copertina di Storie in affitto di Roberto Moliterni

Le case degli altri

Per molti la casa non è solo una delle tante fermate di un’esistenza inquieta e senza ormeggi, né un perno a cui ancorarsi, specialmente per chi è costretto a emigrare per motivi economici e di opportunità. Lo sa bene Roberto Moliterni, scrittore e regista trentatreenne di Matera ma da anni residente a Roma dove ha seguito il corso di formazione e perfezionamento per sceneggiatori Rai Script, dopo essersi laureato in cinema all’Università di Pisa. Nel 2014 ha vinto il premio Rai La Giara e la Menzione della giuria al Premio Basilicata con il suo romanzo d’esordio Arrivederci a Berlino Est. È uscito per dino audino editore Storie in affitto, un romanzo che raccoglie i racconti tragicomici già apparsi in rubrica su Paese Sera.

La convivenza con dei coinquilini, si sa, ha un equilibrio labile, insidiato continuamente da egoismo, territorialità e protervia. È un attimo perché il legame possa sfilacciarsi.

Tutto parte dalla necessità di Roberto di lasciare la sua casa al Pigneto, situata «nella parte brutta, cioè quella che non è famosa, quella in cui ci sono ancora i romani e un sacco di immigrati», dopo che il proprietario Marcuccio ha sostituito la mite Angela, andata via per ragioni sentimentali, con un tipo strano e sospetto che coltiva strane piantine, dapprima in salotto poi addirittura nel terrazzo condominiale, oltre ad avere poco raccomandabili frequentazioni: «Più che le mura che delimitano un perimetro, ciò che fa una casa sono le cose, quelle che possiedi, che ti porti in giro dovunque ti trasferisci e che piazzi qua e là, per metterci in ogni posto un po’ di te. Ma soprattutto, ciò che fa di una casa una casa sono le persone, quelle con cui vivi.»

Accompagnando Roberto per Roma alla ricerca di una nuova sistemazione, da Testaccio a Montesacro, da San Giovanni alla Portuense, dalla Tuscolana alla Pisana, da Prati a Trastevere, ci addentriamo non solo nelle case, «monolocali ricavati da salotti che nessuno si può permettere», «disordinate stanze di studenti a San Lorenzo», «appartamenti fastosi di ricchi decaduti», ma anche nelle vite di tutti i personaggi che incontra.

Spesso la voce narrante tradisce una certa empatia verso queste persone sovente in bilico fra l’inetto e l’eccentrico. È messo di fronte alla scoperta della propria e altrui incomunicabile solitudine. Il confronto con l’altro diventa luogo della conoscenza di sé e di quella gabbia esistenziale che andiamo costruendo con le nostre mani. Nelle varie storie non c’è che l’occhio lungimirante e lo sguardo limpido di un ritrattista a volte satirico. Ciò che ritrae l’autore è la postura di una società media, affetta da manie e abitudini inveterate e una realtà cittadina degradata (vedi voragine creatasi davanti la casa al Pigneto).

Nessuna rivelazione sembra offrire conforto alla solitudine. Gli stessi oggetti e mobili di una casa ci dicono sempre qualcosa di chi la abita. In sé non significano nulla, tuttavia diventano emblemi della coscienza e solitudine di chi ne fa uso.

Nel suo girotondo alla ricerca di una stanza in affitto, Roberto finisce sempre più annegato in una pozione di dubbi, equivoci, ironia e sospetti, tanto che alla fine non sa nemmeno lui se davvero vuole trovarla una nuova casa: «Ho pensato che dovevo impegnarmi di più a trovare una casa nuova, perché questo è quello che succede quando ci si abitua alle voragini: le cose ci scivolano dentro senza che ce ne accorgiamo.»

Più che altro fruga nei sentimenti e crepe esistenziali di uomini e donne dai tratti precari e inadeguati, a volte ridotti a feticci.

Ovunque posi la mente e gli occhi, scopre note realtà, note relazioni, vite che assomigliano forse anche troppo alla sua e ogni volta un altro ponte che lo conduce altrove.

 

(Roberto Moliterni, Storie in affitto. Romanzo a racconti, dino audino editore, 2017, pp. 164, euro 13)
copertina evergreen su flaneri

Resistere a Calcutta

Evergreen si apre con la domanda in un versetto colloquiale in “Briciole”, «ti ricordi?» , e si chiude con due versi più ambiziosi in “Orgasmo”: «In che punto finisce la nebbia in questa pianura / dove perdersi quando fa buio mi fa paura». Nel mezzo c’è l’impressione che, per parafrasare quella famosa espressione ormai di senso comune, Calcutta non sia nella nebbia ma sia la nebbia. «La mia filosofia», dice Edoardo D’Erme (vero nome di Calcutta) in un’intervista al Pigneto con Gianni Santoro, «è meglio un giorno da pecora che cento da leoni».

Da quando l’itpop ha iniziato quel ricambio generazionale che tanto viene sbandierato dai critici ma che per nulla viene rivendicato dagli artisti in questione («Ma no, ma chi avremmo messo da parte?»), si è andata via via costruendo l’idea che questa ascesa di nuovi nomi coincidesse con una rivoluzione artistica del pop italiano. Per quanto possa sembrare assurdo, pare sfuggire costantemente che l’unico cambiamento rintracciabile sia da individuare all’interno delle condizioni di contingenza narrativa. Il metodo formale del pop, al contrario, continua a perseverare nel suo essere, laddove per metodo del pop (o meglio, di un certo tipo di pop figlio dei nuovi rapporti di produzione) si intende l’intento di rispecchiare esattamente lo stato delle cose .

Il titolo dell’ ultimo album di Edoardo D’Erme, Evergreen, a tre anni di distanza da Mainstream, non sembra una casualità. I testi si mostrano legati a doppio movimento con la realtà, per cui sia la rispecchiano sia la perpetuano . Basti pensare all’effetto di «Oh mondo cane / tu fatti gli affari tuoi» in “Kiwi” o di «We deficiente» in “Pesto”. Per quanto sia un punto di partenza scomodo, il merito di D’Erme, nonché il motivo per cui volente o nolente si garantirà il timbro sul presente e sul futuro, sta proprio nel riportare un modo reale e usuale di vivere, di aver raccontato la cultura dominante tramite l’autonarrazione – in un momento storico in cui la tecnologia permette la coincidenza massima tra ricerca artistica e ricerca di sé.
Con buona pace di chi tenta di costruire controculture artistiche per resistere al “dato” e creare un “darsi”, bisognerà ammettere anche quest’anno che un certo tipo di Pop, quello calcuttiano in primis, rinuncia nel proprio manifesto alla funzione scardinante dell’arte. Incastonandosi nel minimo comun divisore del presente, rinuncia a voler riaprire quello che la realtà ha momentaneamente chiuso. Ciò che resta è la dimensione anestetica dell’album per cui va bene questo o il suo opposto, un sì o un no, mantenendo in vita la bugia di sempre, quella vecchia come il mondo che chi dice cose vaghe e disinteressate ha in realtà capito qualcosa di più.

Si potrebbe obiettare che l’arte è arte quando coincide con la realtà. Ma è un’obiezione fiacca, se non assolutoria: pretendere che ci si arrenda all’idea che la partita creativa si giochi sul vestire meglio certe condizioni d’esistenza piuttosto che sul metterle in discussione, sembra un tantino troppo. Ed è proprio l’atteggiamento provinciale dell’album a traboccare dai bordi della tracklist (più che il racconto della provincia, come alcuni hanno ingenuamente scritto). Quell’attitudine che cementifica l’immaginazione, che azzera gli slanci vitali, disillude, disincanta, uniforma, ridicolizza l’eccentricità e disinnesca i dispositivi schizofrenici di fuga; che stabilizza e mai sovverte. Una passività di ricezione verso quello che ci è concesso , un pigro percorso di accettazione del nulla che non solo rischia di diventare cronico, ma lo auspica. In altre parole, abusando di Houellebeq, Evergreen è la conversione del dominio della lotta in quello dell’adattamento. È un atto di sottomissione.

Copertina di L’inferno è vuoto di Giuliano Pesce

L’inferno è vuoto,
il mondo è pazzo

C’era un tempo fra i Novanta e i Duemila in cui la letteratura italiana passava una sbornia di narrazioni sopra le righe, esperimenti formali arditi, uso spregiudicato della finzione come categoria primaria.

