“Seminario sui luoghi comuni” di Francesco Pacifico

Il primo “comandamento” del Manuale del perfetto scrittore di racconti di Horacio Quiroga dice più o meno così: «Credi nel maestro – Poe, Maupassant, Kipling, Čechov – come in Dio stesso». Francesco Pacifico sembra aver preso alla lettera Quiroga rendendo pubblico il suo personale Olimpo di scrittori nel volumetto Seminario sui luoghi comuni – Imparare a scrivere (e a leggere) con i classici, edito da minimum fax. Ma Pacifico fa anche di più: per ogni nome dell’elenco riporta, dopo averlo introdotto brillantemente, un passo dell’autore scelto. Va dunque oltre l’atto di fede, dando prova tangibile della “divinità” stessa, nel tentativo di avvicinarsi il più possibile a essa.

«Sono almeno dieci anni che ricopio pagine di romanzi che amo. Riscrivendole, mi passano per un attimo nelle punte delle dita […]. Le dita possono incominciare a indispettirsi se ritorni alle tue frasi abborracciate. Qualcosa viene trattenuto, e continuando a rubare dai classici ricopiando belle pagine magari la tua scrittura migliora».

Una pratica interessante quella di Pacifico, tanto da essere diventata, due anni fa circa, una rubrica su minima & moralia, il blog di minimum fax: lo scrittore, nel proporre i passi di grandi autori, sfidava il pubblico di lettori a riscrivere la propria versione «sostituendo, stravolgendo, rubando ai ricchi per dare ai poveri», cioè a tutti coloro i quali si trovano di fronte a queste “divinità”.

L’esperimento fallì, ma lo sforzo di Pacifico non è andato perduto visto che alcuni di quei passi sono stati inclusi tra i trentasette che compongono questa sorta di manuale di scrittura creativa. Da Gogol’ e il meraviglioso incipit di “Prospettiva Nevskij”, a Don DeLillo e la sua capacità di «mostrare il potere di astrazione del modello di vita occidentale», da Albert Camus e la calma presente nella sintassi de Lo straniero, a Mario Soldati e la sua abilità nel creare incastri narrativi. Passando per Gadda, Bolaño, Musil, Roth, Tolstoj e Kafka.

Con Seminario sui luoghi comuni, Francesco Pacifico quasi punta il dito per indicarci la strada, per mostrarci che la vera sostanza dell’arte scrittoria è potenzialmente davanti ai nostri occhi, quotidianamente. Occorre tenacia ed esercizio: riscrivere, scomporre e studiare fino alla stanchezza i passi degli autori maggiori, scelti come numi tutelari perché, in fondo, «un classico è un libro che non smette mai di lasciarsi saccheggiare».
 

(Francesco Pacifico, Seminario sui luoghi comuni, minimum fax, 2012, pp. 240, euro 10)

Yves Saint Laurent: un “Album da colorare” per fare il punto

Un delizioso Album da colorare di Gallucci Editore, per celebrare e interagire, con uno dei creativi più influenti del XX secolo (sarto, couturier, stilista), una mente geniale e affascinante dell’arte contemporanea che ha saputo capire, adattare e azzardare i suoi tempi in un unico furor creativo: Yves Saint Laurent. 

Uomo eclettico, sensibile e nevrotico, come lui stesso si definiva, che continua a ispirare registi, letterati, artisti visuali degli ambiti più diversi. Quattro anni fa, in seguito a una lunga malattia e sei anni dopo il suo commovente addio alle passerelle, Yves Saint Laurent muore a Parigi e con lui si spegne il mondo magico dell’Alta Moda francese, della leggerezza, della fantasia e della grazia che lo caratterizzava. Quando riguardo le collezioni YSL del passato ho la sensazione che tutto sia già stato fatto, che si sia raggiunto con lui il sublime. YSL, però, non ne sarebbe contento: il primo irrispettoso dei baroni della moda, lui che firmò la sua prima collezione per la Maison Dior a soli 21 anni. 

L’album della Gallucci riassume a pieno lo spirito da innovatore che ha caratterizzato tutta la carriera di Saint Laurent ed è perfetto per tutte le età, un excursus leggero ma significativo dei disegni più preziosi e creativi del mitico couturier messi a disposizione dalla fondazione Pierre Bergé-YSL di Parigi, dove è custodito tutto l’archivio della Maison.
 


 

Il volume ci mostra, con un approccio e un’impaginazione ludica ma accuratissima, gli schizzi più rappresentativi delle collezioni che hanno fatto la storia della Maison e della moda tutta. Sfogliandolo ci si abbandona facilmente al mondo YSL, anche grazie a bozzetti ancora inediti e godibilissimi; ci si ritrova calati all’istante nel suo mondo, che traendo ispirazione dalla strada e dai suoi viaggi reali o immaginari, ci ha donato due delle collezioni che lo hanno reso lo stilista più influente del XX secolo: la collezione Russa del 1976-77 e la collezione Cinese degli anni a seguire: opulente e ambiziose, veri esempi di un retrò eclatante, basate sugli abiti dei contadini Russi del XX secolo, sui balletti di Léon Bakst e sugli abiti della Cina Imperiale. Le due collezioni, dai colori inebrianti, erano un chiaro monito politico alle grigie dittature che vigevano nei due paesi e un appello al ritorno alla loro natura autentica. Potrete divertirvi a colorarle e, perchè no, a reinventare due dei modelli più rappresentativi delle collezioni, che troverete nell’album di Gallucci sfogliando le prime pagine.

La collezione Africa del 1967 crea look mai visti in precedenza: estremi e visionari, con il famoso reggiseno angolare e appuntito – preso dai disegni stilizzati africani – di rafia e lino grezzo (ben 17 anni prima di quello, famosissimo, firmato Gautier che indossò Madonna!), bracciali e accessori di ebano e avorio quando le acquirenti dell’alta moda ambivano ancora a perle bon ton e diamanti.

YSL, nato in Algeria e innamorato di Marrakech, conosceva le culture etniche che ha adattato con abilità e ingegno al contemporaneo, passando attraverso la plasticità cubista. La rivista Harpers Bazaar definì la collezione come la «fantasia di un genio primitivo».
 


 

Gli abiti africani non venivano smorzati e addolciti per il look occidentale, ma proposti con tutta la loro forza. Di nuovo, una scelta politica e artistica allo stesso tempo. Come Picasso, era capace di guardare a una cultura diversa senza nè contemplarla né offenderla, ma trasportandola nel proprio mondo e nel proprio immaginario ed esaltandola così nelle sue peculiarità più viscerali.

