Caratteri della lirica alfieriana

La produzione lirica alfieriana, tra le più prolifiche di quelle tardo settecentesche, non ha mai incontrato fino ad ora un adeguato interesse storiografico. Nell’ambito dell’opera dello scrittore astigiano, una ricezione molto più profonda e appassionata è stata quella riservata alla Vita, autobiografia romanzata dove si celebra, tra bagliori pre-romantici, la vigilia del romanzo italiano; e, soprattutto, alle tragedie, genere che nella nostra letteratura, dopo la fervida restaurazione cinquecentesca, non aveva ancora conosciuto, malgrado diversi tentativi, soprattutto quelli del Della Valle e del Maffei, sicuri traguardi artistici (degni cioè di essere paragonati a quelli raggiunti dalla tragediografia europea tra ‘600 e ‘700).

La stessa scarsa fortuna editoriale delle Rime mostra come queste siano state spesso confinate in una fossa comune, al di fuori del recinto delle opere maggiori. In realtà nella varia serra della poesia arcadico-settecentesca, la lirica alfieriana rappresenta una pianta di grande interesse, ricca di materia autobiografica e temprata da innesti vari, capace di dare frutti che maturano nelle successive stagioni poetiche italiane.

Le rime alfieriane costituiscono un corpus di 315 testi, la maggior parte dei quali sono sonetti, conseguenza di quel petrarchismo metrico tipico della cultura poetica italiana, perdurante nel ‘700 accanto a primi tentativi di “poesia barbara” (sulla base dell’archetipo seicentesco costituito dal Chiabrera). La prima edizione delle Rime, del 1789, è seguita da quella, accresciuta, del 1802 e dalla definitiva e postuma del 1804. Caratteristica fra le principali della lirica alfieriana è quella di essere poesia di occasione, dal forte timbro diaristico (si parla infatti di “diario in versi”); in exergo alla maggior parte dei componimenti l’autore dà notizia della data e del luogo di composizione, esibendo la tipica saldatura tra vita e poesia che è già un carattere ascrivibile al Romanticismo incipiente. È questo un elemento di discreta originalità nella storia della poesia italiana, più facilmente riconducibile a esempi novecenteschi (si pensi all’Ungaretti dell’Allegria) che non ai modelli del petrarchismo, dove il calendario lirico che scandisce le stagioni dell’anima è una metarealtà platonica, sottratta alla mutabilità della storia.

L’idioletto lirico alfieriano è, ad ogni modo, riconducibile a una sorta di petrarchismo, molto lontano però da quello arcadico settecentesco, configurabile come un fenomeno stilistico, un disciplinato e comunque interessante tirocinio retorico. È, quello dell’Alfieri, una specie di petrarchismo michelangiolesco, nella misura in cui riesce a fondere, nella stessa molecola lirica, atomi danteschi e atomi petrarcheschi, esito originalissimo già traguardato per altre vie dal grande artista cinquecentesco nella sua lirica.

Avviando un’analisi testuale, diversi sono i sonetti alfieriani aperti da incipit cum auctoritate, dove sono cioè depositate reminescenze petrarchesche. Esempio famoso è il sonetto scritto visitando la casa del poeta ad Arquà, aperto da una quartina che contiene una vibrante celebrazione del poeta aretino («O cameretta che già in te chiudesti / quel grande alla cui fama angusto è il mondo, / quel sì gentil d’amor mastro profondo / per cui Laura ebbe in terra onor celesti»); il primo emistichio dell’endecasillabo incipitario cita perfettamente il celebre incipit del sonetto petrarchesco “O cameretta che già fosti un porto”. Un altro esempio emblematico è il sonetto aperto dal medesimo verso attraverso il quale Petrarca saluta il Rodano, e cioè «Rapido fiume che d’alpestra vena / con maestà terribile discendi / a te io volgo il tergo», dove una situazione lirica tipicamente petrarchesca, il colloquio fra l’Io lirico e gli elementi della natura, è rivissuta in senso romantico. Altri incipit alfieriani mostrano una più profonda sapienza intertestuale, che orchestra tra loro diversi ipotesti petrarcheschi; è il caso del sonetto “I’ vo’ piangendo e nel pianger m’assale”, dove il primo verso combina, incrociandoli, il ricordo del testo che apre la seconda parte del Canzoniere ( RVF 264 «I’ vo pensando e nel pensier m’assale») con l’inizio del penultimo fragmentum (RVF 365 «I’ vo’ piangendo i miei passati tempi»).

La riorchestrazione di armoniche petrarchesche è dunque, come denunciato da questi primi riscontri, un tratto tipico della lirica alfieriana. Come si diceva prima, la ripresa di questi moduli non è semplicemente un fatto stilistico, ma un’operazione retorica dotata di grande semantica. L’introspezione psicologica di ascendenza petrarchesca è nella poesia alfieriana la corda poetica che risuona con maggiore intensità. Tema di gran parte della poesia alfieriana è infatti la ricerca della propria umanità più autentica, inseguita nel dialogo con i grandi uomini del passato, exempla di virtus austera e pugnace (cfr il sonetto dedicato a Dante: «Grande padre Alighier, se dal ciel miri / me tuo discepol non indegno starmi»), o l’immersione in una natura impervia e inospitale (in linea con i canoni romantici, anche figurativi; si pensi all’arte di Friedrich) e capace di offrire meravigliosi correlativi alle emozioni tradotte in parole.

Nei momenti della lirica alfieriana a cui sono affidati i più severi bilanci esistenziali, accade di rivedere i diversi spunti petrarcheschi risillabati su spartiti michelangioleschi, come nel sonetto “Due fere donne, anzi due furie atroci”, dove la malinconia e l’ira combattono una lotta senza quartiere nel cuore del poeta, riportando alla memoria alcuni momenti di grande tensione esistenziale della lirica michelangiolesca. Aggiungo, a ulteriore dimostrazione della stratificazione intertestuale della poesia alfieriana, che l’incipit del sonetto sopracitato è il rovesciamento, quasi in chiave parodica, di quello dantesco “Due donne in cima della mente mia”, incentrato su una disputatio tra due figure femminili che personificano diverse virtù.

Le presenze intertestuali dantesche nella poesia alfieriana sono un fatto storicamente e culturalmente significativo, in quanto legati alla prima parziale riscoperta settecentesca di Dante, una novità dopo secoli di petrarchismo militante che aveva in parte incastonato, entro precisi canoni formali, la poesia italiana. Tale fenomeno si lascia ricollegare a esperienze poetiche più o meno coeve, come quelle di Varano e di Monti, autori di poemi in terza rima (rispettivamente le Visioni e la Bassviliana) che rappresentano il momento più fervido, in poesia, del dantismo tardo settecentesco.

Il codice lirico alfieriano conosce, attraverso gli inserti danteschi, una profonda escursione stilistica che tocca talora, grazie anche al ricorso a pigmenti del linguaggio comico, profonde punte espressionistiche. Oltre a dantismi lessicali, citazioni dirette, numerosi e interessanti sono i dantismi situazionali della lirica alfieriana. È il caso del sonetto “Tacito orror di solitaria selva”, aperto su un locus horridus non ignaro, probabilmente, del ricordo della selva dei suicidi di Inferno XIII. Il sonetto è, nella fronte, giocato sul lemma «selva», iterato e variato fino a realizzare rime inclusive («inselva/selva») in una dilatazione della semantica dantesca di partenza («onde membrando come io là godea / poscia mia mente tutta si rinselva»).