Erano i tempi dei Cannibali, o degli scrittori minimum fax che guardavano al postmodernismo americano come un giardino in cui giocare liberamente, ritrovando degli strumenti che, secondo loro, potessero dire qualcosa del mondo contemporaneo, o addirittura agire sulla realtà. Si credeva che quel tipo di letteratura fosse la giusta risposta a un reale sfuggente, masticato dall’universo totalizzante dei media, il simulacro era una categoria che si affermava con prepotenza, lo scrittore si misurava sul terreno delle proprie potenzialità espressive, ricalibrava gli strumenti per esperire il reale.

I figli cresciuti letterariamente negli anni Ottanta, e dunque sotto l’egida di Tondelli, adottavano lo sguardo saturo di cinema e tv e attraverso esso rimodellavano l’ambiente circostante, non solo guardando alla gioventù come il maestro tondelliano, ma riconsiderando la società tutta. A ben guardare quella stagione – pur essendo generatrice di una certa freschezza – non aveva niente di nuovo, né era poi così ardito approdare ai lidi della letteratura americana, si trattava dell’ultima propaggine di un movimento culturale – il postmodernismo – che scavava il proprio solco a partire dalle neoavanguardie degli anni Sessanta.

Non sono dovuti passare molti anni: le novità – di sguardo, stile, riferimenti – di Nove, Scarpa, Genna, Pincio, Lagioia e tanti altri, sono state celermente digerite dal panorama italiano. Presto l’autofiction è sorta come categoria ibrida, in egual percentuale reale e fittizia, in grado di narrare le nostre esistenze come continua frattura fra ciò che è e ciò che percepiamo.

Allo stesso modo sono tornate quelle scritture realistiche che cercavano di opporsi – non so quanto vanamente – a un mondo fatto di pinzillacchere, meta-livelli, ironia corrosiva.

Non so dire quale sia il panorama odierno: persino all’interno della poetica dei singoli autori si possono individuare vettori che vanno in direzioni differenti, come sempre occorrerà qualche anno per storicizzare le scritture di questi anni Dieci.

Una cosa però mi sembra evidente: nei cascami del tragicismo dell’autofiction, nelle sempre floride epopee familiari, nelle ricostruzioni storiche del tempo che erano, nei libri di genere zeppi di personaggi cinici e disillusi, manca una categoria agitata al tempo della postmodernità imperante, e poi – di contro – demonizzata come fosse una cedevolezza: la categoria del gioco. Paradossale, perché in un tempo in cui il patrimonio simbolico di ciascuno è formato in gran parte da cianfrusaglie di un immaginario collettivo confuso, trafficare con i simboli e le narrazioni dovrebbe risultare naturale. Voglio quindi parlare di un narratore – giovane ma già al suo terzo libro – nelle cui storie ritroviamo l’entropia di una contemporaneità non per forza apocalittica, ma suggestiva, ricca di potenzialità visionarie.

È il ritmo a scandire le storie di Giuliano Pesce: così era per Io e Henry, così è in L’inferno è vuoto, (Marcos y Marcos, 2018). Uno stile narrativo agile e ironico che si trascina dietro mille riferimenti culturali, e il turbine di azioni dei personaggi, mascherando le avventure da vicende picaresche, o adottando atmosfere di genere, fra il poliziottesco e il noir. Il ritmo è il metronomo di ogni capitolo, di ogni avvenimento sulla pagina, il tempo perfetto dei molti dialoghi che esplodono in battute brillanti.

Il romanzo di Pesce inizia in maniera spiazzante: il Papa si suicida buttandosi dal balcone di San Pietro. Siamo già in un mondo altro in cui l’ordine ha abdicato, viene meno una figura dell’immaginario collettivo, dalla realtà senza gerarchie possono affiorare simboli e personaggi disparati, trame intricate e assurde, avventure dalla morale corrosiva.

Affilata è anche la lingua di Pesce, che parodia la realtà, connettendosi con la nostra parte più cinica: «Gli hashtag #Papabuono, #Volatoincielo e #Comeunangelo sono diventati trending topic su Twitter in meno di otto minuti dal Grande Salto; Facebook è stato invaso da meme che riportano le frasi più celebri del pontefice. Milioni di persone hanno pianto in diretta su Instagram. In un lampo sono comparse schiere di nuovi cattolici in tutto il mondo».

Questo evento epocale, che fa precipitare il mondo di un limbo, si pone come il motore che dà il via all’azione: due sono le storie intrecciate in maniera elicoidale. La prima è quella di Fabio, impiegato frustrato di una casa editrice che ha la sua grande occasione: poter scrivere un reportage sulle motivazioni che hanno spinto il Pontefice a suicidarsi. A causa della sua ricerca Fabio si addentrerà nel demi-monde della Roma papale, fra prelati assetati di potere e macchinazioni occultate dal mondo dello spettacolo. In questa linea narrativa si respira il mistero e l’assurdità, gli universi di cartapesta del potere che celano rapporti di dominio reali.

La seconda linea narrativa segue le vicende di Alberto Gasman, faccendiere della malavita che deve vedersela con il suo capo, il Cobra, e con la dipartita di un presentatore televisivo, Willy Carnaroli, stroncato da un’overdose di cocaina. Questa storia si srotolerà fra colluttazioni e inseguimenti, all’affannosa ricerca di una misteriosa figura femminile. In tali frangenti Pesce, sicuro della sua penna estrosa, adotta il genere, creando un mondo fumoso, debitore di un’urbanità onirica che ricorda la Milano degli anni Settanta, e rimpinzandolo delle visioni psichedeliche di una contemporaneità in cui l’immagine è più vera del vero. Seguire il saliscendi nella prosa dell’autore significa lasciarsi affabulare da un trama piena di svolte e doppi fondi, sinuosa come l’ordine di un cosmo che vive solo delle leggi di chi lo descrive.

Giuliano Pesce si comporta come uno sciamano dell’immaginario, rimestando nella soffitta dell’estetica cinematografica, del racconto televisivo corroso e cambiato di segno, dell’onirica realtà che si costruisce giorno per giorno attraverso i mezzi di comunicazione di massa, delle citazioni letterarie usate con acume. Un mare di riferimenti che ricorda la bellezza infantile delle costruzioni: ogni capitolo si struttura come un mattoncino di un’architettura spregiudicata, che corre verso la fine facendoci dimenticare di essere aggrappati a un ottovolante lanciato nell’ignoto.

 

(L’inferno è vuoto, Giuliano Pesce, Marcos y Marcos, 2018, p.250, 18 euro)

Luminosa è la presenza

«I sentimentali anonimi sono i rivoluzionari di questo secolo, gli indecifrabili. I sentimentali spaesati che amano senza sosta, gli unici ribelli, gli unici contestatori rimasti. Le persone che non possono rientrare nelle statistiche dei comportamenti vengono ugualmente amate ma le si trova inaffidabili, fragili, inservibili».

Maestoso è l’abbandono è il romanzo di esordio di Sara Gamberini uscito a marzo per Hacca edizioni. Sta avendo un’ottima accoglienza e si è già meritato ampie riflessioni sulla stampa, diventando un piccolo caso letterario.

I principali pregi di questo libro stanno di sicuro nell’originalità e nella potenza del linguaggio. Sara Gamberini crea un piccolo universo sorretto da una lingua alta, intensa ma composta, che non sfocia nell’autocompiacimento. L’autrice struttura le frasi con grande poeticità, accostando ricorrentemente universi sensoriali differenti, conferendo liricità a un periodare breve che corrisponde ai pensieri della protagonista e io narrante: Maria.

Gamberini esordisce gettando il lettore nel flusso di coscienza di questa donna nel momento finale della decisione di dire addio al suo analista: «Sono qui da secoli, per gli addii mi serve tempo. È l’alba, l’ora del lupo è passata da poco, mi scrollo di dosso i residui patetici, eccessi emotivi, sistemo il sedile e lascio via Pigna numero due».

Il racconto della vita di Maria procede tra continue riflessioni e ripensamenti, avvicinamenti e allontanamenti dall’amore e dalle altre relazioni che costruisce e in cui inciampa. Solo la madre Lucia, distratta, isterica e quasi magica, resta al centro dei pensieri di Maria e nella seconda parte del romanzo diventa destinataria delle sue lettere: «Lettera a Lucia. Nelle notti senza stelle compaiono nuvole nere in ogni dove nel cielo, ho paura che sotto il letto ci sia qualcuno che vuole rapirmi, che ti vuole male. Io qui sto bene, non ti sentire in colpa, non pensare più a niente».

Si può definire classicamente un romanzo psicologico, dove si mostrano gli stati d’animo e le emozioni del personaggio principale e la cui trama si sviluppa intorno a pochi elementi riguardanti una porzione della vita di questa donna. Le vicende, quindi, si succedono in modo lineare intorno ai complessi pensieri di Maria, che affronta, infine, anche la prova della maternità.