Dell’arte ha saputo fare progetto concreto, citando Picasso, Léger, Renoir e, su tutti, Mondrian, al quale ha dedicato un’intera collezione, forse uno dei simboli degli anni ’60, nello stile e nel design; ha approfondito il binomio arte-moda, che non era ancora un clichè da passerella colta e radical chic, ma un momento di immaginazione appassionata che poneva al centro ricerca, innovazione e un serio rischio imprenditoriale.

Uomo intelligente e colto, nel 1971 affrontò il rischio di un’ aspra critica proponendo la collezione Forties, la prima retrospettiva completa di un periodo storico preciso, l’ormai conclamato retrò che si è economizzato nel vintage attuale.

La collezione, incisiva e contemplativa ispirata agli anni ’40, fu ostacolata dagli intellettuali francesi che la consideravano un apologia degli anni bui del nazi-fascismo, è invece stata particolarmente rilevante nella storia del costume. YSL cambiò l’attegiamento della moda verso la storia, presentandola come suggestiva e fertile piattaforma di idee e rielaborazioni e come momento di presa di posizione culturale: era la prima volta che un couturier proponeva una riflessione distaccata e brillante sul buono che la storia del Costume lasciò in quegli anni.

L’album di Gallucci ci presenta quindi un genio d’inventiva eclettica, complessa e meravigliosa, un manierista dalla garbata audacia, ma ci fa scoprire anche il suo lato meno conosciuto, quello del costumista che a soli tredici anni esordisce a Oran, in Algeria, sua città d’origine. Numerose saranno, nel corso della sua carriera, le collaborazioni con il mondo dello spettacolo, con costumi per danza, musical e cinema. Il bozzetto stile Art Deco, che chiude l’Album, con una figura allungata e austera avvolta in un lungo mantello che si staglia su una raffinata vetrata quasi klimtiana è il costume del personaggio di Arrietty per la messa in scena di I mostri sacri di Jean Cocteau: anche quest’ultimo è un chiaro invito a esplorare la creatività di YSL, non passivamente ma colorando l’immagine specchio del bozzetto in libertà, ispirandovi, se vorrete all’originale.

Nessuna riverenza quindi, ma solo gioco e riflessione, proprio come avrebbe fatto lui.

“Perception” di Kenneth Biller e Mike Sussman

La tv ha generato negli ultimi anni degli eroi leggermente “diversi” da come si era abituati a immaginarseli. Al posto del cavaliere senza macchia e senza paura, affascinante e invincibile, dagli anni 2000, le cose, almeno per le serie televisive, hanno preso un’altra piega. Gli eroi del poliziesco sono diventati asociali, freddi e solitari, non immuni da handicap: vedi un certo audioleso di nome Gil Grissom, capo della scientifica di Las Vegas. Per il medical drama basta citare il celebre Gregory House: zoppo, anarchico e misantropo, ma anche geniale e irresistibile. Quindi, perché sorprendersi se Daniel Pierce, il protagonista di Perception, è un insegnante di neurologia affermato e talentuoso, affetto però da schizofrenia paranoide, allucinazioni e comportamenti maniacali?

Eric McCormack, noto al pubblico mondiale grazie alla fortunatissima sit-com Will & Grace, abbandona il vecchio ruolo comico per dare vita a un personaggio complesso e contrastante. La sua notevole recitazione rende gli squilibri mentali, umorali e fisici di Daniel Pierce plausibili e reali. E i piccoli dettagli della vita quotidiana danno altrettanto spessore al personaggio: la passione per gli enigmi, l’isolamento tramite musica classica, la routine ferrea necessaria per la stabilità psichica. Ma il professor Pierce non buca lo schermo solo per l’intrinseca fragilità della propria condizione di malato: colpisce anche per le intuizioni con cui accompagna e aiuta nei casi più difficili la sua ex-alunna Kate Moretti – ora agente dell’F.B.I.

Puntata dopo puntata (dieci quelle della prima serie conclusasi in America a fine estate e già rinnovata per una seconda), la serie cattura e convince sia per il plot poliziesco con cui si animano i quaranta minuti dell’episodio, sia per l’indubbio spessore del protagonista, aiutato da rivelatrici “apparizioni”, che non sono solo i sintomi della schizofrenia e della paranoia, ma soprattutto aiuti del suo subconscio per risolvere i misteri.

Con l’epilogo della prima stagione si assiste a una pericolosa rottura della quiete attorno a Pierce, fedelmente aiutato dal braccio destro – nonché preziosa spalla comica – Max Lewicki. Ma è inutile aggiungere altro, perché bastano i primi venti minuti della puntata pilota perché non si possa fare a meno nel nuovo eroe della tv. Guardare per credere. E ben vengano altri eroi pazzi, ma così umani, come lui.

“Il giovane Holden” di J.D. Salinger

Intanto Il giovane Holden non si intitola Il giovane Holden ma si intitola The Catcher in the Rye, che vuol dire: «Quello che salva i bambini, prendendoli un momento prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale». E vacci a capire qualcosa, però mi sembra un titolo molto più bello. Ma anche Il giovane Holden è un bel titolo alla fine. E ci sarebbero potuti essere altri cento titoli diversi e belli uguali e cose così. Comunque lo sanno tutti che l’ha scritto J.D. Salinger. E tutti sanno che J.D. Salinger dopo non si è mai fatto vedere in pubblico. E questo è un peccato. Quando ho letto il libro la prima volta avevo sedici anni. Come Holden. Avevo una sorella di dieci anni, come Holden, e un fratello morto tanto tempo prima, come Holden. Insomma quando ho letto Il giovane Holden pensavo che J.D. Salinger l’avesse scritto per me, il suo libro. Poi ho capito che l’aveva scritto per una marea di gente. E mi piaceva proprio, questo giovane Holden Caulfield a spasso per la città di New York. E un giorno o l’altro vorrei andarci a New York. Allora, Holden racconta quello che gli è successo, e non dice molto di più. Ma quello che gli succede basta. Dice non scrive. Perché Holden racconta e tu devi ascoltare, non leggere. Allora Holden è un bravo ragazzo e tutto ma non ha voglia di studiare e così lo bocceranno. Lui se ne va da scuola tanto lo cacciano. Ma è la quarta scuola da cui lo cacciano e questo è un problema. Perché se lo scoprono i genitori si incazzano. Allora Holden sembra uno a cui non frega un cazzo di niente. E invece non è così. A Holden gli interessa di tutti. Soprattutto dei suoi. E gli sembra che il mondo sia un po’ finto, anche se non lo conosce neppure bene. Però si fa i suoi giri. Prende le sue fregature eccetera. Incontra vecchi amici, fa piangere una tipa. E va a trovare la sorella Phoebe, per parlare. E quando se ne sta per andare all’Ovest per trovare un lavoro e mettere su famiglia, Holden cambia idea. E torna a casa. E forse a settembre si rimette a studiare, ma chissà.