Oltre a questi registri di grande forza espressiva, esistono, nella lirica alfieriana, tonalità poetiche più lievi che scoprono, talora, la presenza di armoniche di gusto neoclassico, simili a quelle che risuonano, ad esempio, in alcuni momenti della poesia pindemontiana. Si pensi al sonetto dedicato alla Malinconia, orchestrato su un registro dolcemente elegiaco («Malinconia dolcissima che ognora / fida vieni e nvisibile al mio fianco, / tu sei pur quella che vieppiù ristora / benché sembri offuscar, l’ingegno stanco») che ricorda i famosi versi pindemontiani «Malinconia, ninfa gentile / la vita mia affido a te / i tuoi piaceri chi tiene a vile / ai piacer veri nato non è». Il rapporto con il proprio Io, tipico stilema alfieriano, raggiunge delle volte esiti originali, come nel sonetto dell’autoritratto (“Sublime specchio di veraci detti”), che è tra l’altro un forte momento intertestuale con la poesia di Foscolo e di Manzoni, entrambi autori di autoritratti in versi. Già a questa altezza è possibile misurare il grado di ricezione della lirica alfieriana nella nostra letteratura. Ugo Foscolo, autore, nei Sepolcri, della prima agiografia alfieriana in chiave romantica, ripete in alcuni sonetti tipiche movenze del poeta astigiano, come la perentoria esortazione all’anima («Che stai? Già il secol l’orma ultima lascia»).

Non mi sembra sia mai stato segnalato inoltre un possibile contatto intertestuale tra il canone dei “vires illustres”, scandito nel carme Dei Sepolcri (nell’ordine: Dante, Petrarca, Machiavelli, Michelangelo, Galileo), e un sonetto alfieriano scritto a Firenze nel gennaio del 1779, dove nella fronte l’autore rievoca, pur in un ordine lievemente diverso, i medesimi personaggi evocati dal Foscolo. Ecco i versi: «Qui Michelangiol nacque? e qui il sublime / dolce testor degli amorosi detti? / Qui il gran poeta che in sì forti rime / scolpì d’inferno i pianti maledetti? / Qui il celeste inventor ch’ebbe dall’ime / valli nostre i pianeti a noi soggetti? / E qui il sovrano pensator ch’esprime / sì ben del prence i dolorosi effetti?»

Sempre a proposito dell’eredità della poesia alfieriana nelle stagioni letterarie successive, si ricordi almeno come alcune linee critiche abbiano voluto svelare nel presunto titanismo dell’ultimo Leopardi (legato alle pose liriche tracciate in poesie come “Amore e Morte”, “A sé stesso”,“La ginestra”) una radice alfieriana, interrata nella medesima humus dalla quale nascono le tragedie e le liriche.

Al di là del valore artistico della poesia alfieriana, che è sempre, non paia una banalità ripeterlo, il vero merito detenuto da un fatto d’arte, uno dei grandi punti d’interesse di questa lirica è in parte legato alla rifondazione, su basi già romantiche, del rapporto collocutivo dell’Io lirico con se stesso, istanza supremamente petrarchesca, che viene così traghettata verso la modernità. Sulla necessità di una riconsiderazione storiografica non solo della produzione in versi, ma in generale di tutta l’opera letteraria dello scrittore astigiano, che venga cioè liberata dai paramenti e dalle sovrapposizioni posteriori, le quali hanno in parte ridotto la vicenda alfieriana a un’agiografia romanticheggiante (il primo brano di agiografia alfieriana, come si diceva, è proprio quello foscoliano dei Sepolcri, raccontato nei vv. 195-205) giova ripensare a quanto scritto recentemente da Ezio Raimondi: «Se esiste un personaggio problematico che bisognerebbe sottrare ad una specie di museo dove si è troppe volte cancellato in funzione dello statuario ciò che è pittorico, ciò che è ombra, ciò che è elemento patetico è contradittorio, questi è sicuramente l’Alfieri».

[Romaeuropa Festival] Carter Tutti & Ryoji Ikeda al teatro Palladium

Uno dei più originali concerti svoltisi al teatro Palladium di Roma all’interno della manifestazione Romaeuropa Festival, ha visto come protagonisti prima Chris Carter e Cosey Fanni Tutti (ex Throbbing Gristle) e successivamente l’artista audio-visivo giapponese Ryoji Ikeda.

I primi hanno presentato un progetto dal nome Carter Tutti/Harmonic Coaction set, un live set di circa un’ora il cui sound ricorda, almeno in parte, le suggestioni uditive alle quali i fondatori della musica industrial il termine è stato coniato proprio per loro, i Trobbing Gristle di cui poco sopra ci hanno da più di un trentennio abituati.
Arricchita da un interessante video, in bilico tra l’astratto e il figurativo, fatto di immagini sfocate e da colori piuttosto vivaci, la loro esibizione è stata, a mio parere, decisamente coinvolgente, pur risentendo magari di un’acustica non ottimale (in parte dovuta verosimilmente alle caratteristiche strutturali della location) le cui “sbavature” divenivano più evidenti ogni qual volta subentravano sonorità dalle frequenze particolarmente basse, alle quali seguivano immancabilmente insistenti vibrazioni ambientali dall’effetto fortemente coprente e per questo uniformante.
La loro musica, collocabile all’interno della cosiddetta scena ambient industrial, possiede per l’appunto una fortissima efficacia spazializzante e dischiude orizzonti dominati spesso da pura desolazione e inquietudine, descrittivi forse della condizione spaesante dell’uomo in una dimensione che potremmo definire post-urbana, fatta di silenzi e brusii solo sporadicamente rotti dall’epifania di qualche crudele macchinario ormai vivente (o piuttosto morente) di vita propria e sbuffante dalle più remote e inaccessibili lande.
Su un tappeto di loops sotterranei e ipnotici e ritmiche tanto lontane quanto solitamente tuonanti, si innestano rumori di apparecchiature elettroniche che emettono misteriosi segnali, stridii di lamiere graffiate, eco di sconosciute macchine al lavoro e insoliti campionamenti, il tutto in un’orchestrazione variegata e ricca di contrasti, fatta di elementi che danno sovente l’impressione di procedere separatamente, quasi noncuranti gli uni degli altri e per questo tali da sovrapporsi e alternarsi nei più disparati e apparentemente caotici modi.
Le atmosfere sono scure e arcane e le tracce si susseguono ininterrottamente confluendo, con estrema gradualità, l’una nell’altra quasi si trattasse di un unico, poliedrico e camaleontico brano, una sorta d’escursione notturna sobriamente sperimentale e a tratti dance-oriented, che vede intervallarsi momenti di sottile e fortemente riverberata malinconia a passaggi più caustici e ossessivamente percussivi.