È una scrittura profondamente femminile, quella di Sara Gamberini, fatta di una sensibilità in grado da sola di spiegare e sublimare il senso dell’abbandono, dell’attaccamento al non reale e dei pesi che fortunosamente ci tengono legati al mondo terreno. Non c’è la tautologia nella descrizione di un concetto reiterativo e rischiosamente indigeribile come l’abbandono, sia in chiave di materia di psicologia, sia come stato d’animo, ma viene contrapposto alla luminosità della presenza, all’essenzialità dell’esistere. L’autrice indaga, quindi, la resilienza e il successivo superamento del trauma, con forme e soluzioni mistiche e fantasiose.

Resta, però, qualcosa di non pienamente soddisfacente nella lettura, ma è circoscritta nell’ambito del gusto personale e non inficia la qualità del racconto o della scrittura. Non considero tra i punti di forza i rimandi religiosi e sciamanici che tendono pericolosamente al new age, perché la dimensione onirica è già consegnata al lettore dal linguaggio rarefatto, da un animismo sotteso al piano emozionale, dove raggiunge le vette più alte di lirismo.

«Ho pensato che fosse il momento di andare in alto quando ho visto che non sapevo dove appoggiarmi. Dopo aver cercato contenimento ovunque, ho ceduto alla mia evanescenza. L’assenza di base negli anni si è trasformata in una spinta verso la volta celeste».

È inoltre di difficile apprezzamento (ma forse è una personale idiosincrasia), la parte epistolare, che sembra un espediente cercato per movimentare la struttura del romanzo. Ad ogni modo, nonostante il rischio per la tenuta narrativa dovuto al cambio di passo, l’autrice riesce a gestire la densità poetica e a tenere compatta la trama.

 

(Sara Gamberini, Maestoso è l’abbandono, Hacca edizioni, 2018, pp. 203, euro 15,00)
poster italiano di solo: a star wars story su Flanerí

“Solo”, ovvero: come andare sul sicuro

Poteva andare molto peggio di così, Solo: A Star Wars Story, il secondo spin-off del nuovo universo cinematografico di Guerre stellari voluto dalla Disney dopo aver acquistato la Lucasfilm. Le premesse non lasciavano presagire nulla di buono. Lo scetticismo era tanto, così come i pregiudizi. Invece, il quarto film della nuova fase della saga ideata da George Lucas conferma le diverse direzioni, e le diverse anime, in cui si può espandere questo universo.

Solo nasce come racconto di formazione di uno dei protagonisti della trilogia originale, Han Solo. Contrabbandiere arrogante e cinico, il personaggio interpretato da Harrison Ford era diventato subito il più iconico e carismatico tra gli eroi di Guerre stellari. Come è successo spesso nella sua carriera, Ford non amava particolarmente il personaggio e supplicava Lucas di farlo morire per potersene liberare (cosa che gli è riuscita solo nel 2016 con Il risveglio della forza). Il pubblico, invece, lo adorava.

L’annuncio che Lawrence Kasdan, lo sceneggiatore di L’impero colpisce ancora, da molti ritenuto il miglior film della saga, si fosse messo al lavoro su un copione sulla storia dell’eroe prima dei film insieme al figlio Jon, aveva subito scaldato gli animi. Quando poi era stato comunicato che Christopher Miller e Phil Lord si sarebbero occupati della regia l’entusiasmo era dilagato. Miller e Lord sono i registi e responsabili di The Lego Movie, uno dei film più bizzarri e interessanti prodotti a Hollywood negli ultimi anni. Sono portatori di un’idea di cinema nuova, irriverente e scanzonata, che avrebbe introdotto un tono mai visto nei film di Star Wars.

Il film aveva iniziato a prendere forma con l’annuncio del cast. Alden Ehrenreich, già visto in Ave, Cesare! dei fratelli Coen, ottiene la parte di Han Solo giovane. Insieme a lui vengono chiamati Donald Glover, in costante rampa di lancio soprattutto negli Stati Uniti, come Lando Carlissian, Woody Harrelson per un personaggio nuovo con funzioni di mentore, Emilia Clarke, la Daenerys Targeryen di Il trono di spade, come un probabile amore di Solo.

Qualche settimana dopo l’inizio delle riprese, Miller e Lord vengono licenziati. La motivazione, mai resa pubblica ufficialmente, sembra risiedere nel disaccordo tra produzione e registi sulla direzione da far prendere al film. Al loro posto viene chiamato Ron Howard, veterano di mille blockbuster, regista capace ma non certo un innovatore come potevano essere i suoi predecessori. È qui che iniziano a serpeggiare i primi, evidenti, malumori intorno al film. La Disney rivede al ribasso le stime di incasso per l’esordio. La strategia standard per la promozione dei film di Star Wars cambia. Anziché tenere tutto segreto iniziano a circolare anteprima, immagini e recensioni prima dell’arrivo in sala. La Disney, in pratica, cerca di dirottare il possibile malcontento del pubblico verso un nuovo entusiasmo. Viene organizzata una première venti giorni prima dell’uscita in sala, addirittura il film sbarca a Cannes, fuori concorso, per la prima volta nella storia della saga.

Alla prova dei fatti, Solo: A Star Wars Movie è un perfetto meccanismo di intrattenimento. Non è chiaro dove finiscano i meriti dell’impostazione lasciata da Miller e Lord – rimasti, nominalmente, come produttori esecutivi – e dove inizino quelli del nuovo regista. Quello che è certo è che Ron Howard ha dimostrato tutto il suo mestiere nel subentrare e garantire alla produzione la commerciabilità del prodotto, cosa in cui è specialista.

Solo torna allo spirito dei primi film, lavorando sulla retorica dell’eroe cara a Lucas rivisitata in chiave di western intergalattico. Per andare sul sicuro, è un film completamente al servizio dei fan. Viene mostrato tutto quello che il pubblico vuole vedere, viene spiegato tutto quello che il pubblico vuole sapere. Rispetto alla nuova trilogia e al precedente spin-off Rogue One, questo film osa molto di meno, si limita a fare quello che è necessario. A tratti finisce per scivolare nel didascalico nel tentativo continuo di far sentire lo spettatore a casa.

Non deve, però, essere visto come un difetto. Nella prospettiva del cinema di intrattenimento, Solo ha tutte le caratteristiche che deve avere. Tra i nuovi film della saga è il primo che sembra mostrare una direzione da poter intraprendere per un proprio cammino autonomo, e non è un caso che il finale lascia presagire la possibilità di seguiti o sviluppi paralleli.

Il merito è anche del protagonista Alden Ehrenreich che riesce nel tutt’altro che semplice compito di indossare i panni del mito. Il suo giovane Han Solo mostra in accenno le caratteristiche note incarnate da Ford. È fragile e avventato, arrabbiato e pieno di speranza. Non è un calco puro e semplice dello Han che sarà, è un embrione da cui si svilupperà il personaggio successivo.

Senza raggiungere alcun tipo di vetta, se non quella dello spettacolo, Solo: A Star Wars Story conferma il potenziale della visione Disney di Star Wars. Ci sono galassie e galassie da mostrare al cinema. Se Lucas si era accontentato di espandere il suo universo in fumetti, libri e cartoni animati, La Disney ha capito che il cinema è l’habitat naturale per le guerre stellari, ed è lì che devono stare.

 

(Solo: A Star Wars Story, di Ron Howard, 2018, fantascienza, 135’)

 

“Dubliners” e il futuro

Rileggere nel terzo millennio Gente di Dublino di James Joyce? Assolutamente sì. Perché è a distanza di un secolo che possiamo spiegarci le tante difficoltà di pubblicazione, e i non pochi contrasti con gli editori, che hanno impegnato Joyce per anni prima che nel 1914, alla vigilia della grande guerra, questo testo fondamentale della letteratura moderna venisse finalmente stampato.

In netto anticipo sui tempi, è ora che ci appare straordinaria l’intuizione di questi quindici racconti di evocare in maniera completamente nuova, attraverso una raffinata sintesi tra i due differenti poli del naturalismo alla Flaubert o alla Zola e del simbolismo hauptmanniano, il tramonto della civiltà occidentale e del suo sistema di valori. Oggi che l’Islam radicale ci spinge a riflettere sulla nostra cultura, ponendoci interrogativi forse troppo a lungo rimossi, la complessa struttura di codici che ne sottende la narrazione, dall’Ovest inteso come emblema di fallimento e di morte, non meno che dall’uso semantico dei colori – il verde che non è più simbolo dell’Irlanda, della speranza e della rigenerazione ma che si fa colore della marcescenza e della putredine, segni decifratori di una società chiusa in un paralizzante moto centripeto e avversa a tutto ciò che è estraneo e diverso, ci svela tutta la sua sconcertante lungimiranza e attualità.