Quando ho letto questo libro l’ho capito tutto, subito. Perché è un libro limpido, che ha la semplicità dell’acqua. E forse J.D. Salinger si è spaventato perché tutti capivano. E tutti sapevano di lui perché dentro Holden c’era soprattutto lui. E allora non ne ha quasi voluto più sapere di vedere altra gente e di pubblicare altri libri. E questo è un peccato. Ma insomma, Il giovane Holden ha cambiato la mia vita di lettore. Perché dopo un libro del genere, se ti è piaciuto, non torni indietro a certa robaccia. Ha cambiato la mia vita di ragazzo. Perché tutto mi è sembrato più semplice, e io sentivo di sapere davvero qualcosa in più. Ero cresciuto. Come Holden.


(J.D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi)

“Gli anni di nessuno” di Giuseppe Aloe

La città non si chiama. Perché non ne ha bisogno. Sono strade, lampioni, ricami ortogonali. Pentagrammi d’asfalto dove non si resta mai. Si passa e basta. È solo l’ombra che a volte si arena, nei gomiti delle finestre accese, ma sa già che la sosta sarà breve. La città non si chiama perché forse si sentirebbe imbrigliata, perché qualcuno chiamandola si riterrebbe il suo padrone.

È solo una scatola, lo spazio di nessuno dove si consumano Gli anni di nessuno, nuovo romanzo del finalista al Premio Strega Giuseppe Aloe.

A riempire le pagine è la voce di Gambart, uomo di mezza età dedicato alla scrittura, che nel pieno del sonno riceve una telefonata. Qualcuno bisbiglia da un punto annacquato che «il professore è morto, è morto all’alba». Ma all’alba di cosa? Di quale vicenda? E chi è il professore per il protagonista? Perché è così importante saperlo, tanto da offendere un’ora notturna e compromettere le successive? In queste domande c’è (o meglio ci sarebbe) la storia di Gambart, bambino partorito da una donna troppo fragile. Lui inizia a respirare e lei smette di colpo. Sembra dormire all’ospedale, ma lo farà per sempre. Al piccolo rimane solo il padre, che amava talmente la moglie da imputare al figlio la colpa peggiore: quella di aver spinto troppo, di aver spinto male il ventre di sua madre, tanto da ucciderlo. La sua reazione è punirlo, relegarlo in un silenzio di luce e di parole, con una scodella muta da cane in catena e un rettangolo di giorno che sbuca da lontano. È un prigioniero di minuti infiniti, non conosce l’alfabeto così come ignora le carezze, non esce, non comunica, cresce guardando filmati sempre uguali, finché suo padre impazzisce anche per gli altri, comincia a urlare e dissotterra quell’orrore. Il bambino viene liberato, diventa un caso di cronaca e viene consegnato a un istituto che gli insegni a esistere. Ma allora interviene Gondrenovic, il professore vecchio amico del padre, che decide di prendersene cura, di generare la sua bocca e i suoi pensieri. È il suo tutore, il suo maestro, il suo paio d’occhiali. Gambart ha bevuto troppo buio durante la sua infanzia, il sole lo ferisce e l’estate è un pericolo. Dovrebbe sempre camminare sotto un cielo malinconico, il grigio è la coperta più sicura, ma imparare davvero a vedere è una sfida a cui non può sottrarsi. Accorgersi di quello che c’è intorno per saperlo raccontare, parlare, scrivere, interiorizzare lezioni difficili. Capire che si comincia a morire da quando si nasce, che progrediamo tutti verso la fine contrapponendo inutilmente i due termini. Capire che il dolore del distacco da cose o persone deriva dalla consapevolezza della loro struggente futilità.

E quando Gondrenovic muore, al suo allievo non resta che ereditare. I suoi averi e i suoi insegnamenti. Lo spiazzamento di sentirsi solo, di non essere in grado di affrontare l’amore. Di non parlare l’amore, di sentire che le sillabe rimbalzano dentro il suo petto. L’unica donna che ha incontrato è Annet, anche lei alunna del professore, la stessa che lo informa del lutto, la stessa che lo inizia al sesso per poi scomparire e riapparire di nuovo. E Gambart resta un fantasma, aleggia per angoli cupi senza interagire con nessuno. È «l’estrema sintesi del niente», un ologramma che pascola per quartieri innominati; deduciamo solo dal nome dei personaggi che potrebbe trattarsi di un segmento di Europa, forse dell’Est, ma in fondo chissà.

In fondo non importa. La sua vita è chiusa dentro una bolla, tutto sta nel comprendere di che bolla si tratta. Quella del suo trauma? Quella soffiata dalla sua mente? Che soluzione può escogitare una testa in trappola? Può, ad esempio, elaborarne un’altra, al riparo dai dialoghi veri. Un qualcosa che sembri una macchina perfetta, in cui tutti i personaggi hanno un peso specifico e contribuiscono all’evoluzione degli eventi. Un congegno che sembri una storia, dentro cui tutto torna e tutto sta al caldo. D’altronde ogni storia è un inganno, come i “normali” dimenticano. Come i “matti” sanno bene. Gambart è un carcerato, rimane schiavo di quello che non può concedersi, della sua incapacità di sentirsi umano. Non riesce a saltare nel limbo del “tu”, anche se l’altra pelle gli manca davvero.

Trama bruciante, con un forzuto colpo di coda. Le immagini sfilano e non si catturano. Immagini che Aloe ci restituisce con la sua punta fendente, metafore-coltello, costruite con la freddezza icastica di chi racconta un taglio, uno squarcio che non si rimargina. Che si può solo restare a guardare mentre i libri, il potere straziante della letteratura proveranno comunque a distrarre quel sangue.
 

