Flanerí si aggira “DietroLeQuarte”

Quante volte vi siete imbattuti in una bella copertina, in un titolo accattivante, in un libro che vi ha conquistato al primo sguardo e poi vi siete chiesti: «Ma la casa editrice?»

Originali, indipendenti, emergenti: nella cascata di font, tinte, formati e loghi che colorano le mensole della vostra libreria di fiducia ci sono un sacco di sfumature scintillanti, ma che forse non avete ancora colto. È giunta l’ora di mettere un po’ di ordine e noi di Flanerí siamo pronti a darvi una mano.

Un mese, una casa editrice.

“DietroLeQuarte” è la nuova rubrica di Flanerí che vi darà appuntamento una volta a settimana, il mercoledì, e aprirà per voi le porte di una casa editrice al mese, sgattaiolando tra gli studi degli addetti ai lavori, i titoli freschi freschi di stampa e le varie collane. I nostri inviati speciali vi offriranno un identikit completo che vi aiuterà a comprendere il profilo, gli obiettivi e le selezioni degli editori più interessanti del momento. Saremo il vostro piccolo promemoria, appunteremo per voi tutto quello che c’è da sapere su ogni singolo laboratorio libresco e nessun nome vi sfuggirà più.

La prima a passare sotto la nostra lente di ingrandimento sarà la casa editrice romana 66thand2nd.

Non resta dunque che aspettare insieme mercoledì 3 ottobre per il primo dei quattro articoli di questo mese. Noi non vediamo l’ora, e voi?

 

“Il Paese dei Misteri Buffi” di Dario Fo e Giuseppina Manin

A una settimana dalla sparizione, i mass media informano la nazione a reti unificate: Berlusconi è scomparso! I segnali di disperazione e di crollo psicofisico erano rintracciabili nello stile di vita condotto dal Cavaliere nelle ultime settimane, giorni in cui sembrava irriconoscibile. Silenzioso. Cupo. Aveva per giunta smesso di inveire contro i tanto “amati” giudici rossi. Nessun comunicato stampa o videoconferenza. Il nulla.

Il giorno prima della scomparsa, Silvio era ad Arcore. Voleva scendere nel suo Mausoleo, curato dallo scultore Pietro Cascella, un amico di Craxi a cui aveva dato l’incarico di creare un luogo concepito, non tanto per l’eterno riposo, quanto immaginifico di una prospettiva di vita eterna ivi potenzialmente contenuta, grazie all’istallazione di un marchingegno di alta tecnologia capace di ibernare esseri umani. Silvio è un bravo massone rispettoso delle tradizioni.

Ad Arcore dunque l’ultimo avvistamento e, sempre lì, la ricomparsa ma non di uno, bensì di tanti “aspiranti” Silvio Berlusconi. Come ottenere allora la prova inconfutabile dell’identità del Cavaliere, dal momento che del DNA dello scomparso non v’è traccia alcuna nelle banche dati? Una verifica coniugale, a questo punto, sembrerebbe d’obbligo, come nel caso dello “smemorato di Collegno” del ’26. Chi meglio della moglie, nella fattispecie, delle mogli, delle veline, letterine, ministre, imprenditrici e minorenni avrebbe potuto offrire miglior testimonianza?

Il Bel Paese è travolto e stravolto da un’alta concentrazione di sesso libero fra gli aspiranti Silvio e le donne pronte a riconoscere gli impostori. E poi, agli italiani piace scommettere e allora perché non approfittare di questo bizzarro scenario per riempire le casse dello Stato? Perché no?!? Una lotteria a premi attraverso cui scegliere il proprio Berlusconi nazionale. Il jackpot "Salva Italia" si accende. La gente sempre più in malora pur di giocare e lo Stato che risana i suoi debiti senza alcun rischio, né impegno. «Meno male che Silvio c’è…», quasi si sente il coro.

Così, ne Il Paese dei Misteri Buffi (Guanda, 2012), con ventisei “giullarate”, Dario Fo e Giuseppina Manin ripropongono al popolo italiano nuovi misteri, mantenendo stilisticamente la forte connotazione di satira politica che nel’69 Fo portò in scena, recitando come unico attore, nel Mistero Buffo.

Il Cavaliere stesso diventa un giullare presso la corte di Minosse che lo ha convocato per dei lavori di ristrutturazione con il desiderio di trasformare l’Inferno «in un mondo dell’effimero in sfacelo», poiché è nel sistema globale che Minosse riconosce la nuova dimora dell’eterno dolore. Tanti i punti di vista offerti. Moro, Andreotti, Mario Cal e Don Verzè, Machiavelli e Galilei, sono solo alcuni dei personaggi incontrati dal Cavaliere nel regno degli Inferi, che rappresentano il pretesto narrativo per trattare temi importanti come la P2, la collusione fra Stato e Mafia, lo smaltimento dei rifiuti a Napoli e il caos che travolge il mondo moderno, vittima della cattiva gestione delle nuove tecnologie. Silvio buffone nell’Ade e cantastorie d’eccezione per i suoi compagni di cella perché la prigione, udite udite, è il luogo angusto in cui è finito una volta distribuiti i premi della lotteria distrai–Italia e l’apparato giudiziario ha ripreso la sua missione.

La figura del giullare del medioevo, in un’opera di E. Faral, degli anni Novanta, descritto e inteso come «affabulatore, il cantore che rallegra festini, nozze, veglie… il buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini», viene ne Il Paese dei Misteri Buffi attualizzata e riproposta da Fo e Manin, connotata da una forte coscienza politica e opposizione nei confronti del potere. In questa chiave di modernità va focalizzato Silvio narratore, paradossalmente anch’egli contro il potere, spesso da lui stesso esercitato e incarnato.

Trovandosi in una cella con trenta letti e sessanta detenuti, il Cavaliere commenta: «“E poi vorrei sapere chi è il responsabile di questa folle ammucchiata… È una situazione incivile!”», quasi ad accattivarsi la tenerezza del lettore – questo piccolo uomo, poco credibile, beffeggiato e vittima di un sistema da lui stesso avallato in precedenza per i suoi comodi.