Dublino è così l’allegoria di un mondo alla deriva, sospeso tra frustrazione e accidia, malinconia e nevrosi, e la sua tinta è il marrone della terra cimiteriale e dei mattoni degli squallidi edifici periferici. Intrappolati nel tema tipicamente joyciano del rimorso per le occasioni perdute, sui personaggi «aleggia uno speciale odore di putrefazione», come lo stesso autore tentava di spiegare al riottoso editore Grant Richards nel 1905.

Scrive ancora Joyce nel maggio dell’anno seguente: «Ho cercato di presentarla [Dublino] al pubblico indifferente sotto quattro dei suoi aspetti: infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. I racconti sono posti in questo ordine». Difatti questo straordinario ritratto di città è al contempo organismo vivente, evocatore di un percorso esistenziale dalla culla alla tomba in cui i singoli personaggi di volta in volta al centro della vicenda, imprigionati in una dimensione sia reale che metafisica, costituiscono in realtà la facciata dell’unico vero protagonista che si innalza su tutti: la morte. Tanto che – capolavoro nel capolavoro – l’ultima novella, dall’innovativa dimensione intermedia tra romanzo breve e racconto, ha per titolo I morti, punto culminante della parabola narrativa occidentale alla stregua di Morte a Venezia di Thomas Mann o di Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

È qui infatti che si condensa la genialità narrativa di Joyce, capace di armonizzare in una parodia funeral o, come lui stesso annotava, funferal, la tradizione naturalista e realista del tratto umorale e fisiognomico, del bozzetto vivace, del graffio satirico e della connotazione tipologica, ad una lettura ironicamente allegorica e archetipica della condizione umana, attraverso un’originale condensazione freudiana e carnevalesca che apre il varco all’alterità, all’inconscio, al tempo assoluto della morte. Se già negli altri racconti la soglia che separa i vivi dai morti tende a dissolversi sfumando in zone d’ombra, e al lettore attento non sfugge la presenza conativa di segni memoriali atavici testimoni impassibili degli eventi, quali ad esempio uno specchio brunito, un vecchio quadro, un ritratto ingiallito, in quest’ultimo il trionfo della morte sulla vita ha il tocco lieve della distesa uguale e immemore della neve, quel mondo “altro” dove i paradossi si annullano.

Padrone della tecnica narrativa dell’epifania, cioè dello svelarsi di un significato riposto al di là delle apparenze, come la natura divina nel bambino appena nato che i Magi lessero in Gesù, nel finale di I morti, Joyce ci svela l’epifania del personaggio principale, Gabriel, attraverso una serie di passaggi significativi: «un leggero picchiare sui vetri lo fece voltare verso la finestra. Aveva ripreso a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, cadere obliquamente contro il lampione. Era tempo per lui di mettersi in viaggio verso occidente». Ecco il momento della consapevolezza, della rinuncia, dello stato d’abbandono rassegnato in cui la neve che cade induce Gabriel, dall’evocativo nome dell’arcangelo della morte, annullando il confine tra i morti e i vivi e consentendogli di prendere coscienza dell’ineludibile al quale lui stesso e tutto il suo mondo sono destinati: l’occidente, cioè il punto in cui il sole conclude il suo arco, dunque la fine, la morte. «Sì, i giornali avevano ragione, nevicava in tutta l’Irlanda. La neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi […] Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima svanì lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti».

A cento anni di distanza, la straordinaria contemporaneità di Gente di Dublino rivela l’epifania di se stessa, e la sua neve che cade continua a interrogarci su di noi, sulla direzione verso la quale la nostra civiltà occidentale si sta volgendo, e verso il nostro futuro.

Philip Roth

Pastorale letteraria

Da The New York Times del 23 maggio 2018: «Philip Roth, the prolific, protean, and often blackly comic novelist who was a pre-eminent figure in 20th-century literature, died on Tuesday night at a hospital in Manhattan. He was 85. The cause was congestive heart failure, said the writer Judith Thurman, a close friend».

Saputa la notizia ho ricordato istintivamente il finale di Il teatro di Sabbath: «Non riusciva a morire, cazzo! Come faceva a rinunciare? Ad andarsene? Tutto ciò che odiava era qui».

Tutto ciò che odiava era qui. La pietra tombale definitiva sulla depravata vita di quel Mickey Sabbath che tra burattini e oscenità, amanti e fantasmi, ha fatto della propria figura un vero e proprio Inno all’Inumanità, arrivando ad avere come unico carburante odio e livore. C’è un po’ – spesso parecchio – di Philip Roth in ogni suo protagonista e molto spesso quei pensieri sono gli stessi dell’autore. Il Roth post-ritiro però era un individuo estremamente in pace con se stesso. Allontanate – per quanto possibile – nevrosi e tormenti di una vita capaci di creare le pagine più alte della letteratura contemporanea, l’ottantenne scrittore ebreo dopo il ritiro del 2012 passava le giornate leggendo manuali sull’uso dell’iPhone, chiacchierando con Scorsese – chiedendogli come diavolo facesse a reputare Scarpette rosse un capolavoro – e con altri colleghi come DeLillo, ridendo con velato distacco davanti alle celebrazioni a lui dedicate: per festeggiare gli ottant’anni a 35 dollari si poteva prenotare un biglietto per il tour “La Newark di Philip Roth”…

Credo sia più giusto dire: Tutto ciò che amava era qui. Dal racconto Goodbye Columbus del 1959 a Nemesi del 2010: cinquantuno anni in cui Philip Roth ha reso sottilissima la linea tra vita e letteratura condividendo con il mondo i cardini della sua missione. Sesso, fede, perdita e morte, riflessioni sulla natura umana, a volte miscelati o in disparte per fare spazio ad altre tematiche. Tra questi, a spiccare come un faro inarrivabile, c’è un talento sconfinato di narratore.

Legato visceralmente al mondo ebraico e alla storia americana, Roth riesce nell’impresa di essere universale e rendere i suoi ragionamenti universali, coinvolgendo i lettori di tutto il mondo. La capacità di creare torrenti inarrestabili di parole e poi colpire con una stilettata mortale con un’unica frase, parlare di nefandezze e scurrilità e sembrare innocuo, di storia e morte, inventarsi le forme e i punti di vista più originali per arrivare al cuore delle cose. La linea è sottile: il celebre Portnoy sul lettino dello psicanalista intento a sdoganare manie sessuali nella letteratura non è lontano dall’onestà con cui in L’animale morente il professor Kepesh (presente anche in Il professore di desiderio) ammette: «Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza», con conseguente infatuazione per Consuela Castillo, sfociando in una delle più belle descrizioni di sempre del seno femminile.

Sì, la questione femminile: senza il gentil sesso Roth avrebbe scritto la metà e avrebbe vissuto sicuramente una vita molto meno turbolenta. La prima moglie Margaret Martinson muore nel ’68, cinque anni dopo il loro divorzio. In seguito a una lunga convivenza sposa Claire Bloom. Secondo divorzio e il libro di memorie della Bloom chiamato Leaving a Doll’s House, dove il nostro non ne esce proprio benissimo. C’è chi lo definiva un misogino: alla consegna del Man Booker Prize una delle giurate per protesta arrivò a dimettersi.

Nelle opere di Philip Roth la trama non conta, esigua o complessa che sia: è il modo di raccontare a fare la differenza. Come in Pastorale americana (forse il capolavoro assoluto), con cui vince il premio Pulitzer 1998, rubato proprio all’amico DeLillo. Impossibile rimanere indifferenti davanti alla biografia immaginaria di Seymour Levov detto lo Svedese. Sì, biografia immaginaria: Nathan Zuckerman – celebre alter-ego di Roth – a un ritrovo di ex-alunni incontra il fratello dello Svedese. Il sogno è finito: Jerry Levov porta con sé brutte notizie riguardo allo Svedese e il sogno di Zuckerman si infrange in maniera così tragica da sentire il bisogno di riscrivere la giusta storia del proprio mito d’infanzia. Immenso. Il grande romanzo americano di Roth è così: parte dal privato, dal piccolo e successivamente si espande fino all’universale.

