica) noti ad entrambe le parti, in un compiacimento senza sbocchi.

Questo teatro non è in nessun modo un’alternativa al “teatro classico”, anzi è la più classica delle affermazioni del potere, che può anche giungere a fingere di negarsi, tale è il suo affermarsi.

 

Odissè – In assenza del padre
di
Gabriele Russo

Andato in scena il 27 novembre 2012 presso il Teatro Bellini di Napoli.

Memoracconti – storie da ricordare: i risultati del concorso

Cari lettori in trepidante attesa è giunto il momento solenne. Dopo una lunga consultazione finalmente la giuria ha emesso il suo verdetto. Raffaello Corti, con il racconto “Maria”, si aggiudica la prima edizione del concorso nazionale Memoracconti – Storie da ricordare. Gli altri due autori che hanno composto, insieme al vincitore, il trio dei finalisti sono, in ordine di arrivo, Simone Dell’Unto con “Italiano anulare” e Rossana Carturan con “Via Aspromonte 100”.

Una scelta sofferta quella della giuria che si è trovata a dover scegliere fra tre racconti capaci allo stesso modo di colpire la sensibilità del comitato di lettura, benché trattassero di argomenti diversi fra loro. Corti narra, con toccante leggerezza, una storia tragica ambientata durante la seconda guerra mondiale; Dell’Unto caratterizza con precisa ironia il prototipo del nuovo italiano; Carturan ricorda un periodo amaro della nostra storia recente, quello degli anni di piombo, su cui solo ultimamente si sta cercando di fare luce. Tre temi diversi dunque, ma anche tre modi diversi di raccontare che rappresentano perfettamente il panorama polifonico di tutti coloro i quali si mettono in gioco nella stesura di short stories.

Le tre storie finaliste saranno pubblicate martedì 4 dicembre (“Via Aspromonte 100”), giovedì 6 dicembre (“Italiano anulare”) e sabato 8 dicembre (“Maria”) su Flanerí, all’interno della sezione “Altre narratività”.

Edizioni Memori ha inoltre deciso di raccogliere in un’antologia i testi migliori giunti in redazione, a cui si andranno ad aggiungere, un racconto di un autore Flanerí e un racconto di un autore Memori.

Domenica 9 dicembre, infine, all’interno della fiera della piccola e media editoria di Roma Più libri più liberi, presso lo stand T57, Edizioni Memori organizzerà un piccolo aperitivo per ringraziare tutti i partecipanti al concorso e per dare il giusto spazio, oltre che ai tre testi finalisti, anche a tutti gli altri racconti inclusi all’interno dell’antologia. L’incontro è previsto a partire dalle ore 18.

 

Per ulteriori informazioni:
memoracconti@memori.it