“Lettere d’amore di Enrico VIII ad Anna Bolena” a cura di Iolanda Plescia

Sbirciare dal buco della serratura è un’attività che, in fin dei conti, piace un po’ a tutti. Aggiungiamoci poi che si parla di uno dei personaggi più discussi della corona inglese e di una delle vicende più controverse della storia di tutta l’Europa moderna, ed ecco che le Lettere d’amore di Enrico VIII ad Anna Bolena (Nutrimenti, 2013) assumono un interesse del tutto particolare, sebbene manchino le risposte di Anna al suo re. Per questo motivo si deve accogliere con entusiasmo la prima traduzione italiana delle Lettere, che si basa sull’edizione inglese del 1714, la prima della storia, sugli originali conservati nella Biblioteca Vaticana, in cui sono infine giunti non si sa con certezza attraverso quale canale e dopo che erano praticamente scomparsi per anni.

Si potrebbe rimproverare alla curatrice, Iolanda Plescia, di non essersi basata sulle lettere originali, per altro facilmente consultabili, ma di aver piuttosto preferito basare la traduzione su un’edizione settecentesca, «non perché sia la più accurata», come afferma nel saggio posto alla fine del volume, ma perché: «rimane pur sempre quella che ricorda più da vicino la lingua del re». Anche il commento alle singole lettere appare piuttosto scarno, per lo meno agli addetti ai lavori, poiché vi si annotano di tanto in tanto solo piccoli riferimenti al contesto, quando invece i documenti avrebbero permesso una trattazione più ampia con possibili riferimenti sia ai modelli letterari utilizzati dal re per “sedurre” Anna, sia al contesto storico-politico.

Tuttavia, lo scopo del volume, si difende preventivamente la Plescia, non è quello di fornire una nuova trascrizione a partire dai documenti originali, né di affrontare una vera e propria edizione critica delle lettere di Enrico VIII, ma di «presentare in lingua italiana un documento storico e culturale così com’è stato recepito da quegli uomini e quelle donne d’inizio Settecento». Il merito della traduzione certamente rimane, sebbene appaia più un’opera dedicata al grande pubblico che non invece uno strumento (che certamente sarebbe stato utile) per gli studiosi. Una simile edizione, infatti, avrebbe fornito agli storici un’opera utile e funzionale, senza privare, nel contempo, gli altri lettori della giusta fruibilità, e anzi aiutando questi ultimi assicurandogli un livello di comprensione più profondo e completo.

Proprio al grande pubblico, infine, appare dedicato il saggio introduttivo di Nadia Fusini, che corre in aiuto a quanti non ricordassero con precisione le complicate vicende politico-sentimentali che portarono l’Inghilterra alla riforma anglicana. Bella e interessante appare la lettura del personaggio di Enrico VIII, un uomo, o meglio, un re perseguitato dall’assenza di una discendenza maschile tanto da renderlo folle, che piegato «all’imperativo monarchico della procreazione», si ritrova alla fine con ben sei mogli e due sole figlie femmine e animato da tale ossessione alla fine promulgherà tre editti di successione (che, ironia della sorte, verranno disattesi).

In definitiva, queste Lettere sono il frutto di un uomo innamorato, che si ritrova sposato a una donna più matura per questioni di convenienza politica, ma che per proprie credenze si considera vittima incolpevole delle congiunture, eppure punito da una scarsa discendenza tutta al femminile. Qualcuno ipotizza una malattia mentale o multisistemica, anche se probabilmente si è trattato solo di un miscuglio di credenze popolari, pressioni, attese dinastiche e un grande potere raggiunto in età troppo giovane.

(Lettere d’amore di Enrico VIII ad Anna Bolena, a cura di Iolanda Plescia, Nutrimenti, 2013, pp. 128, euro 12)

“Storia di una vedova” di Joyce Carol Oates

Son pochi (poche) al mondo gli scrittori (le scrittrici ancor meno) che possono permettersi un libro come questo di Joyce Carol Oates. Un memoir che dal titolo, Storia di una vedova (Bompiani, 2013), non prometterebbe nulla di buono, soprattutto per i lettori (e le lettrici?) che guardano al profondismo dei doloristi per contratto o disposizione naturale come alla peggiore iattura della (pseudo)letteratura contemporanea.

Si dice – e bene – in questi casi che la semplicità, la riduzione all’essenziale di ciò che davvero conta in una vita, è il frutto di una sudata, conclusiva maturità stilistica (etica?). A maggior ragione vale per una scrittrice versatile (anche negli esiti) come la Oates. Storia di una vedovaracconta la morte (e le successive gravose prove di sopravvivenza in proprio) del marito Raymond Smith, direttore editoriale e compagno col quale Oates aveva anche interessi essenziali in comune scambiati inmezzo secolo di vita.

Siamo nel 2008 in una mattina di febbraio, la scrittrice dopo le prime resistenze del marito lo accompagna al pronto soccorso. Si trattava solo di una polmonite ma nessuno dei due immagina che proprio al Princeton Medical Center l’uomo sia destinato a contrarre un’infezione letale. Nello splendido attacco, l’assurdo della vita e il tragico del morire invischiati nel quotidiano più straccione sono già tutti lì: la Oates nel suo andirivieni dall’ospedale è sempre di corsa, affannata, angosciata per le condizioni di salute di Ray; lascia la macchina dove e come può. Ha il cuore in tumulto ma «proprio come in quella “parabola” di Kafka nella quale la verità più profonda e devastante della vita di un individuo gli si rivela accidentalmente – e casualmente – da un passante», così, ciò che la fa vacillare è un biglietto trovato sotto il tergicristallo: «impara a parcheggiare, stupida troia».

Con la tragedia incombe da subito lostato d’allarme che paralizza, il senso di una resa dei conti che non può essere evitata con nessuna menzogna “spirituale”. Notevole è la capacità della scrittrice di stringerla sulla finitezza banale del quotidiano, del corpo instabile che resta, delle incombenze da sbrigare. Ha detto in un’intervista: «Quando cadiamo negli abissi del dolore, niente ci è davvero di conforto, tranne forse gli amici e i parenti più stretti, quelli incommensurabilmente. Quel tipo di sofferenza assomiglia a una malattia, è qualcosa di totalmente fisico».