Le varie fasi narrative potrebbero essere queste: il filone ebraico (Operazione Shylock, Lo scrittore fantasma, L’oro di Praga, Il complotto contro l’America), quello americano (Pastorale americana, Ho sposato un comunista, Il grande romanzo americano) con Zuckerman spesso a fare da trait d’union e quello umano (da Lamento di Portnoy, passando per Sabbath ed Everyman), spesso intrecciato sulle vicende delle donne sopracitate… senza dimenticare il baseball! Roth alla fine della parabola letteraria torna sempre di più al passato, all’origine. Dalla guerra di Corea del ’51 di Indignazione (2008) alla Newark equatoriale dell’estate 1944 di Nemesi (2010). La tragica e struggente vicenda dell’atleta ed educatore di Bucky Cantor (con non pochi echi dello Svedese) e la falciante epidemia di polio è un cupo e sentito commiato: il cerchio è chiuso.

Di Roth si percepisce fin da subito l’esigenza vitale dello scrivere. Ha dichiarato di aver iniziato per vedere se ne era capace e si è paragonato a un vecchio pugile che raggiunge i successi sul ring facendo il massimo con i pochi mezzi a disposizione.

Philip Roth ha trovato la massima realizzazione solo nel narrare. Nel confidarsi alla pagina bianca e al lettore, nell’ammettere con ironia e sincerità vizi e ossessioni, paure e le due o tre passioni capaci di renderti ancora umano. E vivo. Nell’abbattere con ironia le ipocrisie e le convenzioni sociali. C’è un’umanità sconfinata nelle opere di Roth perché in ogni lavoro c’è un pezzo di se stesso, raccontato in maniera che sia anche nostro.

Senza dimenticare il potere guaritore dello scrivere: si parla di “lamento” di Portnoy, non di terapia o confessione; l’uomo non è una traccia o un segno su questa terra: è una macchia. La tragicità mischiata a un’inesauribile e devastante vena dissacrante capace di farci ridere un po’ sopra le perdite e le delusioni.

Questo non cancella il rimpianto per la sua morte: avrei voluto leggere – dopo le pagine dedicate a Nixon e Clinton e alla politica americana di Ho sposato un comunista – il parere di Nathan Zuckerman su Trump e l’attuale politica americana. Avrei voluto sapere i pensieri di un quieto vecchietto oramai in pensione che sotto sotto del Nobel se ne è sempre fregato. Guardo ciò che ci ha lasciato: tutto ciò che ama è qui. Sta a noi leggerlo.

 

 

copertina di notti brave su flaneri

Bravate

Il crepuscolarismo post facebook di Polaroid, lo scorso anno, ha reso Carl Brave x Franco 126 uno dei fenomeni musicali del 2017: un fenomeno socio culturale iniziato agli albori degli anni ’10 che passa da I Cani, solca tutta l’epoca Social Network, va a mischiarsi con la trasformazione dell’hip hop/rap in una questione popolare e si contamina con il disimpegno alla Calcutta. Oggi, Carl Brave si stacca dal suo compare e si mette in proprio, o quasi, e scrive Notti Brave.

La polaroid. L’immagine della polaroid, i suoi rimandi, l’idea che è e che promulga in un’ epoca non-polaroid, la forte presenza – forzata o meno – della sua assenza. L’uso del pretesto letterario della polaroid come foraggiatrice dell’effetto nostalgia, nonostante chi abbia scritto Polaroid non abbia vissuto l’epoca polaroid se non – magari – di striscio, è stato il veicolo esemplare per capire come oggi possano smuoversi le masse ed è stata in qualche modo la chiusura di un cerchio – e forse l’apertura di un altro. Nel 2011, un un’epoca in cui il significato dei vari social network stava andando ancora formandosi, dove ancora non si sapeva quale apporto avrebbe dato alla diffusione e alla fruizione della musica, I Cani usavano una sequenza di polaroid nel loro video “Hipsteria“. Il mondo fatto di micro istanti di vita pieno di sguardi assorti nei bicchieri di Negroni, dove si cerca un passato, un presente e un futuro di una generazione che continua a vivere in un limbo esistenziale, ideologico e sociale, è andato, come detto prima, a scontrarsi con quello dell’hip hop/rap/trap che negli anni riusciva a farsi largo su scala più ampia.

Una generazione (più di una generazione, oramai), in cui la vaghezza e l’instabilità la fa da padrone, ha ritrovato, attraverso la condivisione reale sui social network, nella nostalgia – nella sua riproposizione totemica (uno dei tantissimi esempi, la Goleador in “Professorè”) -, la propria chiave di volta.

Notti Brave si muove in questa direzione: tra la frustrazione verso il proprio presente, il futuro che è una nebulosa ma che di fatto sembra un grande scherzo, l’incapacità cronica nel sapersi relazionare con l’altro (che sia un contesto di amicizia, di amore o lavorativo), e la mitizzazione di ciò che è stato attraverso situazioni comuni, modi di fare, oggettistica.
Emblematica, in questo, la già citata “Professorè”. «Ti facevo uno squilletto per dirti “Ti penso” / Ma è durato un mesetto il nostro amore immenso / M’hai lasciato co’ ‘n biglietto / Ho fatto canestro nel secchio», oppure «Ogni battuta era “Tu madre”, “Tu sorella” / Pregavo la bidella: “Suona ‘sta campanella” / E mentre il prof parlava dell’Ampere / Io stavo a casa col PC a chatta’ su Messenger, Messenger».
Per finire al ritornello, che suona come un vero urlo di disperazione, il riassunto di un manifesto vissuto sulla propria pelle o su quella degli altri, l’inadeguatezza – con o senza colpe – nel riuscire a farsi comprendere: «Aeh professorè / Vorrei vederti a te / Mi so’ fatto il culo, ehh / E poi m’hai messo tre».
Un inno nei confronti del periodo scolastico, in cui l’iniziale «Non voglio andare a scuola», suona più come “Ti prego, voglio tornare a scuola”.

Anche il singolo, “Fotografia” – dove la polaroid diventa, appunto, una fotografia – che vede come ospiti Fabbri Fibra e Francesca Michelin, prosegue sull’adagio della nostalgia «Un mio amico che si apre / Giuro che sarò una tomba / La chiamo un’altra volta e un’altra volta: “TIM informa” / Su una rotonda Alberto Tomba / Sora tua / Dalla prua di un Toyota / Belli andanti fai manovra».
Un pezzo da hit estiva che fa perno su situazioni apparentemente insulse di angoli remoti di ciò che è stato vissuto e che, a sua volta, non vive di quell’eccessivo pressappochismo, di quella banalizzazione della vita e delle categorie, di cui si nutrono J-Ax e Fedez.

Notti Brave continua per tutto l’album su questa scia fatta di ricordi e inconcludenza («Quante volte / Ho scritto un messaggio / Da ubriaco e poi cancellato», in “Scusa”), dove prestano la voce prima Giorgio Poi (che scrive il miglior ritornello in “Camel Blu”), Coez in “Parco Gondar” (dove ci sono gli unici rimandi alla trap), Gemitaiz in “Malibu”, Frah Quintale in “Chapeau, Pretty Solero & in “E10”, Emis Killa in “Bretelle”, Franco 126 e Federica Abbate in “La Cruenta”, Ugo Borghetti & B in “Scusa”.

L’album, dove i beat morbidi fanno da terreno fertile per le rime di del cantautore romano – degli haiku scritti sul Raccordo Anulare – è arricchito da arrangiamenti di fiati, ben presenti (come in “Malibu”, paradossalmente uno dei pezzi meno riusciti, ma che grazie a loro riesce a destare un minimo interesse), alla Bon Iver di Bon Iver, Bon Iver e che sono il comune divisore estetico di Notte Brave: sembrano aspetti antitetici, ma Carl Brave è riuscito a dargli una dignità senza scadere nell’eccesso macchiettistico.

Nonostante un netto sbilanciamento in termini qualitativi tra le prime quattro canzoni e le restanti, Notti Brave è un album profondo nella sua superficialità, uno schermo per comprendere quello che accade in gran parte della musica moderna: una lente d’ingrandimento tra noi e il nostro rapporto con la nostalgia.

 

copertina di La verità che ricordavo

L’ambiguità della verità

Piemonte, 1944. Due giovani fratelli, Michele e Dino, vengono fatti prigionieri dai fascisti. Per loro inizia l’incubo della deportazione in Germania e del lavoro forzato. Tuttavia, per il più giovane dei due la strada sarà più agevole del previsto, perché sarà destinato al campo di Königsbrück, centro d’addestramento truppe tedesco dove ritroverà il suo ambiente ideale: la cucina. Nelle sale dell’Offizierskasino, il Circolo Ufficiali del campo, Dino farà i conti con una verità che finirà per portarsi dentro per sempre: le sfaccettature del mondo – e della verità stessa, e del male – sono innumerevoli.

