Cover Parlarne tra amici

L’arte della conversazione nell’era digitale

Riuscireste in quindici minuti a pensare ai benefici che un povero può trarre dal capitalismo e a organizzare un discorso convincente, sostenuto da valide argomentazioni e presentarlo con discreti artifici retorici davanti a una giuria e una platea di gente pronta a giudicarvi? Sally Rooney, autrice ventisettenne di Parlarne tra amici (Einaudi, 2018), sì. La differenza tra Sally Rooney e tanti altri suoi contemporanei è che il suo apprendistato culturale è stato svolto presso la pratica del debate speech. L’autrice ha iniziato ad avvicinarsi al mondo del dibattito a diciannove anni ed è diventata campionessa europea durante l’università. Rooney pone questa occasione come punto fondamentale della sua formazione culturale e racconta nel dettaglio della sua esperienza nel microcosmo dei debateer in un articolo scritto per The Dublin Review: «I was nineteen when I started debating competitively, and it’s probably fair to say that most things I did when I was nineteen were motivated by a desperation to be liked». Le abilità retoriche affinate durante quegli anni diventano così una caratteristica della sua scrittura, fortemente impregnata di dialoghi serrati e acume argomentativo.

A venticinque anni inizia a scrivere quello che diventerà Parlarne tra amici, libro definito da The New Yorker «a new kind of adultery novel». Il romanzo si concentra sulle relazioni che legano i quattro personaggi principali della vicenda: Frances, protagonista e studentessa del Trinity College, accompagnata dalla sua migliore amica ed ex ragazza Bobbi, incontra dopo un’esibizione di spoken word poetry Melissa, fotografa affermata nell’ambiente dublinese. Melissa è sposata con Nick, attore di cui la protagonista si innamora e con il quale inizia una relazione.

La protagonista sfrutta la sua abilità retorica per apparire brillante e mascherare la sua difficoltà ad abbandonarsi agli altri; la risposta di Frances alle insicurezze che emergono nelle pagine iniziali è la consapevolezza, a tratti schiacciante e autocritica, che ha di sé. Lucida e analitica, tende a vivisezionare in maniera cerebrale ogni suo rapporto. Le sue conversazioni sono competizioni che ingaggia contro altri retori, altrettanto abili, come Bobbi; il loro rapporto viene analizzato e discusso costantemente grazie alla predisposizione condivisa a intellettualizzare le dinamiche relazionali. La protagonista percepisce anche con Nick questa sorta di competizione negli scambi per e-mail, che in alcuni momenti descrive come un testo che editano collettivamente o come un intricatissimo inside joke mandato avanti battuta per battuta.

Rooney è abile nel ritrarre quella forma di autocoscienza che spesso paralizza i coetanei della protagonista, riuscendo a trasferire nel libro esitazioni provate da chi muove i primi passi in un ambiente sconosciuto e i tentativi di ammantare con l’arguzia la deferenza nutrita verso il mondo borghese nel quale il romanzo si ambienta. Il racconto di Frances che si addentra in punta di piedi nelle ville di giornalisti e attori e nel «mondo delle cose di letteratura» è schietto e autentico, tuttavia la storia non si concentra soltanto sulla soggezione scaturita dal timore reverenziale ma soprattutto sulla risposta e la spinta di autoaffermazione che la protagonista riesce a imporre mentre si interfaccia con questo nuovo ambiente estraneo.

Un’altra delle particolarità più vistose del testo è che spesso Frances sceglie l’e-mail come forma di comunicazione e la struttura narrativa in parte si presenta come una sorta di romanzo epistolare ambientato su Gmail. Pur non andando a tematizzare la questione della conversazione online e offline in maniera esplicita, l’autrice ha affermato programmaticamente di voler parlare della generazione di cui fa parte e ha deciso di farlo scontrandosi con la difficoltà dell’assimilare in letteratura l’evolversi dei rapporti anche attraverso gli scambi virtuali. Questa impostazione è il modo con il quale Sally Rooney rinnova il topos letterario del tradimento e dell’infedeltà, che da un classico come Madame Bovary alla forma epistolare sperimentata da Chris Kraus in I love Dick si trasferisce sui mezzi di comunicazione più attuali e contribuisce a rendere questo ritratto delle dinamiche relazionali contemporanee realistico e sincero.

 

(Sally Rooney, Parlarne tra amici, trad. di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2018, pp. 304, euro 20)

Annuska, la pittrice ripudiata

Esistono scrittori che hanno patito sulla loro pelle che cosa significa non avere la libertà di fare letteratura. Penso soprattutto ai russi: Pasternak, Solženicyn, Bulgakov, per fare alcuni esempi. Magda Szabó (1917-2007), la scrittrice ungherese più tradotta al mondo, visse la stessa privazione: invisa al regime comunista e quindi ai paradigmi del realismo socialista, dovette attendere fino al 1958 affinché venisse pubblicata. Freskó (1958) è il suo primo romanzo, amato e tradotto da Herman Hesse appena un anno dopo la pubblicazione, non più inedito per il lettore italiano dall’anno scorso (Affresco, Edizioni Anfora, 2017). Molti scrittori ungheresi, come Sándor Márai, quando venne imposto loro il silenzio scelsero la via dell’esilio: Szabó invece rimase e si dedicò all’insegnamento.

Affresco è corredato da una prefazione d’autore risalente al 1999, dove la stessa Szabó spiega che il romanzo venne scritto nel ’53 e poi nascosto: «il 1956 portò con sé la soluzione: furono gli editori a cercare gli scrittori ammutoliti, chiedendo loro manoscritti, e così anche Affresco venne alla luce del sole».  L’autrice, a distanza di oltre trent’anni, si sorprende ancora di come sia uscita illesa dall’orribile periodo della repressione: «Sono rimasta stupita di non essere finita in galera. Affresco per me rimarrà sempre il simbolo del nuovo inizio di una vita da scrittrice, il miracolo pasquale della gioventù calpestata, la resurrezione».

La protagonista di un racconto che dura appena tredici ore, Annuska, torna dopo nove anni, ormai ventinovenne, tra le strade del suo paese natale, dalla capitale Budapest a Tarba, per assistere al funerale della madre Edit (Mammina). Attraverso i ricordi, tutti gli attori ipocriti di questa farsa fanno conoscere al lettore com’è cambiato il mondo da quando Annuska ha abbandonato il luogo della sua infanzia. Questa donna funge quasi da capro espiatorio, soprattutto perché dopo la fuga dal paese natale Annuska è stata diseredata dalla famiglia. La giovane pittrice viene presentata al lettore dal punto di vista degli altri, talvolta disumani – come quando si parla del rastrellamento degli ebrei. Così la protagonista viene presentata dalla madre:  «La mia figlia minore, Annuska, non fa più parte della mia famiglia. L’imperscrutabile volontà del Signore ce l’ha tolta, la consideriamo morta». Anche se sembra non esistere più e se la sua fuga aveva sancito una morte sociale, dal presente di una memoria ubiqua, il nome di questa figlia ingrata passa sulla bocca di tutti.

Il necrologio che informa il paese sul decesso di Mammina, una donna affetta da una grave malattia mentale è un crogiolo di menzogne, perché nessuno pare rammaricarsi della sua mancanza:

«La cara defunta è compianta come suocera da László Kun, pastore della parrocchia di Tarba e membro del consiglio cittadino, come coniuge da István Máthé, ministro del culto riformato in pensione, come mamma da Janka Máthé, moglie di László Kun, e dal maestro Árpad Máthé, come nonna da Zsuzsanna Kun».

