“Le notti fiorentine” di Marina Cvetaeva

Le notti fiorentine è una raccolta di appena undici lettere, breve ma intenso rapporto epistolare tra la poetessa Marina Cvetaeva e Višnjak l’editore nonché amante della stessa.
Questo scambio apparente di missive può essere considerato più uno sfogo lirico della poetessa che una vera e propria corrispondenza. Sotto certi aspetti richiama quei lunghi romanzi epistolari del Settecento in cui il destinatario era soltanto un pretesto per dar libero corso ai propri sentimenti. Una dichiarazione d’amore appassionato, dunque, il cui epilogo spietato si affaccia nelle ultime pagine: «Il mio totale oblio e il mio assoluto non–riconoscervi sono soltanto l’eco (rafforzata!) del vostro oblio e del vostro non–conoscermi».



La relazione, tra la poetessa e il suo amato, si modella sui termini utilizzati dalla scrittrice per definire i ruoli dei due amanti: lui è connotato come un bambino, «bambino mio», «piccolo mio», sono i suoi appellativi e lei si identifica con «una madre che manca al proprio figlio». Da ciò già si intravede lo squilibrio affettivo tra le due forme d’amore con le conseguenze di un sentimento sbilanciato che porterà a una sofferenza profonda e inevitabile. L’atteggiamento materno si evince anche dalle occorrenze dei personaggi delle fiabe che spuntano qua e là nelle lettere come termini di paragone o come immagini per fissare alcuni concetti in modo più definito. La Cvetaeva attinge certamente alla tradizione fiabesca europea comune ai lettori di ogni tempo e paragona il suo adorato a un mago aggiungendo: «Se voi siete un mago, io sono il pifferaio magico della leggenda, quello che con il suo flauto trascina via bambini e topi». In un altro passaggio esprime il desiderio romantico di vederlo addormentarsi: «Voglio assolutamente vederti dormire un giorno […] la sete di te che dormi, del Bell’Addormentato nel bosco».


Quello che emerge dalla scrittura è un amore proibito, impossibile, fatto di istanti sottratti furtivamente al tempo. Ecco l’apostrofe all’amato: «Mio ospite di un’ora». Sono attimi fugaci da vivere intensamente a discapito di tutto e di tutti: «Stanotte al caffè…» oppure «…Poco fa eravamo seduti al tavolino». La notte è un tempo privilegiato per gli incontri clandestini poiché nasconde da sguardi indiscreti ma aleggia pur sempre la minaccia di essere scoperti: «La notte è nostra, noi non le apparteniamo. E a forza di essere felice – felice di non essere amorosa – di poter parlare – di non dovervi baciare – per piena e pura gratitudine – vi bacio».


«Le strade vuote della capitale» diventano un teatro discreto in cui passeggiare nell’anonimato, una panchina diviene emblema della clandestinità come se si potesse sfuggire ai giudizi: «Qualche minuto fa, stavo accanto a voi su quella panchina vagabonda… panchina d’abbandono».


Un amore che ha due grandi avversari: il sonno e la stanchezza. Nelle ore di mancato riposo si sovvertono i ritmi naturali dell’umana vita: «Per la troppa attenzione mi è venuto di colpo un sonno tremendo». Ciò che maggiormente teme l’io poetico è la rivalità di una vita tranquilla che si manifesta con la naturalezza di una vacanza al mare Višnjak aveva raggiunto la moglie e i figli in una famosa località marina sul Baltico. È la gelosia, allora, a far capolino tra le righe della lettera: «Non mi scriverete più: di giorno – mare, di notte – dormire». Il sonno incombe come una minaccia a discapito di tutto l’ardore che queste notti riservano agli amanti: «Ma ecco che la vostra fronte si aggrotta – in un nobile sforzo d’attenzione – e anche le vostre mascelle si contraggono – in un non meno lodevole sforzo di respingere un indomabile sbadiglio».



L’amore ha sete d’infinito e questo ideale cui anelare senza confini è simboleggiato dal cielo: «Amico mio, deve esserci un cielo anche per l’amore. Diverso dal baldacchino di un letto». In questa frase emerge tutta l’ansia di una donna che non può e non potrà mai accontentarsi di un amore a metà, di briciole lasciate per lei, tasselli di un amore claustrofobico che la spinge più d’una volta ad affacciarsi al balcone per respirare quell’aria che le manca, ma soprattutto per nutrirsi d’infinito con gli occhi rivolti verso il cielo. Non è un caso se nell’undicesima lettera, l’unica ricevuta da Višnjak, egli la ritragga così nel pensiero: «E ricordo voi, sul balcone, il volto levato verso il cielo nero, ugualmente implacabile per tutti».


(Marina Cvetaeva, Le notti fiorentine, trad. di Serena Vitale, Voland, 2011, pp. 85)



 

“Il gatto con gli stivali” di Chris Miller

«Se abbiamo abbattuto le loro statue, se li abbiamo scacciati dai loro templi, non per questo gli dèi sono morti». Parafrasando i versi del poeta Kavafis si può affermare senza tema di smentita che le fiabe tradizionali in apparenza scalzate da invenzioni ultramoderne, si impongono certamente trasfigurate ma più vitali che mai. Si veda e si goda di quel capolavoro d’animazione che è Il gatto degli stivali sbarcato in Italia a metà dicembre. Un’avventura d’animazione a cui non manca nulla: spettacolarità, ritmo, azione, comicità, buoni sentimenti. Assolutamente da non perdere, specie nella versione tridimensionale perché sbalordisce a ogni sequenza, che si tratti di inseguimenti tra tetti e vicoli o ascese al cielo issati su arbusti giganti oltre le nuvole su fino a castelli in aria, comunque sempre all’apice della fantasia e dell’abilità tecnica. Magnificenze firmate Dreamworks, casa di produzione di Shrek, Madagascar, Kung Fu Panda, giunta davvero all’Empireo della grafica e dell’animazione.