Esordio di Livio Milanesio, La verità che ricordavo (Codice Edizioni, 2018) è un romanzo che indaga come nel bel mezzo dell’orrore possano esistere isole felici e gesti quotidiani, come i responsabili stessi di quell’orrore possano mostrare al mondo altri volti, non propriamente spaventosi. La storia di Dino è sia avvincente sia straniante. Il mondo in cui si muove il protagonista è un affresco di ciò che normalmente non trova posto nei capitoli dei libri di storia dedicati alla Seconda guerra mondiale: il quotidiano, l’amore, il cibo nella Germania nazista.

 

La quarta di copertina non lascia spazio a sorprese: questa è una “storia vera”. Partiamo dunque da qui, chiedendo all’autore di raccontare la genesi di questo romanzo e perché, a un certo punto, ha sentito il bisogno di scriverlo.

Mia nonna era una cuoca e ogni domenica la famiglia si riuniva a casa sua, nelle Langhe. Durante gli infiniti pranzi i tre uomini della famiglia parlavano delle rispettive guerre: il marito Bartolomeo della prima, autiere sul Carso, i figli Bernardo (Dino) e Michele della deportazione nella Seconda. Dino era mio padre. Da piccolo i suoi sporadici e insoliti episodi di guerra mi affascinavano e mi tenevano seduto a tavola per tutta la durata del pranzo. Durante l’adolescenza ho cominciato a rifiutare le storie di Dino. Ero diventato un estremista, come molti adolescenti, e mal sopportavo i racconti di tedeschi “buoni” e di un periodo felice durante la più grande tragedia del ventesimo secolo. Col passare degli anni, siamo rimasti solo io e lui della nostra famiglia e ho sentito il bisogno di un riavvicinamento. L’ho fatto raccogliendo la sua storia come un’eredità e l’ho raccontata come se fosse mia. Ho cercato di comprendere immedesimandomi in quel non-eroe che era riuscito a passare quasi indenne attraverso l’orrore.

 

La verità che ricordavo racconta la storia di due fratelli. Ce li potresti presentare? Chi sono Dino e Michele?

Dino è un ragazzo nato e cresciuto in un’osteria di campagna. E tanto gli basta. Come si legge nel romanzo: «Aveva imparato a scrivere annotando le comande, si era esercitato nell’aritmetica sommando il conto, sottraendo il resto, dividendo la mancia con il fratello, le rare volte che Michele lasciava la camera per dare una mano. Il profumo delle pietanze gli aveva impregnato l’esistenza».
Non conosce il mondo, non gli interessa conoscerlo. L’osteria, il paese hanno tutto ciò che è in grado di desiderare, inoltre ha un aspetto fisico che, in quei tempi, non aiuta ad andare in giro tranquillo.
«Illuminato dal riverbero del grembiule bianco brillava un naso importante, un becco affilato, una curva decisa, impossibile da scambiare per una rottura. Un cespuglio di capelli ricci e scuri a mala- pena tenuti a bada. Neanche i giudei assomigliavano alle loro caricature quanto vi somigliava Dino».
Michele invece è l’opposto: fratello maggiore e partigiano è presente al suo tempo, è schierato, partecipa, cerca di cambiare le cose, di farsi un’opinione. Anche fisicamente Michele è diverso da suo fratello.

 

Nel libro è presente un personaggio piuttosto particolare: un nano «di eccezionale altezza» che appare in determinate situazioni. Chi è? Esisteva fin dall’inizio o l’hai aggiunto in corso d’opera?

Il nano c’è sempre stato. Dino si lascia trasportare dalla corrente della storia in una maniera talmente inerme che c’era bisogno di qualcuno che ne rallentasse la corsa e lo mettesse di fronte alla realtà. Insomma in questa storia il personaggio più “magico” è quello più legato alla realtà.

 

In La verità che ricordavo il cibo è un elemento importante, è casa e sicurezza. È la vita di Dino. Credi che il cibo sia importante, in quanto elemento che accomuna tutti, “buoni e cattivi”?

Dino è cresciuto in una cucina e sopravvive alla guerra grazie a una cucina. Manca un pezzo alla storia che un giorno scriverò: alla liberazione Dino continuerà a cucinare per gli americani prima di tornare alla cucina dalla quale era partito. Attorno al cibo, al nutrirsi si sono giocati i destini di milioni di persone di quel periodo, non solo in Europa. Il cibo è importante per tutti, sempre.

 

Il libro inizia in Piemonte, nel cuneese, là dove sono ambientati tanti romanzi sulla Resistenza. Che cosa è rimasto di quel periodo in quelle zone?

Sono zone che sono state coinvolte direttamente dalla guerra partigiana. Oltre all’ampia letteratura, Fenoglio, Pavese, Arpino, sono rimaste le lapidi (a Narzole, luogo di partenza della storia, ce n’è una che ricorda una strage dimenticata). Ma stanno scomparendo i testimoni (mio padre è morto a maggio dell’anno scorso) e forse sta scomparendo anche una certa familiarità con quel tempo. Ho la sensazione che stia diventando una di quelle “fette” di storia archiviata, come la sconfitta di Alarico a Pollenzo o il passaggio del giovane Napoleone da quelle parti.

 

Veniamo al cuore del tuo lavoro: il titolo suggerisce che c’è una verità, una verità che cozza con il senso comune. Qual è questa verità? Hai dovuto, in qualche modo, elaborarla?

Il titolo contiene un paradosso che è l’atteggiamento di ogni testimone diretto: è convinto di raccontare la verità, ma è una verità filtrata dalla qualità della sua memoria, non del tutto attendibile, una non verità. Ed è questo che mi interessava: come un evento venga filtrato e rifiltrato dalla nostra voglia di ricordare. Infatti questo non è un romanzo storico né tanto meno un saggio. È il tentativo di guardare un evento con gli occhi di mio padre giovane. In più esiste un elemento “magico”: come ho detto questa è una storia che fa parte di me da sempre e inizialmente non era diversa dalla storia del Barone Rampante o Marcovaldo. E anche qui il concetto di verità diventa ambiguo.

 

Ho saputo che hai lavorato questo romanzo per molto tempo. Ci sono state molte riscritture?

Cinque. Complete. Oltre a dover fare i conti con un “testimone” reticente come mio padre, ho dovuto imparare a fare il romanziere. E l’ho fatto in modo empirico scrivendo e riscrivendo fino a ottenere una storia soddisfacente. Insomma chi non ha testa abbia gambe.

 

Come è stato il lavoro di ricerca? Ho saputo che sei stato nei luoghi del romanzo, in Germania. Come è stato vederli dal vivo?

Il campo è stato occupato dai Sovietici nell’aprile del 1945 e mantenuto in funzione fino al 1991. La regione della Sassonia si è trovata per le mani un’enorme zona militare da bonificare senza averne le risorse e per ora l’ha abbandonata. Gran parte degli edifici sono ancora in piedi, compresa la palazzina del Circolo Ufficiali dove fu destinato Dino. Sono stato a visitarlo da solo perché mio padre si è rifiutato di venire. Non ho faticato a comprendere la geografia dei racconti di Dino, ma mi sono reso conto, proprio sulla collina del Circolo Ufficiali, che malgrado fossi immerso nella realtà di quella storia non ne ero ancora entrato davvero in possesso. La sera stessa, in un brutto albergo di Dresda, ho ricominciato la quarta riscrittura. Da zero.

 

Hai letto molti romanzi ambientati durante la Seconda guerra mondiale? Ti senti di consigliarne alcuni più di altri?

Ho letto soprattutto romanzi perché, come ho detto mi interessava soprattutto “come” veniva raccontata quella vicenda. Tra quelli che mi hanno colpito di più c’è Una vita intera di Robert Seethaler (Neri Pozza, 2015), la storia di un altro “inconsapevole” che riesce a farsi scivolare addosso la guerra. E La via del Ritorno di Remarque (1931), sulle conseguenze di chi rimane. Ma soprattutto Colombe Schneck, Le madri salvate (Einaudi, 2013) dove l’istinto naturale di sopravvivenza supera ogni altra considerazione.

 

Un consiglio per chi vuole scrivere un romanzo partendo da una storia vera, forte come la tua?

Sono un “giovane” esordiente, non me la sento di dare consigli. Piuttosto mi sentirei di dare un consiglio a chi una storia ce l’ha già. Ci vuole pazienza e perseveranza. Il solo fatto di aver scritto qualche cosa, anche se è una storia vera e importante, non apre nessuna strada. Le strade bisogna aprirsele da soli, a testate. E in questo mi sento ancora diversa da Dino.