Szabó usa l’espediente narrativo del necrologio, dove peraltro la protagonista è assente, per presentare il sottobosco ipocrita dei personaggi secondari, d’accordo solamente nel ripudio di Annuska.  Il vecchio Anzsu fa eccezione: burbero e avvinazzato, ha in fondo il cuore buono per poterle parlare. Attraverso ricordi disordinati e più o meno comuni scopriamo lembi di un’infanzia dura, segnata da vessazioni sistematiche e privazioni che compromettono ogni momento della quotidianità. Anche i libri della protagonista, comprati con la fatica di un lavoro da artigiana intagliando il legno in compagnia di Anzsu, verranno venduti al mercatino delle pulci. Come il parlottio maligno prima del funerale,  il passato stesso è pieno di bugie.

«Eh no, non avrebbe detto la verità, la verità in sé era grezza e informe, bisognava prima comporla, come un’opera musicale. Annuska si era allontanata dalla casa dei genitori perché la sua visione del mondo non si conformava al clima clericale di quell’ambiente».

Lei voleva fare la pittrice e questa forse è una delle ragioni che hanno contribuito al rancore covato dai familiari. Nella casa della sua infanzia, i muri erano spogli e senza quadri. Il padre, chiamato Papino, ripudiava l’inclinazione artistica della figlia, «riteneva losco e quasi antireligioso che si fissasse con il pennello o con la matita qualcosa che per volontà del Signore era destinato a scomparire senza lasciare traccia». Quando una notte Annuska incolla su un’edizione preziosa della Bibbia nove eventi biblici che aveva disegnato, viene brutalmente picchiata. La sua insubordinazione spontanea e creativa causa l’ira sorda del padre.

Annuska avrebbe continuato a dipingere, riempiendo casa sua di quadri senza tuttavia mostrarli a nessuno.

(Magda Szabó, Affresco, traduzione di C. Tatasciore, Edizioni Anfora, 2017, 240 pp., € 18.00)
Poster di Troppa grazia su Flanerí

Visioni impossibili

Selezionato come film di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs dell’ultima edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto anche il Label Europa Cinemas, Troppa grazia di Gianni Zanasi conferma una doppia tendenza del cinema italiano che riesce a spingersi, allo stesso tempo, verso l’innovazione e l’autodistruzione.

In una Tuscia da incanto, Alba Rohrwacher interpreta Lucia, una donna sola alle prese con una figlia preadolescente, un compagno traditore e un lavoro da geometra da inventare ogni giorno. Quando finalmente le avviene assegnato l’importante incarico dei rilievi catastali che porteranno alla costruzione di un’importante opera pubblica, Lucia deve confrontarsi con una giovane donna apparsa dal nulla che continua a ripeterle: «Va dagli uomini, ferma il cantiere, dì loro di costruire una chiesa dove ti sono apparsa». Unica a vederla e a sentirla, Lucia si trova sospesa tra pazzia e religione.

Dicevamo che Troppa grazia di Gianni Zanasi conferma la doppia tendenza del cinema italiano verso l’innovazione e l’autodistruzione. Partiamo dall’innovazione. Dopo un’emorragia di commedie tutte uguali basate sui sentimenti e su dicotomie viste e riviste, in Italia sembriamo aver capito che si può far sorridere il pubblico anche con qualcosa di più originale. Troppa grazia  si infila in un filone eterogeneo che mette insieme il successo colossale di Perfetti sconosciuti  ed episodi artisticamente e commercialmente meno riusciti come Io sono tempesta. Sono film che hanno avuto la capacità di rinnovare il genere, da un lato, e di provare a introdurre temi nuovi e più attuali senza eccessi di paternalismo, dall’altro. Hanno dimostrato, in sostanza, che si può – ancora – fare commedia senza nord contro sud, senza donne alla ricerca di uomini, senza imbarazzanti confronti centro/periferia, poveri/ricchi, borghese/coatto (tipo Come un gatto in tangenziale).

Zanasi, che è un regista coraggioso e poco incline a seguire le direttive del mercato (lo aveva dimostrato anche con il film precedente, La felicità è un sistema complesso, meno riuscito ma comunque interessante), sceglie un argomento delicato come la religione e la spiritualità per parlare di lavoro, di famiglia e di società.

Come di consueto nel suo cinema, gli attori hanno la libertà per esprimersi al meglio e porsi al centro del progetto. A parte l’ennesima conferma di Alba Rohrwacher, Elio Germano si accomoda in seconda fila riuscendo come sempre a dare del suo meglio, così come il fedelissimo di Zanasi Giuseppe Battiston.

La tendenza autodistruttiva del cinema italiano, invece, non riguarda Troppa grazia, ma le logiche, se si possono chiamare così, distributive che soffocano quel poco di interessante che viene ancora prodotto in un oceano di uscite sovrapposte. Tra novembre e dicembre sono usciti e usciranno nelle sale una serie di proposte d’autore – più o meno – che si contendono il sempre più esiguo pubblico in sala. Zanasi si contende l’attenzione con Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, Ride, l’esordio alla regia di Valerio Mastandrea, Santiago, Italia di Nanni Moretti, Capri Revolution di Mario Martone, e con titoli più puramente commerciali come il ritorno di Pieraccioni. Il tutto, tralasciando la concorrenza internazionale. Qual è il senso di mettere uno contro l’altro film che si rivolgono allo stesso pubblico ideale? Non sembra rispondere a nessun tipo di logica, né artistica né commerciale. I numeri del mercato sono sempre più scoraggianti e in tutta questa confusione titoli interessanti, coraggiosi, in qualche maniera anche utili, finiscono per scivolare via dall’attenzione dello spettatore e da ogni tipo di panorama artistico o culturale.

(Troppa grazia, di Gianni Zanasi, 2018, commedia, 110’)

 

copertina di Messer Taddeo

Ri-tradurre i classici

Nel nostro paese, a differenza che altrove, non c’è la consuetudine di ri-tradurre periodicamente opere – in particolare classici – già apparse in traduzione italiana. Tanto maggiore è dunque l’interesse suscitato dalla recentissima versione del poema Il signor Taddeo (Pan Tadeusz nell’originale) del grande scrittore romantico polacco Adam Mickiewicz (1798-1855), edita a cura del polonista Silvano De Fanti per i tipi di Marsilio nella collana di classici centroeuropei Anemoni, curata da Annalisa Cosentino e Luigi Reitani.

Vera e propria pietra miliare della letteratura polacca, originalissima epopea nazionale «permeata dall’inizio alla fine di poesia pura», come ebbe a dire il famoso critico Wacław Borowy, capace di riunire in un insieme di armoniosa bellezza la rievocazione nostalgica di un mondo ormai scomparso, quello della nobiltà di provincia ancora serena ma pervasa dal presentimento dei drammatici eventi futuri, e la sofferenza per la tragedia storica vissuta dalla Polonia dopo la feroce repressione della rivolta antirussa del 1830-31, Pan Tadeusz è un’opera universale, che travalica i confini nazionali.

Scritta durante l’esilio di Mickiewicz a Parigi, dove si rifugiò buona parte dell’Emigrazione polacca, e pubblicata nel 1834 con il titolo Il signor Taddeo, ossia l’ultima incursione armata in Lituania. Storia nobiliare degli anni 1811-12, essa racconta l’ostilità di lunga data tra due famiglie, i Soplica e gli Horeszko, che osteggiano l’amore tra il giovane Taddeo, membro della prima, e Zofia, appartenente alla seconda. Quando però, al culmine della lotta per il possesso di un castello avito, arrivano le truppe russe, le due fazioni fanno fronte comune e dimenticano l’antica inimicizia. Alla fine del poema il protagonista ritrova il padre creduto morto (che, macchiatosi dell’uccisione di un membro della famiglia nemica, aveva espiato il proprio delitto combattendo nelle legioni napoleoniche e poi facendosi frate), mentre le truppe napoleoniche fanno il loro ingresso in Lituania con i generali Dąbrowski e Kniaziewicz, che tornano in patria dopo anni di esilio. Le due famiglie si riconciliano definitivamente, Taddeo e Zofia si sposano e ricevono in dono il castello conteso.