L’altro illustre ospite della serata è stato, come già ricordato, Ryoji Ikeda, una delle punte di diamante della Raster Noton, etichetta fondata dal più che mai affine (musicalmente parlando) Alva Noto.
Possiamo anzitutto sottolineare l’incredibile organicità e il fortissimo impatto scenico della performance di quest’ultimo, un lavoro che palesa un’assoluta simbiosi, coerenza e continuità tra l’aspetto sonoro e quello visuale; a ciò aggiungiamo, senza addentrarci in questa sede in possibili spiegazioni circa le ragioni di una tale manifesta differenza col duo che l’ha preceduto, che nonostante il teatro della Garbatella (peraltro certo non gremito) non sia forse il luogo più adatto per un’appropriata propagazione del suono, la musica dell’artista nato a Gifu sembra non averne minimamente sofferto, uscendo dall’amplificazione cristallina come sempre.
Test pattern (è questo il nome del suo ultimo progetto) è un sistema studiato per convertire ogni tipo di dati (testi, suoni, foto e video) in patterns di codici a barre e patterns binari di zeri e uni.
Il risultato è un potente spettacolo fatto di immagini essenziali altamente sincronizzate e rigorosamente in bianco e nero che, nella totale oscurità della sala, scorrono a velocità elevatissime (in certi casi alcune centinaia di frame al secondo) su un grande schermo alle spalle del musicista diviso in due simmetriche e interconnesse sezioni.
Il dimesso, immobile e all’apparenza “alienato” Ikeda, col suo look (guarda caso) total black, sembra fondersi con il video alle sue spalle fino quasi a scomparire; lo spettatore, d’altro canto, è completamente immerso in un ambiente ultratecnologico e vorticoso che pare risucchiarlo e giocare all’impazzata con la volubilità delle sue capacità percettive, sondandone con la più assoluta radicalità i mutamenti e le disfunzioni.
Tale lavoro, profondamente concettuale, si configura infatti come un tentativo di analisi della relazione che intercorre tra i punti critici di un dispositivo per performance e la soglia della percezione umana, spingendo entrambi ai loro più estremi limiti.
Ciò vale ovviamente anche per il versante audio, consistente in una ricerca iperminimale che lascia trasparire la predilezione dell’artista per le altissime e le bassissime frequenze; le ritmiche sono spesso serrate e sbalorditivamente fluide (pur “inceppandosi” a tratti, cosa che conferisce all’insieme una forza piacevolmente straniante), possiedono la vertiginosità e l’automaticità di un congegno martellante e completamente fuori controllo; i suoni di cui il suo stile si nutre sono “elementari” e al tempo stesso maniacalmente cesellati, rimbalzano incessantemente e freneticamente da un canale all’altro e deliziano l’ascoltatore con le loro multiformi e antitetiche qualità timbriche: si combinano infatti sonorità delicatissime ad altre decisamente dure e penetranti, il tutto elaborato con immane pulizia, inverosimile raffinatezza e puro rigore matematico, una sorta di sinfonia algoritmica dalla resa spiccatamente hi-tech.
È lo stesso Ikeda ad illustrarci i tratti salienti del suo approccio quando sostiene che «la bellezza è cristallo, razionalità, precisione, semplicità, eleganza, delicatezza. Il sublime è infinito, infinitesimo, immensità, indescrivibile, ineffabile».
Ne consegue uno stupefacente prodotto in grado di commuovere, paradossalmente, pur nel suo voluto e incorruttibile distacco, a mio avviso una delle più alte e geniali manifestazioni della creatività contemporanea.

L’uomo in un istante: “Homo Sapiens” & “Steve McCurry”

Come siamo nati e cosa siamo diventati? Se vi trovate a Roma e volete dedicare un po’ del vostro tempo agli eventi romani, vi consiglio un percorso da seguire. Andate innanzitutto al Palazzo delle Esposizioni per la mostra Homo Sapiens, ideata da Luigi Luca Cavalli Sforza, e poi raggiungete, nel pomeriggio, il Macro per la mostra fotografica di Steve McCurry.

Si tratta di un percorso personalissimo sull’uomo. L’itinerario proposto da Homo Sapiens è fondamentale per comprendere la nostra storia e la nostra diversità nell’uguaglianza. L’approccio dei due curatori, Sforza e Telmo Piovani, è sicuramente didattico e rivolto alle nuove generazioni ma, attraverso una serie di reperti eccezionali provenienti da tutto il mondo e un adeguato supporto multimediale, riescono a dialogare con tutti e a incuriosire anche i più esperti della materia. Siamo nati da una piccola comunità, ci ripetono i curatori, che s’è diffusa grazie alle sue continue migrazioni incontrando popoli e climi diversi. Siamo partiti dall’Africa per stanziarci poi nel Vecchio Mondo. I nostri antenati, migrando, hanno incontrato i cugini più antichi, cominciato un processo d’ibridazione ma anche di colonizzazione che ha comportato un cambiamento culturale significativo. Nonostante la forte unità biologica, sono nate differenze interne e conflitti che continuano ancora oggi.

L’appassionante percorso che unisce genetica, linguistica e antropologia è uno stimolo fondamentale per leggere e interpretare, sotto un’altra luce, il lavoro proposto al Macro da Steve McCurry. Come poi fa emergere anche il fotografo americano, non esistono razze umane poiché il nostro modo di camminare, pensare, piangere, agire è lo stesso in tutto il mondo. Infatti, le duecento fotografie di Steve McCurry, disposte per assonanza, mostrano l’uomo oggi in diverse parti del mondo, in un percorso né cronologico né tematico ma che ha come unico filo conduttore la vita umana, dalla nascita alla morte. L’allestimento è formato da tante piccole cupole su cui l’architetto e designer Fabio Novembre ha riposto le fotografie i cui colori, accesi e vibranti, invadono il visitatore. Troviamo l’ormai famoso volto della bambina afghana, quello sguardo che dice più di mille parole, l’India, il mondo orientale ma anche Roma, Venezia e la Sicilia delle processioni.

McCurry fotografa l’umanità, presa nel suo complesso, inquieta e vitale, e immortala, durante i suoi viaggi, sguardi di bambini indifesi, talvolta martoriati da mine antiuomo, l’essenza genuina di una persona, gli orrori di una guerra o della povertà tatuati indiscriminatamente sui volti dei ragazzi e della gente. Lui è solamente un viaggiatore, un ricercatore, l’elemento estraneo che si inserisce, con pazienza e dedizione, nelle comunità, nei paesi dove è difficile penetrare e il suo stile ci restituisce il senso dell’incontro con popoli diversi ma accomunati da una matrice comune. I ritratti di McCurry sono innanzitutto il frutto di un’esperienza personale che viene prima narrata e poi comunicata attraverso l’immagine.

Homo Sapiens – La grande storia della diversità umana, ,
Roma, Palazzo delle Esposizioni, fino al 12 febbraio 2012
Lunedì: chiuso

Steve McCurry
Roma, Macro, fino al 29 aprile 2012
Lunedì : chiuso

“Cesare Pavese” di Franco Vaccaneo

Cesare Pavese non è solo uno dei classici per antonomasia della nostra letteratura, ma è anche un grande poeta e traduttore, un esempio di scrittura limpida, moralità sofferta e sopra le parti. Oggi più che mai, si assiste a un fiorire crescente di manuali e corsi di scrittura creativa, spesso anche improvvisati. Leggere i romanzi di Pavese o le sue traduzioni –penso soprattutto a quelle di Hemingway –potrebbe servire a molti scrittori in erba per apprendere i ferri del mestiere, per ripulire la propria scrittura da una serie di appesantimenti barocchi, migliorando, così, la mera comunicabilità dell’opera.