Stante la premessa esaltata, è pur vero che chi si aspettasse di trovare tal quale la fiaba di Perrault tradotta in versione cinematografica, resterebbe assai deluso. In comune con l’“antico” gatto, questo, non ha che il nome e gli stivali. Perché per il resto storia e ambientazione sono completamente differenti. Questo felino guascone e simpaticissimo ha la voce di Antonio Banderas grazie a un perfetto doppiaggio in un italiano spagnoleggiante che volutamente suona goffo e seducente insieme; non è l’erede del titolare della fiaba di Perrault quanto del personaggio comparso a partire dal secondo capitolo della favola dell’orco verde, per tentare di rianimare Shrek, con i suoi tratti tipici: sornione e mascalzone latino. Stavolta produttori, sceneggiatori e il regista del film, restando nel solco della saga cinematografica, hanno voluto esplorare la storia del gatto senza ciuchini né orchi concentrandosi sulla sua infanzia e formazione. Ne viene fuori una sorta di baby spaghetti western con accentuata coloritura favolistica e predilezione (in stile Dreamworks) per la mescolanza di personaggi estrapolati da favole diverse.

Nella storia ambientata a San Ricardo, una località spagnola Gatto (così si chiama nel film) è cresciuto in orfanotrofio con il suo amico fraterno il cervellone Humpty Alexander Dumpty, l’uovo antropomorfo che arriva dalle filastrocche inglesi di Mamma Oca, poi apparso nel romanzo di Lewis Carrol, Attraverso lo specchio. Se il gatto a suo tempo aveva supportato l’orco verde, qui è a sua volta spalleggiato dall’uovo parlante, personaggio riuscitissimo. Gatto e Humpty crescono seguendo il miraggio visionario di Humpty di trovare un giorno i fagioli magici e arrivare all’oca dalle uova d’oro. L’invidia nevrotica e complessata di Humpty, che è il più antipatico tra i compagni di banco della nostra infanzia, porteranno Gatto in un mare di guai, fino a diventare un fuorilegge per poi riscattare l’onore e salvare la sua città dopo una serie di peripezie che lo vedono ancora a fianco dell’uovo e della gatta Kitty Zampe di velluto, abile, sinuosa e persino più furba di lui. A complicargli le cose ci penseranno i famigerati fuorilegge Jack e Jill che hanno davvero i fagioli magici.

La sceneggiatura, agile e leggera è basata sulla commistione di generi, stili e sulla mescolanze di favole fino a realizzare un prodotto originale. L’invenzione dell’albero magico che arriva fino al cielo (una delle sequenze più ragguardevoli del film) e sbalza i protagonisti oltre le nuvole, si ispira a un’antica fiaba inglese intitolata Giacomino e il fagiolo magico incentrata su sacchi pieni di monete d’oro, galline dalle uova d’oro, un orco e un’orchessa. Nel contempo si respira aria di western, musiche e inquadrature ricordano spesso Sergio Leone e il recente Rango ma persino gli Aristogatti in versione flamenco. La regia è di Chris Miller che ha già scritto i primi tre Shrek e i primi tre Madagascar, ha co-diretto il terzo Shrek e per la Sony Piovono polpette; l’animazione è scattante e imprevedibile quanto e più di un felino, specie nel restituirci le sfide acrobatiche di Gatto e Kitty, il duello ballerino-spadaccino che segna il loro incontro, gli inseguimenti e le ascese al cielo fino all’impatto con l’oca gigante. La grafica è all’insegna della cura maniacale dei dettagli. Funziona il contrasto tra la stazza piccola del protagonista e la sua voce grossa sensuale possente prestatagli da Banderas. Gatto ha movenze e pose allaZorro, è conquistatore di femmine, ma è capace anche di ironia e autoironia. È un antieroe che beve latte e ha sempre la battuta pronta. Irresistibile l’invenzione del costume di cui Humpty si dota per mimetizzarsi tra le uova d’oro. Una sbavatura è probabilmente l’eccessiva bontà del gatto, capace persino di perdonare il doppio tradimento dell’amico, una caduta “disneyana” per far di lui un paladino del bene. Già visto anche il balletto di chiusura con parata di tutti i personaggi a mo’ di rappresentazione teatrale, ma l’animazione e la grafica raggiungono vertici estetici incontrovertibili.

Per finire un paio di curiosità perché i simboli come gli dei non muoiono mai. Il fagiolo in quanto cibo tipico delle classi più povere, rappresenta la possibilità di ciascuno di elevarsi al cielo. Gli stivali nella favola di Perrault erano simbolo di capacità eccezionali, nel film di probità e rettitudine. La pianta dei fagioli che cresce fino al cielo ricorda l’antico mito sassone del “World Tree”, l’albero del mondo; mito presente in alcune religioni indoeuropee, centrato sull’albero gigantesco che congiunge la terra al cielo e, attraverso le radici, al mondo sotterraneo. 

“Bastardia” di Hélia Correia

Bastardia è una narrazione polisemica, quasi una favola. Un racconto dai contorni mitici e irreali. Descrive la vita di Moisés Duarte, un adolescente nato in un povero paese di montagna nel Portogallo della metà dell’800.

Ma Moisés non è un ragazzo come gli altri: suo padre, infatti, è il mare. La madre, rimasta vittima di un sortilegio, dopo un periodo di sterilità, ha concepito Moisés solo grazie a un patto stretto con la strega Pilar, sancito dall’acqua del fiume.

Così, Moisés è attratto dal mare, lo anela, anche se non l’ha mai visto con i suoi occhi. Nei suoi sogni d’adolescente lo immagina e pensa anche d’incontrare le sirene, che ha conosciuto solo dai racconti dei marinai e dei pescatori.

Per seguire il suo destino, Moisés lascerà la madre, le sorelle e quel poco che possiede, per cercare di raggiungere il mare, sua origine e destino.

Bastardia non racconta solo di favole e antichi miti, il libro è centrato piuttosto sul viaggio solitario che il ragazzo intraprende per cercare di raggiungere la sua meta. Qualcosa che non conosce ma che ugualmente è parte di lui.

L’autrice, Hélia Correia, è una scrittrice portoghese. Con Bastardia confeziona un racconto comunque realista, ma di un realismo magico, antico. Ricorda i film di Sergei Paradjanov, il regista Georgiano, e la sua capacità di entrare nella vita quotidiana e nelle credenze dell’Armenia contadina e animista.