 

 (Livio Milanesio, La verità che ricordavo, Codice, 2018, pp. 296, euro 18)

La premura del destino, il rigore della morte

«Non avrebbe dovuto esserci tutto questo morire da dover passare».

Il dover morire. Non arbitrario, casuale, evitabile, scansabile, ritardato o scongiurato. Un dover morire che è dato di fatto. Non mors acerba o ingiusta, se non ingiustificabile, ma una morte che, come è inciso sul tempio crematorio del Kensal Green Cemetery di Londra, è la porta della vita «Mors est ianua vitae». Morte che non si raggiunge attraverso «gli appetiti, gli egoismi e i peccati capitali» decantati da Rimbaud, ma che giunge gocciolante in rigagnoli di sangue e si stagna in pozzanghere di fango. Ernest Hemingway, attraverso un romanzo fotografico (Addio alle armi, pubblicato in edizione originale nel 1929), sin dalla prima pagina descrive tronchi d’alberi polverosi e polvere che si solleva e foglie schiacciate sotto i piedi dei soldati. Descrive l’assurdità della guerra senza retorica o sentimentalismo, come un affresco disperato a cui l’umanità non può sfuggire. Le sue parole, le sue sfumature, in una prosa breve, secca e tagliente che aprirà poi le porte al minimalismo (al pari delle foto di Lewis W. Hine, che immortalò l’attività assistenziale della Croce rossa americana nell’Europa centrale nel 1918), sono documenti umani dell’aporia che si estende tra il vinto, che nella sconfitta «diventa cristiano», più per paura che per vocazione, mentre il vincitore che non cesserà mai il suo cammino vero la vittoria: «Nessuno ha mai smesso mentre vince», per quanto possa essere doloroso e umiliante per l’avversario.

Soldati bagnati, gelati e molto affamati che si nutrono della speranza di poter rimandare ad un oltre, ad una fine di qualcosa che sembra non poter aver fine per l’insazietà dell’uomo.

Un romanzo d’amore, d’infinito amore che si configura anch’esso come guerra, in cui i combattenti sono Catherine Barkley e Frederick Henry, contro il resto del mondo. La notte, come in Fiesta, suscita sempre terrore e distorsione di sguardo, ma è meno dura se trascorsa tra le braccia d’una donna amata che però, sotto la sadica dettatura dell’esistenza, si è costretti a salutare ogni volta, non sapendo se sarà l’ultima.

«Il mondo spezza tutti quanti e poi molti sono forti nei punti spezzati. Ma quelli che non spezza li uccide». Eppure la morte non è una tragedia che incombe sull’esistenza, ma una compagna sempre presente sul campo di guerra e in ogni affetto. Una ricomposizione lucida di equilibri. Della quale non si ha paura, si ha solo non voglia.

Il tragico finale e la prefazione conferiscono al secondo romanzo di Heminghway il dono di quell’artista che si fa veggente, e che nella neutralità di giudizio si sporge più di quanto un qualsiasi encomio possa fare. Hemingway, nella prefazione, ricordando la guerra e le cose che sono cambiate dalla fine di essa alla pubblicazione del suo romanzo scrive: «Scott Fitzgerald è morto, Tom Wolfe è morto, Jim Joyce è morto […] Anche una quantità di personaggi che avrebbero dovuto essere morti sono morti; appesi a capofitto davanti alle stazioni di rifornimento a Milano o impiccati bene o male in città tedesche superbombardate. Vi sono anche tutti i morti senza nome, alla maggior parte dei quali la vita piaceva molto».

Il protagonista, in una scena del romanzo, per scappare ad una fucilazione si getterà in un fiume, che gli recherà la salvezza. Il fiume che non solo è metafora della vita, ma nella tragedia greca è configurazione dell’Ade, che attraverso le sue cinque diverse risacche è pronto a inghiottire il defluire delle anime e, nel Lete, la loro memoria. Dunque, niente rimane se non polvere; la stessa polvere che accompagna le suole dei soldati.

Se le parole non bastano, le fotografie documentano. Ed è ciò che Hemingway, anticipando Capa, fa per tutta la narrazione. Con la terribile maestosa semplicità di chi il dolore non l’ha studiato o discusso, ma semplicemente vissuto.

(Ernest Emingway, Addio alle armi, 1929, prima edizione italiana 1946)

Bratislava, secolo XXI

Nell’ambito del ciclo di incontri “Europa in circolo”, progetto europeo che intende diffondere e ampliare la conoscenza reciproca delle culture e delle lingue nazionali, è stato presentato il libro della poetessa e scrittrice slovacca Jana Beňová, Cafè Hyena. Andrea Rényi lo ha letto per noi.

 

 

Due coppie di amici slovacchi di Bratislava, di età indefinibile ma presumibilmente sotto i quaranta, osservano passivamente lo scorrere della vita, e il grigiore dell’ambiente che li circonda li opprime al punto di non provare nemmeno a cercare una via d’uscita. Hanno desideri e ambizioni che però perdono efficacia e valenza se vengono esauditi: Elza e Ian, Rebeka e Elfman preferiscono anelare senza speranza a qualcosa anziché realizzarla.

Questo breve romanzo o lungo racconto, della quarantatreenne poetessa e scrittrice slovacca Jana Beňová, è ambientato a Petržalka, un grande quartiere periferico di Bratislava, un modello di edilizia urbana socialista fatto di grandi casermoni anonimi, dove spesso è difficile distinguere un palazzo dall’altro. «Petržalka. Un calendario dell’Avvento pieno di cioccolatini. Una finestrella accanto all’altra, una stiva comune. Spazi collettivi, un vociare collettivo che non si spegne mai. Elfman sostiene che il genius loci di Petržalka consiste nel fatto che chiunque qui, con il tempo, inizia a sentirsi una specie di coglione, uno che nella vita non ha saputo farsi strada». Il quartiere si erge a simbolo dell’isolamento est-europeo, delle condizioni dei Paesi postsocialisti e allo stesso tempo dell’alienazione delle società “progredite”. Un luogo in cui il sindaco incentiva la vita in strada per evitare che i turisti possano spaventarsi nelle vie deserte. «Ian ricordava che una volta, dopo tanti anni, era venuto a trovarlo un amico d’infanzia che era emigrato in Canada nel Sessantotto. Si affacciò per un attimo alla finestra dell’appartamento di Ian a Petržalka – e non tornò mai più a visitare la sua città natale». In Cafè Hyena di Jana Beňová, insignito nel 2012 del Premio letterario dell’Unione Europea, Petržalka è il posto dove gli abitanti diventano ciechi per i traumi subiti durante l’infanzia e per la mancanza di prospettiva; vengono colpiti da paralisi per l’inerzia e, se non se ne vanno, prima o poi finiscono in una clinica psichiatrica.

Il romanzo racconta con lirismo e da più prospettive la vita della capitale slovacca nel ventunesimo secolo. La trama non è lineare ma è fortemente frammentata, l’effetto è una narrazione volutamente caotica. I quattro protagonisti con inclinazioni artistiche trascorrono le loro giornate al Cafè Hyena, di solito bevendo, scrivendo romanzi e sognando di un futuro migliore. A turno uno di loro si procura con qualche lavoro temporaneo i mezzi di sostentamento per tutto il gruppo. Storie sminuzzate compongono un caleidoscopio preciso di questo segmento dell’Europa dell’Est, un rapporto sul modo di essere e intendere la vita, sulla natura delle relazioni fra uomo e donna, sulla mentalità chiusa degli abitanti. Un quadro pessimista ma talmente partecipe da non essere disperato. L’io narrante cambia spesso, e i racconti in prima persona vengono interrotti da paragrafi scritti in terza persona singolare, così come cambiano frequentemente anche le prospettive narrative. Per non permettere al lettore di rilassarsi nemmeno un attimo, il narrante fa spesso capolino come per segnalare che nella scrittura non c’è un vero confine fra i personaggi, il narratore e l’autore.

Beňová mescola simboli, metafore, ritornelli, citazioni e sogni a elementi storici, fatti concreti, brandelli di biografia e autobiografia, tutto per costruire una grande sala narrativa a specchi, in cui muoversi in cerchio. Uno spazio claustrofobico metaforicamente e non solo, in cui i giovani non hanno alcuna voglia di diventare adulti né assumersi responsabilità per sé e per la collettività. Nel frattempo la società intorno a loro, qui rappresentata sempre da Petržalka, diventa via via più fascista e aggressiva, nazionalista, fino a far sentire anche i locali degli immigrati. Café Hyena è un interessante referto della nostra epoca e società, e delle nostre relazioni umane. Sono fotogrammi del disagio, della mancanza di prospettive dell’uomo est-europeo che non riesce ad agire per superare le proprie condizioni. Un romanzo sperimentale, innovativo, che all’apparenza, alla prima lettura può risultare scomposto, invece Beňová ha scritto un’opera ben consapevole e ben congegnata.

