“La letteratura nazista in America” di Roberto Bolaño

Prendete un libro come La letteratura nazista in America (Adelphi, 2013), di Roberto Bolaño. Provate a leggerlo sul treno, in metro, davanti ad altre persone, insomma. Gli sguardi sospetti dei vicini più prossimi, le loro sopracciglia incurvate in maniera anomala, il modo di fissare quasi con disappunto prima il titolo del libro e poi voi che lo state leggendo, già da soli valgono il prezzo di copertina. E non vi venga mai in mente di ricambiare le occhiate con sguardi di scuse, ma rimanete freddi, o al massimo, sfoggiate un sorriso sardonico. Perché solo così dimostrerete di aver compreso, almeno in parte, l’universo Bolaño.

La letteratura nazista in America si compone di trentadue biografie inventate di uomini e donne che hanno dedicato la propria vita alla scrittura, sia essa poesia o narrativa, accomunati dal dato geografico – hanno vissuto tutti nel grande continente americano – e da una particolare simpatia per il nazismo e l’odio razziale, a cui si aggiungono una galleria finale di individui minori, un elenco di case editrici e di riviste, una bibliografia delle più importanti opere citate.

Bolaño racconta di vite bieche, a tratti infime, per lo più brancaleonesche, come quella di Gustavo Borda, «propenso all’amore e all’amor proprio», che si dice «fosse il bersaglio prediletto di tutti i sadici di Hollywood»; come quelle dei due «favolosi fratelli Schiaffino»: l’uno, Italo, autore di manifesti e poemi per la tifoseria del Boca Juniors di cui è capo ultrà; l’altro, Argentino, detto «El Grasa» perché «di statura medio-bassa, grassottello», poeta e ultrà anch’egli, che propone «come risposta latinoamericana al calcio totale l’eliminazione fisica dei suoi migliori esponenti, vale a dire l’assassinio di Cruijff, Beckenbauer, ecc.». O ancora come quella di Carlos Ramírez Hoffman, detto «l’infame», a cui è dedicato l’ultimo capitolo e dalla cui costola nascerà il personaggio di Carlos Wieder, protagonista di Stella distante.

Storie curvilinee, perché capaci di girare su se stesse in maniera inaspettata, che l’autore cileno sviluppa attraverso una scrittura ondivaga, con alti e bassi perfettamente bilanciati nell’alternanza: Jim O’Bannon «conservò fino alla fine il disprezzo per gli ebrei e gli omosessuali; i negri cominciava pian piano ad accettarli quando lo raggiunse la morte»; «Luz Mendiluce fu una bambina bellissima e in salute, un’adolescente grassa e pensierosa e una donna alcolizzata e infelice. […] La famosa fotografia di Hitler con in braccio una bambina di pochi mesi l’accompagnò per tutta la vita».

La letteratura nazista in America è un libro per certi versi geniale, attraverso il quale Bolaño rielabora con la sua particolare verve provocatoria le lezioni di Borges e di Wilcock. Un libro che si autosostiene con rimandi e citazioni interne, con paradossi deliranti, ma spesso anche con riferimenti a persone e dati reali – la vita di Bolaño stesso è parodizzata in alcuni punti –, e che fa dello straniamento, per lo più comico, il fattore primario della sua natura ludica.


(Roberto Bolaño, La letteratura nazista in America, trad. di Maria Nicola, Adelphi, 2013, pp. 250, euro 19)

“Il suono della mia voce” di Ron Butlin

Del romanzo Il suono della mia voce di Ron Butlin (Socrates, 2004), ciò che attira fin da subito è la trama. Poeta e scrittore scozzese, l’autore pubblica il libro in questione nel 1987 e, almeno in Gran Bretagna, diventa un caso letterario.

Il protagonista di Il suono della mia voce è Morris Magellan, giovane e brillante dirigente di una nota azienda di biscotti in Scozia. Ha trentaquattro anni, una bella casa con giardino, una moglie e due figli che lo amano, insomma, una vita tranquilla. Un classico, ciò che la maggior parte delle persone sogna di realizzare.

Eppure, Morris non è felice, quella vita gli sta stretta, è come un cappio al collo che giorno dopo giorno lo soffoca, inesorabile. Non riesce a essere un buon padre di famiglia, e nemmeno a recitarne la parte. In questo vortice, i figli  vengono chiamati«le accuse», e sono una presenza scomoda, imbarazzante. L’unica cosa che lo risolleva, o che comunque lo distrae da quella vita soffocante, è l’alcol, «il solvente universale»: whisky, gin e cognac.

Il bere, il chiudersi da solo in ufficio o nel salotto di casa per scolarsi anche una bottiglia intera, non viene vissuto come un problema ma come una soluzione, l’unica soluzione possibile. La vera radice del problema sembra essere la morte del padre, evento mai accettato: per sentirsi normale, Morris ha bisogno di bere ed è convinto di poter gestire questo suo lato oscuro: «Il segreto dell’alcool sta nel sapere come usarlo – e non lasciare che sia lui a usare te. Un bicchiere ricarica il sistema, lo fa ingranare; ma due potrebbero essere troppi. Sapere quando bere e quando fermarsi – questo è il trucco».