Le sirene e le streghe restano così sullo sfondo, mentre in primo piano c’è la vita di un adolescente che si avventura da solo per cercare se stesso e le sue radici.

(Hélia Correia, Bastardia, trad. di V. Barca e S. Magi, Caravan Edizioni, 2011, euro 9,50)

“La ventunesima donna” di Martino Ferro

Quando un numero diventa un libro. E poi un tormento. E la storia di tutta una vita. Amaro e sferzante come chi sa che l’unica soluzione a volte è non farsi troppe domande. A meno che non voglia annegare nella ricerca. Un gioco di spezzoni che compongono lo stesso identico dubbio.

 

Mi sono seduta. E ho recitato la mia ordinazione. Come al ristorante. Con la sola differenza che stazionavo davanti alla mia libreria. Ma in fondo non ne riscontro molte altre. Ci si apposta nel luogo prescelto e s’interroga lo stomaco. Anche quando si legge. Soprattutto quando si legge. E attraverso le pagine si accumula il conto. Stavolta avevo voglia di destino. Tanto, poderoso, esfoliante, di grano duro. Quello che sembra ineludibile, che scivola lungo le spalle e finisce nel caffè, dopo averlo bevuto. Così ho scelto. Ho percorso la trama del mio scaffale e sono incappata in lui. O in lei. La ventunesima donna (Einaudi) di Martino Ferro.

Ventuno capitoli ossessionati da quel numero. E da un uomo, Raffaele Stella, che lo rincorre lungo i suoi incontri. Incerto, scarmigliato, anche senza bisogno di menzionare i capelli, perché quello è uno stato dell’anima, ben al di là dell’acconciatura.
Proprietario di un negozio di fotografia al centro di Firenze, il protagonista si snoda attraverso le sue amanti, nomi sbiaditi, infilatisi per caso in mezzo alle coperte. Come acari dalla forma più gentile.
E altri dirompenti, entrati al solo scopo di abbattere la porta. E rovesciare tutto il resto.
Ester Rafael, per esempio, speculare e temibile anche all’anagrafe, che travalica la soglia di un giorno qualunque, quando era tutto in ordine, tutto sistemato, una vita al posto giusto.
Raffaele aveva già assunto la sua segretaria, una collaboratrice perfetta, puntuale, affidabile e capace. Ma al colloquio arriva anche lei. E ciò che c’è intorno fa solo volume, diceva Flaiano.
Ester lo inghiotte senza curarsene, ingurgita gli angoli ben appuntiti, sovverte il suo matrimonio, lo annega col mignolo e s’insedia tra le suecosce, tra le sue cose, senza alcuno sforzo.
Ma Raffaele cerca il 21, impigliato in un viso notturno, dentro Eleonora, in un letto stordito di cui ricorda poco e di cui ha visto ancora meno. La sorte per lui ha la faccia di due cifre, di un corpo da disseppellire, di una carta da zingara. La sorte è una legge e lui vuole obbedirle.
La ventunesima donna è quella definitiva, odora di profezia. E dopo cambierà tutto.
Così ogni ragazza è solo un gradino per raggiungere lei. Probabilmente. Ma lungo le scale cammina la storia. La sua e quella del libro, in cui confluiscono materiali diversi: brevi testi teatrali, piccoli articoli, immagini, sms, infinite varianti del raccontare, spunti di apertura e di “persecuzione”, che, mentre ruotano intorno all’oracolo di due decine e un’unità, rivelano tutto lo smarrimento di un uomo.
Che ha bisogno di un segno e delle sue costellazioni. Un segno per un senso. In una moltiplicazione che spesso non accresce il risultato finale. Raffaele invecchia, si ammala d’insicurezza, fino a farsi ricoverare.
E continua a scavare tra le lenzuola della memoria, fino alla fine. Perché crede che quel numero possa salvarlo. O chiudere il cerchio. Restituirgli una risposta evaporata ogni volta. Schiantata per terra con l’ultimo tonfo.

Questo è il romanzo di chi si aggrappa a un messaggio. E lo trasforma in poco tempo nella sua missione. E interpreta anche il vento secondo quel dettaglio. Perdendosi tanto, a volte anche troppo.
Scritto con ritmo e sapienza, veloce come una corrente e pieno di detriti, una vicenda narrata in modo potente e impietoso, consapevole che il cuore non si riordina come un armadio e che in molti momenti fatali il caos è il solo principio regolatore.
Sono molto soddisfatta della mia lettura. La richiudo e la ripongo nella sua collocazione. Poi conto i libri che lo precedevano. E lui è il ventunesimo.

“Vendetta!” di Marie Corelli

Eccentrica ed eccessiva, fu letta da tutte le personalità più in vista della sua epoca, a cominciare dalla regina Vittoria e da suo figlio Edoardo VII: Marie Corelli, pseudonimo di Mary McKay, fu scrittrice prolifica di romanzi tra l’horror e il thriller (non dissimili da quelli della sua collega italiana Carolina Invernizio), creatrice di atmosfere a fosche tinte in cui parlava di crimini e vendette, di intrighi e morti, sapendo creare intorno a se stesso l’aura di una vera diva, di un personaggio insolito e particolare, anticipando un costume che oggi è seguito soprattutto da cantanti e attori.

La Gargoyle Books, casa editrice che vuole presentare l’horror e il gotico in tutte le sue accezioni, ripropone dopo decenni i suoi romanzi, cominciando da Vendetta!, uno dei suoi maggiori successi, storia del conte Fabio Romani che crede di essere felice nell’alta società di Napoli, finché, durante un’epidemia di colera, viene creduto erroneamente morto e sepolto vivo. Uscito dalla tomba sconvolto nel fisico e nella mente, scopre che l’adorata moglie non è estranea a quello che gli è capitato e si è già consolata da tempo con il suo migliore amico, con il quale ha architettato tutto. La vendetta di Fabio sarà spietata, fino a travolgere se stesso.