Il Paese dei Misteri Buffi è un testo semplice, scorrevole e piacevole, capace di raggiungere sia il lettore che per la prima volta getta uno sguardo sulla situazione socio-politica della nostra nazione, sia quello aggiornato che viene accompagnato, con ironia e sarcasmo, in un revival tutto italiano.
 

(Dario Fo – Giuseppina Manin, Il Paese dei Misteri Buffi, Guanda, 2012, pp. 208 , euro 15)
 

“Storia del Costume dall’età romana al Settecento” di Giulia Mafai

Sono stati scritti molti testi sulla storia del costume, ma la specialità di Storia del Costume dall’età romana al Settecento, di Giulia Mafai, edito da Skira, è che la scrittrice, in questo caso, è anche un’addetta ai lavori, un’esperta che con i costumi, i tessuti e le loro fibre ci si è confrontata da sempre, e ne ha fatto la sua vita.

Miriam Mafai è una signora gentile che si presenta come il suo libro, garbato e di facile lettura ma ricchissimo di dettagli, citazioni puntuali ma godibili, leggero anche quando si inoltra in descrizioni ardite di tecnica sartoriale e letture storico iconologiche degli abiti; ogni descrizione riesce a essere un avvincente racconto di un pezzo di esistenza, quella dell’abito o di chi lo indossa che diventano spesso, una cosa sola.

Una storia del costume quindi, scritta dall’interno con la passione di chi ha visto le sue creazioni muoversi su importanti palcoscenici fra i quali Un eroe dei nostri tempi e Amici miei di Mario Monicelli, La Ciociara e Il giudizio Universale di Vittorio De Sica, solo per citarne alcuni.

Il lavoro di costumista, a questo livello – abbigliare personaggi di precisi periodi storici, classi sociali e livelli culturali con ruoli molto specifici per sceneggiature di tale levatura –, richiede una ricerca storica e soprattutto di storia dell’arte particolarmente attenta, con un occhio mirato al dato dell’umano; le letture e le visioni dovranno portare infatti alla realizzazione di abiti che daranno vita a un personaggio reale che con il suo abbigliamento e i suoi accessori sarà in grado di rendere la verità quotidiana di quelle epoche ma anche il carattere, i sentimenti, le peculiarità del personaggio e del suo periodo storico politico; in questo stesso modo la Mafai nel suo saggio ci descrive i cambiamenti della storia del costume attraverso le epoche analizzando e umanizzando grandi opere d’arte che rappresentano scene di costume, spiegando con semplice accuratezza lo scenario politico ed economico che le ha create e le conseguenze sociali, sull’esistenza degli individui nel loro vivere quotidiano.

Gli abiti e gli accessori, infatti, parlano della realtà, della tangibilità della storia stessa, della fisicità e dei sentimenti di quei corpi che hanno agito e fatto la storia recente e passata.

Giulia Mafai in questo testo, approfondito ma mai ridondante, ci propone una lettura iconografica e antropologica attraverso una piacevole narrazione, a volte sfatando luoghi comuni, della progressiva trasformazione del costume in Europa dall’età romana fino all’Illuminismo o parlando d’arte, dalla Classicità al Neoclassicismo. Il filtro con il quale tratta l’argomento è di chi da costumista esperta e donna di grande cultura artistica, cresciuta in un sofisticato milieu culturale (figlia del pittore Mario Mafai e della la scultrice Antonietta Raphaël, sorella della giornalista Miriam Mafai) fonde con sagacia le modificazioni nell’uso degli abiti e delle calzature, delle acconciature, ritessendone le trame attraverso dipinti, incisioni, sculture e testi letterari e ci chiarisce quanto la storia del nostro modo di abbigliarci sia lo specchio di grandi eventi storici e culturali, leggendo le forme, i colori, i rituali di cappe, mantelli, cappelli, corpetti, arricciature si arriva facilmente ai contenuti della storia politica, sociale e certamente religiosa dell’Europa tutta.

Nel libro è avvincente inoltrarsi nei tratti politici più peculiari della rivoluzione francese attraverso l’interpretazione che la Mafai dà dei decisivi e rapidi cambiamenti del costume: «La rivoluzione francese spazza via le parrucche e i tacchi rossi». I tallon rouge erano infatti un forte simbolo dell’appartenenza alla classe sociale, insieme alle parrucche e ad abiti dalle proporzioni sovradimensionate, e il loro incedere lento sotto tali pesi doveva essere supportato da grossi bastoni cesellati. Tutto questo inutile sfarzo venne presto sostituito durante la rivoluzione dalle casacche dalle linee severe e raffinate per gli uomini e, per le donne, le silhouette ampie supportate da panieri e sottogonne rigide diventarono sottili, senza corsetti. La prima parte della rivoluzione fu un periodo di restrizione; gli abiti sfarzosi e i colori allegri potevano essere sinonimo di potere, che, durante il Terrore, coincideva con una condanna a morte. Con il Direttorio, si arriverà per attinenza politica alla lineare semplicità dello stile greco.

L’abbigliamento della rivoluzione francese influenzò tutta l’Europa; la moda diventò più economica e accessibile alle masse e le e donne si sentirono più libere nei movimenti in quanto prive degli abiti elaborati del periodo precedente. Ora era possibile vestirsi con eleganza in maniera sobria e poco elaborata.
In letteratura il ritorno ad atteggiamenti spontanei, aiutati dalle nuove foggie e tessuti, e a un romanticismo naturale diede la possibilità ad autrici come Jane Austen di creare eroine ancora oggi molto lette e amate .

Questo testo è quindi la fascinosa storia, lontana dal linguaggio accademico, di come in Europa l’affermazione dell’immagine di sé sia stata elaborata, spesso con picchi di altissima levatura estetica attraverso le diverse fogge degli abiti da lavoro o di rappresentanza consegnandoci la più vera eredità, la più umana delle realtà che si può rintracciare analizzando le epoche, quella della maniera di vivere la quotidianità e quindi di tutta una sensibilità estetica e morale.