Il poema è stato tradotto in quasi tutte le lingue europee e nelle maggiori lingue dell’Estremo Oriente. La prima traduzione italiana, risalente al 1871, è una versione in prosa attribuita ad Arrigo Boito e basata non sul testo originale, bensì su una precedente versione francese. Per la prima traduzione dal polacco, sempre in prosa, bisognerà aspettare il 1924, quando Clotilde Garosci, pioniera della diffusione della letteratura polacca in Italia insieme alla sorella Cristina Agosti Garosci (che firma l’introduzione), pubblica in due volumi Pan Taddeo Soplitza per la storica casa editrice Carabba di Lanciano nella collana Scrittori italiani e stranieri. In seguito furono in molti a cimentarsi nella traduzione di frammenti dell’opera. Tra gli altri anche Angelo Maria Ripellino, di cui troppo spesso si dimentica il ruolo di mediatore della cultura polacca in Italia, che nel 1945 ne tradusse alcuni brani nella rivista Iridion. Quaderni polacchi di cultura.

Quella di Silvano De Fanti, molto attesa e frutto di lunghi anni di lavoro, è la prima traduzione integrale in versi dell’opera. Studioso di letteratura polacca e traduttore dal polacco, De Fanti ha scelto prima di tutto di chiamare il poema Messer Taddeo, titolo che ha un sapore antico e meno prosaico del tradizionale Signor Taddeo. Ma la vera sfida era costituita dal mantenimento dei versi e delle rime. Mickiewicz si era servito dell’alessandrino polacco, il tredecasillabo con cesura dopo il settenario. De Fanti ha optato per il verso martelliano, composto da una coppia di settenari anch’essi con cesura interna. Quanto alle rime baciate, che sono presenti in tutto il poema e che sarebbe stato problematico mantenere sia per la difficoltà di trovarne migliaia, sia per l’inevitabile pesantezza nella resa italiana, il traduttore ha operato un compromesso. Come spiega nella Nota al testo e alla traduzione, non aveva intenzione di «trasformare il poema in prosa, nemmeno nella cosiddetta “prosa poetica”. Allora si cercano ritmo e musicalità scovando rime interne e assonanze, si conservano rime baciate per i momenti che paiono “determinanti”, di buon effetto, in questo caso certi momenti retorici, descrittivi, comici, o incipit e finali di strofe particolarmente significative». Come la prima:

 

«Lituania, patria mia! Sei come la salute:
vi può apprezzare solo chi un giorno vi ha perdute,
Oggi la tua bellezza in tutto il suo incanto
mi appare e la descrivo, perché di te ho rimpianto».

 

Un’operazione riuscita, quella di De Fanti. Il testo è fluido, scorrevole, e mantiene appieno la poesia che lo permea nell’originale. A corredare la traduzione, un’introduzione sul poema, una ricca cronologia della biografia e dell’opera di Mickiewicz, un apparato di note e una bibliografia.

 

(Adam Mickiewicz, Messer Taddeo, trad. di Silvano De Fanti. Marsilio, 2018, pp. 473, euro 28)

 

gazzelle punk copertina su flanerí

Cantare sempre la stessa cosa

La matrice è sempre la stessa: Calcutta. Gazzelle è una delle tante creature uscite dopo il successo del cantante di Latina che ha tracciato questa via di cui oramai non si conoscono argini e orizzonti, indefinibile ma facilmente riconoscibile: come il giudice della corte suprema  Potter Steward nel 1964 diceva di non saper definire cosa fosse la pornografia, ma «La riconosco quando la vedo», così vale per l’itpop: semplicemente la si riconosce quando la si ascolta. Gazzelle incarna, ora, il cento per cento dell’itpop: è emerso, non è uno sconosciuto completo, non è fuori categoria come Calcutta o i Thegiornalisti.  Epigono calcuttaforme nei  testi, nella proposizione di sé al mondo, nell’atteggiamento, nella dimensione complessiva, nello spessore e nello statuto, Gazzelle ha saputo inserirsi in questo filone e a farlo suo. Capitando al posto giusto al momento giusto, si appresta a seguire il percorso del suo collega con il suo nuovo lavoro, Punk.

Da Calcutta ha tirato fuori il disincanto e la disillusione che trapela nell’insieme comunicativo: esserci ma non voler esserci per percepire la necessità della propria presenza/assenza da parte degli altri,  un morettismo privo di apparato intellettuale. Chiaramente dalla scrittura un certo minimalismo da cameretta, diverso da quello de I Cani nella spinta creativa, un diario per ventenni-trentenni che giocano a crogiolarsi in un’adolescenza eterna, che si rispecchia  proprio nei costrutti e nelle architetture sintattiche, nella scelta del lessico, dell’uso basilare di metafore e similitudini. Si parla di amore, di relazioni, di difficoltà, di bellezza: le canzoni di Gazzelle sembrano scritte da una persona qualsiasi che sta vivendo quelle situazioni, non da un artista che dovrebbe tirare fuori da tutta la realtà di quelle situazioni tutta la potenza artistica che può tirare fuori.

Come in Calcutta, è continua, più che una presenza, una finta indole alla Lucio Battisti: un disimpegno mal interpretato che finisce per fraintendere il messaggio originale. Come il cantante di Poggio Bustone  reagiva all’impegno dei grandi cantautori italiani con il suo disimpegno, oggi bisognerebbe rispondere con l’impegno. Altrimenti, fatto in questo modo,  è solo omologazione, è scrivere per slogan, per tag, per meme. 

Si captano spunti alla Brunori (di conseguenza, chiaramente, a Rino Gaetano. Un Rino Gaetano addomesticato, mansueto), ma senza grossi risultati. Riesce meglio il tentativo di scrivere un pezzo alla Tommaso Paradiso (“Sopra”), forse più alla portata del cantante romano; ma la grande hit, se è di questo di cui parliamo quando parliamo e parleremo di Gazzelle – una hit band – , non c’è ancora.

Gazzelle non ha quella padronanza dell’immagine dei The Giornalisti, non è il pioniere di quello che è oggi come Calcutta, non è uno sperimentatore alla Iosonouncane, un cantautore come Francesco Bianconi. Ha le sembianze di un caso. Le canzoni di Gazzelle sono le protagoniste di un più o meno futuro Sanremo che dal basso ha spodestato i vari  Baudo-Fazio-Baglioni e ha creato qualcosa che sarebbe dovuto essere completamente diverso, ma che fondamentalmente è uguale.

Punk di Gazzelle è anche  la delusione dell’amore quando la propria capacità di darsi all’altra ne è il perno: lo faceva ad altri livelli Dente dieci anni fa, altre premesse, altra profondità. Chiaramente non è buttare fango sulle nuove generazioni, anzi – il già citato Iosonouncane ha scritto con Die una delle cose migliori degli ultimi quindici anni. È rendersi conto che c’è un tipo di fermento per cui certi album iniziano a essere pensati unicamente per piacere al pubblico: scrivere ciò che la gente vuole sentirsi dire. Facendo così, si perde sempre qualcosa.

 

Copertina Corri, Coniglio di John Updike

Dio non ci guarda

In Corri, Coniglio, a John Updike bastano meno di dieci pagine per tessere un clima di disillusione profonda e pure così pacata. La primissima scena è subito un riflesso vivido di un tempo andato, recente e già così lontano. Alcuni ragazzi giocano a pallacanestro sotto gli occhi pensanti di Harry, “coniglio improbabile” di un metro e novanta, campione al liceo, adesso sposato, invecchiato, intrappolato nei vincoli ordinari della vita adulta. Nonostante abbia ancora ventisei anni, è da un po’ che ha smesso di essere uno di loro. Funziona così per tutti, no? Gli altri crescono e tu invecchi. «I ragazzi continuano a venire al mondo, continuano ad assediarti». Coniglio gioca con i ragazzi, è ancora bravissimo, ma è ormai una voce fuori dal coro. Il distacco che avverte, questo rispetto timoroso e reverenziale che mostriamo a chi è più grande di noi, lo deprime. «Vorrebbe dir loro che non c’è niente di strano nell’invecchiare, non ci vuol niente», e soprattutto Coniglio «conosce la trafila», l’estasi dell’esaltazione giovanile e il declino (quasi) inevitabile che in seguito diventa oblio, e poi, peggio, cancellazione di ogni tributo, di ogni traccia lasciata. Non resta più niente. Quei ragazzi lì intorno «non lo hanno dimenticato; peggio, non hanno mai saputo niente di lui».