Il protagonista parla di se stesso in seconda persona: dandosi del “tu”, spera di allontanare le sue colpe e le sue ombre, quel demone che non gli lascia scampo. Ma ciò non lo assolve. Solo nella pagina conclusiva finirà col parlare in prima persona, evitando di trascinare nel baratro chi gli sta intorno e lo sopporta da una vita, con rassegnazione e compassione. Consapevolezza che, immancabilmente, lo fa sentire ancora peggio: «Strade di fango, cieli di fango e – dentro di te – fango che saliva. Bevi per arginarlo, per evitare di soffocare. Bevi per guadagnare un’altra boccata d’aria – e così sei sopravvissuto a quel pomeriggio. Ultimamente è diventato difficile sopravvivere anche al mattino. A volte ti svegli che stai già soffocando nel fango. Ma non sempre, non ancora».

La prefazione è curata da Irvine Welsh, noto scrittore scozzese e già autore, tra gli altri, di romanzi come Trainspotting e Colla. È proprio lui a farci notare come Morris non sia la vittima dei party sfrenati a base di droga e alcol degli anni Ottanta, quanto piuttosto di un malessere e di un disagio interiore tipico della nostra epoca. Un senso di vuoto che attanaglia l’anima.

Il suono della mia voce non è uno di quei tanti libri che parlano di alcolismo in modo banale, quanto la lucida e implacabile critica di un periodo vuoto e conformista, troppo spesso votato all’effimero. Sorprende come sia stato sottovalutato, snobbato.


(Ron Butlin, Il suono della mia voce, trad. di Silvana Vitale,Edizioni Socrates, 2004, pp. 122, euro 10)

“Still Life” di Uberto Pasolini

Vincitore del Premio Orizzonti per la regia a Venezia arriva Still Life, di Uberto Pasolini, al suo secondo film dopo Machan e dopo una carriera di grandi successi come produttore (su tutti, Full Monty) con la casa di produzione Redwave.

John May è un uomo solo, metodico, organizzato. Vive per il suo lavoro al comune di Londra che lo pone in contatto quotidiano con la vita delle persone morte in solitudine. Il suo compito è quello di rintracciare i parenti più prossimi di chi è morto senza nessuno accanto. Per John non è un lavoro freddo, burocratico, fatto di telefonate e frasi di circostanza. Ci mette passione e affetto, indaga nelle vite dei defunti per trovare la canzone da far suonare al funerale o le parole adatte, cariche di ricordi e dettagli, per il discorso che il prete deve pronunciare durante la funzione. I suoi metodi iperscrupolosi sono un costo eccessivo per il comune che decide di fare a meno di lui. Prima di lasciar crollare il suo mondo, May si dedica con ancor più slancio all’ultimo caso da chiudere, quello di Billy Stoke, un alcolizzato trovato morto in casa che ha un passato e una figlia da qualche parte.

Con Still life in inglese si indica la rappresentazione pittorica di oggetti inanimati, privi di vita, quel tipo di raffigurazione artistica in Italia chiamato natura morta. La vita di John May è una natura morta, una vita ferma, immobile, che si dedica solo alla costruzione della memoria della vita degli altri, alla monumentalizzazione degli uomini qualunque di cui si trova ad essere custode dell’ultimo passaggio. Tutto è inquadrato e statico per May: le sua abitudini, i suoi pasti sempre uguali, lo stesso abito ogni giorno, lo stesso percorso per andare a lavoro, lo stare seduto sempre allo stesso posto, da solo, durante le funzioni funebri, il metodo rigoroso con cui organizza i suoi casi. Solo il lavoro cambia, nel conoscere, se così si può dire, i defunti di ogni tipo, imparandone la vita alla ricerca di un indizio di ciò che possa rendere unico il funerale di quelli che per lui non sono solo degli sconosciuti o delle semplici pratiche da sbrigare, ma qualcosa di più di esseri umani comuni, i suoi amici, gli unici, la sua famiglia. È nell’amicizia con il ricordo di Billy Stoke che May intraprende un percorso di cambiamento e crescita, conoscendo Kelly, la figlia, e capendo che fuori da quell’ufficio una vita nuova è possibile.

Uberto Pasolini scrive, dirige e produce una poesia sulla solitudine e la sua enorme generosità. È un’elegia sulla dignità della vita, qualunque vita, e sull’importanza della lentezza nella memoria, nel conservare i momenti per la storia.

Pasolini accompagna John May con la telecamera con statica ed elegante calma, come dipingendo ogni volta nature morte, rifacendosi esplicitamente ai momenti più contemplativi del cinema di Ozu e lasciando le immagini a parlare assieme ai personaggi, dando valore simbolico a oggi di vita quotidiana, da un sotto bicchiere in sughero a una mela sbucciata. È una regia potente, fatta di camere fisse e prospettive, di sequenze ripetute e semplice, assoluto, lirismo.