Il dettaglio di un copricapo, del taglio di una manica, il colore e il materiale di un frusciante tessuto o la simmetria di una gonna che sembra costruita con l’abilità riservata alle lesene delle cupole rinascimentali, tutto ha uno specifico significato e il libro della Mafai, attraverso le immagini di opere d’arte famose e non, ma anche con immagini di meravigliosi abiti originali, superstiti al tempo, ci illustra tutti i perché di quelle specifiche fatture, ci porta nelle corti sfarzose dove sono stati confezionati, nei mercati dei feudi, nelle cerimonie in cattedrale e nelle stanze private di nobildonne rinascimentali che vestivano sottogonne come rituali di torture ma anche strumenti di potere sensuale.

Una lettura avvincente della più bella e vera tra le storie dell’estetica e, come il libro ci dimostra, dell’etica Europea.

“Cacciatori di frodo” di Alessandro Cinquegrani

Un uomo con la sua «nuvola di acerbe espiazioni al guinzaglio», tutte le mattine prima dell’alba, esce dalla casa cantoniera per andare a riprendere sua moglie sdraiata su un binario ferroviario subito dietro una stretta curva. Sono dodici chilometri suppergiù. L’uomo cammina facendo attenzione a mettere bene i piedi sulle traversine per non rovinare le scarpe nuove, ultimo status symbol di un’agiata esistenza borghese dissoltasi un giorno, in un attimo.

Sua moglie Elisa, dalla pelle diafana e in camicia da notte, da quel momento non parla più e ripete quell’insensato gesto tutti i santi giorni da quando si sono trasferiti in quel luogo. Si distende e aspetta. Aspetta che il treno arrivi e «che le faccia rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume». Il binario è però un binario morto. Come Elisa. Il suo corpo vive, respira, avverte il freddo e il caldo ma la sua coscienza è completamente imprigionata dietro la barriera impenetrabile del suo mutismo.

Lì vicino mormora un fiume colmo di echi storici di guerra dove hanno trovato il loro nascondiglio i cacciatori di frodo. Questo è il paesaggio che fa da cornice alla storia di dannazione dai risvolti biblici che Alessandro Cinquegrani racconta nel suo romanzo d’esordio Cacciatori di frodo, edito da Miraggi Edizioni e finalista al Premio Calvino.

Come in un girone infernale ogni personaggio ha qualche colpa da espiare. Condannato dal destino, Augusto, questo il nome del protagonista, si ritrova dall’oggi al domani senza più nulla, la fabbrica, la famiglia e le sue certezze: «…la mia vita, penso, è sempre stato uno scadenzario di passività, penso, in tutta la mia vita non ho fatto che subire il destino, che galleggiare e sopravvivere nello spazio che mi era concesso, senza alzare i gomiti, penso, e forse il mio onesto lavoro, il mio onesto badare onestamente alla mia famiglia, non è stato che un modo per non fare di più, per non compromettermi di più, penso, e fare soltanto quel poco per galleggiare nella medietà».

A mano a mano che percorre il binario morto, l’uomo si dibatte in pensieri funestati da eventi tragici e si imbatte in fantasmi che assumono le sembianze di un padre nazifascista, una madre cattolica e un fratello gemello comunista con cui la memoria fatica a fare i conti: «Eppure, penso scotendo impercettibilmente la testa, eppure, se non avessi avuto un padre nazifascista e un fratello comunista e una madre cattolica, e non ci fosse stato il prete pedofilo, e non avessi avuto la vita di merda che hai avuto, penso mentre scuoto impercettibilmente la testa e bado a mettere i piedi sulle traversine di legno del binario morto, se tutto non fosse andato come è andato, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia con la mia nuvola al guinzaglio, se tutto non fosse andato come andato, penso, eppure non penso io che ognuno debba farsi da sé, che ognuno è responsabile del proprio destino, che con tanti piagnistei col cazzo che ti tiri su un inceneritore di pneumatici che viene il ministro a visitarlo, se dai sempre la colpa agli altri, no, dipende da noi se va tutto bene o va tutto male, dipende solo da noi, penso, e dipende da me, e questa volta dipende davvero da me, penso mentre percorro il binario morto, dipende solo da me se siamo qui, con quello che ho fatto, con tutto quanto di atroce, io, ho fatto.»

Cacciatori di frodo è un romanzo troppo spiazzante per non venirne invischiati senza il rischio di uscirne un po’ cambiati. Una scrittura ruvida, insidiosa, ossessiva, consapevolmente disattenta alle ripetizioni riesce nell’intento di ricreare il tortuoso e ondivago fluire dei pensieri che affollano la mente umana così come affiorano, prima di comporsi in frasi logicamente compiute, come nella migliore tradizione del monologo interiore joyciano. Si entra direttamente all’interno della prospettiva del protagonista dove la sua logica ci aiuta a comprendere ciò che dall’esterno sarebbe assolutamente ingiustificabile. Si viene così messi in fronte all’assurdità dell’esistenza, al suo abito stazzonato e grottesco e all’insensatezza che la pervade nell’indifferenza generale.

(Alessandro Cinquegrani, Cacciatori di frodo, Miraggi Edizioni, 2012, pp. 112, euro 12,50)
 

“Vedrai” di Nicolas Fargues

Colin, che ha circa quarant’anni ed è cresciuto ascoltando i Doors, non aveva mai pensato di «tornare per una qualsiasi ragione al cimitero Père-Lachaise» dove riposano Jim Morrison e vecchie star e dove un giorno per «240 euro invece dei 419 della tariffa adulti, gli impiegati del Comune di Parigi avrebbero proceduto alla cremazione» di suo figlio appena dodicenne. È una mattina come tante quella in cui Clément muore schiacciato da un treno della metropolitana. E Colin sa che non ne verrà a capo, che sono bastate appena poche ore perché le persone riprendessero a viaggiare nell’indifferenza dei vagoni sotterranei, che ogni volta che vedrà una lattina di Coca Cola, un jeans troppo largo, una pagina di facebook, la vita si mostrerà «sguaiata» nella sua semplicità, tanto che perfino il sole sarà «oltraggioso» con la sua luce fissa e incurante.