(Giuseppe Aloe, Gli anni di nessuno, Giulio Perrone Editore, 2012, pp. 192, euro 13)

“Paul Klee e l’Italia” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma

Una passeggiata per la campagna romana, verso Tivoli e Anzio, con alla mano Tacito, Tolstoj (La potenza delle tenebre), Murger (La Bohéme), Zola (Roma). Una visita a un museo, un monumento. Una serata al teatro. Riflessioni appuntate su diari, pensieri che si nutrono di luce e colori mediterranei: in poche immagini alcuni momenti di viaggio di un artista.

Paul Klee (1879-1940) giunge in Italia per la prima volta nel 1901 insieme all’amico Hermann Haller. Ha con sé Il Cicerone di Jacob Burckhardt e Il viaggio in Italia di Goethe, due testi fondamentali per un tedesco e per chi voglia affrontare il Grand Tour del paese. Da secoli prima di Klee l’Italia è stata meta di viaggi di studio, tra le rovine antiche, tra i grandiosi monumenti, tra la bellezza e la varietà del paesaggio e anche per questo artista i nuclei fondamentali dell’esperienza nella penisola sono proprio la natura e la cultura. Nei suoi ripetuti incontri con l’Italia Klee ha coltivato per essa una profonda affezione, superando l’iniziale avversione per quei modi eccessivi e sgarbati della gente, poi compresa e amata. Osserva i volti – “Ritratto della Signora P. al Sud”– e i luoghi. Li vive. L’Italia, infatti, non si offre solo come occasione di studio e di lavoro, ma rappresenta anche un ambiente di rifugio e di riposo. Negli anni Venti si concede infatti delle vacanze, quando la posizione di insegnante assunta al Bauhaus di Weimar gli consente di poter effettuare alcuni soggiorni all’estero.
 


 

Tra le diverse esperienze di viaggio una sicuramente è stata reputata decisiva per la formulazione del suo immaginario: la visita a Tunisi, nel 1914, è da considerare uno dei principali motori della sua opera, come l’artista stesso dichiara nel proprio diario, scrivendo che la nascita come pittore e la conquista definitiva del colore sono avvenute sotto il segno esotico e suadente della sera tunisina.

Klee ama gli scenari e gli ambienti mediterranei, è pervaso e rapito dai colori e dalla luce di quei luoghi: le atmosfere della Tunisia, dell’Egitto, della Francia, dell’Italia lo conquistano e influenzano il suo lavoro in modo determinante.

Il pittore viene in Italia sei volte. Il primo viaggio, quello di formazione, che lo conduce tra le città di Roma, Napoli e Firenze, non darà vita a molte produzioni, ma costituisce sicuramente un momento di profonda riflessione. Quadri, invece, come “Mazzarò”e “Costruzioni portuali”derivano dai successivi soggiorni in Sicilia e all’Isola d’Elba, a cui si accompagnano visite in numerose altre città tra cui Ravenna, città che suscita una tale suggestione con i suoi risplendenti mosaici bizantini, da ispirare una svolta stilistica riconoscibile nelle opere della fase pointilliste, come ad esempio “Croci e colonne” del 1931, in cui le forme sono composte da piccolissime pennellate di colori vivaci che riproducono l’effetto delle tessere musive.
 


 

Ma vi è un altro fondamentale stimolo artistico proveniente dall’Italia che colpisce e impressiona il pittore: quelle linee verticali, fuggenti, rapide e convulse che rendono il Futurismo cantore del dinamismo delle forme. La partecipazione di Klee al movimento del “Cavaliere Azzurro” di Kandinskij e Marc lo avvicina agli esiti delle avanguardie e sebbene questo lo porti a coltivare una particolare ammirazione per Picasso e Delaunay, l’artista viene colpito dalle opere dei futuristi italiani che, per quanto si distanzino dalla sua sensibilità per il vitalismo esasperato, il piacere della sommossa, l’attenzione alla folla urbana e alla meccanicità crescente della vita quotidiana, mostrano un punto di contatto su un tema specifico, quello dell’architettura e della città. Acquisisce, inoltre, grazie a tale estetica, un senso dell’utilizzo del colore e della luce impiegati per imprimere nella forma qualità dinamiche e temporali, elemento quest’ultimo, il tempo, molto vicino alla sua anima di musicista – Klee era, infatti, un eccellente violinista. Risultato dell’incontro con il battagliero e rumoroso movimento italiano sono le opere “Astratto-guerresco” del 1914 e “Composizione urbana con finestre gialle” del 1919, elaborate secondo la propria visione astratta. Klee crea associazioni e contrasti affidandosi a strutture semplici, basilari, archetipe, come le fasce cromatiche parallele e le scacchiere colorate, che scandiscono le varie fasi del suo percorso creativo. A volte colore e linea convivono, altre volte si presentano solo il ritmo e le variazioni tonali delle superfici cromatiche.
 


 

Se finora sono state considerate le sezioni delle mostra che analizzano le suggestioni e le influenze ricevute dall’Italia, non meno importante è il percorso inverso, ossia la ricezione del pittore nel paese. Klee è sicuramente uno degli artisti tedeschi più apprezzati e la diffusione del suo lavoro, avvenuta principalmente grazie ad alcune Biennali veneziane, ha determinato la crescita di un reale interesse nei suoi confronti: artisti come Licini, Melotti, Novelli e critici come Argan, Dorfles, Ponente, hanno contribuito a far conoscere l’opera del pittore in Italia.

La mostra ora presente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, attraverso opere di artisti che hanno ispirato e che hanno subito l’influenza del maestro tedesco, offre un percorso pieno di stimoli, importanti per comprendere non solo la singola personalità dell’artista, ma anche per intendere una temperie culturale e gli esiti di alcuna pittura, quella italiana in particolare, degli anni a cavallo e successivi alla metà del secolo passato.

 

Paul Klee e l’Italia
Dal 9 ottobre 2012 al 27 gennaio 2012 presso La Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

Per ulteriori informazioni: http://bit.ly/RDl3EO

“L’ultima volta” di Desmond Hogan

Se Desmond Hogan è un maestro della scrittura, L’ultima volta è il libro di un maestro.

E secondo le aspettative, non delude. All’interno de L’ultima volta, pubblicato in Italia da Playground e tradotto da Gaja Cenciarelli, c’è l’impronta riconoscibile di una prosa autorevole, asciutta e puntuale, che riesce a trattare tematiche forti e importanti con una delicatezza non comune. Uno stile che cattura per il suo sorriso amaro, per la pacata malinconia che si prova dalle prime pagine fino alle ultime.
Una scrittura così bella e pura che si lascia notare prima della storia.