Stacco, seconda scena. Ambiente domestico. Sembrerebbe un accogliente rifugio da un’indifferenza così deludente, e invece c’è delusione anche lì, ne è parte, una concausa. «Appena ieri, gli sembra (sua moglie), ha smesso di essere carina».

C’è un contrasto irrisolvibile, nella poetica di Updike, che, complessa, si dipana tra le pagine con assoluta eleganza. È un contrasto tra spirito e materia, tra anima (da non intendersi soltanto in senso cristiano) e corpo. Sempre acceso, naturalmente, resta anche quello tra passato e presente, tra ideale (ma potremmo dire sogno, aspirazione, illusione) e reale. La prosa dell’autore non è propriamente americana, nonostante dell’America il romanzo sia pregno, e ha uno sviluppo più costruito, molto raffinato e ricco di dettagli. Le immagini fotografate o riprese da Updike hanno una fisicità assai vivida, sebbene proprio i corpi più di una volta danno l’idea di essere evanescenti. Per gli uomini quanto per le cose, tutto sembra molto più accessibile quando è solo pensato e diventa incontrollabile – o inesprimibile – quando ci si confronta con il mondo reale. Nel mezzo della sua prima fuga, c’è una scena che in tal senso è particolarmente emblematica e mostra tutta la frustrazione di un mancato controllo e, forse, persino di contatto con questo controverso mondo reale. Harry cerca di capire dove andare, apre una mappa e non ne viene a capo. La strappa. «I nomi si fondono, si dileguano ed egli vede la carta nel suo complesso, una rete, tutte quelle linee rosse e quelle linee azzurre e quelle stelle, una rete nella quale è in qualche modo invischiato».

Proviamo ancora a procedere per scene, in questa continua riproposizione di immagini rievocate e descrizioni bellissime degli alberi e dei cieli, delle luci e delle stelle. Esiste qualcuno bravo quanto Updike nel far ascoltare il silenzio suburbano della notte?

Harry non cerca una fuga romantica, un viaggio senza meta che lo liberi dalle oppressioni delle mondanità e gli consenta un rifugio solitario tra la strada e la natura – e in questo senso il romanzo pare porsi come reazione a On the road, che era uscito appena due anni prima. Questo senso di straniamento («tutte le targhe sono uguali eccetto la sua» o, più esplicito «si domanda: sono estraneo solo a queste persone o all’America tutta?») lo spinge immancabilmente verso un’altra casa, verso un’altra donna da poter amare (ma che significa, poi? ci torneremo). A proposito di contrasti, ce n’è un altro molto importante, soprattutto per la prima parte dell’opera, ed è quello tra visto e percepito (o meglio: tra visione e azione). L’ammirazione ricevuta da Coniglio negli anni della sua gioventù lo ha fatto cadere in un vortice quasi patologico di (auto)voyeurismo – un concetto, questo, difficile da spiegare, ma facilmente individuabile all’interno del libro («Coniglio si sente esaltato nel pensare che un estraneo, passando davanti alla vetrina del ristorante, lo vedrebbe con una donna. Ha l’impressione di essere quell’estraneo, intento a guardare, e invidia a se stesso, il proprio corpo e quello della sua donna».) In molti passaggi, Coniglio non solo è estraneo agli altri, ma lo è anche a se stesso, e quando poi gli capita una (ri)partecipazione alla vita collettiva, avviene in lui una sorta di trasmigrazione dei sensi da lui a loro, e questi divengono quindi misura del suo mondo («se la cosa non preoccupa nessun altro, perché dovrebbe preoccupare lui?»).

L’incontro con Ruth si consuma al termine della serata e Updike ci regala una scena erotica di sbalorditiva accortezza, nei sensi quanto nelle sensazioni, che resta ancora oggi una delle migliori che la Letteratura Americana abbia mai prodotto. In questa unione, forse mancata o forse sfiorata, di corpi e di anime, c’è tutto il desiderio degli esseri umani, di godimento e di piacere, ma anche di sopraffazione e affermazione, e in questo, pure, di superamento di sé. Ma «v’è un che di triste nella cattura» e questa è un’altra delle insoddisfazioni raccolte che ritornano sempre all’io che ha cercato la gioia dell’appagamento e della letizia. C’è un velo di senso di colpa nella prosa di Updike, nelle parole e nelle azioni e nel sesso dei personaggi, negli aiuti egoistici che riportano limiti e mancanze di tutti. C’è Dio sullo sfondo, ma anche questa è un’idea, un concetto che si presta alle modificazioni di ognuno, che si avverte soprattutto quando manca («Pensa a quanto sarebbe stato facile, eppure, nonostante la Sua potenza, Dio non ha fatto nulla»). Dove si nasconde, allora, il Bene? Sembra sfuggire persino ai funzionari della Chiesa (ma quello di Updike non vuole essere – o almeno non ne dà l’impressione – un attacco alla casta, quanto una messa in luce, ancora, delle fragilità di tutti). Ci sono almeno due momenti in cui è proprio il predicatore a ricevere una predica feroce. E la incassa, perché non può che accettare le parole degli uomini come accetta il mistero di Dio – così, nel finale, arriva a una confessione della propria debolezza espressa in poche ma incisive parole: «Se la cosa può farti piacere, non credo in niente».

Questo inesprimibile e sfuggente amore, così intermittente e contraddittorio, spesso sfocia negli impeti del corpo, si risolve in un piacere egoistico e necessario, in un atto, anche questo, talvolta violento e non corrisposto. Il desiderio di uno trova la repulsione dell’altra, ma poi ci sono i doveri, gli obblighi, le intenzioni diverse di ognuno, e ancora l’importanza attribuita a un certo gesto, a una certa azione o anche solo a una parola. Ecco perché, nel finale, i personaggi esplodono e tentano di abbattere il muro spesso delle proprie incomunicabilità. Ma il patetismo di Updike non è mai invasivo (o eccessivo) e si scioglie nelle frasi sbottate o nelle lacrime che si rinuncia a trattenere («Le lacrime le si insinuano tra le dita e i singhiozzi risuonano nell’appartamento. Non li soffoca perché vuole svegliare qualcuno; è stanca di essere sola»).

La storia non può che chiudersi con la dissoluzione di due donne – sono forse inafferrabili, come gli altri, come tutti. C’è stata la colpa, sì, e c’è stata punizione (lo è stata? non lo è stata? comunque sia, difficile non percepirla come tale). Ma c’è tutto il resto, ancora. C’è la vita. Ci saranno altre nascite, altre perdite, altre riconciliazioni, altra gratitudine. C’è tempo abbastanza. Per redimersi. Per smettere di fumare. O per scappare di nuovo.

 

(John Updike, Corri, Coniglio, trad. di Bruno e Federica Oddera, Einaudi Stile Libero Big, 2016, pp. 424, euro 20)

Ricostruire la perduta coerenza del mondo

Dedicata a lettori raffinati e attenti è la collana Piccola biblioteca di letteratura inutile della casa editrice Italo Svevo: libri dal formato snello molto curati nella veste grafica, copertina in brossura, pagine intonse da aprire col tagliacarte, carta di pregio e la contenuta eleganza del carattere New Baskerville. Nelle sue pagine avorio trovano spazio testi letterari ma non propriamente narrativi (pamphlet, divertissement, brevi scritti morali, reportage, ecc.) che, per l’originalità intrinseca alla loro natura, difficilmente riscuotono fiducia da parte del riottoso e pragmatico mondo editoriale. L’ultimo nato della raccolta è l’anticonvenzionale La differenziazione dell’umido e altre storie politiche di Giovanni Nucci (2018), un volumetto di appena 88 pagine ma dalla lettura stratiforme, che si moltiplica inaspettatamente come in un gioco di scatole cinesi.