Il libro di Nicolas Fargues, Vedrai (Nottetempo, 2012), è incentrato sul dolore, la narrazione coincide con l’elaborazione del lutto e la trama del romanzo si intesse di un’assenza imperiosa e asfissiante. Vedrai è un futuro reso impossibile da un passato inesorabile che fa del presente un’eterna rottura, è il ricordo di un tempo trascorso che sembra sprecato perché ormai inutile. Che senso hanno avuto i rimproveri se un bambino non fa in tempo ad affacciarsi al mondo che è già morto, di una morte atroce e «stupida»? Perché educarlo? Colin è perso tra le mura del suo appartamento, fra le scrivanie dell’ufficio, nelle cene con gli amici, imbottigliato nel traffico finché un pusher (molto, forse troppo, magnanimo) gli suggerisce di partire per il Burkina Faso dove una sorta di stregone potrà curare la sua anima. Il viaggio sarà così un lento ma nuovo e inimmaginabile ritorno, attraverso un romanzo di formazione straniante che racconta di un padre senza figli.

Nicolas Fargues ha una scrittura chirurgica che pagina dopo pagina invita il lettore lungo un cammino senza scappatoie, attraverso le sofferenze di un uomo che, lontano ormai da ogni premura formale, svela l’ipocrisia di una società bianca e borghese strutturata sul senso di colpa. Affrontando con uno sguardo tagliente i cardini del cosiddetto pensiero colto, lo scrittore ne svela i pregiudizi rovesciati e trasformati in un’apparente tolleranza. Il libro è da leggere senza interruzioni, assecondandone i percorsi tortuosi dove lo stile asciutto e lucido (ben restituito dalla traduttrice Benedetta Torrani) gioca con i contrari, regalando ai suoi lettori un romanzo emotivo, privo di ogni sentimentalismo.


(Nicolas Fargues, Vedrai, trad. di Benedetta Torrani, Nottetempo, 2012, pp. 187, euro 14)

Le luci della musica: a tu per tu con Stefano Iacovitti

C’è chi la musica la fa, c’è chi la musica la ascolta. E c’è chi della musica si prende cura, la porta in giro, lavora per creare a ogni spettacolo le condizioni tali affinché la magia tra palco e platea avvenga. Conversiamo con Stefano Iacovitti. Romano, 37 anni, laureato in giurisprudenza, nel 2003 inizia a lavorare come road manager con Roberto Angelini.


Come definiresti il tuo lavoro di road manager?

Divertente, interessante, però anche faticoso… road manager è una qualifica un po’ stretta, perché di volta in volta faccio il tour manager, il personal manager, da due anni mi occupo prevalentemente delle luci degli spettacoli, se non esclusivamente. In effetti, però, la qualifica ufficiale con cui ho iniziato era proprio road manager.


Hai scelto o sei stato scelto da questo lavoro?

Sono stato assolutamente scelto da questo lavoro in maniera casuale e anche un po’ bizzarra. Ero con Angelini in casa di un amico comune, impegnatissimi a parlare di massimi sistemi giocando alla PlayStation… [e sorride, sottolineando il contrasto della situazione.] Io ero tornato dal servizio militare ed ero in cerca di un lavoro che non fosse tradizionale, mi ero laureato ma già negli ultimi tempi dell’università avevo capito che quella non sarebbe stata la strada per me… non avevo ancora capito, però, quale potesse essere. Angelini mi offrì di accompagnarlo come road manager, aveva bisogno di una persona di fiducia. Feci le prime due tappe con lui in Puglia, il 2 e 3 agosto 2003 a Monopoli e Bitonto. Era il mio inizio, mi sembrava tutto un mondo dorato a cui non ero abituato, dissi a Roberto: «Ti ringrazio anche se dovesse finire domani!», perché quei due giorni erano una sorta di prova per me, lui magari era già convinto. L’autunno successivo cominciai il tour con Niccolò Fabi, e nell’ottobre 2005, a Benevento, feci la prima tappa con Simone [Cristicchi, ndr].


C’è stato un maestro che ti ha insegnato il mestiere o hai appreso tutto con l’esperienza?

Certo, ci sono delle figure di riferimento ma un vero maestro non mi è mai capitato. Io mi sono trovato sempre un po’ allo sbaraglio, ho cercato di carpire anche qualche semplice atteggiamento dalle persone con cui ho lavorato. All’inizio basi tutto sui rapporti personali e cerchi di fare bene il tuo lavoro.


Hai collaborato con Roberto Angelini, Niccolò Fabi e Simone Cristicchi: quali aggettivi sceglieresti per descrivere ciascuno di loro?

Non è facile eh… sono combattuto tra l’aspetto umano e quello artistico … sono tutti e tre amici… [E alla fine ce li racconta come si farebbe con una soggettiva, con un’inquadratura personale.] Roberto lo conosco dall’89, eravamo al ginnasio insieme, è un amico fraterno, è una persona a cui voglio bene, ma di quell’affetto proprio viscerale. Simone è un’altra persona a cui sono molto legato, dal 2005 a oggi ormai lavoro quasi esclusivamente con lui. È la mia seconda fidanzata! Niccolò è una persona eccezionale, profonda, sensibile, seria. Penso che sia uno dei cantautori più bravi e preparati. Ha una scrittura che a me piace molto.


Com’è la musica da dietro le quinte?

Sempre affascinante, potrebbe perdere quell’aura di magia però è sempre una forma di espressione bellissima. Mi emoziono, specie quando faccio le luci perché ci sono dei passaggi in cui mi sembra proprio di integrarmi alla perfezione, in qualche modo partecipo al concerto. [E prosegue nel suo racconto, appassionato.] Fare le luci mi fa sentire parte dello spettacolo, mi permette di esprimermi in maniera creativa… con Roberto al tempo della scuola, avevamo un gruppo, avevo quindici anni e suonavo la chitarra, ho continuato a suonare fin dopo la maturità poi ho smesso ma sono rientrato dalla porta di servizio, ed essere alle luci mi permette di essere un po’ sul palco.