Sbalorditivo anche il coraggio – oggi – di scrivere che «la moglie è la persona eletta a esprimere allarme, paura, preoccupazione: è lei che si vota al pianto». Non so chi sottoscriverebbe una frase del genere. Certo non le bacchettone dell’indifferenziazione sessuale secondo le quali il principio che “tutto è cultura” dovrebbe consentire prima o poi ai maschietti di partorire. La Oates, una donna che ha fatto la storia della cultura americana, mostra un’abissale distanza dall’idiozia ideologica che oggi impedisce a molti/e anche di decidere sul senso della propria morte (cretineria “progressista” e infantile bisogno di ostentare una direzione opposta vanno a braccetto). L’autrice di Blonde scrive mostrando il versante femminile di una storia (anche esemplare) che sotto le dita di Philip Roth avrebbe avuto una tonalità più asciutta e meno romantica: a chi scrive più cara ma non necessariamente più seria (un pudore stilisticamente robusto che trattiene e non fa mercimonio di un dolore privato in questi anni è riuscito a Philip Forrest, specie nel primo “romanzo” fra quelli legati alla morte della figlia, Tutti i bambini tranne uno).

La Oates si spoglia di tutto se non – legittimamente – dei propri sentimenti. Ma riesce a farlo fuori dal mercato del falso, del sublime posticcio da pila d’ingresso nei grandi stores. Che di questi tempi…


(Joyce Carol Oates, Storia di una vedova. Memoir, trad. di Giuseppe Bernardi, Bompiani, pp. 604, euro 16)

“Sottopelle”: a tu per tu con i Libra

Sonorità elettro-minimal, atmosfere tenebrose e tante storie diverse, ognuna con il suo percorso e il suo perché. I Libra sono essenzialmente questo. Ancora una volta, Roma sforna una giovanissima band che sembra essere già matura e pronta per palcoscenici più grandi. Sottopelle è un album che va ascoltato con calma: c’è bisogno di rilassarsi per comprendere a pieno i significati più intimi e nascosti di questi dieci pezzi, altrimenti si corre il rischio di annoiarsi. Una volta entrati nel mood, tutto sarà più chiaro. I Libra, in fondo, hanno già una loro precisa identità.


Sottopelle è uscito un mese fa e ha già un ottimo successo, testimoniato anche dai download. Le vostre canzoni sembrano studiate nei minimi dettagli, sia nei testi che nella musica. Come nascono e qual è la loro evoluzione?

In realtà è proprio così, c’è uno studio molto accurato dietro ogni brano. Di solito si parte da un’idea musicale realizzata e fissata velocemente: un beat e degli accordi da ascoltare a loop per trovare una melodia, solo successivamente si arriva alla tematica da trattare e alla stesura del testo. La fase più importante è quella che dedichiamo alla scelta dei singoli suoni: passiamo tantissimo tempo a sperimentare, conosciamo la sintesi del suono e non usiamo quasi mai presets. Nell’arrangiamento teniamo sempre pochi elementi per dare il giusto spazio a ognuno di essi e questo equilibrio fra le parti non è sempre immediato e automatico, spesso bisogna lavorare tanto per far sì che il tutto risulti semplice, almeno a un primo ascolto.


Cosa contiene il vostro disco d’esordio e perché proprio Sottopelle?

Sottopelle perché la musica entra nelle ossa e rimane dentro di noi, ma visibile. Il disco contiene 10 tracce timide, avvolgenti. Volevamo fare un disco che necessitasse di più ascolti, da consumare in cuffia e che regalasse sempre emozioni, non sta a noi dire se ci siamo riusciti ma sicuramente è un disco che ci rispecchia sia come persone che come musicisti.


In una recente intervista, avete dichiarato:«Si può essere rock anche con un po’ di elettronica, soprattutto nel 2013». Come si amalgamano due generi che sembrano così distanti?

Veniamo dal rock, l’abbiamo suonato per parecchi anni, poi abbiamo iniziato ad ascoltare musica elettronica e il punto di vista si è spostato. Durante la scrittura del disco abbiamo quasi abbandonato gli strumenti per concentrarci sul suono e porci il problema del live solamente a posteriori. È molto importante allargare la visione e ragionare in termini di equilibri ed elementi dell’arrangiamento, a prescindere da quali strumenti vengano usati e dal genere musicale. Probabilmente è stata la libertà in musica, sia nella sperimentazione che nella concretizzazione, la chiave che ci ha permesso di unire questi due mondi apparentemente distanti.


Pur parlando di vite e problemi comuni, raccontare la realtà senza filtri e senza censure vi riesce molto bene. “Leccami” ne è l’esempio lampante.

La bellezza di essere indipendenti è anche questa; ci piace essere diretti e parlare delle cose che appartengono alla nostra vita e a quella dei nostri coetanei senza falsi moralismi e problemi inutili. “Leccami” parla del sesso e dell’amore, quella linea di confine fra la dimensione più primitiva e istintiva e quella più romantica e delicata, realtà che spesso arrivano a confondersi, toccarsi e mescolarsi.


Nell’album, c’è una brano molto particolare che si chiama “Zoe”. É il pezzo più riuscito e quello che vi rappresenta meglio. Siete d’accordo o è solo una mia impressione?

“Zoe” è il secondo singolo estratto da Sottopelle. Abbiamo deciso di farlo uscire assieme al disco non a caso, sicuramente è un brano più immediato di altri ma allo stesso tempo possiede tutti gli elementi che caratterizzano il nostro primo lavoro. Ci sembrava la traccia giusta da cui iniziare per poi approcciare il resto dei brani. Sottopelle rimane un disco eterogeneo, abbiamo lavorato appositamente per avere dieci parti diverse che però formassero un’unica composizione, è necessario ascoltarlo tutto per capire le varie anime e influenze al suo interno, “Zoe” è tuttavia un ottimo punto di partenza.


Dove avremo modo di ascoltarvi quest’inverno?

Stiamo organizzando un tour per suonare fuori dalla nostra città, sicuramente faremo dei live sia a nord che a sud Italia. Aggiorneremo le date mano a mano che usciranno sulla nostra pagina Facebook: è la pagina che seguiamo di più e siamo noi direttamente a rispondere e a dare comunicazioni. È molto importante far arrivare la nostra musica alle persone e stabilire un contatto diretto con esse, soprattutto in questo momento storico e culturale.
 