Eccessivo, perfetto feuilleton, forse superato (fa effetto leggere dalla penna di una donna attacchi continui contro il suo sesso), un po’ datato ma capace di avvincere ancora oggi, con un intreccio che è debitore al padre di tutte le storie di vendetta, Il conte di Montecristo di Dumas, mescolato con le suggestioni del giallo e del mystery, che proprio presso il pubblico vittoriano si sviluppò andando verso la direzione che oggi conosciamo: Vendetta! di Marie Corelli è una curiosità d’epoca, ma anche un libro per capire come tutto è iniziato; con un linguaggio un po’ ampolloso e taglienti invettive, l’autrice riesce ad avvincere, grazie a una storia che oggi sarebbe inverosimile, facendo leva su una delle paure più diffuse, quella di essere sepolti vivi.

Interessante l’iniziativa di Gargoyle di riproporre i libri di questa autrice che ispirò la protagonista del romanzo Angel alla scrittrice Elizabeth Taylor (nessuna parentela con la celebre attrice), trasposto nel 2007 al cinema da François Ozon con un’ottima Romola Garai. Marie Corelli non fu l’unica autrice ottocentesca di letteratura di consumo, e sarebbe interessante rileggere tutte queste “galline borghesi”, come fu definita in Italia Carolina Invernizio, che si mantennero con la letteratura d’appendice avvicinando ai libri tantissime loro contemporanee.

(Marie Corelli, Vendetta!, trad. di Monica Meloni, Gargoyle Books, 2011, euro 15)

Il Fellini di “Casanova” e di “Ginger & Fred” in DVD

Finalmente ritroviamo in dvd alcuni film di Fellini considerati minori come Ginger e Fred o Il Casanova di Fellini, oggetto della recensione. A proporre questi due titoli è la Dall’Angelo Pictures la cui politica è quella di riproporre, rimasterizzati o in edizioni speciali, alcuni classici del cinema. Il Casanova di Fellini non rientra tra i film più citati del regista riminese ma è un autentico capolavoro, un ritratto inedito del famoso “tombeur de femmes” giocato sui contrasti e sulle invenzioni figurative. Un ormai anziano Giacomo Casanova, bibliotecario del Conte di Waldestein, ricorda la sua giovinezza, le sue gesta amorose, le ingiustizie subite. In poco più di due ore e mezzo, Fellini offre uno spettacolo visivo ben lontano dall’onirismo di Otto e mezzo ma compatto e omogeneo, senza sbavature. Azzeccata la scelta di adoperare un linguaggio plurimo, che va dall’alto al basso, mischiando i dialetti e gli idiomi, offrendo un impasto originale, atipico per il cinema, che conferisce personalità e un marcato espressionismo alla pellicola. Donald Sutherland, doppiato da un ottimo Gigi Proietti, è straordinario nel rendere il suo personaggio eccentrico e patetico mentre Tina Aumont è una seducente Henriette che finirà per far perdere la testa al nostro Casanova. Nonostante le mille difficoltà di realizzazione, Fellini consegna al pubblico una delle sue migliori prove registiche.

Ginger e Fred è una satira forte sul mondo e lo squallore delle televisioni private ma è anche una rielaborazione di tutto il cinema felliniano. L’irreale racconta il reale, la fantasia interviene per porre un freno a una realtà decadente. La poesia, incarnata dai due ballerini, “star” di tip tap nei locali d’avanspettacolo, viene fagocitata dalla televisione e adulterata per renderla volgare, per darla in pasto a tutti. Diversamente dal Casanova, Ginger e Fred è disomogeneo, in alcuni punti incespica, talvolta è troppo di maniera. Però è un’opera importante che documenta il passaggio all’era della televisione, allo squallore della trash-tv. Fellini è sempre lucido, seppur più triste e privo dell’ironia che ha contraddistinto le sue opere. Dirige cinicamente due grandi attori e si avvia lentamente verso il capitolo finale della sua carriera.

Unica pecca dei due dvd è la mancanza di extra ma i due film non presentano sgranature rilevanti nella resa delle immagini ed è buono il riversamento in digitale. Aspettiamo, quindi, altri titoli in catalogo.

“Clelia ovvero il governo dei preti” di Giuseppe Garibaldi

«Chi potrà negare: essere questa Italia un pandemonio?»
Non si tratta dell’ultima ed ennesima esternazione di “stima” nei confronti del nostro Paese della cancelliera tedesca Angela Merkel, ma delle parole vergate con penna che «troppo sovente s’intinge nel fiele» e affilata «non col gentile temperino ma coll’acuto triangolare, terribile pugnale del carbonaro» dell’Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi in Clelia ovvero il governo dei preti (Memori, pp. 288, Euro 15,00), feroce romanzo anticlericale. A pubblicarlo è una casa editrice fondata da un gruppo di giornalisti appassionati di libri, riuniti in una cooperativa, tutti con una lunga esperienza nel mondo editoriale. Memori ha per vocazione la memoria e come merito quello di stanare e rispolverare chicche editoriali o testi ai più sconosciuti di personaggi che hanno fatto la storia della nostra patria.

Edito nel 1870, ma scritto nel 1868, prima della presa di Porta Pia, il romanzo prende le mosse dalla vicenda immaginaria di una bellissima popolana romana, Clelia, la «perla di Trastevere», che un alto prelato spregevole e corrotto, il cardinale Procopio, factotum di Pio XI, vorrebbe concupire, per descrivere la Roma papalina, una città dove dominano l’oscurantismo, il dispotismo e la turpitudine dei preti e di tutto il «clericume, istrumento principale dell’abbassamento e del servilismo» del glorioso popolo romano: «solo il prete poteva cambiar nell’ultimo popolo della terra, questo “che nacque in una regione ove l’uomo crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo”».

Alla prima parte romanzata segue una seconda più cronachistica che narra gli avvenimenti del 1867, dall’attentato alla caserma Serristori il 22 ottobre al sacrificio dei fratelli Cairoli, dall’occupazione di Monterotondo da parte dei volontari guidati da Garibaldi stesso alla loro sconfitta nella battaglia di Mentana.

Il romanzo fu scritto per convincere la Casa Reale a completare l’unità d’Italia e risolvere definitivamente la “questione romana”.