C’è un episodio del dietro le quinte a cui sei particolarmente legato e che ci vuoi raccontare?

Oddio… sai che non lo so?! [Ma è questione di istanti e ci regala una storia spassosissima.] È un episodio di dietro le quinte sul palco! Era l’ultima data del tour estivo 2007 di Simone, e tradizione vuole che nell’ultima data si preparino degli scherzi. Io e il fonico di palco, Riccardo Boldrini, avevamo preparato delle tracce con frasi del Magnotta [e in una esilarante digressione ci racconta del tour 2007 la cui colonna sonora in macchina durante gli spostamenti era il cd con gli scherzi a Mario Magnotta e di aver raggiunto un tale livello di “esegesi” di quei testi da studiarne persino l’inflessione!] avevamo collegato il pc col mixer di palco, mixer che gestisce i monitor, o in alternativa le cuffie, che hanno i ragazzi sul palco. Quella volta erano tutti in cuffia, perciò avevamo fatto in modo che insieme agli strumenti sentissero le singole frasi del Magnotta: da quelle più scabrose a quelle più normali che però potevano far ridere perché erano un tormentone fra noi. Ogni tanto azzeccavamo anche una frase pertinente con la frase che aveva appena cantato Simone. Ricordo che il chitarrista, Davide Aru, crollò in ginocchio ridendo, io e il fonico eravamo piegati dalle risate. Il pubblico non sentiva e non si spiegava cosa stesse accadendo, perciò è un retroscena avvenuto però sul palco.


Una giornata tipo in tour?

Sai quando parti ma non sai quando vai a dormire! Questo potrebbe essere il motto. In sintesi, da foglio di lavoro: appuntamento per partenza, viaggio più o meno lungo, arrivo sul posto per allestire tutto, prove, concerto, mezz’ora di autografi.


Com’è presenziare a questa mezz’ora di autografi, osservare?

È un po’ strano… io non concepisco l’autografo, ho visto gente farsi fare l’autografo su pezzi di tovaglia di carta strappata dal tavolo del camerino, o sul braccio… proprio qualche giorno fa, con Simone, ci hanno fermato due ragazze per strada, non avevano visto il concerto ma volevano foto e autografo… per puro esibizionismo. Scriverei un libro, sugli autografi! Un’altra volta a Cavriglia, nel 2004 credo, giocai con la nazionale cantanti, a fine partita c’era Roberto circondato da mamme, bambini, adolescenti, ragazzi, mi ero avvicinato a lui per dire che stavo andando in spogliatoio e ci saremmo visti dopo ma non ho fatto in tempo perché questo “sciame” si rivolse verso di me. Presero per mezz’ora autografi da me senza sapere chi fossi, un bambino però mi disse: ma tu chi sei?


Fuori tour?

Non ho una vita sociale particolarmente attiva, essendo sempre in giro per lavoro quando sono a casa mi piace una vita tranquilla, con la mia ragazza. Faccio sport, mi piace leggere. Sono un feticista dei libri, solo quelli cartacei, non riesco a leggere quelli digitali. Pure in tour ho sempre un libro con me e anche se vado a letto alle 5 leggo almeno una pagina. Adesso , per esempio, sto leggendo Il senso del dolore di Maurizio De Giovanni.


C’è un concerto che vorresti andare a vedere, e sentire, da spettatore?

Sto per andare: Radiohead, 22 settembre, a Capannelle, Roma. [E lo annuncia soddisfatto, anche trepidante, mentre gli occhi gli si illuminano e accendono tutto il volto in un sorriso.]


Quale domanda vorresti venisse fatta a Stefano Iacovitti?

Non ne ho idea… in realtà forse me l’hai fatta chiedendomi del lavoro, per cui ho potuto dire quanto mi piace e mi emoziona essere alle luci. Di personale non saprei… anche perché pur avendone viste fare tante, di interviste, io non sono così abituato a essere intervistato.
 

Foto di Mauro Taddei e Maria Luisa Maricchiolo.

Prima edizioni di Memoracconti – Storie da ricordare

Racconti brevi (massimo 8000 caratteri spazi inclusi); racconti in italiano e a tema libero; racconti che sappiano intrattenere, far riflettere ed emozionare anche chi ha poco tempo per leggere.

Tutto questo è Memoracconti – Storie da ricordare, il concorso nazionale indetto da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí, e dedicato interamente alla narrativa in forma breve.

La partecipazione è aperta a tutti, senza distinzione di nazionalità, sesso o età. Una giuria composta da scrittori, giornalisti e un librario, valuterà le brevi opere scegliendo tre finalisti. Il vincitore unico sarà designato nel corso della serata di premiazione che si svolgerà durante la Fiera “Più libri più liberi” di Roma, dicembre 2012.

Il premio previsto per l’autore del racconto primo classificato sarà costituito da: attestato di vincitore assoluto; pubblicazione del racconto sul sito diFlanerí; pubblicazione del racconto all’interno dell’antologia edita dalle edizioni Memori, con riferimento al vincitore all’interno del volume e nella quarta di copertina; assegno di euro 250,00 (duecentocinquanta).

Come fare per partecipare? Basta scaricare e leggere attentamente bando, regolamento e liberatoria.

Il concorso scade mercoledì 31 ottobre 2012.


Per ulteriori informazioni e chiarimenti contattare:
info@flaneri.com
redazione@memori.it

“Il senso di una fine” di Julian Barnes

Che storia è questa? Una come molte? Può darsi. È una di quelle che sgorga dalle rughe di un dettaglio e che diventa a sua volta una ruga, un crepaccio di carne e parole da cui nasce ineluttabilmente un altro fatto, dove ogni passo è una marcia che si mangia le impronte. E che s’interroga su quanto e come abbia camminato.

Il libro di Julian Barnes Il senso di una fine (Einaudi), caso letterario a pochi mesi dall’uscita, è solcato da enormi domande. Come da uno squarcio. Un dirupo che sanguina. 