(Libra, Sottopelle, Volcan Records, 2013)

“Storia di Irene” di Erri De Luca

«Le dico che scrivo storie e le vendo al mercato. Apro la valigia di commesso viaggiatore, mi metto a strillare i miei titoli buffi che nessuno ricorda e che chiamano l’attenzione per mezzo minuto. La nostra specie umana ha bisogno di storie per accompagnare il tempo e trattenerne un poco. Così io raccolgo storie, non le invento. Vado dietro la vita a spigolare, se è un campo, a racimolare, se è una vigna. Le storie sono un resto lasciato dal passaggio. Non sono aria ma sale, quello che resta dopo il sudore».

Erri De Luca è uno scrittore nutrito dagli elementi naturali. Figlio del Mediterraneo, questo grande e fecondo grembo materno che accoglie un centinaio di popoli, drizza le orecchie come le vele in ascolto di voci portate dal vento o dal profondo della memoria tramandata dagli avi (come Il cielo in una stanza, storia della fuga del padre Aldo dai bombardamenti del ’43 sull’isola di Capri), portatrice di un passato che sente comunque suo, offrendole come segno di gratitudine al mare nostrum.

Storia di Irene (Feltrinelli, 2013) è stata trasportata dal meltemi, racconta l’autore, un vento greco che parte dai Balcani e si incunea con tutta la sua violenza e impeto verso l’Egeo. È una storia di mare, come le altre due che compongono il libricino. È stata scritta, bagnata dallo scorso sole estivo, sulla spiaggia di una piccola e appartata isola greca, l’isola di Lipsi. È una storia nata a metri zero sul livello del mare che del mare si nutre. Il mare è quella barriera naturale, quel confine che protegge e minaccia, che dà e allo stesso tempo può togliere la vita.

Così è venuta Irene, una bambina di quattordici anni, incinta, orfana e cresciuta da undici delfini in mare. I paesani la schivano, la emarginano e l’additano non sapendo chi sia il padre del bambino che aspetta. La ragazzina serba questo segreto dietro un silenzio che dura sin dalla nascita. Irene ha deciso di raccontare la sua storia solo a lui, allo scrittore stesso o a una sorta di suo alter ego.

Il racconto non ha però l’andamento delle onde, non è poesia, ma ha il ritmo febbrile delle apparizioni, delle rivelazioni e la prosa lineare delle favole popolari.

Le storie di De Luca non sono portatrici di significati nascosti ma sono governate dalla metafisica delle cose, delle presenze tangibili e quotidiane. Le sue storie sono perfettamente quello che raccontano. Di queste storie De Luca è infettato, contaminato al punto da pensare di aver vissuto lui stesso quella determinata epoca, quella vicenda, quelle emozioni.


(Erri De Luca, Storia di Irene, Feltrinelli, 2013, pp. 112, euro 9)

[Best 2013] I libri

È tempo. Di prendere le misure dovute. A chi? Al tempo, appunto. S’imbraccia un metro (possibilmente con le braccia lunghe), s’inforca lo sguardo pensoso, quello all’indietro, e si va in sartoria. Per capire che taglia porta quest’anno. Quanto ha larghe le spalle, friabili i piedi. E allora fioccano i video, le collezioni di angosce che salutando da lontano sembrano sempre più innocue.
La girandola di aneddoti, gli intingoli piccanti in cui è stato sfizioso immergere le chiacchiere. Gli incidenti più arroganti, la calamità più sadiche, le relazioni più croccanti. E il cappotto è pronto. Sarebbe spiacevole quindi sottrarsi al gioco, perché anche Flanerí ha in caldo il suo album. A restare incollati sono i libri più interessanti del 2013, ovviamente per noi, ben sapendo che il pubblico ha già decretato il suo podio, impalmando Dan Brown con il suo Inferno (Mondadori), Khaled Hosseini con E l’eco rispose (Piemme), e lo sconosciuto Joel Dicker con La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani). Quindi, se siete qui è per andare altrove. Per esempio in questi dieci titoli.


1) Anna Bolena, una questione di famiglia, di Hilary Mantel (Fazi). Laddove Wolf Hall ha lasciato socchiuso il racconto, riprende fiato la corte di Enrico VIII. Intrighi e condanne a bordo di un anno cruciale per le sorti d’Europa. Il 1535 dipanato con maestria. Con la scioltezza capace di non farcelo sentire sepolto.


2) Yellow Birds, di Kevin Powers (Einaudi). Esordio eccellente. Ritratto di un’amicizia stuprata dalla guerra, che fucila l’innocenza prima ancora della vita. Diciottenni  spediti ad uccidersi, per non tornare mai più, anche se risparmiati dal mirino. L’Iraq come il Vietnam, come l’incubo sfinito di ogni conflitto.


3) I Melrose, di Edward St. Aubyn (Neri Pozza). Meccanismo maestoso in quattro romanzi. Affresco impietoso dell’upper class inglese. Generazione sfatta troppo intenta a stordirsi per provare realmente a conoscersi. Apoteosi fulminante dell’autodistruzione ai piani alti. Per apprezzarne meglio il tonfo.


4) Dieci dicembre, di George Saunders (minimum fax). Ancora nessun romanzo per quest’autore, a cui “sono bastate” le sue raccolte di racconti per incastrare la sua voce tra le più sferzanti della narrativa americana. Visionario e realista, lancinante e aggraziato. Capace di filmare donne appese tra gli alberi e famiglie qualsiasi. Insomma, quasi tutto e il suo contrario, nell’equilibrio impossibile dei grandi scrittori.


5) Fisica della malinconia, di Georgi Gospodinov (Voland). Andirivieni di passato, presente e futuro. Un ragazzo oltrepassa tutte le porte a causa della sua empatia, che lo fa scivolare nelle storie degli altri per insegnarci che in ognuno di noi i tempi sono odori, mescolati nel sangue.


6) We are family, di Fabio Bartolomei (E/O). Una vertigine. Un festival di bolle pieno di sostanza. Al Santamaria è un bambino prodigioso, come lo è la sua forza narrante. Un’infanzia rocambolesca, dove nulla è comune, normalità inclusa. Identikit di una famiglia surreale e del suo Paese intorno, che si sforza di crescere mentre invecchia a dismisura. Delizia autentica.


7) 35 morti, di Sergio Alvarez (La nuova frontiera). Colombia. Walzer di lutti, schegge e abbandoni. Il protagonista affonda l’esistenza nel bianco e nero disperante di questo romanzo. Mangia morte ogni giorno per 35 anni. E resta anonimo, perché soffre come/con il suo popolo, attraverso le sconfitte di quella stessa terra.


8) Backstage, di Gilberto Severini (Playground). Una lunghissima lettera immaginaria a un editore reale, una sorta di testamento spirituale di uno degli scrittori più lirici e capaci che abbiamo nel nostro paese.