In uno splendido saggio pubblicato dall’editore Gribaudo, Franco Vaccaneo ci offre un’immagine a tutto tondo dello scrittore neorealista. Se è vero che la vita di Pavese è strettamente correlata alla pagina scritta, lo è altrettanto ai luoghi della propria formazione, occasioni di riflessione e corpus juris di una poetica meditata e, allo stesso tempo, accorata. Il legame con Santo Stefano Belbo (il paese rurale in cui era nato nel 1908), con le colline langarole e la vegetazione selvaggia, costituiscono per Pavese un’autentica fonte di ispirazione. È lui stesso a dircelo, in una famosa lettera indirizzata a Fernanda Pivano: «Quello era il mio Paradiso, i miei mari del Sud, la mia Prateria, i miei coralli, Ophir, l’Elefante bianco». Anche troppo evidente è l’allusione a Hemingway, autore che conosceva molto bene.
Se da un lato Santo Stefano Belbo e le Langhe costituiscono la materia del sogno e la voglia di evadere, dall’altro, un po’ come la siepe “dell’ermo colle” per Leopardi, fanno da freno alla smania crescente di andarsene. Questi luoghi, in una procedura assodata che proietta la vita dell’autore sotto forma di opere, li ritroviamo in poesia, nei romanzi più celebri ( La luna e i falò su tutti) o appena accennati e cifrati nei celeberrimi Dialoghi con Leucò. L’idillio con la campagna, la collina e i luoghi della giovinezza sono, tuttavia un sodalizio a distanza, soprattutto durante il periodo in cui Pavese, ormai adulto, si trasferisce a Torino. La città è motivo e occasioni di molteplici sollecitazioni culturali: i giornali, i cinema, il varietà, le riviste, i dibattiti letterari e le case editrici. Abitare nell’antica capitale sabauda equivale a riappacificarsi con la terra natia, giudicarla per quello che è e farne un luogo di rifugio.

Uno dei nodi cruciali che Vaccaneo affronta nel saggio è quello della lingua. Pavese, come parecchi neorealisti e come i conterranei Alfieri e Fenoglio, si era interrogato sul rapporto lingua/dialetto, avvertendo una certa perifericità dei piemontesi rispetto alla koiné toscana, modello di riferimento. La scelta degli incisi, nella prosa come nella poesia, vanno in questa direzione. Optare per uno stile semplice, evitando improbabili acrobazie stilistiche, era il mezzo per giungere a una comunicatività più diretta senza perdersi nei meandri del “dannunzianesimo”. Il primo Pavese, in verità, così come Calvino e il maestro Alessandro Manzoni, “soffriva” di francesismo e cioè utilizzava una lingua che, sia dal punto di vista sintattico sia dal punto di vista lessicale, risentiva dell’influenza dell’idioma d’oltralpe. Si trattava di francesismi inconsci e di riflesso, ovviamente, veicolati per lo più dai dialetti gallo-italici.

La questione più insidiosa trattata nel saggio è indubbiamente il rapporto tra letteratura e politica. Pavese, che non aveva mai fatto mistero delle proprie vedute, pagò le sue idee con il confino. Un periodo amaro, consacrato dall’opera Il carcere. Già il titolo fa intravedere le difficoltà vissute dal poeta in una terra così diversa dalla propria (a Brancaleone calabro), per un uomo come lui così attaccato ai luoghi natii. Se lo confrontiamo con Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, la cosa ci appare ancora più lampante. Levi aveva fraternizzato con gli abitanti del posto a tal punto da scrivere un romanzo in cui sottolineava la precarietà e la miserie in cui versavano le persone della regione in cui era stato confinato. Inoltre, Levi ne metteva in luce una genuinità estrema, puntava il dito sulla solidarietà e la fratellanza che quelle persone gli avevano dimostrato fin dal primo momento. Per il poeta delle Langhe, invece, che si era sentito un pesce fuor d’acqua, il confino era stato soprattutto solitudine, nostalgia della propria terra e difficoltà a stringere rapporti con persone che sentiva tanto diverse da lui. Per tutte queste ragioni il libro era stato intitolato Il carcere.
Il problema principale del rapporto tra politica e letteratura era però un altro: la seconda, per come la vedeva Pavese, non poteva in nessun modo essere subordinata alla prima. Pavese rivendicava la superiorità della cultura su ogni dottrina politica e questo, in un periodo di dibattiti accesi in cui la politica era il centro della dialettica di un mondo ideologizzato, era un problema alquanto spinoso.

Franco Vaccaneo chiude il saggio parlando degli sfortunati amori del nostro scrittore, amori più fantasticati che vissuti. L’attrice americana Constance Dowling, in questo contesto, costituisce l’ultimo e più sofferto tassello della vita di un uomo che conosceva profondamente il mondo femminile.

La particolarità di questo saggio sta nella semplicità e precisione con cui l’autore ci conduce, passo dopo passo e argomento dopo argomento, in un meraviglioso viaggio alla scoperta di Cesare Pavese. Una vita scandagliata e investigata in ogni intima piega. Il libro è corredato da una serie di foto d’epoca inerenti la vita, la corrispondenza, le opere e i luoghi che hanno fatto da cornice ai giorni dello scrittore tragicamente scomparso.

“Thom Pain” di Will Eno

Chi è Thom Pain? Cosa fa per vivere e perché sta occupando indebitamente lo spazio scenico? È un attore, un politico, un avvocato o forse un giornalista? Perché vuole a tutti i costi raccontarci qualcosa? E soprattutto, cosa ci sta raccontando? La sua vita o quella di qualcun’ altro?
Rimane lì, al buio, fermo. Cerca parole, significati in un dizionario. Vuole accendersi una sigaretta, ma non ci riesce. Poi, di colpo, un cono di luce si irradia intorno a lui e lo avvolge, fitto. Allora comincia a raccontare, Thom Pain, a raccontarsi. Evoca l’immagine di un bambino e del suo cane, intenti a giocare dopo un acquazzone, e nella lirica costruzione di questo piccolo momento non usa pudore, si serve di ogni cliché retorico, solo per invitarci, al culmine del percorso emotivo della storia, a spezzargli idealmente le gambe con una mazza. Ecco, Thom Pain si è presentato. Eppure, quella storia gli lascia un velo di malinconia nello sguardo, nella voce a tratti spezzata, nei gesti. Ma poi si ricompone come attraversato da un lampo, un guizzo, ed eccolo pronto ad adescare una ragazza seduta tra il pubblico, in prima fila. Fa il piacione, diventa cinico e cattivo investendo il pubblico con una valanga di parole e gesti, convulsi. Confessa, ispirato, la stravagante storia d’amore di cui è protagonista, e fa giochi di prestigio. E va avanti così, per novanta minuti, intensi, irrefrenabili, passando da un discorso all’altro da un’ azione all’altra, senza far annoiare mai il pubblico che lo ascolta, ipnotizzato, affamato di sapere “chi è” davvero Thom Pain e fin dove vuole spingersi.

Scritto da Will Eno e finalista del Premio Pulitzer 2005, Thom Pain è un testo irriverente e apparentemente privo di alcuna contingente urgenza. Non c’è una storia: il suo protagonista alterna fasi di bulimica e insensata eloquenza a fasi di estatica contemplazione, ad altre ancora di sordida chiusura in se stesso. Thom Pain racchiude dentro un dolore atavico: è qualcosa d’inesprimibile, di irrazionale, di paralizzante, un dolore a cui non si sa dare un nome ma che è quello che ciascun essere umano porta irrimediabilmente dentro. L’unica arma che ha per ucciderlo, per sfatarlo è il cinismo e la sfrontata sincerità con cui si racconta agli altri, non curante del giudizio che potrebbe generare in chi l’ascolta. L’umorismo di cui si fa scudo rammenta quello di Allen, tutto basato sulla giustapposizione di temi alti e conclusioni irrimediabilmente secolari, sulla costruzione di un epos magniloquente al cui termine ci attende come anticlimax un finale effimero come il fuoco di un fiammifero.