Eddie Marsan, caratterista noto per aver lavorato, tra gli altri, con Scorsese, Spielberg e Malick, indossa gli abiti di John May per il suo primo ruolo da protagonista facendo di un qualunque funzionario comunale un eroe capace di resistere all’effetto corrosivo del tempo, in grado di parlare con i morti e di dare loro la possibilità di lasciare un ultimo messaggio. Attorno a lui si muovono personaggi costruiti con pochi, sapienti, tocchi, tessere, frammenti del mosaico del ricordo che Pasolini costruisce intorno a John May, la somma conclusiva di quella commovente e gentile tenerezza che anima Still Life e che lo rende un film di pura e unica emozione.

(Still Life, di Uberto Pasolini, 2013, drammatico, 87’)

[RockNotes] Le uscite di dicembre

I Cani, Glamour
(42Universal)

Siamo passati da Il Sorprendente Album D’Esordio Dei Cani al “Normalissimo Secondo Album”. I Cani sono una delle poche band indie italiane ad aver avuto successo grazie ai social network: ciò ha smosso un corposo numero di fan e altrettante critiche. Ora, gli stessi fan che hanno promosso la loro fama, sembrano voler riscuotere: leggete su YouTube i commenti alle nuove canzoni e capirete. Glamour conferma la formula: synth-pop intrigante e testi ipermoderni cinici e indelebili. Prodotto da Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, meno ispirato e più celebrativo (guardate alcune citazioni nei titoli dei brani), il disco non entusiasmerà e creerà dibattito come il primo, ma sicuramente è già nella colonna sonora delle giornate di tanti giovani romani. E non solo.


Throwing Muses, PurgatoryParadise
(Cash MusicThe Friday Project)

Leggi Throwing Muses, vedi Kristin Hersh: ovvero eroina storica dell’indie-rock. Trentadue canzoni – alcune poco più che una bozza – dopo dieci anni di silenzio. Un periodo segnato da passaggi tra Purgatorio e Paradiso, come il titolo suggerisce, capace di generare però anche momenti molto validi, ancora segnati dalla voce e dal carisma della Hersh. Da segnalare il piccolo libretto all’interno di PurgatoryParadise in cui la cantante abbina un racconto a ogni brano. Dieci anni sono lunghi e spesso solo la musica non basta.


Yoko Ono Plastic Ono Band, Take Me to the Land of Hell
(Chimera Music)

Magari un giorno saremo liberi dai pregiudizi e dalle antipatie nei confronti di Yoko Ono e potremmo goderci liberamente la sua musica. La sua pregevole musica. Togliendoci dalla testa tutti i legami con i Beatles e il periodo con Lennon (sì lo so, è difficile ma provateci!), ciò che appare limpidamente è un’artista di valore puro. Come d’altrettanto valore è il disco Take Me to the Land of Hell, impreziosito da una lista lunghissima di guest-star all’interno della Plastic Ono Band: il figlio Sean, Mike D dei Beastie Boys, Lenny Kravitz, Antony and the Johnsons, solo per nominare i più famosi. Un disco contaminato e variegato, ma comunque coerente e compatto, tre elettronica, rock, jazz e sperimentazione. Insomma, il tipico lavoro alla Yoko Ono.


Los Campesinos!, No Blues
(WichitaTurnstileHeart Swells)

Dopo il depresso Hello Sadness, il sestetto indie di Cardiff – non fatevi ingannare dal nome spagnolo – torna con il più vivo No Blues. Primo disco senza la bassista storica, i Los Campesinos! cercano di svariare negli strumenti e nelle formule compositive, nella speranza di ritrovare quell’entusiasmo che si era un po’ perso: sia tra di loro, che tra fan e critica. No Blues non è la loro salvezza, ma sicuramente un passo avanti fatto di qualche ritornello in più da cantare a piena voce.


Neil Gaiman e Amanda Palmer, An Evening with Neil Gaiman & Amanda Palmer 
(Cooking Viny/Edel)

Da segnalare visti i nomi in questione, che messi insieme suscitano non poca curiosità. Lui, oltre a essere uno scrittore di successo, è il papà di Sandman: per non offendere gli appassionati di graphic novel non lo presenteremo ulteriormente. Lei, è un autrice pop istrionica, originale e blasonata dalla critica più chic, passata di recente alla cronache per essere riuscita – oltre i più floridi propositi – a farsi finanziare l’ultimo disco da solita dai suoi fedelissimi fan tramite il crowdfunding. Questo box-set fatto di tre dischi racconta gli esisti di alcuni live in cui si intrecciano le poesie e i racconti di Gaiman, le performance della Palmer e alcuni clamorosi duetti tra i due. Bizzarro quanto interessante, classico esempio di disco che non ti aspetti da una coppia che non ti immagini. Con risultati gradevoli.