9) Il blu è un colore caldo, di Julie Maroh, (Rizzoli Lizard). Graphic novel dove sfila la vita di Clémentine, che crede di essere un’adolescente qualunque finché non sbuca l’amore, a raccontarle una storia inattesa. Di esclusione e passione. In anni ancora non facili per due ragazze che si amano. Essenziale e dolente.


10) Un genio nello scantinato, di Alexander Masters (Adelphi). Parabola accecante di Simon Norton, cervello debordante fin da piccolo, quando palleggiava con la tabellina del 91. Una carriera di trionfi e poi lo schianto, un errore di calcolo dopo il quale il matematico si dileguò dall’Accademia. Per rintanarsi al buio, in un seminterrato di plastica e latta dove l’autore, suo affittuario, lo ha conosciuto. Cartoline da un delirio tutt’altro che depresso.


Ora la domanda è d’obbligo. Dove siete voi in questa foto ricordo?

[Best 2013] I film

Tempo di inevitabili classifiche, la fine di un anno solare. Sensibili a fattori estremamente mutevoli, come il gusto personale, il contesto di riferimento, la percezione sociale, i film come ogni altra espressione artistica sono difficilmente collocabili in graduatorie universalmente accettabili. I rischi di parzialità, mancanze o campanilismi (ci cascano pure i Cahiers du cinema, che indicano sei film francesi nella loro top ten 2013) sono sempre in agguato.

Si è scelto di lasciar perdere una classifica vera e propria (anche se in fondo troverete cinque indicazioni più specifiche) per concentrarsi piuttosto sugli aspetti che maggiormente hanno lasciato il segno del cinema distribuito in Italia nel 2013.
Un aspetto da ricordare, prima di procedere nella lettura, è quello che sottolineava Alberto Moravia ogni volta che parlava della sua professione di critico cinematografico: «Al cinema, la noia è l’unico rischio da evitare». Al cinema ci si va per divertirsi, perché pur non essendoci «alcuna differenza a livello artistico tra un romanzo e un film», ne rimane una sola, di fondo: «Il cinema è anche spettacolo».

Le conferme dal Nord America

Il lato positivo, Argo, Lincoln, Zero Dark Thirty, Rush, Prisoners, Gravity, il recupero sacrosanto di Blue Valentine, e così via. Il cinema americano visto in Italia nel 2013 ha ribadito ancora una volta di essere in grado di appassionare e divertire, con un’offerta di titoli che ha abbracciato tutti i generi, contaminando e innovando, e l’affermazione di nuovi autori che si affiancano a conferme di rango.

La riscossa del documentario

La vittoria a Venezia di Sacro GRA di Gianfranco Rosi ha fatto muovere un enorme passo avanti al genere documentario lungo la strada dell’equiparazione, nella considerazione generale, con il cinema di finzione. Al di là dei tentativi più o meno opportuni e goffi di emulare la mossa veneziana (il Marco Aurelio d’oro regalato al docu-fiction TIR a Roma), nella percezione della critica la barriera tra le due grandi categorie cinematografiche si è abbattuta da tempo e il 2013 lo ha confermato: per Sight & Sound, la rivista ufficiale del British Film Institute, il film dell’anno è stato The Act of Killing, devastante documentario di due ore e mezzo realizzato da Joshua Oppenheimer incentrato sui massacri perpetrati dai gangster indonesiani tra il 1965 e il 1966 (circa un milione di persone uccise praticamente a mani nude) contro i dissidenti politici, mentre Leviathan della coppia Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, dedicato all’industria ittica nord-americana, continua a girare per i festival di tutto il mondo nonostante sia passato più di un anno dalla premier svizzera di Locarno.

Ci sarebbe da discutere se sia sensato e giusto giungere alla piena equiparazione tra due generi che condividono poco sul piano dello stile narrativo e della forma espressiva, come ipotizzare che un saggio venga valutato con gli stessi criteri di un romanzo per intendersi, ma si aprirebbe un dibattito che esula dalla circostanza.

La riscoperta dell’impegno nel cinema italiano

Si inizia da Venezia 69, con Gli equilibristi di Ivano De Matteo e Bella Addormentata di Bellocchio, si prosegue nella coda di 2012 con Viva l’Italia di Massimiliano Bruno, poi nel 2013 via con Buongiorno Presidente di Milani, Viva la libertà di Andò, L’intrepido di Amelio, L’ultima ruota del carro di Veronesi, fino ad arrivare all’ultimo caso, La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto in arte Pif, per proseguire a gennaio con l’eccellente Il capitale umano di Paolo Virzì. Mai come nel 2013 il cinema italiano sembra aver riscoperto una vocazione civile, la voglia di parlare della società, degli uomini che la compongono, politici o comuni cittadini che siano, e della crisi economica e di costumi che sta colpendo il Paese negli ultimi anni. Lo fa con registri differenti, dal drammatico alla commedia, con esiti non sempre convincenti e con riscontri di pubblico solo in pochi casi incoraggianti (i film di Andò, Pif e Bruno), ma lo fa, allargando lo sguardo da quella dimensione ombelicale in cui troppe volte è stato accusato di aver indugiato e tornando a proporsi come specchio, che sia dissacrante o realistico poco importa, della società e delle sue difficoltà.

Palati forti

Quello che non è mancato è stato il coraggio nell’affrontare storie scomode, difficili, scottanti, a tratti scandalose. Basti pensare al trionfale La vita di Adele di Kechiche o a Lo sconosciuto del lago, di Guiraudie, incentrati su relazioni omosessuali, alla prostituzione minorile di Giovane e bella, per rimanere ancora in Francia, o alla crudeltà della famiglia greca di Miss Violence, o, per parlare ancora del cinema italiano, al tema dell’eutanasia affrontato, oltre che da Bellocchio, da Valeria Golino nel suo esordio da regista con Miele.

La grande bellezza

Che sia piaciuto o meno, che si sia d’accordo oppure no, il film di Paolo Sorrentino è il film che ha connotato la stagione cinematografica italiana (tralasciando gli incassi imbarazzanti del film di Nunziante, Sole a catinelle, con Checco Zalone). Ne hanno parlato tutti, su internet, sui giornali, in televisione, accumulando giudizi e opinioni, dal capolavoro magistrale alla «cagata pazzesca» di fantozziana memoria. «Sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore» rimane un film che ha vinto quattro premi – regia, miglior film, miglior attore per Servillo, miglior montaggio – agli European Film Awards, che concorre per il Golden Globe per il miglior film straniero e che ha buone probabilità di finire nella cinquina dei candidati all’Oscar per la stessa categoria. Considerando che è dal 2006 di La bestia nel cuore che nessun italiano ce la fa, non è poco.