Ogni pagina trasuda retorica romantica e patriottica e acredine verso il Papato «tabernacolo d’idolatria e d’impostura» e verso Napoleone III, ironicamente chiamato «l’uomo del 2 dicembre» con riferimento al colpo di stato con cui aveva cercato di imitare il più celebre e grande zio: «Schifosa tirannide è quella del prete! Che prostituisce l’Italia allo straniero e la vende per la centesima volta! La più depravata delle tirannidi!». I veri eroi buoni sono quelli che Chiesa e governo considerano briganti, pronti a morire per l’Italia e degni eredi dei Romani.

L’anticlericalismo e l’antibonapartismo portarono i primi editori inglesi a mutare il titolo in Il governo del monaco (The rule of the Monck) in riferimento a Il monaco di Matthew Gregory Lewis, romanzo nero anticattolico di grande successo nell’Inghilterra ottocentesca.

È innanzitutto un libro da valutare per quello che è, ossia un documento storico dei sentimenti visceralmente corrosivi e livorosi di Garibaldi verso la Chiesa. Non mancano nel racconto motivi biografici, tirate oratorie e proposte politiche. Quanto alla qualità letteraria il romanzo lascia un po’ a desiderare se si pensa che fu scritto «nel secolo in cui scrivono i Manzoni, i Guerazzi, i Victor Hugo» come riconosceva lo stesso Generale. L’intenzione è chiara e comprensibile solo se si tiene conto del contesto storico-politico: svelare vizi e nefandezze del pretismo impostore, menzognero e ipocrita che ha fatto della città eterna «un’immensa cloaca».

Editori a rischio estinzione?

Ma gli editori corrono davvero il rischio di sparire nei prossimi anni?

O il catastrofismo che si respira in alcuni salotti della produzione libraria è solo la tendenza comportamentale, consueta al nostro status mentale, di esasperare i toni delle reazioni alle novità che potrebbero sovvertire il naturale ordine delle cose cui siamo abituati?

D’altronde si sa, è più rassicurante percorrere la via usuale che cercarne una diversa, il cui approdo finale è sconosciuto. A volte, però, sorge la necessità di dover cambiare forzatamente le proprie pratiche, per non soccombere alle avversità del mondo esterno, in continuo mutamento. L’adattamento è il succo della sopravvivenza, Darwin docet.

È questa la situazione in cui gli editori si trovano attualmente, con l’avvento dell’editoria digitale. Tutti ne parlano, molti con sospetto, soprattutto per quel che riguarda il possibile non-ruolo che verrebbero ad assumere gli editori tradizionali. Ed è proprio a questi ultimi che vogliamo dedicare un momento di riflessione.

Punto di partenza è capire se davvero il settore cartaceo e quello digitale debbano necessariamente venire alle armi, o se sia invece possibile una coesistenza. Uno dei quesiti che ci si pone spesso è quello su come adattare un normale libro cartaceo al formato digitale. Questo, molto probabilmente, genera un fraintendimento: nel senso che porta a considerare un libro digitale alla stregua di uno cartaceo.

In realtà se si esce da quest’ottica risulterà possibile comprendere appieno come le due forme siano completamente diverse a livello di fruizione dei contenuti.

È quindi sbagliato continuare a pensare che con il digitale il settore editoriale tradizionale sia destinato a scomparire, e che quindi i vecchi editori debbano far la guerra al nuovo che avanza, pena la loro scomparsa. Questi dovrebbero invece prendere la palla al balzo e buttarsi sul nuovo spiraglio consumistico che si potrebbe aprire per allargare le proprie finanze; svolgendo al contempo una funzione culturale non indifferente, attraverso la promozione di contenuti nuovi, verso un pubblico che potrebbe essere formato sia dai lettori tradizionali che da chi di leggere non ne ha mai avuta troppa voglia (ma che potrebbe essere attirato nella rete dalle nuove possibilità che la tecnologia offre per approcciarsi ai testi).

Tra l’altro, a quanti ritengono che il ruolo dell’editore sia destinato a esaurire la sua funzione per la comparsa del fenomeno del self publishing, si potrebbero obiettare alcune cose. Se è vero che attraverso l’auto-pubblicazione, almeno potenzialmente, l’editore rischierebbe di essere scavalcato, è anche vero che un minimo di controllo redazionale sulle opere sarebbe comunque necessario (o comunque caldamente consigliato) ai futuri scrittori.

E poi gli stessi lettori come potrebbero mai difendersi dall’incredibile mole di opere che verrebbero ad invadere il settore editoriale digitale?

Anche perché, in effetti, non è che ci siano poi tutti questi lettori in giro il cui unico scopo sia leggere più libri possibili (malgrado di scrittori se ne sfornino quotidianamente a palate). Risulta evidente quindi il ruolo che l’editore avrebbe in un’auspicabile sviluppo del settore del libro elettronico: garantire la qualità delle opere, orientando al contempo i lettori verso i prodotti che meglio possono adattarsi al singolo individuo (viene in mente la teoria della coda lunga).

Ma allora perché c’è tutta questa diffidenza, e soprattutto perché in tanti già si fasciano la testa prima ancora di provare a cimentarsi in quella che potrebbe essere una grande avventura?

La vera sfida per un editore sarà quella di capire la direzione verso cui ci stiamo avviando, di trovare dei pertugi inesplorati e buttarcisi dentro. Se il mercato editoriale dei prodotti cartacei è in stagnazione, se si è sempre alla ricerca di un modo per sopravvivere, se sempre più realtà indipendenti hanno vita effimera perché non vivere la nuova situazione che si sta venendo a creare come una possibilità di dare una svolta positiva alla propria casa editrice, al mercato editoriale e, più in generale, allo stato assopito della cultura in Italia?

Gli editori dovrebbero sfruttare le possibilità offerte dai social network per creare un legame con i lettori, aiutandoli nelle scelte di letture a loro consone, e legandoli in questo modo alle loro proposte, ai loro cataloghi (magari premiandoli per la loro fedeltà alla casa editrice stessa). Il mercato degli ebook permetterebbe poi agli editori di raggiungere, con pochissimi costi a livello di distribuzione, un pubblico molto vasto.