Delle storie, in questo caso. Si tratta infatti di un collage di dieci racconti brevi che ritraggono spezzoni di vita irlandese: c’è l’amore, la politica, la passione per gli ideali e poi le disillusioni, c’è una rigida religiosità, c’è l’odiata ma ricca Inghilterra in cui sperare per una prospettiva di vita migliore, ci sono poveri sbandati, ci sono semplicemente giovani che diventano vecchi. E c’è l’Irlanda, in maniera preponderante. Un terra amata, una regione di confine, di frontiere religiose, etniche, isolane, climatiche. Una terra stridente di contrasti, sfondo delle storie narrate, che prende vita diventando protagonista. E c’è, soprattutto, la scelta stilistica di non rivelare tutto fino in fondo: Hogan è abile nel descrivere la consapevolezza triste di un treno ormai perso senza dire cosa o chi c’era su quel treno, o al contrario nel far sentire tutto il peso di una scelta sulle spalle e non dire poi quale sarà la scelta. Non accenno, volutamente, alle trame dei racconti; credo che l‘essenza di questo libro vada cercata altrove. 

Definito un capolavoro di arte e dolore, L’ultima volta è uno spaccato di vite fatto da una miriade di solitudini in cerca di una cura («Le persone sono come dottori. Si vive insieme per un po’. Ci si cura a vicenda»), di un incontro, di un senso; fatto dalla straordinaria routine della quotidianità, perché in fondo siamo tutti una storia, siamo tutti la trama di un racconto.


(Desmond Hogan, L’ultima volta, trad. di Gaja Cenciarelli, Playground, 2012, pp. 134, euro 12)
 

[Amarcord] “Il pasto nudo” di David Cronenberg

Tangeri, 1957. Jack Kerouac e Allen Ginsberg entrano in un appartamento buio e polveroso. Dalle imposte accostate entra prepotente il fragore della qasbah e la luce arancione del tramonto. I due si fanno largo a fatica nella confusione generale. Nell’aria viziata è forte l’odore oleoso del majoun che ha intriso la spessa carta da parati. Sul tavolino basso, davanti al divano, cucchiaini anneriti aspettano solo di sciogliere altra morfina mentre siringhe stremate giacciono sparse ovunque. Seduto allo scrittoio, chino sulla macchina da scrivere a battere con due dita a ritmo crescente, c’è William S. Burroughs. Il pavimento è un mare di fogli di carta riempiti di caratteri neri. Ci si leggono frasi sconnesse sull’agente Lee e un dottore, sulla carne nera e su luoghi lontani di nome Annexia e Interzona. Ginsbeg e Kerouac raccolgono alcuni dei fogli, li leggono, si guardano e sorridono. Quell’insieme di appunti sparsi e al limite del delirio diventerà nel 1959 Pasto nudo, massimo capolavoro sperimentale di Burroughs e punto di svolta della letteratura mondiale, romanzo privo di consequenzialità logica tra un capitolo e l’altro, strutturato interamente sulla base della tecnica narrativa del cut-up che lascia al lettore, nell’intenzione dell’autore, la libertà di scegliere l’ordine in cui leggere le varie parti del libro.
Osteggiato dalle autorità statunitensi per i contenuti osceni e scandalosi caratterizzati da descrizioni crude di violenza, droga e omosessualità, il romanzo ha colpito immediatamente pubblico e critica per la sua visionaria carica immaginifica, per la sua capacità di creare un mondo nuovo, incomprensibile ma attraente come un magnete.
La potenza allucinata del romanzo ha stimolato la fantasia di numerosi registi per trovare un modo di rappresentare sullo schermo quel delirio libero che è la massa del libro. Già nei primi anni ’60 il regista inglese Antony Balch, autore sperimentale attivo nel cinema horror che già aveva collaborato con Burroughs in due progetti, iniziò a lavorare a una sceneggiatura, immaginandone una trasposizione con inserti musicali. Il protagonista designato per il ruolo dell’Agente Lee doveva essere Mick Jagger, il leader dei Rolling Stones, ma nei primi anni ’70 il progetto si fermò prima dell’inizio delle riprese per incomprensioni tra il regista e la rockstar.
Altri progetti vennero abbandonati in fase di scrittura: il libro era considerato non realizzabile al cinema.
Quando David Cronenberg decise di iniziare a lavorare a una sua trasposizione prese una decisione fondamentale: la materia del romanzo sarebbe stata un semplice elemento tra gli altri, una parte di una trama più ampia che avrebbe abbracciato altre opere e la vita di Burroughs.
È nato così, nel 1991, Il pasto nudo, versione libera e personale di Cronenberg che mescola finzione e realtà in un susseguirsi di allucinazioni e riferimenti biografici.
Il film si apre negli Stati Uniti dove William Lee (Paul Weller), aspirante scrittore che lavora come disinfestatore, si inietta in compagnia della moglie Joan (Judy Davis) il veleno che adopera per uccidere gli scarafaggi. In preda ad allucinazioni, riceve da un insetto gigante l’ordine di eliminare sua moglie, agente di un’agenzia segreta di nome Interzone Incorporated. Ignorando l’allucinazione finisce comunque per eliminare Joan al termine di un drammatico gioco alla “Guglielmo Tell”: un bicchiere, una pistola, un piccolo errore di mira e la donna cade al suolo con un buco in fronte, il bicchiere, intero, che rotola via (Burroughs uccise davvero la sua seconda moglie Joan Vollmer cercando di emulare il balestriere svizzero). Contattato nuovamente dagli insetti, Lee accetta di fuggire verso Tangeri alla ricerca dell’Interzona. Una volta in Marocco, Lee si ritroverà coinvolto in un’intricata vicenda di spionaggio intergalattico, tra macchine da scrivere che si mangiano a vicenda e alieni umanoidi che secernono sieri allucinogeni dalla testa, mentre una donna, uguale in tutto e per tutto a Joan, gli fornirà la chiave, attraverso la scrittura, per entrare nel mondo di Annexia, ultima tappa della sua missione.
Intricato miscuglio di fantascienza, spionaggio e biopic, il film di Cronenberg colpisce per la carica visiva delle immagini più che per la trama. Supportato dalla fotografia del fedele Peter Suchitzky e dalla colonna sonora inquietantemente venata di jazz di Howard Shore, il regista canadese mette in scena la potenza sconvolgente della droga, veicolo di viaggi allucinanti che stravolgono la percezione di sé e del mondo circostante. William Lee non distingue più il reale dal delirio. Inizialmente spaventato dalle proprie allucinazioni, finisce per cercarle in continuazione per avere conferme del proprio agire. E dai dialoghi stravolti che Lee intrattiene con la macchina da scrivere, che si muta in insetto prima e in alieno lattiginoso poi, emerge la vera trama del film: una ricerca sulla scrittura come ossessione e malattia, come unico linguaggio puro della coscienza ma anche come esercizio doloroso che porta Lee a sacrifici e alla distruzione di sé e di tutto ciò che ha intorno.