Il Muro del Canto, Ancora Ridi
(Goodfellas)

E a proposito di band romane giunte al secondo disco, c’è chi, come Il Muro del Canto, alza il livello. Dopo quel grande disco che era L’Ammazzasette avevamo iniziato a gustare questa formula fatta di folk e rock e i meravigliosi testi provenienti dalla tradizione romanesca, fatta di anticlericalismo, violenza e ammazzamenti d’amore. Con Ancora Ridi la formula non cambia e un respiro più ampio circonda le canzoni, sempre feroci, furiose e incalzanti, scandite dalla voce di Daniele Coccia. Il talento e la bellezza sono clamorosi, in grado di varcare i confini capitolini. 

“Terra ignota. Il risveglio” di Vanni Santoni HG

L’avventura di Ailis tra magie, mostri, aguzzini e incanti è il fulcro di Terra ignota. Il risveglio (Mondadori, 2013), l’ultima fatica di Vanni Santoni, che per inoltrarsi nel mondo fantasy si fregia della sigla finale HG, in omaggio a Guido Morselli.

Il libro sa come dimostrarsi avvincente, aprendosi su descrizioni che ricordano, a modo loro, I pilastri della terra e il Mondo senza fine di Ken Follett. Gli intrighi, la magia e le caratteristiche straordinarie dei protagonisti, in altre parole la base del fantastico, ci sono tutte. Quello che manca, purtroppo, è lo spessore dei personaggi, che rischiano di avere solo un paio di caratteristiche salienti, a volte spinte troppo all’estremo. Ailis, l’eroina del romanzo, è mossa dal desiderio di salvare un’amica, ma il suo percorso di formazione verso l’età adulta è poco strutturato e la fa apparire ai nostri occhi più come una bambina viziata che come un’eroina in fieri. Brigid, altro personaggio saliente del libro, sembra un’efficiente macchina della morte, così efficiente, però, da risultare un personaggio ripetitivo e piatto, dalla personalità poco definita.

La trama segue uno sviluppo molto classico, che si concentra, come anticipato, sul percorso di formazione della principale protagonista, Ailis. Il Villaggio Alto, in cui Ailis abita, viene distrutto da Åydrik Reinhare e i suoi uomini, che rapiscono la sua migliore amica, Vevisa, e uccidono tutti i suoi amici e conoscenti. Da qui, mossa da un forte quanto prevedibile desiderio di vendetta, la ragazzina appena dodicenne intraprende un cammino tra mari e terre ignote, conosce la schiavitù e il desiderio di libertà ma, soprattutto, conosce Brigid, una coetanea votata alla violenza. Insieme agli altri personaggi che richiamano gli “aiutanti” dei protagonisti dei più classici intrecci letterari, Ailis riuscirà a crescere fisicamente e, per così dire, mentalmente. L’elemento magico è essenziale per la trama: nei propri sogni, Ailis riesce a scoprire di più sul destino dell’amica Vevisa e si attiva per salvarla attraversando mondi nuovi costellati dai pericoli tipici della letteratura fantasy.

Il finale di questo primo capitolo di Terra ignota produce una certa aspettativa nei confronti dei prossimi tomi, che si spera non sarà delusa. Giudicare questo libro, tuttavia, è complesso. La trama è avvincente, tanto che a tratti è difficile interrompere la lettura. Altrettanto spesso, però, i personaggi sono così poco approfonditi da risultare anonimi, alle volte irritanti. Il linguaggio è un ibrido, con parti apparentemente scritte per un pubblico adulto e altre che sembrano invece rivolte a una cerchia di lettori ben più giovani. Se le primissime pagine non stimolano quasi per nulla la curiosità di andare avanti, quasi avessimo davanti agli occhi qualcosa di già letto, procedendo iniziamo a sentirci in dovere proseguire, ma non è del tutto chiaro se per interesse o inerzia. Poiché si tratta del primo libro di una trilogia, ed essendoci le condizioni per apportare delle migliorie, è probabile che il prossimo capitolo renda più giustizia a un’idea di fondo funzionale, ma non resa alla perfezione.

(Vanni Santoni HG, Terra ignota. Il risveglio, Mondadori, 2013, pp. 415, euro 17)

“Un giorno scriverò di questo posto” di Binyavanga Wainaina

Il diario romanzato Un giorno scriverò di questo posto (66thand2nd, 2013) è fin da subito un’esplosione di colori e suoni, in cui il protagonista scrittore, Binyavanga Wainaina, ci conduce nel suo tempo passato con lucidità e distaccata passione. Si comincia sempre da un nome, come quelli dei suoi fratelli, della famiglia, degli amici, e da come proprio il nome di una persona, in quella parte di mondo, sia emblematico, come raccontano i vecchi del posto; prima c’era quello che usavano i coetanei, uno in quanto figlio di una madre, e un altro dopo esser diventato uomo. Quindi la crescita, la diversità, le prospettive che variano con il passare del tempo, le mutazioni e il ricordo che queste lasciano di sé.

Neppure la lingua è una sola, in Kenya nel 1978, quando il piccolo Binyavanga sta trascorrendo gli anni felici e curiosi dell’infanzia. La mamma parla kinyarwanda, luganda, swahili e inglese; Baba invece kikuyu, swahili e inglese, mentre i bambini, pur comprendendo gli altri idiomi locali, si concentrano esclusivamente sull’inglese, ufficialmente adottata dallo stato kenyano.