La cosa più importante, per avere successo, sarà accaparrarsi la qualità, cioè gli autori giusti. Per questo gli editori nostrani dovrebbero darsi da fare e contrastare da subito l’avvento di Amazon, che con le sue politiche sta creando una rete di potenziali scrittori (favorendo il self publishing interno), autori già famosi, e lettori potenziali (attraverso la distribuzione del lettore Kindle).

Il self publishing è sicuramente una delle novità di maggior interesse per un novello scrittore. Il guaio è che senza le strutture tecniche proprie di una casa editrice (da riorganizzare verso il digitale), e in mancanza di una grande rete di relazioni – uno dei fondamenti per il successo di un libro – lo scrittore non sarà facilitato nel suo compito; riuscirà a vedere la pubblicazione, certo, ma non sarà in grado, da solo, di uscire dal mucchio selvaggio dei tanti che, come lui, invaderanno il mercato. Senza l’ausilio delle capacità che solo una casa editrice possiede per progettare un buon prodotto, compatibile con le periferiche di lettura e i vari formati (proprietari e non) che ci sono in giro, il testo avrà vita breve.

E se è vero, come dice Maurizio Costa (amministratore delegato della Mondadori), che «occuparsi di cultura ed educazione, informazione e intrattenimento richiede sensibilità, impegno, rigore», chi altri se non un editore potrebbe occuparsi di tutto questo?

Il rapporto tra autore ed editore rimarrà, dunque, inscindibile, ed entrambi saranno (come sempre) indirizzati verso un obbiettivo comune: il lettore.

“Gomorra” di Roberto Saviano e Mario Gelardi

«La camorra non esiste», gridava qualcuno, mentre Roberto Saviano, dal palco della piazza di Casal di Principe, sosteneva che «verità e potere non coincidono mai». Proprio la necessità di dare una forma, una concretezza alla camorra, ha portato lo scrittore a esporsi personalmente e a necessitare poi di una scorta. Questa stessa necessità ha prodotto anche svariati spettacoli teatrali, tra cui spicca Gomorra, tratto dall’omonimo libro di Saviano. Ivan Castiglione veste bene i panni di Roberto, che affianca amici e compagni d’infanzia nella loro iniziazione alla droga, allo spaccio, alle armi, alla camorra. Sfilano sul palco i personaggi e le scene più noti del romanzo di Saviano, in mezzo a una selva di pilastri di cemento, di travi cadenti, che rimandano continuamente all’abuso edilizio e morale che il territorio campano ha subito negli ultimi trent’anni. Ernesto Mahieux, nel ruolo dell’abile sarto costretto a fornire la propria opera per pochi denari anche quando cuce l’abito di Angelina Jolie per la notte degli Oscar, offre una prova convincente e completa, facendo comprendere le radici dello sfruttamento e della sudditanza nei confronti del camorrista di turno. La rabbia ambiziosa di Pikachu (Francesco Di Leva), l’innocente superficialità di Kitkat (Adriano Pantaleo) rendono possibile una momentanea immersione nella società che ha dato vita a Gomorra, una società tradita da uno Stato troppo distante e fatuo per far fronte al pervasivo Stato camorristico.

Sembrerebbe che i compiti della rappresentazione della camorra siano stati assolti. Eppure il teatro potrebbe offrire qualcosa di più, oltre la narrazione dei fatti, per quanto crudi e spiacevoli questi possano essere. La camorra è manifestazione dell’uomo, della sua rabbia violenta, ma anche del suo infimo interessarsi solo a sé in quanto semplice animale di zona. La camorra è così intimamente intrecciata con l’uomo da non poterne essere escissa come una cisti qualsiasi, per quanto tenace la si possa immaginare. La camorra è un’atmosfera, una proposizione d’intenti mai esplicitata con parole. In questo senso la camorra non esiste. E forse è proprio l’impalpabilità il carattere più pervicace della camorra. Come rappresentare dunque questa non esistenza? Come rappresentare questo sottinteso della società? Sorge il dubbio che la parola possa non essere il metodo migliore. Sorge il dubbio che le storie, “i meccanismi”, possano essere narrati dal giornalismo, ma che forse il teatro possa avere l’ambizione di rappresentare ciò che parola non è, eppure esiste. Il teatro che narra fatti troppo spesso sfocia nel didascalico. La parola di Roberto, contraria alle violenze dei suoi compagni, rimane senza contraltare, intransitiva. La risposta degli altri personaggi sarà immancabilmente «Robè, ma che cazzo vuoi?». Linguaggi diversi a confronto. La parola che si arresta dinnanzi all’incomprensibile. Il teatro potrebbe essere dunque la risposta: un teatro che sa liberarsi delle “storie da narrare”, delle scenografie che rappresentano il particolare, dei personaggi che rievocano vite circolari, che nascono e finiscono in sé. Il gesto, l’immagine, l’emozione pura, gli elementi non strutturati dell’uomo, in cui latita la violenza camorristica, i sogni indicibili dei puri, la sofferenza senza pace dei malvagi, potrebbero essere i colori di un affresco colmo di suoni, ma con pochi significanti. Un teatro come quello di Gomorra invece sa ben narrare storie, senza tuttavia riuscire a dipingere la natura a-verbale dell’uomo.

 

Gomorra
di Roberto Saviano e Mario Gelardi
regia Mario Gelardi
con Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Giuseppe Miale di Mauro, Adriano Pantaleo, Ernesto Mahieux.
scene Roberto Crea
costumi Roberta Nicodemo
musiche Francesco Forni
video Ciro Pellegrino

Andato in scena dal 16 al 26 dicembre 2011 al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli.

[Best 2011] I libri

Di libri ogni anno ne piovono tanti. Titoli che sperano di essere avvistati o di planare su un palmo piuttostoche al macero. Ma pochi incontrano una vera fortuna. Spesso perché proprio non valgono e molte altre volte perché scrosciano al momento sbagliato, mentre tutti guardano altrove, all’autore di moda come un paio di scarpe. E così camminano in coro con lo stesso identico libro, o magari lo comprano, perché si parte da lì, leggerlo poi è un altro paio di maniche.