Elio Germano, reduce dai meritati successi cinematografici, convince innegabilmente anche sulla scena teatrale non tradendo le aspettative dei suoi innumerevoli fan. Regista essenziale e interprete straordinario di questa piece, dona grazia estrema e voce ardente al suo Thom Pain: poche volte a teatro capita di sperimentare una sintonia così intensa fra interprete e testo, fra attore e personaggio, da far dimenticare allo spettatore l’esistenza di questa dualità. Succede in questo spettacolo: sul palco si vede solo Thom Pain e costa fatica ricordarsi ogni volta che c’è anche Elio Germano. Ma è proprio lui l’artefice di questo incantesimo.


Thom Pain (basato sul niente)
di Will Eno
con Elio Germano

Roma, Teatro Quirinetta, fino al 18 dicembre

“Petali d’oriente” di Yoshie Nishikawa

Provocante ma sensuale, sfrontata ma discreta. È questa la donna impressa nella fotocamera di Yoshie Nishikawa (Sapporo, 1959; vive e lavora tra Milano, Londra, Parigi e Tokio). Petali d’Oriente è la sua prima personale presso la Pavesi Fine Arts. La galleria milanese, nata nel 1978 con un indirizzo antiquariale di tradizione familiare, ha rinnovato da qualche anno l’originaria tendenza aprendo i suoi spazi all’arte contemporanea. Per l’inaugurazione il fruitore è stato accolto in un’ambientazione nipponica con tanto di aperitivo sushi, artista in kimono e occhi a mandorla.
Dopo la laurea presso l’università d’arte di Ootani di Sapporo, nel 1982, Yoshie si è trasferita a San Francisco specializzandosi in “The Fine Arts of Photography” alla Francisco Academy of Art College. Ha all’attivo varie collaborazioni con importanti editori, aziende e agenzie fotografiche di Tokio. In campo pubblicitario ha affiancato numerosi brand internazionali come Ferrari, Xenia Gioielli, Harrods, Sony e ha pubblicato servizi fotografici su diverse riviste di case editrici come Condè Nast, Rizzoli, Mondadori, Hashette. Inoltre, ha costantemente alternato l’attività professionale con una propria ricerca personale esponendo i suoi lavori in vari spazi espositivi in Italia e in Giappone.
Sulle vivaci pareti giallognole delle due piccole stanze comunicanti sono appesi ben 21 scatti in bianco e nero in cui figurano nudi femminili.
Al centro di questi fermi immagine domina un’unica modella passionale e conturbante che offusca, con la propria bellezza e la luce che s’imprime sulla sua pelle, l’ambiente circostante.

La protagonista è ritratta in posizioni irriverenti, sentite oscene dal pubblico occidentale, abituato a una pudica visione della donna e legato al concetto di immagine in quanto mimesis della realtà. Una concezione ben distante da quella giapponese, secondo cui la rappresentazione di una figura non rimanda a se stessa bensì ad altro da sé, in quanto connessa a una tradizione simbolica.
Le fotografie, di formato quadrato (90x90cm) e rettangolare (60x90cm), sono scattate in una serie di chateau appena fuori Parigi. Interni in stile settecentesco, dominati da colonne e lampadari sfavillanti, si alternano a signorili cortili. Qui, il gentil sesso, rappresentato in tutta la sua fisicità, è sorpreso nei suoi momenti più intimi. Disinvolta e noncurante di sguardi indiscreti, si denuda da vesti regali, indossando solo gioielli che esternano la preziosità in lei insita.
A prima vista le immagini sembrano cogliere l’istante in cui si concretizza il fatto, l’azione. In realtà, Yoshie le studia in ogni suo particolare: dalla composizione, al set, alle singole pose, all’esposizione della luce direttamente sul soggetto. Ne emerge una teatralità tale da ricordare Caravaggio. Un’ulteriore riferimento al maestro lombardo è dovuto all’utilizzo della diagonale. In alcune istantanee il personaggio femminile taglia l’integrità della superficie dell’opera attraversandola, disegnando una linea obliqua con le sue stesse membra. Questa suddivisione dello spazio ricorda dipinti caravaggeschi come “Crocifissione di San Pietro” (Caravaggio, 1600-1601,Basilica di Santa Maria del Popolo, Roma) o il “David con la testa di Golia” (Caravaggio, 1609-1610, Galleria Borghese, Roma).

L’attenzione di Yoshie per il livello estetico dell’immagine va di pari passo con un’accurata ricerca per la sua conservazione. Gli scatti, infatti, sono stampati su carta cotone, la migliore presente sul mercato, tale da garantire l’immutabilità del colore per circa 150 anni senza ingiallire. Oltre a ciò, per dare un effetto di maggior lucentezza, le opere sono state ricoperte da uno strato superiore di cera posta a mano.

“Kafka sulla spiaggia” di Murakami Haruki

«Qualche volta il destino somiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra col dio della morte prima dell’alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l’altro. Non troverai sole, né luna, nessuna direzione, e forse nemmeno il tempo. Soltanto una sabbia bianca, finissima, come fosse fatta di ossa polverizzate, che danza verso in alto nel cielo. Devi immaginare questa tempesta di sabbia».

Una tempesta di sabbia è il libro Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki (titolo originale Umibe no Kafuka, 2002), pubblicato in Italia da Einaudi.
In questo lavoro Murakami mostra il suo genio nel costruire mondi irreali, paradossalmente in grado di mostrare una realtà. Un immaginario visionario, ai confini del metafisico e del surreale che ci ricorda l’esistenza di un corrispettivo mondo possibile, altro.
Sin dagli esordi letterari la rappresentazione di un mondo “altro” dove si condensano ricordi, sogni e fantasie, è l’aspetto fondamentale della sua narrativa. Si tratta di una dimensione subconscia ma altrettanto tangibile e concreta rispetto a quella reale, ambivalente per i suoi aspetti al contempo affascinanti e terrificanti.

«Ciò che è fuori di te è una proiezione di ciò che è dentro di te, e ciò che è dentro di te è una proiezione del mondo esterno. Perciò spesso, quando ti addentri nel labirinto che sta fuori di te, finisci col penetrare anche nel tuo labirinto interiore. E in molti casi è un'esperienza pericolosa».

In quest’opera la narrazione si dipana su due binari, da principio nettamente separati ma destinati a trovare un raccordo finale. Due protagonisti, due intrecci narrativi: il giovane Tamura Kafka e l’anziano Nakata. Tamura Kafka, ragazzo maturo e determinato come un adulto, decide di scappare di casa il giorno del suo compleanno, andando in una città lontana nel Sud del Giappone, per fuggire da una profezia pronunciatagli dal padre: «Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella».
Nakata, un vecchio analfabeta con l’ingenuità e la spontaneità semplice di un bambino, trascorre la sua vita fatta di piccole abitudini quotidiane e animata a volte da conversazioni con i gatti, con i quali riesce a parlare usando il loro linguaggio; gatti che notano la sua «ombra densa circa la metà delle persone normali». Dopo l’inquietante incontro con il personaggio Johnnie Walker, impietoso ed efferato assassino di gatti, Nakata compie un delitto contro la sua volontà e fugge dalla sua città natale. Nel corso del suo viaggio si dirige istintivamente verso il Sud del Giappone, dove sente misteriosamente di essere chiamato a svolgere un compito.
Con percorsi paralleli, i protagonisti del libro raggiungeranno ognuno il proprio destino.