Intorno Nairobi, vibrante e ricca, un’isola felice nel bel mezzo del continente nero, circondata infatti da malumori e tragedie umanitarie che insistono nei paesi circostanti. L’Africa sembra non voler trovare armonia, e sono proprio quelli gli anni in cui si inaspriscono i contrasti razziali, economici e sociali, che avrebbero seminato odio e guerre per decenni e decenni a venire, sino ai giorni nostri.

Eppure, il presidente Moi, succeduto a Kenyatta, vero padre e fondatore della patria, non fa altro che ripetere che il Kenya è un’isola di pace, e che tutto quello che accade a pochi metri dal confine non destabilizzerà la quiete interna. La minaccia principale si chiama shifta, i banditi somali, e poi tanto altro, intorno a circondarli. Ritorna così lo scontro fra tribù, spesso mosse e fomentate da interessi internazionali ben più grandi. E quindi, inevitabilmente, anche in quella che era l’isola di pace keniana, qualcosa sta cominciando a perdersi, è in atto una dolorosa dipartita che il giovane Binyavanga è costretto a vivere sulla sua pelle.

Da subito, il ragazzo trova rifugio nei libri, nella lettura, in fuga dalla realtà sempre più asfissiante e tragica. Nasce in lui una forte presa di coscienza politica, attraverso le sue esperienze di vita quotidiana, e uno spiccato senso di analisi sociale e storica. Wainaina conosce la rinuncia, e delle costrizioni farà la propria forza, così come avviene quando le disparità sociali legate a diverse appartenenze etniche lo costringono a emigrare verso quello che era considerato, insieme alla madre patria, lo stato più occidentale dell’intero continente: il Sudafrica. Lì comincia gli studi di economia, mentre un senso di inadeguatezza si fa largo nella sua vita, appesantito da nomi, confini e tribù che lo obbligano a mostrarsi agli altri sempre e comunque attraverso etichette prestabilite.

Attraverso una narrazione limpida, lo scrittore redige un diario di quasi trent’anni di vita, con saggezza e intelligenza, ricordando, narrando e analizzando tutto ciò che i suoi occhi hanno potuto vedere e la sua mente ricordare.

«Ho letto romanzi e osservato le persone. Ho scritto quello che vedevo nella testa, ho dato forma alla realtà mettendola in un libro». La salvezza, il futuro è nelle parole, questa è l’unica cosa che sembra voler gridare Wainaina.

 

(Binyavanga Wainaina, Un giorno scriverò di questo posto, trad. Giovanni Garbellini, 66thand2nd, 2013, pp. 296, euro 18)