(Il pasto nudo, regia di David Cronenberg, 1991, fantascienza, 115’)

“Timothy Leary. Una biografia” di Robert Greenfield

Fu cadetto a West Point, professore ad Harvard, scrittore, hippy, guru dell’LSD, star, fuorilegge, tossicomane, pacifista, fu definito dal Presidente Nixon l’individuo più pericoloso d’America. Fu uno nessuno e centomila. Negli anni ’60 lo si poteva trovare a una marcia per la pace, a un raduno dell’estrema sinistra, in Messico in cerca di funghi allucinogeni, a un convegno di psicologia e psichiatria, a New York con Allen Ginsberg e Jack Kerouac, in Svizzera con Andy Warhol e Roman Polanski, in Algeria con il leader delle Pantere Nere braccato dall’FBI, in clandestinità con l’organizzazione terroristica degli Wheaterman, in Canada in una stanza di hotel con John Lennon a registrare l’inno pacifista “Give Peace a Chance”, in una cella di un penitenziario californiano di massima sicurezza intento a dialogare di vita e di morte con Charles Manson. «Be here now», recita una massima hippy: essere qui ora, vivere continuamente nel presente. Nessuno c’è riuscito più di Timothy Leary. Probabilmente questo nome non dirà molto alla maggior parte di voi ma se siete amanti della cultura degli anni ’60 e ’70 (anche se forse sarebbe meglio parlare di controcultura) non potrete non appassionarvi nel leggere il lungo ritratto (oltre 900 pagine) a lui dedicato: Timothy Leary. Una biografia, di Robert Greenfield (ex condirettore dell’edizione inglese di Rolling Stone) edito da Fandango Libri. Corposa ma scorrevole, la biografia di questa vita così surreale ci narra ben più che la storia di un uomo offrendoci la cronaca di un’epoca intera.

Il momento chiave nella vita di Leary si ha il 9 agosto 1960. Mentre si trova in Messico per concludere un libro poi rimasto incompiuto, l’allora rispettato psicologo, vittima di una crisi di mezza età (di lì a poco compirà 40 anni), decide di dare una svolta alla sua esistenza e di provare, durante un rituale dei nativi americani, alcuni funghi allucinogeni contenenti psilocibina in grado di trasmettere esperienze trascendentali: «Ero un uomo di mezza età coinvolto nel processo di decadimento che dalla mezza età conduce alla morte. La gioia di vivere, la mia apertura sensoriale, la mia creatività, stavano scivolando giù verso un baratro». Sfortunatamente per lui, per le sue numerose donne e per i due figli, nei successivi anni il baratro verrà comunque raggiunto più e più volte. Tornato dal Messico insieme ad alcuni colleghi e amici, decide di creare l’Harvard Psychedelic Project, con l’intento di verificare dapprima l’effetto della psilocibina e poi quello dell’LSD sulla mente umana. Sfuggito di mano il progetto (facile intuirne le cause), il gruppo di studiosi viene allontanato dall’Università e si trasferisce in una villa vicino New York per continuare le ricerche. Tuttavia, da quel momento in poi, di accademico, non ci sarà più niente.
Nell’agosto del 1964 dà alle stampe, insieme a Richard Alpert e Ralph Metzner, quello che diverrà in poco tempo la bibbia dell’LSD: The Psychedelic Experience: A Manual Based on the Tibetan Book of the Dead. Il libro è sotto tutti gli aspetti un manuale per predisporre i fruitori dell’acido lisergico a vivere al meglio l’esperienza dei loro “trip”: «Se vi siete lasciati alle spalle il vostro ego la vostra mente non potrà cadere in errore. Abbiate fiducia nel vostro essere divino, nella vostra mente, nei vostri compagni di viaggio. Ogniqualvolta sarete presi dal dubbio spegnete la vostra mente, rilassatevi, lasciatevi portare dalla corrente». Messo ormai ai margini dalla comunità scientifica, nel giro di pochi anni Leary diviene un guru e un messia per la generazione dei giovani ribelli e degli hippy e, al tempo stesso, un nemico pubblico per le autorità e per i padri e le madri terrorizzati sia dall’influenza sempre maggiore dell’uomo (alimentata anche da una sua dilagante presenza nei media) che dal rapido diffondersi fra i ragazzi delle droghe cosiddette ricreative (bisogna tener presente che fino al 1967 negli Stati Uniti l’LSD non è una sostanza proibita). Nel 1966 pronuncia a un convegno il suo discorso più famoso, immediatamente accolto come un mantra dai suoi discepoli: «Oggi il mio consiglio al popolo americano è questo: se prendete sul serio il gioco della vita, se prendete sul serio il vostro sistema nervoso, se prendete sul serio il processo dell’energia, allora quello che dovete fare è ACCENDERVI (turn on) SINTONIZZARVI (tune in) SGANCIARVI (drop out)», concludendo: «La rivoluzione è appena cominciata … andrà tutto bene». Ma non per lui purtroppo.

Lungi dal fare un’agiografia, Greenfield ci narra piuttosto la storia di un uomo intelligente ma spesso incoerente che cercando la spiritualità è finito col diventare una star e con l’amare il lusso, le belle donne e l’edonismo sfrenato. La storia di un pessimo marito e di un padre, se possibile, persino peggiore, con un ego in grado di sopportare quasi tutto tranne il venire dimenticato e l’annoiarsi. Lo stesso uomo, del resto, che, un giorno, incontrando Andy Warhol ha affermato: «In America ci sono solo tre geni: io, te e il terzo che cambia di continuo».
Dopo la sua morte, avvenuta nel 1996, sette grammi delle sue ceneri sono state mandate nello spazio sul missile Pegasus, partito dalle Isole Canarie. Deve essere stato un gran bel trip !