L’inizio diacronico spunta tra i banchi di scuola, nel liceo londinese che Tony Webster frequenta assieme ai suoi compagni, dentro i suoi anni troppo giovani per non scalpitare. Ha fame, della vita pronta a scrosciare, delle donne che conosce appena, che sono pensieri ingombranti più dei loro corpi, ancora lontani, ancora ipotetici. Tony ha i suoi amici, Alex e Colin, con cui gareggiare sottilmente a chi ha avuto più esperienze, con cui dissertare di quel poco che sembra l’intero. Nel mezzo del semestre in classe arriva Adrian, sfacciatamente intelligente, sfacciatamente colto, sfacciatamente affascinante; l’emblema noncurante di quello che i tre vorrebbero essere. Troppo impegnati a guadagnare ragioni millimetriche, bottoni di discorsi infinitesimi, mentre lui ha già colto l’insieme. Ha eluso una questione per scovare una risposta più grande. Le lezioni di storia sono un esempio lampante. Il professore chiede e Adrian ha già pronta la sua visione, ha viaggiato chilometri più in là ed espone chiaramente la propria sentenza come fosse un diorama. Troppo cinica forse, troppo imbevuta di disillusione. Ma comunque impressionante.

E Tony resta a guardare. Non sa essere alla sua altezza. È una crisalide insicura, ha paura di sbagliare. Anche quando si diploma, va al college e conosce Veronica. Ci esce, la bacia, la tocca, ma non riesce mai ad afferrarla. C’è un fondo imprendibile dentro i suoi occhi, un mistero che riesce a zittirlo. Sabbie mobili e buie da cui non sa mai pulirsi abbastanza. Tant’è che Veronica incontra Adrian e i due fracassano le distanze dovute. Tony resta solo, resta perdente. Finché un giorno qualunque non disordina gli altri a seguire. E probabilmente anche quelli passati. Adrian si suicida, aprendo le vene dentro una vasca. E Tony deve capire, attraversare quei buchi insoluti che hanno indosso il suo nome, la sua vicenda e quella di Veronica. Lo farà molti anni dopo, a vecchiaia avviata, quando avrà tra le mani lo stralcio di un diario di Adrian e la possibilità di ripescare i suoi dubbi.

Barnes racconta tutto con scioltezza, con la maestria argomentativa di un principe del foro: le discussioni filosofiche intraprese da Adrian e da Tony affiorano limpide e schiaccianti. I temi affrontati sono mastodontici. E la scatola umana è troppo asfittica per contenerne anche l’eco. Cosa vuol dire comprendere la vita? Amarla comunque anche se scricchiola, anche se strazia la gola, anche se risulta soltanto un dono non voluto? Oppure respingerla, restituirla al mittente è una prova inconfutabile di consapevolezza? E i fatti riportati cosa distruggono dell’originale? Quanto preservano e quanto disperdono? Perché la storia, si sa, è una forma di entropia in cui convergono le memorie dei vinti, dei vincitori e dei mediocri come Tony. Come molti protagonisti dei libri non scritti.

Il linguaggio è arguto e sofisticato, ma non inutilmente complesso. Costruito in modo cristallino, scolpito, libero da aggiunte gratuite o troppi ricami. All’autore interessa smascherare, scompigliare le carte che pensavamo assestate e definitive. Ma non come un giallista che propina chirurgicamente il colpo di scena. Come un regista sapiente, capace di deviare lo sguardo su un singolo frammento che all’improvviso si rivela un punto di svolta. Perché la verità può sfuggirci fino all’ultimo. Tony «continua a non capire», come sostiene anche Veronica, a innalzare campanili di scelte e di opinioni su terreni friabili. Dimenticando che il nostro assoluto è solo un profilo. Per questo il senso di una fine è anche quello di un inizio. L’inizio di chi interpreta quella stessa fine. Di chi prende parte al gioco, tra il suo primo e il suo ultimo respiro.


(Julian Barnes, Il senso di una fine, trad. di Susanna Basso, Einaudi, 2012, pp. 160, euro 17,50)

“Come non detto”: a tu per tu con Ivan Silvestrini

Personaggi in cerca di autore. Si muovono nel grande schermo in attesa di un outing che sarebbe una vera liberazione. Mattia, però, nonostante la presenza e l’affetto dei suoi amici, non riesce a dire di essere gay alla sua famiglia e sta per trasferirsi a Madrid dal suo compagno Eduard. Inizia così il film Come non detto, da poco uscito nelle sale. Presto la situazione si complica e, in una vera commedia degli equivoci, sembra che tutto vada per traverso. Eduard arriva a sorpresa e crede che la famiglia di Mattia sappia tutto. Da qui un intreccio esilarante, con colpi di scena e nessuna caduta di stile. Si ride, si riflette, ci si sorprende. E si fa il tifo per questo ragazzo un po’ timido ma molto innamorato, che fa di tutto per complicarsi la vita. Parliamo del film con il giovane regista, Ivan Silvestrini.


Come non detto colpisce davvero per la franchezza, la fantasia, l’ironia con cui racconta la vita di un omosessuale alle prese con un “coming out”. Chi l’avrebbe detto che si può sorridere in momenti così complicati?

Ogni momento difficile, col senno di poi, può assumere connotazioni tragicomiche, e il senno di poi degli altri è spesso tutto ciò che abbiamo quando dobbiamo affrontare un passo del genere. Come non detto nasce per questo, per stare vicino a chi deve fare questo passo e a coloro che dovranno confrontarcisi. Io voglio pensare che sempre di più il “coming out” diventerà accettabile anche per le famiglie italiche, e in ogni caso, per citare una frase di Josafat (il protagonista): «Tu non hai niente da perdere da una famiglia che non ti accetta per quello che sei». Se si riesce a sorridere di questo film, si è a metà dell’opera.


Il film è una commedia brillante, sopra le righe. Come è riuscito a raccontare un amore tra due uomini evitando caricature e luoghi comuni? I suoi personaggi sembrano davvero reali e pronti a raccontare una storia senza la pretesa di raccontarle tutte.