Racconto per quello che fa i gessi

La sveglia. Di nuovo. Malinconica, suona l’arpa delle batterie scariche. Così è l’alba, bellissima, che s’infiltra nel pulviscolo della mia altissima camera. Allungo un braccio sulla sua parte di letto. Vuota, fredda. Ah!, penso, lei m’ha lasciato!
Sì, m’ha lasciato perché non ci sono riuscito a spiegarle che anche quando guardo i ciliegi sto lavorando, non ci sono riuscito a spiegarle che anche quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando. Vuoi capire cara per quale motivo non posso regalarti dei fiori? Sarebbe come ucciderli, spezzando la loro spina dorsale, vuoi capire? Parole al vento comunque.
Aumento il ritmo.
Mi alzo, mi piego, cerco di aprire gli occhi ma succede che non si aprono. Succede che la porta è aperta e ci fracasso il mignolo del piede sopra, per sbaglio, che male. Ora gli occhi si aprono, pure troppo, dal dolore. Il mignolo è sghembo, color di fiamma viva. Lo sistemo con un crac.
Oggi è una giornata speciale, una giornata memorabile, di sangue e ossa sfracassate. È una giornata di combattimenti e io sono in piena forma.
Di lato, sulla lavatrice, vomito il gin che Nonna Isa mi ha offerto ieri notte.
Il cellulare squilla perché devo essere all’ospedale entro le sette, e sono già le sette, così lei mi chiama per dirmi: «Cazzo è tardi, cazzo è tardi, cazzo è tardi!» Oggi non la posso sopportare, oggi è una giornata speciale, una giornata memorabile, di sangue e ossa sfracassate.
Lancio il cellulare dalla finestra che si divide in mille piccoli pezzi di cellulare. Ora non squilla più. Una donna grida: «Pezzemerda faccemaccu». Mi affaccio e segno due parentesi con le mani, come a dire ti faccio un culo così.
Silenzio.
Il mignolo pulsa. Mindafuttu.
Mi vesto. Esco di casa e lascio la porta aperta, che entrino pure. Mi immergo nella via delle puttane, delle vecchie, degli storpi. Sotto i portici, il sole raggia forestiero. Fumo tre sigarette. Un ciccione mi chiede d’accendere e io lo guardo come per dire che non gli voglio dare da accendere. E lui mi guarda come uno che vuole comunque da accendere. E io lo guardo come uno che è pronto a combattere. Mi straccio la camicia sul petto. Faccio partire uno-due colpi buoni nello stomaco morbido. Lui sputa pezzi di piorrea. È finito. «Hai finito ciccione, sparisci!» Ma le mie dita hanno fatto crac e sono tutte distanti dalla loro posizione naturale. Le lascio così. Mindafuttu.
Supero i portici, vado verso il mare. Suonano i clacson. Mostro il dito medio che ora è fuori asse. Tutti capiscono che voglio combattere.
La porsche Carrera fatta con i soldi della droga mi viene contro. Mi spezza la schiena, mi sembra. Ma riesco a rialzarmi senza musciare. La porsche Carrera fatta con i soldi della droga è ferma, mille forse duemila euro di danni. Il mio braccio disegna un angolo retto. Pulsa, ma c’è qualcosa che preme di più. È quello dei soldi della droga che esce dalla porsche Carrera fatta con i soldi della droga, e mi guarda come per dire adesso paghi tutto. Come no… Col braccio che mi è rimasto buono, sollevo la sua testa laccata e prendo a sbatterlo ripetutamente sulla porsche Carrera fatta con i soldi della droga. Alle narici, odore di sangue fresco, è un buon segno.
Zoppico. Lungomare di sole forestiero. Una fanciulla francese scivola e va in arresto cardiaco. Troppo delicata la vita, che nemmeno ti aspetta. Ma io, come da bambino che volevo guarire i ciliegi quando rossi di frutti li credevo feriti, ma io, mi precipito e inizio un potente massaggio sullo sterno. Duecento colpi più una pompata d’aria nel suo delizioso petto. La fanciulla francese si risveglia contro il volere di Dio e mi dice: «Mon amour!»
Sono tutto rotto, gobbo, sbilenco, sono il suo amour.
Tutti guardano e applaudono: «Minca bravo quello lì! Dari salvara!»
Aumento il ritmo.
Prendo la fanciulla francese per la mano. Lei mi guarda e certamente mi ama, si legge negli occhi. Andiamo in un ristorante a Marina e non mi vogliono far entrare. Io sfoggio la frattura esposta, un pezzo di ulna che scatta fuori appuntito: «Oggi voglio la bistecca!». È come un lasciapassare. Il cameriere vede il mio braccio e mi offre il tavolo migliore del ristorante. Capisce che non scherzo.
Ma sono i suoi occhi e i suoi capelli a fare ombra sulle mie disgrazie. «E anche io ti amo». Ci baciamo. Sento che si tratta davvero di una giornata speciale, una giornata memorabile.
Mangiamo insalata e bistecca. Ottimo taglio, cottura perfetta. Beviamo otto bottiglie di Cannonau, una lei, sette io. Ottimo sapore maturo. Lascio cinquecento euro di mancia.
Andiamo a casa mia. Per strada chiedo alla fanciulla di sposarmi, lei non capisce l’italiano e mi risponde: «Oui!» La casa è aperta, soleggiata come se ci fosse il sole dentro. Ci sono due ladri dentro. Ho ancora la forza per dare testate, uno lo stendo subito. L’altro non faccio in tempo che si butta dalla finestra suicidandosi. Paura.
Ho ancora la forza per una scopata, la più bella della mia vita. Je t’aime.
Dormo forse dieci minuti, fumo tre sigarette. Lascio la mia fanciulla francese riposare tra le lenzuola calde. È nuda e la sua pelle è come quella di una pesca vellutata. Riflette l’ultimo sole del giorno.
Esco di casa e vado all’ospedale per vedere cosa pensano davvero di me quegli sfigati dei miei colleghi. Per vedere se hanno un briciolo della mia voglia di vivere. Corro e mentre corro urlo dal dolore. Entro in sala e tutti mi guardano. Uno vomita addirittura. «Ch’è successo? Che ti hanno fatto?», mi chiedono. «Ma niente tranquilli!» dico io sorridendo. E il sorriso sono denti in un mare di sangue.
Ora chiedo di stare solo, nella sala gessi, per un ultimo lavoretto. Nessuno è contrario, ci credo… Respiro profondamente, tremo. Ho quasi paura di me, di quello che posso fare. Rimango solo. Oltre la finestra vedo il sole al crepuscolo, che se ne va via di nuovo, forestiero. Che giornata speciale, che giornata memorabile, di sangue e ossa sfracassate. Prendo la garza e inizio a srotolarla sul volto, faccio qualche giro alla base del collo. Sento le lacrime scendere. Mi assicuro che non passi un filo d’aria. Così a occhi chiusi inizio ad avvolgere il gesso bagnato per tutta la testa.
Quanto mi rimane? Dieci minuti? Dieci secondi? Quanto mi rimane? Soffoco.
La sveglia. Di nuovo. Malinconica, suona l’arpa delle batterie scariche. Così è l’alba, bellissima, che s’infiltra nel pulviscolo della mia altissima camera.
Allungo un braccio sulla sua parte di letto. Piena, calda.
«Che succede?» mi chiede.
«Niente».
«È tardi?»
«Sì è tardi».
Devo alzarmi, andare all’ospedale, perché sono le sette ed è già tardi.
Poi penso che da bambino volevo solo fare il carrozziere.