Cinque pezzi facili

Concludiamo con cinque momenti di cinema che hanno maggiormente colpito chi scrive e il suo gusto personale. Il giudizio prescinde dall’effettiva validità dell’oggetto citato ma vuole indicare cinque episodi del cinema distribuito nel 2013 che per un motivo o per l’altro hanno lasciato un segno. Non c’è alcun ordine nell’elenco, così come non c’è alcun criterio logico o estetico.

– La grande bellezza, di Paolo Sorrentino, per la letterarietà del personaggio Gambardella.

Miss Violence, di Alexandros Avranas, per la brutale rappresentazione dell’orrore familiare.

Still Life, di Uberto Pasolini, per la tenera tristezza della solitudine.

Stoker, di Chan-wook Park, per la perfezione formale della messa in scena.

– Jennifer Lawrence, per aver vinto l’Oscar a ventidue anni (seconda sola a Marlee Matlin, che ne aveva 21 nel 1987 quando vinse per Figli di un dio minore), essere caduta mentre lo ritirava e per la capacità di riempire ogni ruolo.

[Best 2013] Gli album

10 – AM, Arctic Monkeys

I ragazzi sono cresciuti. Sotto svariati aspetti. Ormai la loro celebrità è alle stelle e il peso non sembra però influire negativamente sulla qualità artistica. L’evoluzione delle “scimmie” continua: più melodici e calibrati, un disco con più ballate e meno rock, ma sempre pieno di canzoni fantastiche. La definizione giusta arriva da Josh Homme: «Il disco perfetto da ascoltare dopo mezzanotte».

 

 Amok, Atoms For Peace

La line-up di questo supergruppo è sinonimo di qualità purissima. Flea, Godrich, Refosco e Waronker al seguito degli isterismi ritmici e dance di Mr. Yorke. Via di congiunzione tra The Eraser e The King Of Limbs il disco la dice lunga su quanto possa mettersi in gioco il leader dei Radiohead. Poteva essere un mero esercizio di stile, ne viene fuori un gran bell’album.

 

8 – Fantasma, Baustelle

Un concept “da paura”: in tutti i sensi. I Baustelle fanno le cose in grande, testualmente e strumentalmente, chiamando un orchestra e generando un  Fantasma in cui vengono proiettate tutte le sfaccettature della morte e dell’amore. Un omaggio all’horror italiano anni Settanta e ai suoi compositori di colonne sonore, ma con i piedi ben saldi nella contemporaneità. Non per tutti, ma notevole e affascinante come pochi.

 

7 – Push The Sky Away, Nick Cave and The Bad Seeds

Più che Bad Seeds, Warren Ellis. È lui il musicista con più ascendente nell’attuale produzione discografica di Cave. Visionario, onirico e malato (il blues sul bosone di Higgins sono Nick lo poteva concepire) Push The Sky Away inizialmente può non entusiasmare, visto i toni lenti e soffusi: ma poco a poco avvolge e convince. Parecchio. E poi c’è “Jubilee Street”…

 

6 – Like Clockwork, Queens Of The Stone Age

Il loro disco più psichedelico e  immaginifico. Se lo stoner di “If I Had a Tail” e “My God Is the Sun” non fa notizia, ma fomenta e basta, i colpi forti di questo disco sono le ballate: “The Vampire of Time and Memory”, “I Appear Missing”, “Like Clockwork”. Cupo, inquietante e spettacolare.

 

 The Weight Of Your Love, Editors

Il disco della maturità di Tom Smith e company. Tutti a Nashville per registrare questo sentito e toccante concept su tutte le sfaccettature dell’amore. Emozionante e dolente, il nostro animo è in balia della voce di Smith: il peso degli Editors è anche il nostro.

 

4 – Big TV, White Lies

Giunti al loro terzo disco, il gruppo inglese sfodera il suo capolavoro. La storia di una coppia in fuga su reminescenza musicali anni Ottanta. Una track-list perfetta per un album da consumare ascolto dopo ascolto.

 

3 – Trouble Will Find Me, The National

Converrà scrivere direttamente quando I National non faranno un capolavoro. Un Berninger mai così depresso a servizio di un album in cui è impossibile trovare qualcosa che non appartenga alla categoria del bello.

 

2 – Pale Green Ghost, John Grant

La Regina di Danimarca si nasconde in Islanda e opta per l’elettronica. Mossa rischiosa ma vincente. Il più grande cantautore in circolazione?

 

1 – Reflektor, Arcade Fire

Se ne parlerà per tutto l’anno a venire. Resta il fatto che la sensazione è quella di trovarsi davanti a qualcosa di immenso e meraviglioso. Se non è il disco più bello dell'anno, è sicuramente quello più importante.

“La scelta di Giulia” di Brunella Schisa

Ho sempre amato guardare vecchie fotografie, in particolare quelle che ritraevano la mia famiglia: mi piaceva accompagnare i racconti a quei frammenti di carta ingiallita, poter toccare, osservare, leggere quelle piccole testimonianze della mia storia. C’è un libro che mi ha riportato alla mente la sensazione di rimuovere quello strato di polvere che la storia di ogni famiglia accumula con il tempo: La scelta di Giulia di Brunella Schisa (Mondadori, 2013).

Siamo a Napoli, Emma si è appena laureata in Lettere e si prepara per affrontare un’estate piena di incertezze quando le arriva una telefonata inattesa. Sua zia Carolina, un’ottantenne schiva e di poche parole, la convoca per offrirle un incarico che l’avrebbe tenuta impegnata per tutta l’estate: mettere ordine nell’archivio familiare, un insieme di carte, fotografie e documenti che racchiude la storia della famiglia Cortesi. Emma accetta, intimorita e affascinata da questa donna ermetica e reticente che tiene tutto sotto chiave e le rivela poco per volta le intricate vicende dei suoi antenati, introducendola a quell’avventura tramite un misterioso regalo: l’anello della bisnonna Giulia.