Principalmente opportunità di riflessione sulla nostra realtà politica, quella di un presente confuso in cui sono andate perdute coesione e punti fermi – «tutto a pezzi, ogni coerenza scomparsa così come ogni giusto sostegno, o relazione» canta la lirica di John Donne nell’incipit – La differenziazione offre al contempo spunto a uno sguardo sulla letteratura e, attraverso entrambe, sul rapporto tra potere e coscienza, res publica e poesia. Tutto parte dal discorso da pronunciare al Senato scritto con acuta ironia dal poeta Goffredo Mainardi, senatore a vita, che paragona il Giulio Cesare di Shakespeare alla nostra tragicomica situazione odierna, per arrivare zigzagando, attraverso le lettere e i frammenti, gli appunti e le divagazioni che formano l’agile corpo del testo, all’imprevedibile nesso con il problema della differenziazione dell’umido. Perché purtroppo, come ci dice con cruda amarezza l’anglista Pietro Barrese, l’unica forma possibile di consapevolezza politica ormai rimastaci è proprio questa.

Visione forse pessimista e certamente bizzarra, tuttavia reale: tutto ciò che possiamo fare oggi è guardare alla nostra spazzatura, occuparci di problemi contingenti, quotidiani, triviali, incapaci come siamo di un più ampio sguardo dal ponte, lontani mille miglia tanto dalla grandezza nobile e ideale di un Bruto che da quella profondamente consapevole di un Cesare. Eppure, ci avverte Nucci, «in questi tempi così fuori sesto, quel discernimento che vorremmo mettere nell’organizzazione dei nostri rifiuti, quindi dei nostri consumi, delle scelte che facciamo, di come vogliamo gestire le nostre risorse e il nostro potere, prima ancora che pratico dovrebbe essere un discernimento morale».

In questo senso, per quanto temerario, la differenziata può aiutarci a ricostruire la perduta coerenza del mondo, svanita nella notte dei tempi insieme alla risposta alla domanda di Bruto nel suo monologo in giardino, la sera prima di uccidere Cesare: quanto deve spingersi in là la democrazia, per preservare se stessa? Interrogativo morale ormai desueto, in un contesto sociale e politico per cui, perseguendo immediati fini utilitaristici, la scelta è semmai tra agire o non agire – a seconda del comodo del momento – mai però ragionando in una prospettiva di conseguenze e responsabilità più alte e future. Magari avessimo un Bruto, oggi, capace con la sua coscienza senza tornaconto di resuscitare e accrescere la nostra determinazione politica, oppure un vero tiranno, un Cesare – non i suoi scialbi imitatori – che con la sua forza e il suo coraggio ci tirasse fuori dalla palude di settant’anni di malgoverno e progressivo declino occidentale.

Chissà però se la corda gettataci all’ultimo momento per sollevarci dal pantano, imprevedibilmente, non sia proprio la nostra schiavitù quotidiana, il problema dell’immondizia: un’incombenza personale, al di qua dell’uscio di casa, eppure che riguarda tutti e costringe ciascuno di noi a fare i conti con il senso collettivo della propria responsabilità condivisa.

E chissà se tutto questo non rinasca soprattutto grazie alle donne, ipotizza ancora Nucci, le uniche che, al contrario dei maschi, si occupano della differenziazione con piena consapevolezza politica.

Sono loro infatti – come Calpurnia, la moglie di Cesare, che avendo sognato oscuri presagi tenta inutilmente di persuaderlo a non recarsi al Foro – le sole ad aver conservato, attraverso l’attenzione al piano domestico e pratico, il meno possibile astratto, quello sguardo intuitivo e lungimirante capace di collegare organizzazione e fantasia, concretezza e visionarietà: «il problema degli economisti e dei politici, oggi, è, nel non saper più riconoscere il piano poetico della realtà… dovrebbero imparare dalle casalinghe, che pur governando l’economia ne sanno estrapolare grande poesia». Un invito, dunque, a sognare come Calpurnia ma anche all’interrogarsi come Bruto, al guardare avanti, alzare lo sguardo, cercando una prospettiva – politica e poetica insieme – in grado di restituirci la forza di non delegare ad altri la nostra rettitudine.

(Giovanni Nucci, La differenziazione dell’umido e altre storie politiche, Italo Svevo, 2018, pp. 80, € 12.50)

Musica in bianco e nero

Cosa lega Billie Holiday e Carlos Gardel? «Sono due anime delicate e due voci simbolo di una stagione irripetibile che, quasi specularmente, si guardano attraverso il prisma di due Americhe lontane e al tempo stesso vicinissime», così SUR presenta la scelta della casa editrice di aprire le porte al graphic novel e la decisione di farlo con i disegni del maestro argentino José Muñoz, illustratore e fumettista e le parole dello scrittore e giornalista Carlos Sampayo.

I due albi a fumetti (intitolati appunto Billie Holiday e Carlos Gardel) vanno oltre la classica ricostruzione biografica di due vite celebri.
Partono entrambi da un pretesto attuale – un’inchiesta giornalistica per Holiday e un immaginario talk show televisivo per Gardel – per raccontare frammenti di storie vere e incredibili, due personalità con in comune la potenza di una musica diversa, gli anni Trenta e poco altro.

Billie viene ritratta come una donna con un fiore tra i capelli fino alle ultime pagine, retaggio di un’infanzia iniziata male e proseguita con uno stupro subito a dieci anni, con la prostituzione a dodici: violenze che ne segneranno la vita e la voce, e che vengono tirate fuori dai tratti di Muñoz e dal linguaggio duro di cui Sampayo la circonda costantemente ad ogni tavola.

La storia di Billie viene ricostruita come una scatola di ricordi dal doppio fondo. C’è la memoria recuperata dal giornalista, incaricato di scrivere un pezzo per l’anniversario della morte di qualcuno che non conosce, un idolo nero che dopo trent’anni, a New York, per qualche bianco, non è mai esistito; e ci sono i ricordi dentro i ricordi, i più veri e forti, della stessa Billie, che alterna episodi di successo a flashback di umiliazioni e brutalità che non la abbandonano mai, che le restano attaccati sulla pelle in una America incapace di affrontare la questione razziale e di capire completamente, di aprirsi con fiducia, di rendersi conto e di accettare.

E contro o sopra tutto questo, suona un jazz capace di rendersi indimenticabile, di penetrare nelle maglie di una società falsa e non ancora pronta, per penetrarla e riempirla di qualcosa di buono.

Come scrive Lagioia nella prefazione al volume «nella voce di Billie Holiday risuona tutto ciò a cui l’arte è capace di restituire dignità volgendo in bellezza: il dolore, la solitudine, le ingiustizie subite, il bisogno d’amore, la capacità di restare umani nonostante le offese della vita».

 

 

 

La stessa forza della musica e della personalità la troviamo nelle tavole dedicate a Carlos Gardel, al suo personaggio ombra di ambiguità.

Il bianco e nero usato da Muñoz sembra un avvertimento a tenersi all’erta, a non illudersi che quello che stiamo leggendo o ascoltando sia il solo vero Gardel. Carlos è un’incognita, vive in chiaroscuro lungo tutta la vita, non si identifica politicamente, non è chiara la concretezza di quelli che sembrano solo amori platonici – resta lampante e senza dubbi solo l’amore eterno per la madre – non si conosce con certezza neanche dove sia nato.

«Simbolo nazionale apocrifo, dunque? Patriota o sovversivo? Nazionalista o rivoluzionario? Finito per un incidente o per un complotto? Amante latino? Omosessuale? O addirittura vergine come tributo alla sua unica donna, la madre?», si chiede nella prefazione Riccardo Falcinelli.