“Le attenuanti sentimentali” di Antonio Pascale

Raccontare di sé è sempre un gioco rischioso, un procedere in bilico fra sincerità, omissioni e menzogna. Il pericolo di questo narcisistico rimirarsi è essere accusato di essere uno scrittore “ombelicale”. Per Antonio Pascale, ritornato alla carica dopo sei anni di silenzio letterario con Le attenuanti sentimentali (Einaudi, 2013), lo scivolone è dietro l’angolo.

Il protagonista di questo singolare romanzo – che però non è un romanzo, privo com’è di una trama con tutti i crismi del caso –, di questa riflessione filosofica – ma di una filosofia spicciola, del quotidiano, del contemporaneo –, di questo saggio sociologico – che però non ha la forma stilistica dell’essai –, è lui: Antonio Pascale, il suo ombelico appunto.

Roland Barthes si ergerebbe ancora a paladino della “morte dell’autore” sbandierata di contro alla “morte del romanzo” e del personaggio-uomo sostenute da Giacomo Debenedetti di fronte a tale tentativo di autofiction?

Perché proprio nell’autofiction, categoria letteraria sviluppata negli anni Settanta da Serge Doubrovsky, nella quale si sono cimentati autori del calibro di Bret Easton Ellis, Michel Houellebecq, Philippe Forest, Antonio Moresco, Giuseppe Genna, Walter Siti, potrebbe rientrare l’ultimo romanzo di Pascale presentandone tutti gli ingredienti: il mescolare deliberatamente, lo sfumare il confine tra autobiografia e invenzione, instillando nel lettore il sospetto che gli elementi veri siano inventati e viceversa.

L’Antonio Pascale del romanzo è un quarantasettenne, casertano trapiantato a Roma, impiegato al Ministero per le Politiche agricole e scrittore in piena sindrome da pagina bianca, con moglie e due figli adolescenti, nevrotico e insonne.

Trova come rimedio per l’insonnia la bicicletta. Questo moderno flâneur a pedali si aggira così per le vie notturne della capitale riflettendo sulla vita e sul surriscaldamento globale.

È durante una delle sue scorribande notturne che gli viene la brillante idea, per eludere il blocco creativo, di girare un documentario sui sentimenti, su come il rapporto fra uomo e donna sia cambiato invertendo i ruoli. C’è chimica fra noi, questo il titolo del reportage socio-antropologico. Nel progetto decide di coinvolgere un’amica produttrice, Paola, una trentenne single alla costante ricerca della propria metà prima che il decadimento fisico sfiorisca la sua avvenenza, l’amico pittore Luigi e l’impenitente donnaiolo fedifrago Giacomo, regista mancato.

Ecco che allora sfilano una serie di comparse che rappresentano altrettanti tipi sociali: il tipico maschio meridionale, il provinciale, la comare, la nevrotica, l’adolescente strafottente, ecc.

Fra riflessioni semiserie sul caos dominante si fa largo così la denuncia di una virilità problematica, che viene esposta con arrendevolezza, usando se stessi o personaggi molto simili per raccontare con maggiore o minore indulgenza le meschinità del maschio italiano del nostro tempo tra diario e commedia dolceamara. Accusa che, a ben vedere, non ammette attenuanti.


(Antonio Pascale, Le attenuanti sentimentali, Einaudi, 2013, pp. 240, euro 19,50)

“I pilastri della società” di Henrik Ibsen per la regia Gabriele Lavia

All’indomani della prima nazionale sul palcoscenico de La Pergola di Firenze, I pilastri della società di Henrik Ibsen per la regia di Gabriele Lavia va in scena al Teatro Argentina di Roma. Redatto nel 1877 e molto rappresentato in Europa alla fine del secolo scorso, questo testo di sconvolgente attualità viene messo nuovamente in scena dopo un lungo periodo di misconoscimento – almeno da parte delle produzioni italiane – che data a più di cinquant’anni la sua ultima rappresentazione nazionale.

Il connubio tra ricchezza e potere è quanto viene in mente non appena la vetrata-sipario si solleva permettendo allo spettatore di dare un’occhiata all’interno della casa del console Bernick, pilastro di una società meschina, tentacolare, piena di occhi, ipocrita e corrotta di cui l’ingresso degli attori dalla sala ci rende membri onorari per effetto dello sfondamento della quarta parete. Ricchezza del personaggio, ma anche sontuosità della messa in scena che stupisce per l’imponente impianto scenografico di Alessandro Camera e i bellissimi costumi di Andrea Viotti.

Quindici anni di menzogne sono la base del potere economico e dell’influenza del console Bernick, vessillo di moralità, incarnazione del rigore. Menzogne che il caso o il destino vengono a rivelare proprio quando l’uomo simbolo si gioca il tutto per tutto nell’impresa di costruire la ferrovia che promette nuova linfa e ricchezza per la città. E alla fine ciò che dovrebbe trasparire dalle vicende narrate è «lo spirito della verità e della libertà», vero pilastro della società.