 

(Jana Beňová, Cafè Hyena, traduzione di Alessandra Mura, Atmosphere Libri, 2017, pp. 120, € 14,00)

Una città d’inchiostro e di ricordi

Milano diventa di carta, si fa racconto e si immagina attraverso grandi autori del ’900. Milano underground dei Navigli, la meraviglia della Scala e le rovine della guerra, la Milano dei vini ghiacciati di Hemingway, in via Verdi e via Manzoni e di via della Moscova di Buzzati. La Milano di Giorgio Scerbanenco, piena di storie potenti e criminali a Lambrate e quella composta e borghese di Lalla Romano, ai giardini pubblici tra via Manin e Porta Venezia, passando attraverso il Castello sforzesco negli scritti di Carlo Emilio Gadda e arrivando a via Monte Napoleone descritta da Emilio Tadini. Fino al simbolo della città, il Duomo e le sue 145 guglie. Appare quasi un controsenso divertente che la mappa letteraria della città del Nord per antonomasia – Milano – sia stata pubblicata da una casa editrice siciliana che già da un po’ stava curando una collana di guide letterarie di città italiane. Ma un po’ per caso e un po’ perché le coincidenze non esistono, l’autore, Michele Turazzi, ha incontrato gli editori di il Palindromo ed è nata la splendida lettura che è Milano di carta.

 

Come è nata l’idea di rendere cartaceo e letterario l’identikit di Milano?

L’idea era preesistente: sbocciata con un articolo che avevo pubblicato su Studio in cui narravo cinque luoghi del capoluogo lombardo attraverso cinque autori. E da quel momento ho incominciato la mia doviziosa ricerca sulla città: raccogliendo storie, riferimenti storici e aneddoti. L’incontro con il Palindromo, avvenuto al Book Pride, ha reso vivo il progetto che già avevo e che appunto coltivavo da tempo: Milano di carta è nata così.

 

Quello che colpisce nel libro è che ovviamente non stiamo parlando di una semplice guida o mappa della città e nemmeno della mera rappresentazione di Milano attraverso diversi momenti storici: come potremmo definirla? Cosa avevi in mente?

Diciamo che mi sono approcciato con molto rispetto alla vita e alla visione di ciascuno degli autori che ho raccontato e che a loro volta hanno vissuto e quindi raccontato la città: potremmo dire che è un reportage narrativo, intriso di una ricerca attenta e di uno stile più calibrato che ho preferito rispetto alla prima stesura del progetto: era partita come una “ mappa” con meno ricerca e si è poi arricchita di precisione, dettagli, citazioni e anima.

 

Sin dalle prime pagine si intuisce che la voce narrante è sfuggente, di lato: esiste il protagonista-autore che conduce il lettore per mano attraverso il pezzo della Milano che ha vissuto e che ha caratterizzato la sua attività, le sue opere, il suo quotidiano…

È stata una scelta di cui sono rimasto soddisfatto: ho cercato di “scomparire” il più possibile, dando voce alla visione all’autore di ogni singolo capitolo che ha dato vita a un diverso quartiere di Milano con una diversa connotazione storica e sociologica. In modo tale che il lettore fosse a metà strada tra il narratore e uno dei grandi autori del ’900 di cui ho scelto di parlare e al contempo, si sentisse vicino e attratto da ogni sfumatura della città. La narrazione amalgama il tutto cercando di raggiungere un risultato godibile, anche perché, va detto, c’è una notevole mole di informazioni.

 

La guida letteraria in tal senso è riuscita nel suo intento: è approfondita, ma scorre in modo fluido, non pesante. E “sfida” certi luoghi comuni della grande capitale nordica come la sua apparente rigidità ed il suo essere figlia del boom economico, piena di lavoro ed opportunità, senza fronzoli…

Attraverso gli autori del ’900 che ho individuato per narrare Milano si intravede subito che la città ha cambiato spesso composizione sociale, abitudini, connotazioni. Ho voluto raccontare la città attraverso le sue varie anime, sino a confrontarla inevitabilmente con quella di oggi, passando dalle tipizzazioni appunto come quella della Milano degli anni ’80, fatta di eccessi e di successi, o quella di Alda Merini “poetessa dei Navigli”, o ancora del perbenismo borghese descritto da Carlo Emilio Gadda. Ci sono tutti gli elementi di una Milano cosmopolita con un’alta eredità letteraria e con una bellezza che tende a nascondersi ma che risplende ugualmente.

 

Uno dei capitoli più intensi è quello dedicato a Elio Vittorini, siciliano di nascita e milanese di adozione, che arriva a Milano su invito di Valentino Bompiani e per il quale la città sarà la colonna portante del suo lavoro editoriale e colei che «gli restituisce il contatto passionale con le cose»: è stato un capitolo anche molto storico. Il più complesso?

Sicuramente. È quello a cui sono più legato per la complessità appunto della ricerca del filone storico che ci riconsegna una Milano sfregiata dalla guerra, un aspetto della città di cui si tende a dimenticarsi e che volevo rievocare. Non a caso il “bonus track” che campeggia alla fine di ogni capitolo è dedicato alle “rovine della città”. I bombardamenti su Milano furono una costante di tutta la seconda guerra mondiale e in una delle case dove ho vissuto c’era ancora la scritta «US», ovvero uscita di sicurezza, che campeggiava nei rifugi. Eppure il capitolo rimanda una scintilla dominante e caratteristica di Milano: la sua rinascita e la sua intensa capacità di farlo, la sua vitalità intellettuale nonostante la strage di piazza Fontana, corso di Porta Vittoria e i suoi morti, i vecchi bastioni delle cinque giornate nel 1848. Milano è sempre rinata.

 

Questa caratteristica della città spicca spesso nel reportage che le hai dedicato. Perché è stata in grado di rinascere sempre?

Milano è una città che ha saputo sempre reinventarsi. Tende a valorizzare maggiormente gli elementi nuovi, rispetto a quelli che ha già. Molte ferite della città hanno portato a profondi cambiamenti urbanistici, molte commistioni ad una maggiore resistenza alla crisi, come quella che stiamo vivendo ai nostri giorni.

 

E poi gli intellettuali: il loro spirito che aleggia in ogni periodo, dal ’900 che hai tratteggiato, ma che resiste fino ai retaggi attuali: Brera occupa un posto d’onore in Milano di carta

Brera , dove sorge l’Accademia delle Belle Arti, è il “set” del capitolo di Luciano Bianciardi che è stato paragonato – non da me ma la stampa dell’epoca – a Montmartre: il posto dove si discuteva di astrattismo e rivoluzione, lotta di classe ed esistenzialismo, protetti da una città che «in queste stradine acciottolate riesce a dimenticarsi di un miracolo economico zeppo di contraddizioni». Ecco: così come c’è stata una Milano da ricostruire a livello edile era necessario ripartire dalle idee, dalle ispirazioni e dalle rivoluzioni.

 

Una città che rinasce ma di cui hai raccontato anche il lato oscuro, come nel capitolo di Tadini nella lunga notte degli anni ’80…

Il capitolo inizia con una Milano notturna e inospitale, pervasa dal grande contrasto degli anni ’80: da una parte la città scintillante e “da bere”, dall’ altra quella di un’intera generazione consegnata alle braccia dell’eroina, ai margini di Parco Lambro e al Sempione. La città ha poi perso quel tratto distintivo esuberante e autolesionista e attraverso corsi e ricorsi storici ha guadagnato un nuovo equilibrio e ha saputo reggere alla crisi attuale molto meglio di altri territori. Inventandosi nuove professioni, inglobando nuovi schemi commerciali e sociali.

 

Tre aggettivi per definire Milano?

Non è semplice: ma ci provo. Reattiva, accogliente, letteraria.

 

Un giro ideale a Milano di sera…

Partiamo da via San Marco, Solferino, Brera. Passiamo per i canali del Naviglio e ammiriamo Piazza della Scala, uno sguardo al Duomo e le cinque Vie. E poi il Foro Romano e Palazzo Imperiale: una passeggiata meravigliosa.

 

(Michele Turazzi, Milano di carta, il Palindromo, 2018, pp. 168, euro 15)