(Robert Greenfield, Timothy Leary. Una biografia, trad. di Alessandro Ciappa, Fandango Libri, 2012, pp. 947, euro 29,50)
 

“Battle Born” dei Killers

La scena new-rock può festeggiare il ritorno di uno dei suoi gruppi più rappresentativi. Era infatti il 2008 quando, dopo l’uscita di Day & Age, i Killers sentirono di aver perso un po’ la loro strada e si presero una necessaria pausa di riflessione. Due anni più tardi il cantante Brandon Flowers pubblicava Flamingo, il primo album da solista: esperimento tra l’altro ben riuscito.

A quattro anni di distanza dall’ultima fatica i ragazzi di Las Vegas hanno trovato l’ispirazione e la voglia di tornare in studio, e il risultato è Battle Born. A questo ritorno in grande stile hanno partecipato ben cinque e prestigiosi produttori: Stuart Price, Steve Lillywhite, Damian Taylor, Brendan O’ Brien e Daniel Lanois, i quali hanno aiutato i Killers nella realizzazione delle dodici tracce che compongono il lavoro.

Ma quanto e cosa è cambiato dai tempi di Day & Age? E dal 2002, quando veniva pubblicato il loro famigerato esordio Hot Fuss? Tanto, sicuramente tanto. Il rock giovane e sfrontato di “Somembody Told Me”, “Sam’s Town” o “Spaceman” (solo per citare un singolo da ogni precedente lavoro) è storia passata. Se si vogliono ritrovare le sonorità che hanno contraddistinto i vecchi lavori dei Killers sarà bene rispolverare i loro dischi, perché con Batlle Born abbiamo assistito alla prova di maturità di Brandon e compagni.

Le prime due tracce, “Flesh and Bone” e “Runaways” (primo video che anticipava l’uscita dell’album) ne sono chiari esempi. Nonostante un ritmo indubbiamente orecchiabile, le sensazioni all’ascolto sono assolutamente diverse da quelle dei successi del passato. Se la carica emotiva è rimasta la stessa, la differenza sta nel ritmo (un filo più compassato rispetto a quanto ci avevano abituato ad ascoltare) ma soprattutto nel modo in cui viene trattato l’amore (tema portante dell’album presente in quasi tutte le tracce), affrontato in maniera più matura, come si evince leggendo e approfondendo i vari testi.

Tutto questo forse ha causato un lieve appiattimento del ritmo, comunque sempre godibile, che rimane praticamente lo stesso quasi fino al termine. Bisogna infatti arrivare ad “Heart of a Girl”, nona traccia del disco, per trovare un vero e proprio cambio di direzione. Ci troviamo di fronte infatti alla prima vera e propria ballad di Battle Born, a cui tra l’altro segue “From Here on Out”, unica canzone dalla melodia spiccatamente rock (con qualche sfumatura quasi pop) che forse arriva troppo in ritardo per cambiare un po’ l’atmosfera. Chiudono l’album la struggente “Be Still” e “Battle Born”, il saluto della band al suo pubblico, che si chiude con il coro dei ragazzi sopra le note del solo pianoforte prima di sfumare dolcemente verso la fine.

Al momento di tirare le somme non ci sono dubbi, i Killers hanno superato (quasi) a pieni voti la prova. I quattro anni di pausa hanno evidentemente giovato. Lo stesso Brandon (autore di gran parte delle canzoni) ha fatto tesoro della sua esperienza da solista, portandola in studio assieme al resto della band (forse è proprio Flamingo il lavoro che più si avvicina a Battle Born ).

Resta un piccolo dispiacere nel constatare l’assenza totale del rock che ha reso famosi i ragazzi di Las Vegas e ha colpito tutti i fan, ma crescere vuol dire anche lasciarsi alle spalle il proprio passato. Ora starà ai Killers farcelo dimenticare.

 

“Non c’è ritorno” di Jim Shepard

Dieci racconti, legati dal fil rouge dello sport, ma non solo. Una narrazione netta, precisa e coinvolgente; uno stile profondamente americano, ereditato senz’altro da quell’America che conosciamo attraverso Carver e Yates. Non c’è ritorno (66tha2nd, 2012) di Jim Shepard, racconta questo e molti altri mondi.
Il solo fatto che si tratti di una raccolta di racconti – selezionati tra i migliori di Shepard, da quattro diverse antologie – basterebbe a farci soffermare su questo titolo, che rappresenta una scelta quantomeno audace in un panorama editoriale che relega la narrativa breve a qualche rara eccezione o alla ricerca delle riviste letterarie. Se la scelta prettamente tematica dovesse anche solo per un istante lasciarci perplessi, è l’autore stesso, nell’introduzione, a specificare che non solo di sport si tratta: «Lo sport mi è utile perché sono interessato a massimizzare la pressione che le mie storie esercitano sulle situazioni emotive dei miei personaggi, e cerco sempre di dare corpo a quel genere di conflitto in modo concreto. I limiti e le regole dello sport offrono inoltre alla narrativa una forma propria, con la quale poi si può giocare, così come una propria imminenza, dal momento che qualcosa di importante – e drammatico – sta per accadere». Ci è subito chiaro, quindi, che l’ossatura della raccolta non sta nel fattore tematico, ma piuttosto nella struttura narrativa, salda e perfettamente costruita, in un teso equilibrio mantenuto proprio da una sensazione di imminenza costante: il timore di un altro punto a proprio svantaggio, la delusione di una partita che si sta per perdere, ma soprattutto l’imminenza di qualcosa di più profondo, tragico e irreparabile.
Una galleria di antieroi, che si alternano tra football, calcio, baseball, alpinismo, e nei quali si mescolano «in maniera piacevole e al contempo deplorevole, pulsioni mature e pulsioni infantili. Pulsioni sociali e pulsioni che ci isolano dal mondo». Lo sport qui non è che il correlativo oggettivo della catastrofe, con la quale Shepard si misura tanto a livello intimo e quotidiano, come nel commovente «Protoscorpioni del Siluriano», quanto a livello sociale, come ad esempio nel racconto che dà il titolo alla raccolta, che tratta da un’insolita prospettiva familiare la tragedia di Chernobyl. E forse è proprio da questi due poli opposti che non c’è ritorno: dall’estasi euforica che solo certe sensazioni estreme possono provocare – il sentirsi padroni di un mondo ghiacciato e irraggiungibile a ottomila metri d’altezza, per esempio – e dalla tragica solitudine che ogni tendenza simile impone. I due estremi si fondono al meglio nel racconto «La Polonia ci guarda», che tratteggia una pericolosa spedizione himalayana sul Nanga Parbat, e si rivela presto nient’altro che una riflessione sull’incapacità di gestire i rapporti affettivi.
Ciò che più stupisce di Shepard – oltre a un linguaggio estremamente nitido, dalla precisione millimetrica, che però non esclude mai il pieno coinvolgimento del lettore – è il suo incredibile mimetismo: attraverso un uso sapiente della prima persona, ogni racconto si apre su uno scenario differente, ma non per questo meno definito, credibile ed espressivo. La narrazione si muove agilmente da Pittsburgh a Cuba, dall’Alaska all’Ucraina, dando all’autore la possibilità di esplorare la sconfitta in ogni sua forma. Il male umano e la catastrofe naturale sono senz’altro gli sfondi più ricorrenti, e si uniscono in una tensione sottile ma costante, che non fa che rimandarci a quell’onnipresente sensazione di imminenza.
Una prosa la cui forza persiste oltre il tempo della lettura, lasciando una chiara traccia di sé tra lo stupore e l’amaro sapore di una serenità svanita.