La definizione dell’identità sembra un problema perpetuo per chi si accanisce ad individuarla, ma non anche per Gardel che in più occasioni si ritrova a chiedersi cosa importi il luogo di nascita e a ricordare a se stesso di essere solo una voce, nient’altro che una voce. Dubbi di cui è consapevole Muñoz, che ne fa un ritratto di sole luci e sole ombre e che racconta bene Sampayo, soprattutto quando ci fa apparire con la sua morte la degna fine di un’incertezza continua: accettarne la sparizione in un incidente aereo o credere di sentirne ancora la voce proveniente dalla bocca di un volto sfigurato sopravvissuto in mezzo alla selva colombiana.

 

 

(José Muñoz – Carlos Sampayo, Billie Holiday, trad. F. Di Carlantonio, SUR, pp. 80, euro 15,00)
(José Muñoz – Carlos Sampayo, Carlos Gardel, trad. F. Di Carlantonio, SUR, pp. 128, euro 18,00)

 

Copertina di Ricrescite di Sergio Nelli

Ricrescite

[Tribù]

Per aprirmi la strada con gli alcolisti ho evocato perfino gli avi. Gigi, il bevitore duro e intransigente, uno capace di gesti eroici, ma anche di terrorizzare la famiglia; Michele, l’intermittente, che pure a mio padre capitava talvolta di dover raccogliere in qualche bar; e Nunzia, un donnino bruttissimo, piccola come un pisello, incartapecorita, misteriosa per me come una scimmia esotica, esalata nel sonno a seguito dell’ennesima sbornia. Tutti fratelli di mia nonna, di cui il più vecchio, era stato trovato morto, travolto in un incidente da ubriachezza dal suo stesso barroccio. Ma un’altra versione altrettanto accreditata diceva che fosse stato ucciso dai fascisti i quali, trovandolo sbronzo forte, ci avevano giocato al gatto e al topo. Giulio, invece, il giocatore di calcio, il fuoriclasse, il mio preferito di quella tribù che io talvolta sentivo come il mio ombelico, Giulio, coi suoi tre figli, raramente e solo in vecchiaia alzava il gomito.
Nella sua bottega  d’artigiano di scarpe da calcio ho  fatto il mio unico mese di lavoro  da operaio, nelle vacanze tra la quarta e la quinta liceo… Parecchi anni prima, gli avevo dato una delusione e lui a me, quando era venuto a vedermi giocare al calcio. Mi prese a parte e, con una bonomia pari alla ferocia obiettiva, sentenziò scuotendo la testa: «Sei un terrino».
Voleva dire che non mostravo un buon equilibrio, che mi sbilanciavo troppo, e a calcio senza equilibrio non si gioca. Avevo la testa lontana dai piedi. Un’aletta tecnicamente men che così così. Sarebbe bastato d’altronde guardare un palleggio. Aveva ragione e io lo sapevo, anche se una parte di me voleva a tutti i costi salvarmi. Annuii, accettando quella lezione, dura proprio perché generosa. Avevo la testa lontana dai piedi.
Né manodopera né piededopera…
Il mio bisnonno – raccontava mia padre –, quando aveva bevuto molto, si appoggiava con un piede ai muri, per strada. Mio nonno Beppe era un bevitore imbavagliato. Lo tenevano d’occhio le donne e solo ogni tanto l’ho visto tornare con le guance rosse e gli occhi grigi, piccoli piccoli, ancor più grigi e rimpiccioliti.
Per le novelle che mi raccontava e per la sua bonomia, lo veneravo… Siccome aveva suonato il clarinetto (un quartino), gli dicevano: «Eri bravo, Beppe; ma meglio del quartino hai sempre suonato il mezzine» (mezzine o mezzina, recipiente per contenere il vino, o anche piccolo bicchiere).

Ho divagato. Io mi sono avventurato con il mio bagaglio, ma già sapevo che queste interviste mi sarebbero servite in modo diverso, che avrei usato il registratore come altre volte: per me, per decantazione…

Nel giardino della casa di Fucecchio, i miei zii hanno segato fin quasi all’attaccatura del tronco coi rami: un cachi, un nespolo (sano), due oleandri e due piante d’alloro. Soprattutto guardando il nespolo, con le sue ricrescite e i suoi ributti, ho fantasticato che potesse avere qualcosa in comune con questo diario.

Federico cresce, io ricresco.

 

[In margine]

E in margine al fine estate metto: un odore di sabbia sfilato dal guanciale del mare, tutti gli orologi rotti finiti nel cassetto del mobile antiquario, la terra sotto le suole, i forasacchi secchi nel bagagliaio, copricapo, cappelli, ombrelloni come trame disfatte di traslochi avventizi.

 

Questo passo è tratto da Ricrescite, il romanzo di Sergio Nelli, ripubblicato nella collana “Romanzi” di Tunué.

Sergio Nelli, nato a Fucecchio, vive a Firenze. Decano della ribollente scena letteraria fiorentina, ha pubblicato vari romanzi, tra cui Orbita clandestina (Einaudi, 2011) e il recente Albedo (Castelvecchi, 2017).

Ricrescite: Rinascere è un atto complesso: in uno dei più importanti romanzi ibridi degli ultimi vent’anni, Nelli racconta la capacità di uscire da una crisi.
Il rapporto con il figlio, le stagioni, il lavoro, il paese natale, i moti cosmici, i fantasmi e gli angeli, ogni cosa può farsi tessera di questo ricostruirsi. Con un linguaggio che spezza la pagina in percorsi filosofici e lirici, Ricrescite indaga il rapporto tra l’uomo e la natura a cui dobbiamo allo stesso tempo tutto e niente.

Cover Perché i bambini devono ubbidere?

I bambini di Dagerman

Quelli di Perché i bambini devono ubbidire? sono testi indipendenti anche se accomunati da un tema che Stig Dagerman ebbe a cuore durante tutto il suo purtroppo breve periodo di scrittore: i bambini. Sempre attraverso il catalogo di Iperborea possiamo leggere l’altro libro dello stesso autore che andrebbe scoperto insieme a questo, Bambino bruciato (1948), il cui esergo presenta al lettore una sineddoche perfetta di ciò che rappresenta l’infanzia per lo scrittore svedese:

«Non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. È attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina». (S. Dagerman. Bambino bruciato, trad. it. di Gino Tozzetti, Iperborea, 1994).

Vale la pena di riportare l’incipit della breve raccolta, sempre per la sua natura paradigmatica di periodo che sancisce la radicale violenza del mondo verso i bambini: «Si comincia presto a creare poesie. Da bambini si è tutti poeti. Poi in genere ci fanno perdere l’abitudine. L’arte di diventare poeti, tra le varie cose, non è lasciare che la vita, la gente, i soldi ci facciano perdere questa abitudine».

La prima sezione del volume, Memorie di un bambino, è scritta interamente in prima persona. A raccontare la sua infanzia è un bambino che ci ricorda l’autore senza tuttavia coincidervi; per quanto sia una raccolta di scritti di ispirazione soprattutto autobiografica, infatti, il personaggio che dice io è sempre tale, e la vita un’altra cosa rispetto alla scrittura. Il bambino del primo racconto vive in una famiglia contadina e indigente, non conosce i genitori e cresce insieme ai nonni (come Dagerman), invecchiati male per una vita di duro ed eterno lavoro. Nonostante tutto, il piccolo nucleo familiare sopravvive alle difficoltà; il bambino scopre un mondo ingiusto e povero dove il nonno non si vergogna a piangere, viene emarginato dalla società e lavora una vita per campare di stenti. Di Dagerman, anche altrove, ci sorprende la sua reazione, politica e poetica, alla disperazione congenita all’esistenza.

Dagerman sa cogliere limpidamente le sue afflizioni umane, trasfigurate narrativamente in una storia che consente al lettore di immedesimarsi, purché non si dimentichino i dolori privati che contraddistinsero la sua infanzia. Scopriamo l’altruismo degli sconfitti dalla vita, dei tristi, la solidarietà pietosa dei miserabili.