La narrativa di Murakami sembra basarsi sulla tragedia di Edipo, soprattutto nella strutturazione dei protagonisti dei due intrecci: il primo, Tamura Kafka, incarna l’Edipo in fuga da Corinto – in questo caso Tokyo – oggetto di una profezia che lo vedrà assassino del proprio padre e amante della madre. La ricerca di un rifugio da questo destino porterà Edipo-Kafka nel luogo del compimento della tragica maledizione, la città di Tebe, ovvero, la biblioteca Komura. Il secondo, Nakata, impossibilitato ad essere autosufficiente e supportato dal giovane Hoshino, un ragazzo conosciuto per caso ma che finirà per essere una figura familiare e di fondamentale aiuto durante tutto il corso della narrazione, ricorda l’Edipo che a causa della sua cecità è costretto a fare affidamento sulla figlia Antigone.

Ma nel libro non vi è nessuna enfatizzazione della supremazia del Fato greco o dell’inesorabile castigo come conseguenza dei crimini commessi. Murakami infatti conclude la sua tragedia dando grande importanza al fattore della volontà umana.

Haruki Murakami, insieme ad altri autori noti, a lui contemporanei e connazionali, come Ryu Murakami e Banana Yoshimoto, venne inizialmente molto criticato a causa della sua internazionalizzazione. Oe Kenzaburo (1935) che definisce il Giappone ambiguo (aimaina) perché mosso, dopo la seconda guerra mondiale, verso una modernizzazione tesa all’imitazione del modello occidentale, diceva, a proposito della scrittura di Murakami, che essa non è veramente giapponese, «se tradotta in angloamericano può essere letta a New York»come fosse letteratura americana. Tant’è che a Murakami è riuscito in qualcosa che a lui, benché abbia ricevuto il premio nobel nel 1994, è sempre risultato impossibile: farsi conoscere da un vasto pubblico all’estero. Ci si chiede se sia giusto, ai fini dell’internazionalizzazione, sacrificare la propria specificità. Ma la profondità della tradizione giapponese non è sostituita da qualcosa di superficiale e insensibile. La tradizione resta e, al suo fianco, abbiamo capolavori letterari come quelli di Murakami in cui le parole si trasformano in immagine, odore, suono.

«La sabbia bianca del tempo scorre dalle fessure tra le dita della ragazza. Si sente il rumore di piccole onde che si infrangono contro la riva. Si sollevano, si abbassano, si rompono. Si sollevano, si abbassano, si rompono. Poi la mia coscienza viene risucchiata in una specie di corridoio buio».

“Il mio Nirvana”: a tu per tu con i Kamchatka!

«L’amicizia è l’unica cosa che conta davvero per fare bene musica, il resto è superfluo».

Seduti su sacchi di caffè brasiliano imbottiti, al lungo tavolo sociale del circolo culturale Ke Nako, nel quartiere San Lorenzo di Roma, incontriamo i Kamchatka!, terzetto romano che ha appena terminato di esibirsi.

«Suoniamo insieme da tanti anni, da quando ancora ci chiamavamo The Tracks ed eravamo in una formazione a quattro, ormai quasi otto anni fa», dice Alessandro, chitarra e voce del gruppo, camicia di flanella a quadri e timbro profondo. «In tutto questo tempo l’unica cosa che c’è sempre realmente interessata è stata fare musica cercando di divertirci e di esprimere al meglio noi stessi». 

Un percorso lungo, che li ha portati a diversi cambiamenti, finché nel 2007 non sono rimasti in tre – chitarra, basso e batteria –, hanno cambiato nome e approccio sonoro, continuando a suonare e scrivere con l’idea precisa di proseguire e una sola certezza: comporre in italiano. 

«Le prime canzoni dei Tracks erano in inglese, nel 2006 abbiamo deciso di provare a lavorare in italiano, principalmente per concederci maggiori occasioni di visibilità», prosegue Alessandro. «In Italia è più semplice per una giovane realtà musicale venir notata se il cantato è in italiano», ribadisce Manuel, il bassista del gruppo.

I primi tentativi, però, non furono incoraggianti: «I testi non venivano in maniera spontanea, incontravamo delle difficoltà, risultavano poco sinceri. Quando sono nati i Kamchatka! abbiamo deciso di insistere con l’italiano e le cose hanno iniziato ad essere più fluide, più oneste. Ora come ora è impossibile per noi immaginare di scrivere in un’altra lingua». Sono nate così le prime canzoni, che li hanno portati ad esibirsi dal vivo in vari locali della capitale e del Lazio, finché, nel 2010, la band si chiude in studio per registrare il primo album. I tre decidono di lavorare con un approccio vecchio stile: strumenti vintage, registrazioni in presa diretta ed esclusivamente in analogico.

«La nostra è una decisione precisa: il lavoro in presa diretta ci ha permesso di mantenere la potenza di impatto che caratterizza i nostri live. Possiamo dire che è una questione di sincerità: abbiamo voluto registrare nel modo più fedele possibile ai concerti», dice Andrea, detto Capel, il batterista, «inoltre, è stato un vero e proprio esame per tutti noi. Abbiamo rinunciato alle comodità che può offrire il lavoro su ogni singolo strumento, con le correzioni e le semplificazioni che possono derivare dall’incisione in digitale».

È stato così creato Il mio Nirvana, disco d’esordio del gruppo, registrato tra Senigallia e il Piemonte, prodotto dalla band e dalla Kiu Kiu di Michele de Cesaris. Distribuito su internet e stampato in mille copie, con uno psichedelico art-work di Spentriu in copertina ispirato al testo della title track, l’album contiene nove tracce (più una ghost track) dal suono ruvido e distorto, contaminato da momenti noise e aperture melodiche a supporto di testi ermetici ed evocativi, che hanno portato una parte della critica a parlare di nu grunge. Definizione che il gruppo, però non si sente di condividere: «L’ispirazione alla musica americana degli anni ’90 c’è, non possiamo certo negarla, ma le nostre fonti di ispirazione non si fermano certo lì. Alla scena grunge rendiamo omaggio con la title track, nel cui testo confluiscono riferimenti alle varie band del periodo, a partire dai Nirvana, ma sono tanti e diversi i gruppi a cui guardiamo. Se proprio è necessario scegliere un genere di appartenenza, direi piuttosto rock italiano, ma può essere controproducente», Alessandro si ferma, sorride, beve un sorso di birra, incrocia lo sguardo dei suoi due compagni, che ricambiano il sorriso, e prosegue «se dici “rock italiano”, alla maggior parte delle persone vengono in mente Vasco Rossi e Ligabue, che con quello che intendiamo noi non c’entrano nulla. Il nostro riferimento è a quella corrente di musica italiana che ha prodotto i Marlene Kuntz, i Verdena, i primi Afterhours. Gruppi che hanno creato un proprio suono partendo da riferimenti evidenti».

«Diciamo che noi siamo come uno spezzatino, o come la cioccolata ripiena», prosegue Andrea, «se ci guardi da fuori pensi di sapere cosa hai davanti, ma dentro c’è di tutto, molta più complessità».