(Jim Shepard, Non c’è ritorno, trad. di Tim Small, 66tha2nd, 2012, pp. 250, euro 16)

“On the Road” di Walter Salles

Più che un capolavoro della letteratura mondiale, On the road di Jack Kerouac è un libro cult. Se è difficile confrontarsi con i capolavori, lo è ancora di più con i cult, che sono espressione, oltre che di un gusto letterario, delle idee e dei costumi di tutta una generazione. «Il libro della generazione», lo definiva Fernanda Pivano. On the road fu proprio questo: l’inizio di una rivoluzione: «Tutte le volte che fai l’amore con un ragazzo che non è tuo marito, devi ringraziare Kerouac», ammoniva ancora la Pivano, nume tutelare dei poeti beat, madrina faconda, grazie alla quale essi furono pubblicati e conosciuti in Italia, una delle poche, vere intellettuali che non temeva di usare il registro della passione e quello del sogno: «I poeti parlano di passione, non di ragionamento: sennò non sarebbero poeti; sarebbero solo degli stronzi».
Con un libro che ha alle spalle un patrimonio tale è difficile confrontarsi, soprattutto se si intende non già creare una nuova opera, ma farne una trasposizione in un linguaggio diverso. È questa l’operazione compiuta da Walter Salles nel film On the road, uscito nelle sale italiane l’11 ottobre. Già nel titolo, precisamente aderente a quello del libro, si trova, infatti, una precisa dichiarazione di poetica.

Tuttavia questa brillante traduzione cinematografica non potrebbe mai competere con il libro di Kerouac, soprattutto per ciò che quel libro ha rappresentato per milioni e milioni di persone, per tutte quelle immagini create da ciascuno di noi lettori, stagnanti nella nostra testa, per quella libertà di immaginare che il libro garantisce, che un buon film nutre, ma che il “film-tratto-da” nega e tragicamente sopprime.
Non solo la grandezza di On the road è d’intralcio a questa traduzione, ma lo è anche il fatto che il caro, buon Kerouac è stato tanto imitato che leggere il suo libro oggi, dopo i vari manierismi e i birignao, non renderebbe giustizia al suo genio. Certamente con l’eliminazione dei tabù farebbe molto meno scalpore, ma le opere letterarie non hanno la data di scadenza. I temi trattati sono fortunatamente o sfortunatamente attualissimi. Sentire la voce originale di Kerouac fa ancora effetto e riempie le orecchie di bei suoni. E il cuore di bebop.

Qual è la cifra di questo film, che lo differenzi da altri racconti ispirati a Kerouac e dal libro stesso? Il problema non si era posto a Salles con I diari della motocicletta (2004), perché era un film suo, nato rimasticando uno scritto non molto famoso, i diari di viaggio di Che Guevara. Lì c’era dentro anche Salles. Nonostante gli ostacoli posti da un’opera del genere, On the road risulta un prodotto molto buono. Salles è molto bravo a ricostruire le ambientazioni e i personaggi presenti nel libro; li ha resi compiutamente nel linguaggio del cinema, impastando un film che, nonostante la sua lunghezza, non annoia, perché dinamico.

Salles, prima di lavorare sul film si è messo sulle tracce di Kerouac e dei personaggi del suo romanzo, intervistando i loro figli, gli artisti beat, percorrendo con i suoi occhi i luoghi descritti. Questo studio, tra parole e realtà, è durato ben sei anni. Egli disegna sulla pellicola un gruppo di intellettuali randagi, quelli autentici, cresciuti tra la strada e le biblioteche pubbliche, lontani dalle accademie. Sono pensatori che non hanno altre urgenze se non quelle legate alle aritmie del loro cuore. Non vogliono filosofeggiare, né scrivere di problemi che non li riguardino in prima persona, né conoscere per il gusto dell’erudizione antiquaria. «Non c’è oro alla fine dell’arcobaleno, ma solo merda e piscio. Sapere questo mi rende libero», dice Carlo Marx, personaggio corrispondente, nella realtà, ad Allen Ginsberg, interpretato dal bravo Tom Sturridge. Questi giovani sono tremendamente ribelli, non hanno paura di non fermarsi un attimo prima di sé. Salles racconta a parole sue il contrasto profondo tra i valori borghesi e le idee di una nuova generazione. È un conflitto che, a ben guardare, resta aperto ancora oggi, drammaticamente, dentro ciascun ragazzo che si appresta a crescere. La nuova generazione è stanca dei compromessi con la società e ha il petto animato da un ansito d’utopia. Tra l’utopia e la noia. Non noia, «“mestizia” è la parola giusta», come asserisce Carlo, ragazzo tanto gracile quanto intenso nell’adorazione della bellezza dei corpi maschili e delle parole. Ma ovunque c’è leggerezza, che porta i corpi a levitare e a camminare per ore e ore on the road. Anche quando la strada conduce alla sofferenza. Droga, alcol, sesso: in fondo, niente di strano; ciò che sconvolge è la sigaretta. La sigaretta che si accende e si spegne, dalla labbra alle dita, dall’interno all’esterno, in un movimento rituale, avanti e indietro, avanti e indietro. La sigaretta che si consuma. E intanto i personaggi parlano, litigano, creano, si ubriacano, fanno l’amore. E la sigaretta si consuma. Ed è un po’ come la vita che vuole essere goduta fino in fondo, giorno per giorno, fino in fondo. «A cosa bisogna tenere se non alla vita, unico dono che il Signore offre una sola volta?» (ancora Carlo). Solo così, forse, la vita può non essere sprecata.

(On the road, regia di Walter Salles, 2012, avventura-drammatico, 137’)