Rapita, Emma prende appunti, scrive, cataloga le voci di quell’immenso archivio che è diventata la sua famiglia, ritrovandosi nelle sfaccettature di coloro che ne hanno fatto parte. Una storia fatta di fallimenti, conquiste, tradimenti, malintesi e personalità discordanti con le quali Emma impara a confrontarsi. Prima fra queste Alessandro, il capostipite della famiglia, un homo faber che diventa un punto di riferimento per gli uomini e l’oggetto della passione di tante, troppe donne: è l’infedeltà la maledizione che colpisce gli uomini della famiglia Cortesi, incapaci di essere fedeli alle loro mogli, donne estremamente forti, colte, tenaci.

Quella di Emma è una scoperta delle proprie radici che diventa un percorso di autoconoscenza, un rito di passaggio all’età adulta, un continuo confronto, una sfida.

Il genere della saga familiare può appassionare oppure annoiare terribilmente. È un genere per il quale è difficile ci siano vie di mezzo, eppure a volte capita che lasci un’aspettativa velatamente insoddisfatta dietro di sé. È il caso di La scelta di Giulia, checon la ricchezza della sua ricostruzione storica e con il suo intreccio di vicende e variegate personalità potrebbe potenzialmente appartenere alla prima categoria. Tuttavia, seppure a tratti avvincente, manca di qualcosa. Le sensazioni vengono descritte più che trasmesse, l’ambiguità e le incertezze di Emma la rendono più un tramite fra epoche diverse che una vera protagonista, i piani narrativi potrebbero intersecarsi con più armonia.

Il romanzo di Brunella Schisa è comunque nel complesso una buona lettura, semplice ma piacevole per gli appassionati di questo genere di storia che desiderano immergersi nell’atmosfera della Napoli altoborghese descritta dall’autrice.

Uno spunto per tornare in soffitta a ripescare qualche vecchia fotografia e, chissà, ritrovarcisi un po’.

(Brunella Schisa, La scelta di Giulia, Mondadori, 2013, pp. 280, euro 16,50)

“American Hustle – L’apparenza inganna” di David O. Russell

Dopo il successo mondiale di Il lato positivo, David O. Russell torna con la ricostruzione di una delle più grandi truffe della storia degli Stati Uniti con American Hustle – L’apparenza inganna.

L’operazione Abscam venne organizzata dall’FBI nel 1978 per smascherare un giro di corruzione e appalti truccati che coinvolgeva affaristi, politici locali e membri del Congresso. I federali si affidarono alle conoscenze di Melvin Weinberg, truffatore professionista che riuscì a organizzare con l’agente Anthony Amoroso Jr. una rete di trappole per ottenere le prove video delle mazzette.

Russell mantiene solo il nome dell’operazione e ricostruisce la vicenda in un film che non ha nessuna pretesa di rappresentazione storica dei fatti, rinnegando il modello vincente usato l’anno scorso da Ben Affleck in Argo scegliendo invece di dare libero sfogo a una fantasia priva di ogni elemento di realismo. Il suo truffatore, Irving Rosenfeld, accetta di collaborare per far uscire dal carcere la sua amante e socia Sydney, incastrata dall’ambizioso, seppur non totalmente brillante, agente Di Maso. Proprio l’ambizione del federale farà andare sempre più in alto nelle sfere della politica e del potere le indagini, coinvolgendo il sindaco di Camden, New Jersey, Carmine Polito, coinvolto nel programma di legalizzazione del gioco d’azzardo di Atlantic City, e attraverso di lui deputati di Washington ed esponenti della mafia italo-americana.

Russell ha due grandi pregi come autore: il primo è la capacità di muoversi, quasi senza rispetto, tra i vari generi cinematografici, senza preoccuparsi di andare fuori dai canoni dei differenti registri ma ricorrendo a linguaggi differenti arricchendoli con contaminazioni reciproche. American Hustle non è un film storico, né un film di spionaggio, o un film politico. O meglio, è tutti questi generi e insieme una commedia grottesca che mostra una carrellata di miseria umana, di derelitti sconfitti che cercano l’occasione per un riscatto. Rosenfeld e Di Maso si affidano entrambi all’operazione come fosse l’opportunità che aspettavano da sempre per cambiare vita, lasciandosi alle spalle truffe e inganni, o diventando finalmente il poliziotto d’azione, non uno dei tanti seduti dietro una scrivania, in grado di accendere ogni tipo di fantasia e soddisfazione.

Il secondo merito è quello di essere un eccellente direttore dei suoi interpreti. Ogni attore che lavora con lui dà il meglio di sé. A volte sembra semplice: basta prendere i più bravi che ci sono e il gioco è fatto. Ma Russell è abituato a lavorare con attori che già conosce, se li porta da un film all’altro, crea un legame che garantisce all’interprete la libertà di arricchire con le proprie intuizioni la sceneggiatura.

Non è un caso se, negli ultimi tre anni, i suoi attori sono finiti sempre per essere nominati o premiati con l’Oscar. È successo nel 2010 con The Fighter, che è valso il premio a Christian Bale e Melissa Leo e la nomination a Amy Adams. È successo di nuovo l’anno scorso con Il lato positivo, con quattro candidature nelle quattro categorie degli interpreti e la statuetta a Jennifer Lawrence. Non è difficile immaginare che con American Hustle andrà allo stesso modo. Perché i quattro protagonisti sono eccezionali. Christian Bale interpreta Rosenfeld con l’ennesima trasformazione fisica della sua carriera: venti chili in più che lo rendono disgustoso e un riporto in testa che è un complesso architettonico. Amy Adams nei panni di Sydney è sensuale, fragile, risoluta e incredibile quando passa dall’accento britannico a quello statunitense (bella sfida per il doppiaggio). Bradley Cooper è l’ambizioso e cretino Di Maso, Jennifer Lawrence è la sboccata moglie di Rosenfeld che lo tiene a bada con il sesso mentre lo inganna. Ai quattro affezionati di Russell si aggiunge Jeremy Renner, con banana di capelli posticci, come Carmine Polito, politico forse ingenuo ma sostanzialmente onesto.

Con American Hustle David O. Russell conclude una trilogia ideale, iniziata con The Fighter e proseguita con Il lato positivo, dedicata al riscatto degli sconfitti. Lo fa con quello che probabilmente è il miglior film della sua carriera.

(American Hustle – L’apparenza inganna, di David O. Russell, 2013, commedia, 138’)

“La Svizzera” di Paolo Nori

Con La Svizzera (Il Saggiatore, 2013) Paolo Nori raccoglie il flusso di pensiero dell’anziano meccanico di biciclette Benito Incerti, già coprotagonista di A Bologna le bici erano come i cani. L’uomo qui è solo, seduto al tavolo della sua casa vuota. Affida il resoconto della sua intera esistenza a un nastro, che verrà consegnato al figlio in partenza per la Svizzera, un Paese rispettabile, dove regna una «grande civiltà per le mucche».