La mia sfida con questo film era restituire allo spettatore, anche al più omofobo degli spettatori, una sensazione palpabile di assoluta normalità e inevitabilità dell’innamoramento di Mattia e Eduard. Era fondamentale la scelta della coppia perfetta a livello di cast, e poi si trattava di mettere in scena un trasporto puro, pulito, come quello dell’innamoramento appunto. Quando i due ragazzi si fissano nel silenzio dopo aver fatto l’amore io ho chiesto agli attori di dirmi con lo sguardo: è lui, è l’amore, l’ho trovato.


L’essere gay viene mostrato nel film con molti aspetti: quello problematico di Mattia, quello più gioioso e spensierato di Eduard, senza tralasciare personaggi en travesti come Giacomo, che lavora in una tintoria e fa la drag queen di notte, “in diretta” dal Mucca Assassina… tutte le sfumature di un mondo spesso descritto con molti pregiudizi. Lei però racconta la difficoltà di accettarsi come gay come se non ci fossero ostacoli e pregiudizi culturali e il vero problema sia accettarsi e farlo accettare da una famiglia borghese. Non sente di aver ceduto a una elaborazione un po’intimista, che risolve tutto in un conflitto interiore?

Il conflitto interiore, l’omofobia interiore è uno dei temi principali del film. Se non siamo noi i primi ad accettarci per come siamo come possiamo pretendere che gli altri lo facciano? Forse questo film ad alcuni potrebbe sembrare una favola sul “coming out”, e per certi versi lo è, anche se lo spettro delle possibilità disastrose è comunque evocato attraverso l’esperienza di Giacomo, l’amico del protagonista. Chi ha visto il film, sa che se un “coming out” può andar bene è anche perché i familiari di Mattia hanno avuto tempo di elaborare la cosa, nell’arco filmico abbiamo compresso questa fase, probabilmente per molte famiglie è necessario un tempo di accettazione maggiore, ma è assolutamente possibile riuscirci. E questo film può aiutare quelle famiglie a capire come vive un ragazzo gay che deve nascondere la propria omosessualità al mondo, capire che è assurdo farlo vivere così.


L’amicizia sembra il filo conduttore del film. Mattia può contare su amici veri, pronti a rispondere alle sue richieste piene di ansia. Si parla anche dell’amicizia “amorosa” con Stefania. C’è molta complicità e il piacere di ritrovarsi insieme. Tutti giocati sull’ironia i personaggi che circondano Mattia, tutti in cerca di autore, con un nodo da risolvere. Straordinaria la nonna che cerca e trova lavoro. Intensa Monica Guerritore nei panni di una mamma in crisi coniugale, incerta e ansiosa come tutte le mamme del mondo e si direbbe sull’orlo di una crisi di nervi.

Ognuno in questo film ha il suo personale “coming out” da fare, sì. Per questo è un film universale e ognuno ci si può rivedere per più motivi.


Come commenta il finale a sorpresa del film?

Ripeto, avendo avuto modo di elaborare la cosa, la famiglia di Mattia si mostra per quella che mi auguro un giorno diventerà la norma. Mi auguro che Come non detto possa essere una sorta di manuale non solo per il “coming out”, ma anche una guida alla comprensione di un figlio/a, fratello/sorella, amico/a omosessuale. Vivere con Mattia questa sua giornata molto speciale può avvicinare le persone, essere omosessuale non fa di te un diverso, è solo un aspetto della nostra vita, tutti siamo diversi su tantissimi fronti ma non per questo dobbiamo isolare/isolarci. Gli italiani a mio parere sarebbero molto più sereni sul tema se non subissero una costante demonizzazione mediatica degli omosessuali. I gay sono vittime di una strumentalizzazione populista della presunta loro “diversità”, al fine di dividere et imperare, sfruttando il facile pregiudizio dell’ignoranza. Beh, questo mi auguro cessi, spero che il nostro film faccia la sua parte in questa battaglia per la civiltà.

“È tutta una follia”, a cura di Marco Vichi

Che cos’è la follia, in che modo prende un uomo e lo porta lontano da tutto ciò che vuole e sa? Esistono infinite sfumature di pazzia, centinaia di modi in cui la mente umana devia e si contorce allontanandosi da quella che comunemente è ritenuta la ragione, il pensiero normale. Manie studiate, catalogate, etichettate come patologie, ma nella maggior parte dei casi vissute come semplici forme di normalità, come personali interpretazioni dello stare al mondo.

È su questa declinazione della devianza mentale che si concentra È tutta una follia, antologia di racconti a cura di Marco Vichi edita da Guanda. Nove storie di ordinaria follia, di disagio di vivere e disturbo che animano persone qualunque in modi diversi.

Apre la raccolta Edoardo Albinati, con un uomo solo in mezzo al bosco, una motosega in mano e una folla di pensieri nella testa, prosegue Lorenzo Chiodi, all’esordio con “Il mio gioco preferito”, crudo ritratto di solitudini familiari, ipocrisie borghesi e pene d’amore adolescenziale, con tutti i loro dolorosi strascichi, e poi via con Diego De Silva e Laura Del Lama, l’inquietante racconto storico “La casa vuota” di Marta Morazzoni, il bizzarro viaggio nel tempo de “Il chiodo” di Gianluca Morozzi, la reificazione dell’amore con Divier Nelli, lo Zioboja di Paolo Nori e “Il macellaio”, racconto finale di Marco Vichi, favola nera e grottesca di ignoranza e superstizione.

Nove storie che incuriosiscono e accompagnano, che aprono finestre su piccoli orrori quotidiani, isolamenti e incomprensioni, ricordi fraintesi e sogni infranti comuni a tutti noi.

A conclusione della raccolta, una lettera di Mario Tobino, grande studioso della psiche umana, direttore per trentacinque anni dell’ospedale psichiatrico di Lucca e autore di romanzi ispirati alla sua vita e al suo mestiere, su tutti Le libere donne di Magliano, sulla sua esperienza nel reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Maggiano. Nella lettera riportata, pubblicata su La Nazione il 7 novembre 1985, lo psichiatra si esprime contro la Legge 180, la cosiddetta Legge Basaglia del 1978 che portò alla chiusura dei manicomi e degli ospedali psichiatrici in Italia. In contrasto con il collega estensore della riforma, Tobino sostiene la necessità di mantenere in funzione le strutture sanitarie dedicate ai malati di mente, «la loro vera casa», come l’aveva definita in un’altra lettera al quotidiano fiorentino nel 1978.