Ora, il gruppo si divide tra attività live – è in progetto un tour in tutta Italia – e lavoro su nuovi brani: «Ad agosto ci siamo chiusi in una casa in campagna con gli strumenti e un software di registrazione e abbiamo iniziato a preregistrare. Sono venuti fuori sei pezzi in cui abbiamo ampiamente cambiato modo di lavorare. Ora è la musica il punto di partenza, non più il cantato.Facciamo delle lunghe improvvisazioni su cui si sviluppa una traccia vocale e dopo di che scriviamo i testi. È una specie di flusso di coscienza trasposto in musica, vengono fuori cose interessanti. Oltretutto abbiamo iniziato a inserire tappeti di tastiere e piccole parti di sintetizzatore. Cerchiamo di sviluppare il nostro suono, di provare cose nuove».

In una realtà in cui è molto difficile affermarsi come quella della musica alternativa italiana, i Kamchatka! hanno ben presenti gli elementi su cui possono contare: «Noi dobbiamo sempre mantenerci onesti verso noi stessi e il pubblico, lavorando con impegno ed elasticità, muovendoci tra i vari generi e facendoli nostri, senza cedere alle pressioni delle mode del momento. In Italia vivere di musica è difficile, riuscire a emergere ancora di più. I locali non aiutano le band, non collaborano alla promozione, non hanno delle programmazioni coerenti. Meno male che c’è internet: i social network sono vitali per noi. Quello che importa è riuscire a far conoscere la nostra musica al maggior numero di persone possibile. Dopo di che si vedrà cosa potrà arrivare». Senza mai perdere di vista l’onestà e l’amicizia.

 

I Kamchatka! su internet:

http://www.myspace.com/kamchatkaita
h’ttp://kamchatka.bandcamp.com/album/il-mio-nirvana

http://www.youtube.com/user/mrscorribanding

“Flanerí Mag”: numero zero

Flanerí Mag è il nuovo trimestrale di Flanerí dedicato in prevalenza alla narrativa. Nasce dalle officine di “Altre Narratività” con lo scopo di mettere assieme scrittori già affermati e autori esordienti o ancora sconosciuti.
Il magazine uscirà quattro volte l’anno, nelle seguenti modalità: febbraio e settembre in pdf e in ePub scaricabili direttamente dalla sezione Flanerí Mag del nostro portale; dicembre e maggio (in occasione di Più libri più liberi, a Roma, e del Salone del libro, a Torino) in formato cartaceo, oltre che in pdf e in ePub.
Flanerí Mag #0 è, dunque, il primo tassello di questo nostro ambizioso progetto. Oltre a scaricarlo cliccando sui link di questa pagina potrete trovare la rivista cartacea a Più libri più liberi (Sala Stampa del Palazzo dei Congressi, dal 7 all’11 dicembre) e in numerose librerie di Roma (a partire da giovedì 8 dicembre).

 

 

 

Flanerí Mag #0: Sommario

  • Flanerí Mag: atto zero di Dario De Cristofaro
  • Genesi dell’incerto di Giorgio Nisini
  • Di là dall’Istmo di Mario Massimo
  • Dopo Ticonderoga di Matilde Quarti
  • Acque Gemelle di Girolamo Grammatico
  • La breve vita di un clown di Luigi Ippoliti
  • Spruzza ancora la campana di Paolo Rigo

 

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“Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani

 

Ci sono due mondi. Quello sopra e quello sotto le coperte.
La girandola di cieli che cinguettano fuori, schiavi del vento e dei calendari, la frenesia di vestirsi per essere altrove, anche in fretta. Incipriarsi le gambe di belle intenzioni e affrontare gli oroscopi delle correnti.
E poi, c’è il nostro letto. Senza impegni né orologi. Un lago senza refoli in cui scegli di restare, un giorno solo, un giorno intero, a «frugare nei ricordi», a decidere che oltre la porta non c’è niente di più bello da barattare col lenzuolo.
Tina sta lì, nella capanna di stoffa, a sbucciare i suoi fatti, a metterli in fila. E da un punto protetto comincia a spogliarsi, scopre i tasselli al riparo dal sole e ci offre le sue Dolorose considerazioni del cuore (Nottetempo). L’autrice Sandra Petrignani ha optato per il titolo giusto, perché protagonista assoluto del romanzo è proprio quell’organo, quell’insieme di tessuti che spinge il sangue sopra e sotto i suoi strati, intorno e dentro la pelle.
Tina si rivolge a Vittoria, amica perduta e poi riabbracciata dopo anni di vuoto, si ripercorre a ritroso, viaggia su di sé in varie direzioni, fino a tracciare l’«autobiografia di una borderline».
La strada dissestata di una bambina troppo magra, innamorata di una madre sfuggente, che non voleva baci, che difendeva il trucco e rimpiangeva Roma, e di un padre eroico, che si opponeva al potere, che seduceva le donne, che conosceva la fame e ha saputo sconfiggerla.
E allora anche Tina ha cominciato a non mangiare, perché quel poco che ingerisce non rimane dentro, cerca l’uscita, si aggrappa alla gola finché non spunta al di là della bocca.
Vomita sempre, Tina, si contorce lo stomaco, perché quella è l’unica parte a chiedere aiuto, a implorare attenzione mentre il resto tace o s’imbosca. Gioca in silenzio i suoi tempi morti.
Poi Tina è cresciuta, ha imparato a nutrirsi, a sentirsi migliore.
È diventata attraente e si ciba di sguardi, dei tremiti ammirati che suscita negli altri, dei valzer di uomini ai confini del suo nome. Yann e Jean Brice, cavalieri francesi di una vacanza, sono solo due esempi di come l’amore si può scomporre. In un volto sicuro e in uno appassionato. Nella stretta di chi ti rassicura e in quella di chi sa spezzarti anche solo sfiorandoti.

Non emette alcun verdetto Tina, si lascia agire, lascia che il destino stabilisca un vincitore, tanto il treno è già pronto a riportarla a casa, senza lacrime né scorie.
Perché è vaccinata, sa come non soffrire, rendere l’anima ignifuga e gli occhi impermeabili.
Perché ha vissuto di strappi, fino a quando non hanno fatto più male, fin quando la carne ha imparato a sorridere di ogni ferita. Ama così Tina, dando fondo a quel pozzo per poi liberarsene, abusando di sé per alleggerirsi.
E dopo è invecchiata, con due genitori anziani e incattiviti, malati di brutta vita e di troppe abitudini. Avverte per questo il bisogno di scrivere, dietro uno scudo di lana, di dichiarare l’eterna sfida del conoscersi, di voler bene a qualcuno e di volere veramente qualcosa, accettandone i costi.

Il libro è un flusso incessante, un sogno in stato di veglia in cui l’autrice restituisce se stessa, ci racconta la sua forza minacciata e le sue infinite brillanti debolezze.
Con uno stile rapido e tagliente, che non fa sconti all’amarezza, col suo piglio giornalistico e appuntito che fotografa i tormenti, li ritrae mentre scorrono e poi li risveglia quando sono passati, la Petrignani estrae dai suoi cassetti la vita di chiunque, i dubbi che spesso seppelliamo sotto metri di turni e andamenti regolari.
E ci regala un profilo dolente, dov’è l’ombra a comporre più versi, un angolo di donna che non solo attraversa il femminile, ma da lì costeggia l’umano e lo inchioda allo specchio.
Il tutto sotto il tetto di un piumone.