Dopo l’assassinio di suo nonno, il piccolo narratore, originario di Stoccolma e scaraventato tra i contadini che hanno il suo stesso sangue, cerca invano di scrivere una poesia: «Da quella vergogna, dall’impotenza e dal dolore, nacque comunque qualcosa che credo fosse il desiderio di diventare poeta, cioè di poter esprimere cosa vuol dire provare rimpianto per qualcuno, essere stato amato, essere solo». Il bambino fa amicizia a fatica, socializza poco, è un estraneo dovunque: si politicizza e asseconda un impeto anarchico eterodosso, sembra, anche per riempire un vuoto esistenziale. La scrittura, la fantasia, allucinazioni nostalgiche e visionarie come A casa della nonna fanno di Dagerman un vero scrittore. I suoi scritti infatti germogliano dalla stessa vita che scrivendo saprà preservare solamente fino al suicidio: «Dovevo diventare uno scrittore. E sapevo cosa dovevo scrivere: il libro dei miei morti»: sarà Ormen (1945), in italiano Il serpente, suo primo romanzo, scritto quand’era appena ventiduenne.

Questo piccolo libro, corredato da tenere e dure fotografie di un giovane Dagerman (un accostamento quasi brechtiano, se si pensa all’Abicì della guerra), comprende racconti editi anche altrove (ne Il viaggiatore, sempre Iperborea) e presenta uno squarcio del Dagerman critico letterario (Difficoltà di genitori), l’abbecedario di una semplice e naturale insubordinazione all’autorità dove critica alla radice la doxa, il concetto di libertà e cerca di darne un’altra interpretazione.

Perché i bambini devono ubbidire? è un mondo pieno di silenzi che significano soprattutto solitudine, quindi assenza di dialogo, e incomunicabilità. È un miracolo come, nonostante tutto, Dagerman faccia sopravvivere la speranza :

«“No”, disse la nonna, “il silenzio non esiste. Tutto si sente. Quel che noi chiamiamo silenzio non è silenzio, è solo la nostra sordità. Se non fossimo così sordi, il mondo non sarebbe così cattivo. Ma per fortuna c’è qualcuno che sente».

Il libro si chiude con una piccola selezione delle sue poesie, con testo a fronte, satiriche, crudeli perché disilluse, aventi sempre come tema i bambini. Nel contesto della seconda guerra mondiale, Dagerman reinterpreta soprattutto filastrocche per l’infanzia. I temi sono sempre gli stessi: la carneficina inutile della guerra, la morte di bambini innocenti, la colpa patita dallo scrittore e da tutti i lettori.

Il titolo del libro viene da quello di un racconto. Tutti, anche i bambini, devono ubbidire. Dagerman domanda, a sé e ai lettori: perché?

«Così tutti si ubbidiscono a vicenda. Tu ubbidisci agli altri perché gli altri possano ubbidire a te».

 

(Stig Dagerman, Perché i bambini devono ubbidere?, trad. di Fulvio Ferrari ed Enrico Tiozzi, Iperborea, 2013, pagg. 96, euro 9)
Cover Dolci colline di sangue

“Dolci colline di sangue”: cinquant’anni nelle viscere del Mostro

«Tanto di domenica mattina non succede mai nulla…»
Il giornalista sostituito dal collega Mario Spezi domenica 7 giugno 1981, giorno dei ritrovamenti dei corpi di Giovanni Foggio e Carmela De Nuccio a Scandicci.

 

Come mai uno dei libri più importanti sul Mostro di Firenze è fuori catalogo? A cinquant’anni dal primo omicidio, vecchie e nuove teorie vengono ridiscusse, ulteriori ipotesi formulate con il caso ancora aperto. Il giornalista Mario Spezi ha dedicato la vita al caso del Mostro: tra le persone più esperte e preparate sulla vicenda, ha formulato alcune delle ipotesi più significative. Peccato però che l’opera in cui espone la propria versione dei fatti sia irreperibile.

Nel romanzo-inchiesta Dolci colline di sangue, uscito per Sonzogno nel 2006, in seguito per Rizzoli, Spezi è sia il protagonista, sia il co-autore insieme a Douglas Preston, celebre scrittore americano di bestseller. I due presentano lo sviluppo del caso nella maniera più avvincente possibile, senza cedere al becero intrattenimento, usando come filo conduttore l’attività del cronista di La Nazione, legata alle indagini fin dal macabro ritrovamento del 7 giugno 1981. Il connubio è vincente: se Preston fornisce tempi e tagli da thriller, rendendo vivi dialoghi, incontri e ricostruzioni, Spezi porta l’incommensurabile bagaglio di esperienza, dati, testimonianze e ipotesi, coinvolgendoci fin da subito negli eventi reali legati agli orrori. Sottolineo reali, poiché il lettore che non conosce bene il caso, avrà la tendenza a pensare che in alcuni momenti si sia calcata la mano sulla fiction. Cosa fatta da Thomas Harris, ricalcando l’ispettore Rinaldo Pazzi di Hannibal sulla sagoma di Ruggero Perugini, l’uomo delle Forze dell’ordine che fornì la prova più simbolica – anzi, artistica – per inchiodare uno dei compagni di merende: «Il Vampa» Piero Pacciani.

Estremamente suggestive le prime pagine, degne di un horror folk-gotico. La regista Cinzia TH Torrini è in macchina, avvolta dall’oscurità e dal silenzio della campagna toscana. La strada è deserta e sinistre visioni l’affliggono. Scenario che da qualche tempo spaventa molto di più di una pellicola dell’orrore. Punta verso la casa di Mario Spezi: la Torrini ha in mente un film sull’argomento e il modo migliore per prendere confidenza con la materia è parlarne con chi l’ha vissuta e ci convive tutti i giorni. Da qui il dialogo tra il giornalista e la cineasta diventa un viaggio-testimonianza sugli sconcertanti delitti.

Tutto – ma questo lo si scoprirà solo dopo e nella maniera più incredibile – inizia il 21 agosto 1968, quando Antonio Lo Bianco e Barbara Locci – rispettivamente di 29 e 32 anni – vengono uccisi a colpi di pistola nella macchina in cui si erano apparati nel cimitero di Signa. Stefano Mele – marito della donna uccisa – viene subito arrestato e giudicato colpevole. Eppure qualcosa non torna: nella macchina degli amanti c’è il figlio di Stefano e Barbara, Natalino, il quale verrà trovato ad alcuni chilometri dalla macchina, mentre suona a un campanello di una abitazione. Nessuno indaga ulteriormente e le zone d’ombra rimangono insondate.

Passa qualche anno: il Mostro di Firenze ha gettato panico e sconcerto tra le colline del capoluogo toscano. Arriva in commissariato una lettera anonima (che poi sparirà dalle prove): c’è scritto di controllare i bossoli del caso di omicidio avvenuto nel 1968. Il controllo avviene e il colpo è forte: l’arma che ha ucciso la coppia Lo Bianco-Locci è una Beretta calibro 22 Long Rifle con bossoli Winchester marcati lettera H sul fondo. È la stessa usata dal killer delle coppie.

Durante la lettura, colpiscono numerosi aspetti: l’Italia “impreparata” nel fare i conti con un Mostro di tale portata, l’isteria dilagante e la caccia al colpevole, le possibilità esoteriche, innumerevoli lettere e chiamate a una stampa sempre a stretto contatto con le Forze dell’ordine, mitomani e bounty killers, la mediaticità e la portata mondiale del caso.

Calato ormai nel delirio di sangue, Spezi riesce a rimanere lucido. Il Mostro uccide nelle notti di sabato d’estate, quelle senza luna. Motivi occulti? No: sono le notti con meno luce, con meno possibilità di essere identificato. Ha ucciso anche di giovedì, ma il giorno dopo era sciopero dei mezzi: come se dopo i delitti avesse bisogno di un giorno libero, di una pausa, del silenzio. Le prime coppie uscivano da discoteche: l’assassino è di giovane età? Un profondo senso di insabbiamento e depistaggio ci attanaglia.