Il monologo è un resoconto della vita del meccanico che, in un italiano elementare e stentato, ripercorre e valuta la sua esistenza. Un linguaggio povero e scorretto, che Nori sa rendere con grande precisione e coerenza. Un linguaggio universale, che nonostante i propri limiti – forse anche grazie a essi – fa emergere i sentimenti del meccanico e ha, a tratti, la stessa forza tipica di certe poesie dialettali, in cui la grammatica non ha niente a che vedere con la potenza dei sentimenti che si sprigionano.

Conosciamo così i pochi personaggi che hanno gravitato intorno all’ottantenne in quello che pare essere un paesino di provincia. Il barbiere Giannasi, che insegue la modernità e si ostina a domandare tutte le volte ai suoi clienti: «Mettiamo un profumino?». Il macellaio Ragni, con il suo atteggiamento da grande pensatore, apparentemente onnisciente. Soprattutto la moglie Germana, una donna dura e piena di silenzi, che rimane improvvisamente incinta nonostante non faccia l’amore con il marito da un anno.

È qui che all’improvviso il groviglio di pensieri di Benito Incerti, finora sconnesso e privo di nessi logici, si concretizza nel suo senso ultimo. Quel figlio in partenza per la Svizzera, lo stesso figlio che gli avevano tolto quando Germana era morta, non è suo. Lo sapeva già, il meccanico, ma non aveva detto niente perché anche lui aveva commesso adulterio, e proprio con un’amica della moglie, e se ne vergognava assai.

Eppure, così prossimo alla morte, adesso il meccanico capisce. Troppo forte è la somiglianza di quel figlio con il Giannasi che voleva sempre mettere un profumino, lo stesso Giannasi che dopo la morte della Germana gli era stato vicino fino all’ossessione, con l’intento dichiarato di fargli superare la perdita.

Una storia canonica, forse. Ma quello che rende questo libro un piccolo gioiello è la capacità di Nori di lasciare la realtà così com’è, senza romanzare nulla, con il risultato che un flusso di grandi amarezze si trasforma – inesorabilmente e contro la stessa volontà del suo protagonista – in un concentrato inarrestabile di ironia. La stessa ironia che, nostro malgrado, sempre tesse le nostre esistenze.

(Paolo Nori, La Svizzera, Il Saggiatore, 2013, pp. 80, euro 10)

“Il ritorno” di Dulce Maria Cardoso

La guerra vista attraverso gli occhi di un bambino. Questo il fulcro del romanzo di Dulce Maria Cardoso, Il ritorno, pubblicato nell’ambito di Indies, l’inedita collaborazione di Feltrinelli con vari piccoli editori indipendenti, in questo caso Voland. Si tratta di un romanzo storico, ambientato negli anni Settanta del Novecento, che racconta il ritorno in patria di ex coloni portoghesi durante la rivoluzione dei garofani del 1974.

Il protagonista nonché narratore è Rui, ragazzino bianco di quindici anni, trovatosi in Angola, colonia portoghese, insieme alla sua famiglia proprio durante questa ribellione.

Siamo nel periodo della decolonizzazione, alla vigilia dell’indipendenza dalla madrepatria, e gli ex coloni portoghesi stanno andando via per evitare ritorsioni da parte dei neri. La famiglia di Rui si spezza, parte solo con la mamma e la sorella. L’aeroporto è pieno di gente, tutti stanno scappando. Del padre un’immagine fissa, quella del suo arresto da parte dei militari del movimento per la liberazione dell’Angola. Il protagonista, insieme alla sorella Milucha e alla madre Doña Gloria, riesce a ritornare in Portogallo: da quel momento in poi la famiglia sarà marchiata con il nome di retornados. La tristezza prende il sopravvento, al difficile presente si mischiano i ricordi dell’infanzia nella calda Angola estiva. Non hanno più una casa, vivono in una stanza d’albergo e il denaro sta terminando. E poi la malattia nervosa della madre e l’assenza del padre di cui la sorte è incerta. Il tutto sulle spalle di un adolescente.  Continuo è il rimorso per non aver reagito davanti all’arresto del padre, il senso di inadeguatezza e la paura. Paura che i loro averi finiscano, del loro avvenire, della probabile morte del padre.

Dopo l’ultimo volo antecedente l’indipendenza, Rui perde le speranze di rincontrarlo, ma sua madre no. Tutto si incentra sulla personalità del ragazzo, le emozioni e le sensazioni che racconta. Il periodo tanto travagliato sembra concludersi: il padre ritorna, le crisi della madre sembrano poco a poco placarsi, si trasferiscono in una nuova casa, anche se molto piccola, avviano una piccola impresa di costruzioni. E tuttavia, spesso la realtà supera l’immaginazione, e il debito contratto per la ristrutturazione diverrà un’ombra costante nella loro vita, impedendogli di godere di una vera tranquillità. Filo conduttore del racconto è la rabbia del protagonista,  coinvolto in prima persona nelle conseguenze di questa guerra di liberazione. La sua famiglia si trova schierata dalla parte dei colonizzatori e quindi indirettamente complice della lunga schiavitù della popolazione nera, ora in rivolta.

Lo stesso stile narrativo appare come un flusso di coscienza inarrestabile, preponderante. La rabbia di Rui si esprime con l’uso vocaboli forti e incisivi, a volte offensivi, che contrastano con la giovane età del protagonista. Il ritmo è veloce, incalzante, la storia coinvolgente ha il potere di far immedesimare il lettore attraverso racconti di vita personale e familiare. Inoltre, la scrittura di Dulce Maria Cardoso è chiara, realistica, sono rintracciabili ripetizioni e ridondanze che marcano l’ossessione del ragazzo verso tutta la vicenda.

Nonostante quest’ultimo lavoro della Cardoso si instauri in un ciclo di romanzi che potremmo definire “umani”, incentrati sul carattere dei singoli personaggi, minuziosi nella loro descrizione visiva e caratteriale, ne Il ritorno l’autrice tratta con estrema fluidità anche un tema storico, di comprensione non immediata, come quello della decolonizzazione angolana, con risultati altrettanto brillanti.