I tablet da leggere

Nell’ultimo mese sono stati portati al fianco dell’editoria due colpi ben assestati.
Dico al fianco, perché il mondo dell’editoria elettronica è ancora talmente acerbo che, almeno qui in Italia, certe notizie emergono dal sottobosco di blog e siti specialistici o per appassionati soltanto se possono essere accostate a eventi mediatici più generali (vedi le folle impazzite per l’uscita di un nuovo iPhone e i conseguenti servizi su tutti i tg).
Dico al fianco anche perché il mercato dei libri elettronici ancora si attesta su percentuali bassine, nonostante sia l’unica cosa che cresce (insieme al settore dei dispositivi mobili) in questo momento di economia stagnante.
Nell’ultimo mese sono stati posti sulla piazza due colpacci, due nuovi lettori di eBook: il Kindle Fire e il Nook Tablet. Sono lettori particolari perché non hanno il “classico” schermo a inchiostro elettronico, in scala di grigi e con una lentezza di cambio pagina che mai ci si aspetterebbe da un apparecchio digitale. Sono particolari perché si avvicinano al meraviglioso mondo dei tablet, quegli strumenti reinventati ormai due anni fa con l’iPad. Ciò significa che con questi due lettori, o eBook reader, Amazon e Barnes & Noble vogliono dare una scossa agli eBook, abituando i lettori a dispositivi molto più evoluti degli statici schermi e-Ink. Questi due tablet portano sulle pagine virtuali dei libri elettronici il colore, la voce, il movimento… insomma tutto quel valore aggiunto già decantato per gli eBook ma mai ancora realizzato. Ciò è possibile grazie agli schermi (a cristalli liquidi) e al sistema operativo (Android, quello degli smartphone anti-iPhone): sfruttando i nuovi linguaggi del Web (html5, per chi fosse più avvezzo a queste cose) su tali dispositivi sarà possibile avere libri davvero avanzati, che faranno sicuramente la differenza spingendo i lettori, se non a preferire, almeno ad avere delle ragioni per scegliere se passare o meno al digitale.

Tutta questa spinta è data, inizialmente, da movimenti interni al mondo dei libri elettronici: l’idpf, l’organizzazione che si occupa di sviluppare lo standard per gli eBook, ha lanciato, lo scorso ottobre, la terza versione del formato open ePub. Nel giro di pochissimo tempo anche Amazon, che per il suo Kindle ha sempre usato un formato proprietario, ha aggiornato quest’ultimo rendendolo compatibile con i linguaggi di cui sopra (html5, JavaScript etc.). Eccoci, dunque, pronti al balzo verso i libri elettronici avanzati. Qualcuno li chiama (orrore!) enhanced books.
Ma c’è di più: una strategia di mercato. Amazon ha dichiarato nei giorni scorsi che venderà la nuova linea Kindle in 16000 punti vendita “fisici”: è chiaro che il progetto è di portare sempre più utenti dal negozio fatto di scaffali, dove compreranno il Kindle, al negozio virtuale di Amazon, dove i nuovi lettori potranno, anzi dovranno, comprare i contenuti che faranno di quel Kindle un oggetto fruibile.
Strategia simile, ma al contrario, per Barnes & Noble che, già libreria fisica, si (ri)lancia verso il digitale vendendo uno strumento (il Nook) che lega chi lo compra alla casa produttrice (B&N, appunto).
Nonostante si basino sul sistema operativo Android (notoriamente software libero), entrambe le case ne utilizzano una versione altamente personalizzata, che, in sostanza, blocca le libertà  di chi compra lo strumento: su un Kindle Fire non si ha libero accesso a tutte le applicazioni (è un tablet, non può limitarsi a fare da lettore eBook) del market Android, bensì a un ristretto numero di queste approvato da Amazon. Idem per Barnes & Noble. Ciò significa: hai il Nook Tablet, è bellissimo, ma puoi farci solo ciò che B&N ti permette di fare.
Il Nook Tablet e il Kindle Fire sono indubbiamente due colpi al fianco, perché danno ai lettori qualcosa di effettivamente diverso a scapito, però, della libertà di scegliere dove acquistare i propri contenuti. Per il momento questa pratica sembra andar bene, ma che succederà quando gli utenti avranno una maggiore consapevolezza di ciò che acquistano o semplicemente la necessità di acquistare altrove?
Ultima domanda: questi dispositivi pongono B&N e Amazon nella posizione di essere contemporaneamente rivenditore e distributore per le case editrici. Sarà l’inizio di un nuovo monopolio dei grandi? Se ciò che più pesa sui bilanci degli editori (e sul prezzo dei libri) è oggi proprio la distribuzione, come reagiranno quando invece di questa avranno a che fare con una multinazionale tuttofare?

Resta da vedere come andrà. Però, viste le differenze del mercato nell’era di Internet con il vecchio mercato di merci fisiche, c’è da credere che atteggiamenti monopolistici non solo verranno avversati dagli addetti ai lavori, ma addirittura resi “inoffensivi” dai nuovi padroni del mercato: i consumatori.

“Blackbird” di Lluis Pasqual

Un uomo di sessant'anni e una ragazza di ventisette a confronto all’interno di una stanza. Quindici anni prima lui l’ha sedotta ma lei lo ha amato, con un desiderio adulto, inusitato. Lei è riuscita a ritrovarlo grazie a una foto sul giornale, lui s’è rifatto un’identità dopo aver scontato la sua pena in galera. La vediamo a inizio spettacolo irrompere nella stanza dove Ray lavora e cominciare un lungo racconto fatto di violenza, desideri morbosi, ambiguità ma anche passione. Per tre mesi, hanno vissuto una storia di sesso e amore senza limiti, oltre la morale comune, ma lei ha scontato l’allontanamento dagli amici e la resistenza della famiglia e lui ha dovuto lottare per rifarsi una vita. Si scontreranno brutalmente e verranno a galla nuovi dubbi.

Nonostante la tematica trattata sia dura, Blackbird è uno spettacolo leggero, delicato, corretto anche nei momenti più atroci. Grazie a una regia essenziale e perfetta, Pasqual lascia i due incredibili protagonisti, Massimo Popolizio e Anna Della Rosa, in preda ad un racconto carnale, torbido, rinunciando a giochi di luce o a commenti sonori ma presentando la vicenda in maniera asciutta. Gli attori non danno tregua, è un vero incontro di boxe tra loro due – che più di una volta diventa fisico – fatto di dialoghi serrati, disperati, dove si avverte sempre una tensione costante. Il velo dell’ambiguità e della perversione aleggia costante per tutta la durata della pièce, soprattutto quando entra in scena una ragazzina – che rompe quell’equilibrio dinamico nello/dello scontro – spiazzando protagonisti e pubblico. Anna Della Rosa è intensa, sicura nel conferire al personaggio drammaticità e disperazione, Massimo Popolizio, invece, è irresistibile, viscido, un grande caratterista. Entrambi interpretano il testo di Harrower sputando sangue, con dolore, impadronendosi di un triste ufficio, sporcato significativamente dai rifiuti, mettendo in scena la loro disturbante verità, il loro crimine perverso e inquietante. Ne esce fuori un lavoro tenero e disarmante.

Blackbird
di
David Harrower
regia Lluis Pasqual
con Massimo Popolizioe Anna Della Rosa
e con Silvia Altrui
scene Paco Azorín
costumi Chiara Donato
luci Claudio De Pace
Foto di scena David Ruano

Roma, Teatro India, Fino al 18 dicembre