Colpevole di atti spregevoli, Pacciani – assolto in Appello – è però lontano dal profilo del Mostro (idem Vanni & Co.), soprattutto dall’identikit stilato dai mindhunter di Quantico: impotente, solitario, una firma ben precisa (lo spostamento della donna dalla macchina, il taglio del seno e l’escissione del pube), giovane e fisicamente molto alto (per vedere nel camper dei turisti tedeschi doveva essere alto almeno uno e ottanta): non esattamente “Il Vampa”, incarcerato con prove a dir poco sommarie.

Spezi riesce addirittura a registrare una confessione delle Forze dell’ordine in cui si confessa che Pacciani è un capro espiatorio e tutto è stato montato ad arte. Convinto di aver fatto il colpo, il giornalista spedisce la registrazione alle emittenti nazionali… ma nessuna risponde! E cosa pensare delle deposizioni del piccolo Natalino Mele? Pressato dalle autorità, solo in seguito confesserà: insieme al padre, attorno alla macchina c’erano altre persone. Gli era stato esplicitamente imposto di non dover ricordare nulla.

Come non citare poi le vicende di Francesco Ferri, presidente della Corte d’Appello, autore di Il caso Pacciani: storia di una colonna infame, altrettanto irreperibile pamphlet in cui spiega come contro “Il Vampa” sia stato montato un processo farsa?

Come in un grande romanzo non mancano i comprimari d’eccezione: il dottor Francesco Introna e la preziosa perizia entomologica, il super poliziotto Pier Luigi Vigna, Canessa, Giuttari, Silvia della Monica, Perugini. Abbiamo grandi scene, come l’incontro tra Spezi e Stefano Mele nella casa di riposo Ronco all’Adige e la cena con la scrittrice belga Ethel, in cui si parla per la prima volta – insieme a un anonimo pezzo grosso dei Carabinieri – dei fatti del Mostro come delitti di potere. Non mancano i colpi di scena – vedi l’arresto di Spezi – e lo sconvolgente finale in cui appare Carlo (nome inventato), ovvero – secondo gli autori – il Mostro di Firenze.

Nelle quasi quattrocento pagine del libro c’è questo e molto altro: Spezi e Preston ci portano nel gorgo oscuro dei fatti, immergendoci completamente in quegli anni, in quel clima fosco, nei drammi indicibili. E non possono non passare inosservati alcuni dettagli riguardo l’opera: a differenza dell’edizione americana chiamata The Monster of Florence, in Dolci colline di sangue mancano gli sviluppi dell’inchiesta Calamandrei-Perugia, quelli sull’arresto di Spezi, con lo spaventato Preston che scappa dall’Italia… ma soprattutto manca la vera identità di Carlo, presente invece nel romanzo americano.

Come presagito con amara ironia da Spezi stesso, il giornalista è morto due anni fa senza aver visto la parola fine sulla vicenda del Mostro. Con questo articolo non chiediamo certo le risposte al caso, ma almeno alle case editrici che hanno pubblicato il romanzo –Sonzogno e poi Rizzoli – di riportalo in libreria a cinquant’anni dallo scoppio di uno dei casi più agghiaccianti del secondo dopoguerra.

(Non) vivere o morire

«Si può smettere di esistere anche da vivi». Lo spirito di Le assaggiatrici di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018) può essere condensato nella precisione di questa frase: incisiva, diretta, semplice e allo stesso tempo portatrice di un profondo significato, un significato legato a doppio nodo alla natura stessa dell’essere umani.

Sì, perché con l’aggettivo umano ci riferiamo alle implicazioni contenute nel concetto stesso di umanità: fragilità, debolezza cui viene sovente associato un senso di indulgenza, di solidarietà, di provvisorietà, di incertezza, tutte caratteristiche proprie dell’uomo, qualsiasi età abbia, proveniente da qualsiasi estrazione sociale. Tutti sono mossi dagli stessi sentimenti, dagli stessi dubbi, dagli stessi desideri.

Con Le assaggiatrici (Premio Campiello 2018), Postorino, partendo da un evento storico poco noto ai più, ricostruisce quello che è il dramma dell’indecisione, del non riuscire a fare la giusta scelta circa la propria condotta in un mondo ormai malato, infetto, inquinato dal potere, dalla voglia di prevalere sul più debole e dalla smania di gloria.

Fino a dove è lecito spingersi per sopravvivere?

In una società deviata e deviante, fatta di falsi ideali, di valori sovvertiti e di governanti sempre meno modelli di comportamento da imitare, chi resiste, chi ce la fa, chi supera vittorioso le difficoltà che si frappongono fra lui e la serenità, non sempre incarna la faccia buona della medaglia.

La decisione di raccontare una storia parallela a quella più nota della Seconda guerra mondiale, una storia che nasce e si sviluppa sulla pelle di dieci donne note come le assaggiatrici del Führer, è stata presa dalla Postorino in seguito alla lettura di un trafiletto su un quotidiano italiano nel quale era descritta in breve la storia di Margot Wölk, ultima assaggiatrice vivente di Hitler che dopo anni di silenzio aveva voluto rendere nota la propria esperienza, il proprio ruolo nella guerra, all’età di novantasei anni.

La Wölk, come afferma l’autrice, non era stata spinta da un’ideologia politica, aveva sempre affermato di non essere nazista. No. Si trovava semplicemente al posto sbagliato nel momento sbagliato. E così anche Rosa, la protagonista della nostra storia, raggiunge la casa dei suoceri mentre il marito è al fronte. Assieme ad altre nove donne sale su un furgoncino tutte le mattine, arriva alla Wolfsschanze (quartier generale di Hitler mimetizzato nella foresta) e costretta dalle SS, assaggia i pasti del Führer tre volte al giorno, così da verificare che non siano avvelenati.

Un atto tanto naturale quanto spontaneo come quello del nutrirsi assume un significato e un’importanza nuova nella vita di queste donne. Sono in prima persona responsabili della sopravvivenza di una delle personalità più crudeli e folli del ventunesimo secolo, e sono costrette a farlo, non possono tirarsi indietro, ne va della loro stessa vita. O possono?

Cosa è più importante per dieci donne pagate per compiere un lavoro tanto avvilente: riuscire a non morire o salvare l’anima e la coscienza? «Ma in fondo ogni vita è una costrizione, il rischio continuo di andare a sbattere».

Parallelamente al tema della sopravvivenza, la Postorino dà spazio a quello che vuol dire essere complice, sentirsi vivo in un ambiente infarcito di pulsioni primordiali, alleanze sotterranee, legami di convenienza e infine anche di amore. Perché Rosa è una donna, è sposata, ma ha un marito in guerra che non sa se riuscirà mai a riabbracciare e il fascino del potere, del pericolo, del rischio si fa strada anche nel suo animo giovane mettendola in crisi, facendole vivere nell’ambivalenza una quotidianità fatta di timore e di instabilità.

È tutto declinato al presente e forse proprio questo spinge le donne a scendere a patti con il lato oscuro della storia, con il marcio, con il vile; oggi assaggio, oggi vivo, domani chi lo sa. Perché pensare alle implicazioni che possono avere le nostre scelte quando non sappiamo neanche se per noi ci sarà un domani con cui fare i conti? «Quasi che ogni gesto di sopravvivenza esponesse al rischio della fine: vivere era pericoloso; il mondo intero, un agguato».

Una lettura che ti getta in faccia certezze, paure, fragilità e che ti mette davanti domande che faticano a ricevere risposta: cosa ci rende diversi dai nostri carnefici e come si può dare una definizione assoluta di giusto e sbagliato quando l’incognita alla quale trovare il valore corretto è la vita?

 

(Rosella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, 2018, 285 pp., € 17.00)