(Dulce Maria Cardoso, Il ritorno, trad. di Daniele Petruccioli, Voland/Feltrinelli, 2013, pp. 218, euro 14)

Radio Kaos Italy: a tu per tu con Antonio Drastiko Ricci

Le parole di un profeta sono sempre attuali: così il «The times they are a-changin’» di Bob Dylan può essere tranquillamente utilizzato per l’attuale situazione radiofonica italiana. Sempre più ascoltatori e utenti – degnamente alfabetizzati – prediligono l’ascolto delle web radio in favore del “vecchio” FM. Ormai non bastano quattro canzonette messe in fila ad assuefare l’ascoltatore. Ci vuole ben altro: musica di qualità, intrattenimento e contenuti di livello alto. Con piccoli ma decisi passi, queste caratteristiche stanno segnando i tratti di alcune realtà on-line sempre più importanti e interessanti. Per capire meglio i meccanismi e le dinamiche di questo mondo, abbiamo incontrato Antonio Drastiko, creatore e conduttore di Radio Kaos Italy, la miglior web radio italiana secondo il MEI e i MArte Awards . Un tiro mancino della sorte fa sì che nel locale in cui stiamo parlando, accanto alla nuova sede della radio direttamente on the street – precisamente in via Eugenio Torelli Viollier 17 – in sottofondo ci sia Miley Cirus: non proprio la colonna sonora adatta. Ma soprassediamo.


Prima le presentazioni: all’anagrafe Antonio Ricci, qui Drastiko…

Il nome di battaglia è nato perché alla fine degli anni ’90 suonavo in un gruppo punk che si chiamava Sex Bacon ed ero un fan degli Exploited: il batterista si chiama DrumSticks e da lì mi sono ispirato per un soprannome che è rimasto poi negli anni!


Partiamo dal principio: come ti è venuto in mente di creare una web radio?

L’idea della radio, come tutte le cose belle, è nata per caso. Il mio ex-socio, Marco Vincis, con il quale lavoravo in un call center in un periodo di disperazione totale, mi ha detto: «Antò vogliamo fare la radio?» Risposta: «Si, subito!» E così abbiamo lasciato il lavoro e ci siamo dedicati tutta l’estate a questo progetto, fino al 7 settembre 2009, giorno in cui c’è stata la prima trasmissione: dalla camera mia a quella del mio coinquilino. Era il periodo in cui le web radio non erano alla portata di tutti, al contrario di adesso: era il periodo in cui dovevi comprare il canale, ecc. Abbiamo avuto la fortuna di capitare a cavallo tra la fine dell’FM e l’inizio della web radio. Poi da li c’è stato il boom!


Raccontacela allora questa esplosione…

Il nostro grande vantaggio è stato fare le dirette radio nei locali. All’inizio dovevamo essere solo random musicale, passavamo musica indipendente e c’era solo un programma: Facciamo Kaos. A casa mia, dalle dieci a mezzanotte. Dopo due o tre puntate sono arrivate puntali le lamentele dei vicini… e ne abbiamo approfittato allora per scendere in strada, in un locale sulla Tiburtina. Quando siamo arrivati, era pieno di gente: c’avevano sentito in diretta! Da li è iniziata l’avventura nei locali; quattro cinque eventi la settimana, dal Blackout al Circolo degli Artisti!


Eppure mi raccontavi che non avevi mai neppure pensato di fare radio in vita tua, vero?

Assolutamente. Merito è stato sia di Marco, che del mio background musicale. Essendo un batterista e vivendo di musica, mi sono detto: ecco la mia dimensione! Nonostante gli studi e l’essere diventato architetto, ho pensato: io voglio fare ciò che mi piace, voglio lavorare con la musica! Ed ecco come sono coincise le cose.


Da addetto ai lavori, un tuo parere sulla situazione delle web radio e sulla radio in generale.

La web radio è la frontiera. L’FM sta scomparendo: i grandi network ormai hanno tutti la web radio. È fruibile, ascoltabile da tutto il mondo senza antenne. Radio Deejay, Virgin Radio e compagnia bella nascono come network FM che poi si sono dovuti adattare al web: Radio Kaos Italy invece nasce già come web radio! Indirettamente, già stiamo un millimetro più avanti… Ma una grande differenza la fa anche il livello di contenuti. Il pubblico dell’FM è molto veloce e mainstream: giri finché non trovi la canzone che ti piace. Mentre chi ascolta il web è un ascoltatore di qualità: si sintonizza sapendo già cosa va a sentire, ascoltandolo e basta. Non è – nella maggioranza dei casi – un ascoltatore casuale; si connette e va direttamente ad ascoltare il programma che vuole. Anche a livello di contenuti c’è una differenza: i grandi network sono condizionati dagli sponsor e dai contatti discografici. Come libertà non c’è paragone.


C’è un deejay che hai come modello?

Guarda, detto sinceramente, prima di Radio Kaos Italy, non è che fossi un grande fan della radio. Essendo un ascoltatore indipendente che viene da un piccolo centro e avendo solo l’uscita mensile di Rock Sound, la radio era un mondo dove non c’era niente di interessante. Poi arrivare a Roma è stato il massimo: dischi e musica ovunque, rafforzando il gusto non mainstream!


E arrivato a questo punto, quali sono gli obiettivi?

Abbiamo quattro anni di vita: c’è tutto da imparare. Però, in una realtà in cui siamo anche noi a temperare la web radio e a farla come ci piace, è un contesto in continua evoluzione. L’obiettivo è avere nel palinsesto dei format qualitativamente e tecnicamente buoni. Per dirti, in FM non c’è modo di instaurare un rapporto con il regista, qui sì! E la differenza si sente. Il mio lavoro è cercare di alzare – con tanta passione – un prodotto sempre migliore!


E che ci dici di Radio Kaos ItaLis…

È senza dubbio l’avventura più incredibile e la cosa più bella che abbia fatto in vita mia. Interegire con ragazzi sordi in un contesto frequentato solamente da udenti. È stata una doppia sfida: far entrare i sordi in un collettivo di udenti e fare poi la battaglia per la Lis. Abbiamo raccolto migliaia di firme e siamo stati ovunque tra tv e giornali, grazie anche a Change.Org. Sensibilizzare la persone con una missione che sembra impossibile è una cosa meravigliosa. Tutt’oggi la gente dice: «Ma come fai a fare la radio per i sordi?» Ovviamente, non è a livello musicale. Però se io faccio una trasmissione di contenuti non solo musicali, quelli possono essere segnati ai sordi. Volendo fare una provocazione: i sordi possono fare tutto tranne una cosa sola, sentire…