Prima di chiudere il 2011, qui a Flanerí ci siamo regalati una scelta. Abbiamo deciso di chiamare per nome i libri che ci hanno convinto di più, al di là del dio incasso, perché ci piace essere laici.

E poi li abbiamo ordinati in modo decrescente, dal primo fino al decimo.
Qualcuno mi suggerisce che si dice “classifica”. Ma per me è una rubrica telefonica degli amici di quest’anno. E di quelli a seguire, che sapranno non lasciarli andare.


I MIGLIORI 10 LIBRI DEL 2011
 

1) David Foster Wallace – Il re pallido EINAUDI
L’ennesimo dono di chi se n’è andato troppo presto, un gioiello complesso, tra saggio e racconto, animato da personaggi surreali e grotteschi. E dalla certezza di essere piccoli e mortali.

2) Ruta Sepetys – Avevano spento anche la luna – GARZANTI
Una notte che rovescia la vita e Lina, ad appena 15 anni, impara cos’è l’odio. Deportata dalla polizia sovietica in un pellegrinaggio verso il male. E senza ritorno. Struggente e indimenticabile.

3) Edmund White – Un giovane americano – PLAYGROUND
Uno dei migliori romanzi di White, primo di una straordinaria trilogia autobiografica. La formazione di un ragazzo verso i propri sentimenti e i propri alfabeti del corpo. E soprattutto un documento prezioso del panorama gay americano degli ultimi quarant’anni.

4) James Frey – L’ultimo testamento della Sacra Bibbia GUANDA
Un ritratto feroce dell’America d’oggi, in cui il Messia non ci guarda dall’alto, ma cammina tra noi. E non solo predicando l’amore, ma facendolo con uomini e donne, praticando l’eutanasia e scagliandosi contro la chiesa. Molti ne saranno sconvolti, ma quasi nessuno resterà indifferente.

5) Seumas O’Kelly – La tomba del tessitoreQUODLIBET
Un trasloco fuori dal mondo, nell’oltremondo, in cui è essenziale non sbagliare destinazione, un racconto irlandese caustico e fatale, tradotto con grande maestria.

6) Sergio Garufi – Il nome giusto PONTE ALLE GRAZIE
Il viaggio di un fantasma attraverso i libri amati dal suo “corpo padrone”, la storia di un uomo ricostruita a posteriori da quella delle storie che lo hanno segnato, affascinato, che gli hanno insegnato a essere vivo.

7) Mariapia Veladiano La vita accanto – EINAUDI
Il diario di Rebecca, brutta e ignorata da sempre, una bambina che ha imparato a ripararsi dagli occhi degli altri, a esistere al margine, finché la musica si accorgerà di lei. Un romanzo duro e tagliente, di grande bellezza.

8) Mimmo Gangemi – La signora di Ellis Island  EINAUDI
Quando gli immigrati eravamo noi. La storia di Giuseppe, che dall’Aspromonte s’imbarca verso l’America, sperando di tornare. Ma qualcosa non si muove a dovere. Verrà isolato perché troppo cagionevole, finché qualcuno non gli aprirà il cuore.

9) Castle Freeman – Via con me – MARCOS Y MARCOS
Ritmi mescolati alla perfezione, dialoghi affilati e sapore quasi western per una storia del duro Vermont, narrata con stile asciutto e impeccabile da un grande scrittore con troppa poca fama.

10) Saphia Azzeddine – Mio padre fa la donna delle pulizie GIULIO PERRONE EDITORE
Il racconto di Polo, del suo amore per la lettura e per le parole, come gioco per uscire da sé e da una vita troppo sommessa. Il giusto e delicato equilibrio tra ironia e tenerezza.

[Best 2011] I film

Le classifiche… come rinunciarvi? Semplice, non si può, anche se in questi ultimi tempi grazie ai misteri delle distribuzioni italiane l’anno di appartenenza di un film diventa un dettaglio, considerando il mostruoso ritardo con cui alcune opere vengono distribuite da noi. Provando a rimanere all’interno di produzioni del solo 2011 buttiamo giù una lista, in rigoroso ordine sparso, del meglio visto in sala, un meglio che ovviamente risente dell’altissima qualità che ha contraddistinto i due principali festival cinematografici, Cannes e Venezia, e che, altrettanto ovviamente, risente di alcune visioni perse per strada e da recuperare.

 

 

I MIGLIORI 10 FILM DEL 2011

People Mountain, People Sea di Cai Shangjun
Una mezz’ora finale tra le più intense e sconvolgenti viste negli ultimi anni.

Shame di Steve McQueen
Un minimalismo visivo e narrativo che sembra offrire una credibile prospettiva oltre il “classico”.

The Troll Hunter di Andre Orvedal
Il Cinema, quello vero, nell’estetica e la tecnica del Mockumentary. Un’altra via è possibile.

Drive di Nicolas Winding Refn
Luci al neon per la strada…

Attack The Block di Joe Cornish
«Che razza di alieno vorrebbe mai invadere delle case popolari di South London??» «Uno che ha voglia di appiccicarsi…»

Killer Joe di William Friedkin
Un cinema popolare, di pancia e di sangue, rotolante e inarrestabile.

A Simple Life di Ann Hui
La bellezza e la semplicità del vivere scorre placida sullo schermo e non resta che piangere e sorridere.

The Exchange di Eran Korilin
Il coraggio della follia.

Pina di Win Wenders
«…Io non sono interessata a come le persone si muovono, ma a ciò che le muove…» (Pina Bausch).

The Sword Identity di Xu Haofeng
Una riscoperta dell’essenzialità e dell’efficacia dell’arte marziale, in campi stretti, scena raccolta e atmosfera da pièce teatrale.

“Indian Highway”: l’India contemporanea in mostra al MAXXI

L’india ha imboccato l’autostrada per il futuro. Mentre il governo indiano sta ultimando il mega progetto autostradale, che collegherà le maggiori megalopoli, protagoniste del vertiginoso sviluppo economico del paese, il MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma, ospita la mostra collettiva itinerante Indian Highway, realizzata in coproduzione con la Serpentine Gallery di Londra, e l’Astrup Fearnley di Oslo, e rivolta agli artisti indiani più rappresentativi, emersi nell’ultimo ventennio.