Perché per Tobino la pazzia era ed è una condizione dell’essere umano, una malattia reale che come tale va trattata ma che non deve portare a vedere i matti per qualcosa di diverso da quello che sono realmente, «delle persone bisognose d’amore». Come i protagonisti di questa antologia.


(Autori Vari, È tutta una follia, Guanda, 2012, pp. 252, euro 16,50)

“Four” dei Bloc Party

Le necessità di una band e quelle dei fan a volte coincidono. I Bloc Party avevano bisogno di un disco chiaro e potente, che togliesse un po’ della ruggine nata tra recenti dubbi e incertezze. Sulla stessa linea parallela, i fan – e non solo – volevano musica capace di riaccendere il fuoco esploso nel lontano 2005, anno dell’ormai epico Silent Alarm.

A unire le due rette, ci ha pensato Four. Prodotto da Alex Newport e subito ben accolto, il quarto disco del multietnico quartetto londinese segna un nuovo inizio. Dopo il discusso Intimacy (2008) e The Boxer (2009), il disco solista di Kele Okereke, dopo la superband Young Legionnaire a cui ha partecipato il bassista Gordon Moakes e l’attività di supporto nei live degli Ash intrapresa dal chitarrista Lissack, erano iniziate a girare voci sul possibile scioglimento della formazione nata nel 1998. Fortunatamente Four smentisce voci e detrattori prevenuti; i Bloc Party sono tornati all’ennesima potenza.

Una potenza più grezza e garage, meno elaborata e complessa, genuina, lontana dai viraggi elettronici del predecessore. Qui ci si sfoga quasi in presa diretta – lasciando infatti alcuni momenti di parlato tra una traccia e l’altra – mettendo in fila momenti di rock secco e diretto, senza la minima superficialità. “So He Begins to Lie” è la giusta partenza, soprattutto per gli assoli che segnano il culmine scalpitante. Parlavamo di un nuovo inizio, e l’approccio vocale di Okereke alle canzoni lo dimostra. La gamma della performance canora si amplia, muovendosi tra le urla di “3×3”, fino all’opposto melodico ritornello di “V.A.L.I.S”. Dal punto di vista della ritmica, la coppia Tong – Moakes si conferma un dualismo ad altissimi livelli: sia per i brani più feroci, sia per i rari momenti più soft – “Day Four” e “Truth” sono belli entrambi. La chitarra di Lissack, supportata alla ritmica da Okereke, regala il tipico sound BP, come per il primo singolo “Octopus”. Sempre a proposito di Lissack, spiccano gli assoli di “Team A” e “Ketting”, tra i tanti dell’album, da annotare come semplicemente magnifici. I momenti sfocianti nell’hard rock puro, vedi la clamorosa e già citata “Ketting”, si mescolano bene con brani melodicamente bipolari come “Coliseum”. Così, quando nello schianto simil-Muse dell’ultima canzone i Bloc Party dichiarano di «non essere belle persone», noi possiamo anche essere d’accordo e non ribattere: ci accontentiamo del fatto che siano musicisti fantastici. E Four lo dimostra. A tutti.


(Bloc Party, Four, Frenchkiss, 2012)

“L’uomo che guardava passare i treni” di Georges Simenon

L’estate è quasi finita e l’autunno bussa alle porte, allora immergetevi nell’atmosfera cupa che vi regalerà questo scrittore belga e sarete trasportati nell’Europa fredda e a tratti inospitale, tipica di certi paesaggi olandesi e francesi. Ho letto questo libro sulla spiaggia, sotto a un sole rovente e (forse anche per questo) ho desiderato di trovarmi al freddo gelido di certi paesi nordici in cui l’azione si svolge.

Simenon, come si sa, è famoso per i suoi romanzi gialli e per l’ispettore Maigret, tuttavia qui si tratta di altro genere, non c’è traccia di Maigret. Il protagonista di questo romanzo, che comunque del genere giallo ha qualcosa, se non altro per le sue tinte un po’inquietanti, per la creazione della suspance e del contitnuo interrogativo “come andrà a finire?”, è Kees Popinga, tipico uomo borghese, rispettabile marito e padre di famglia, le cui solide certezze un bel giorno si riveleranno non essere tali. Un fatto inaspettato infatti porterà il nostro protagonista (a cui peraltro ci si affeziona subito, forse per la sua ingenuità) a imboccare una direzione inaspettata, e a dare così alla sua vita una svolta irreversibile. Kees Popinga da quel momento intraprenderà un viaggio, anzi una fuga, che lo porterà dalla cittadina olandese in cui tutto ha inizio, per arrivare alle strade di Parigi e infine alla campagna francese. Ma anche di un viaggio mentale si tratta, ovvero  di un abbandono dell’immagine di sé, costruita finora, per la ricerca di qualcos’altro.

Simenon è stato uno scrittore instancabile e ha per alcuni versi ha incarnato una certa letteratura mitteleuropea e novecentesca, cosparsa di personaggi con qualcosa in sospeso con la società da cui provengono e che si ritrovano a dover in qualche modo lottare contro se stessi o contro un male che piano piano affiora. Simenon tuttavia è apprezabile non solo per l’analisi accurata che svolge sull’uomo e sul suo lento scivolare verso la pazzia, ma anche, e non di meno, per la descrizione di certi paesaggi e per la centralità che attribuisce all’ambiente cittadino quasi fosse esso stesso il vero protagonista del romanzo e, perché no, anche l’artefice del destino di Popinga.

 «… in fondo ciò che aveva veramente desiderato era di essere solo, del tutto solo a sapere quel che sapeva, solo a conoscere Kees Popinga, a girovagare tra la folla, ad aggirarsi fra la gente che lo sfiorava ignara e sul suo conto pensava insulsaggini, ogni volta diverse…»

 

(Georges Simenon, L’uomo che guardava passare i treni, Adelphi)