In programma al MAXXI fino al 29 gennaio 2012, l’esposizione Indian Highway si pone sin dal principio in maniera fortemente sperimentale, attraverso un progetto che cambia fisionomia durante il tragitto e che, grazie all’intensa collaborazione tra curatori e artisti, espone interventi sit-specific in ogni museo in cui viene ospitata.
Identità, trasformazione, accelerazione, memoria, contraddizione, transizione, integrazione e soprattutto consapevolezza politica. Sono gli argomenti principali su cui hanno riflettuto i trenta artisti invitati alla mostra.
L’emblematico titolo, metafora del paese e della sua vertiginosa corsa verso il futuro, racconta il boom economico, lo sviluppo tecnologico, le trasformazioni sociali, il confronto e la convivenza tra civiltà millenaria e società in divenire, identità e modernità, città in crescita esponenziale.
Una realtà quella indiana, che non può essere ridotta a mere dicotomie o luoghi comuni, e da cui scaturisce una dirompente pluralità culturale; ed è questa pluralità, che la mostra romana, grazie a un allestimento ineccepibile, opera dello staff del MAXXI Arte, riesce a ricreare e a restituire allo spettatore.

Il visitatore è invitato a calarsi completamente nella cultura indiana, attraverso dei percorsi tematici multisensoriali, dove al sovrabbondante uso del colore, all’iperdecorativismo, espliciti richiami alle tradizioni culturali e religiose del subcontinente, si alternano forme espressive più efficaci, più adeguate al linguaggio contemporaneo, come il video, le istallazioni e le ambientazioni audio/video. 
All’ingresso del museo si viene immediatamente inebriati da fragranze che rievocano luoghi lontani, esotici, guidati dall’aumentare della loro intensità ci si ritrova circondati dai suoni della foresta sacra Law Kintang, che compongono l’istallazione sonora di Desire Machine Collective, “Trespasser will (not) be prosecuted”, esplicita testimonianza dell’incessante consumarsi della foresta, tragica conseguenza dello sviluppo tecnologico.
Al primo piano troviamo “Growing”, di Hemali Bhuta, un’opera realizzata con una pioggia di incensi sospesi, che inonda l’intera mostra con i profumi dell’India, rievocando la concezione indù della caducità della vita.

La grande collettiva è idealmente divisa in tre aree tematiche: “Identità e storie dell’India”, “Metropoli deflagranti”, e “Tradizione contemporanea”, in merito alle quali riflettono e dialogano le opere dei trenta artisti.
“Identità e storie dell’India”indaga gli aspetti sociali, politici, religiosi del paese, come testimonia il grande dipinto “Rape of India” di Fida Husain, un esplicito riferimento agli attacchi terroristici a Mumbai del 2008. Di immenso valore storico il video“The lighting testomonies”di Amar Kanwar, che racconta , attraverso le testimonianze di donne violentate, la tragica guerra tra India e Pakistan. Molto meno narrativo ma di straordinaria bellezza è l’istallazione “Untitled” di Shilpa Gupta, 185 lance lucenti incombono dal soffitto sullo spettatore.

“Metropoli deflagranti”si incentra sui temi dell’espansione metropolitana, del caos urbano, dell’abbandono delle periferie; ne fanno parte, l’affascinante istallazione “Date by Date”di Subodh Gupta, (artista omonimo di S. Gupta), il quale ricrea uno studio legale anni ‘50, con ventilatori cigolanti e macchine da scrivere con i tasti in indi; la suggestiva “The darkroom”di Sheela Gowda, dove lo spettatore viene invitato a entrare in un castello, formato da fusti di catrame, al cui interno risplende un cielo stellato, come a rappresentare la profonda umanità e la poesia che si possono nascondere all’interno delle bidonville.

Altra opera di forte impatto, che vale la pena menzionare è “Transit” di Valay Shende, un enorme camion scintillante a grandezza naturale, realizzato esclusivamente con sfere lucenti di acciaio inox, a bordo donne e bambini operai fatti con gli stessi elementi, che con lo sguardo perso nel vuoto, pieno di alienante rassegnazione, si dirigono verso la fabbrica. L’opera si propone di raccontarci il lato oscuro della spietata espansione industriale in India.

L’ultimo percorso tematico, non meno emozionante, è “Tradizione contemporanea”, il quale esplora la rielaborazione di antiche forme espressive della cultura indiana, come la miniatura, la ceramica e la pittura a inchiostro. In questa area tematica possiamo raccogliere le bellissime opere, piene di ironia, di Thukral & Tagra dedicate alla lotta all’AIDS, e composte da due quadri “Wander Woman II”e “Kindom come III”, che rappresentano una classica statua tantrica avvolta per metà da un incarto di preservativo; erotica quanto ambigua è la divertente carta da parati “Put it on”, dove sono ripetute le posizioni del Kamasutra, ognuna formata da una rosa e dalle gambe di Superman e Wonder Woman, una perfetta sintesi tra pop occidentale e tradizione indiana, miscelati con sapiente ironia.

Di particolare bellezza sono il gruppo di quadri “Untitled/Make no mistakes” di Bharti Kher, incentrate sul simbolico bindi, il punto colorato che le donne indiane coniugate, si disegnano sulla fronte. 
Sensualissima in fine, è la trapunta di soffici piume di pollo, intessute da un sottile filo di metallo zincato, dell’artista Sakshi Gupta. La sensuale morbidezza del manufatto cela un’anima rigida.

Oltre ad essere una delle mostre più interessanti di inizio stagione, Indian Highway ci narra di un contemporaneo che è anche nostro, seppur lontano, è la concreta testimonianza che l’arte contemporanea indiana, incarna perfettamente lo spirito di un paese in rapida, vibrante, drammatica metamorfosi, dove gli artisti parlano la lingua globale dell’impegno sociale, attraverso i media di rapida presa come il video, la fotografia ma anche la pittura, il ready-made e l’artigianato locale.
Una mostra che consiglio a tutti di vedere, soprattutto in un momento come questo, nel quale osserviamo inermi il nostro Occidente piegarsi in due, stremato dalla crisi endemica che lo attraversa.