Eppure questo non accade. La riscrittura del finale genera un’inversione della morale ibseniana e il pubblico, trasformato nella folla festante riunita all’esterno di casa Benirck, di fronte al J’accuse del protagonista, un po’ iconografia del predellino un po’ discesa nell’arena della quotidiana umanità, è costretto ad ammettere che il vecchio detto per cui la classe dirigente è lo specchio della società è sempre attuale e veritiero.

Dina, Martha e Lona anticipano Nora e le istanze care a Ibsen dell’emancipazione femminile contro i lacci del buoncostume e i laccioli dell’amore, ma restano comunque sullo sfondo rispetto all’uomo-imprenditore, calvinista nel suo approccio al capitale, prefigurazione di Borkman, che, tra le altre riflessioni, ne induce una particolarmente scottante: vale la vita di un uomo più di quella della società in cui vive? Che grado di compromesso si può accettare per perseguire la visione del bene comune?

Testo magniloquente, di stampo classico, soffre della recitazione volutamente retorica del primo atto che, pur funzionale a mostrare l’effetto annichilente di una società moralmente oppressiva, allontana lo spettatore dalla scena al punto che, quando nel secondo atto il dramma invade il campo in maniera più scoperta e la recitazione si fa più autentica, sembra quasi di sentire la platea riscuotersi percorsa da un brivido elettrico.
 

I pilastri della società
di Henrik Ibsen
regia di Gabriele Lavia
traduzione di Franco Perrelli

con Gabriele Lavia
e con Massimiliano Aceti, Alessandro Baldinotti, Rosy Bonfiglio, Michele Demaria, Federica Di Martino, Camilla Semino Favro, Giulia Gallone, Viola Graziosi, Ludovica Apollonj Ghetti, Giovanna Guida, Andrea Macaluso, Mauro Mandolini, Graziano Piazza, Mario Pietramala, Clelia Piscitello, Giorgia Salari, Carlo Sciaccaluga


Prossime date:
Roma – Teatro Argentina dal 12 novembre al 20 dicembre;
Cesena – Teatro Bonci dal 13 al 16 febbraio 2014;
Torino – Teatro Carignano dal 18 febbraio al 2 marzo;
Genova – Teatro della corte dal 4 al 9 marzo;
Modena – Teatro Storchi dal 13 al 16 marzo;
Padova – Teatro Verdi dal 18 al 23 marzo;
Milano – Piccolo Teatro Strehler dal 25 marzo al 6 aprile.

“Mimose a dicembre” di Maria Rosaria Valentini

Romantico e malinconico, il romanzo di Maria Rosaria Valentini, Mimose a dicembre (Keller, 2013), di suggestivo ha i sapori delle stagioni e della cucina, i colori grigi dei paesaggi romeni e le sporche polveri di Roma, le splendide giornate di primavera e l’odore del pane appena sfornato. Le parole si rivestono di foglie autunnali sparse dal vento e gli eventi si susseguono sotto il costante crepitio di una buccia di mela morsa nell’ingenuità dei vent’anni.

Adriana è una giovane rumena giunta in Italia su consiglio della sua amica Maria che, dopo aver lavorato come badante per un’anziana signora sorda di Roma, torna in Romania per vivere, finalmente, il suo paese con dignitosa tranquillità. Quando la giovane Adriana parte per la capitale, grazie al denaro dell’amica Maria, è in evidente stato di inquietudine. Timorosa e dubbiosa nei confronti del suo futuro incerto, si lascia alle spalle la consuetudine avvilente del paese d’origine e raggiunge la stazione Termini con in tasca pochi euro e in bocca qualche vocabolo italiano.

Una prima esperienza di lavoro a casa dell’anziana Ippolita, l’amore per Antonello, il panettiere di fiducia, la cioccolata calda, le lenzuola di lino, i vetri appena lucidati e il meccanico ripetersi delle pulizie domestiche. L’amore, la passione, il campanello che non suona più e le lacrime che bagnano il cuscino. La prigione dorata di uno specchio domestico diventa porta aperta sul domani. Adriana fugge dalle certezze e dall’accoglienza sincera di Ippolita e percorre le strade di Roma sottovoce, a occhi chiusi, per paura di cedere di nuovo ai dardi di Cupido e alle trame del destino.

L’amore per Antonello, che credeva essere punto d’arrivo, diventa quindi punto di partenza, come un tuono scuote i cieli aperti di Roma e cade fragoroso a spezzare i sogni e il cuore di una giovane ventenne. Adriana, che dalla vita non si aspettava niente e che dalla vita non aveva mai avuto niente, sapeva che sarebbe riuscita a cavarsela anche senza quel lavoro e decide così di abbandonare la città.

In un piccolo borgo vicino Roma, a contatto con la natura incontaminata che le ricorda la Romania, la sua vita è pronta a ricominciare inghiottita dalle logiche assurde della casualità e dalle inspiegabili e infinite declinazioni dell’animo umano

Non più costretta fra le mura domestiche Adriana torna a respirare e a vivere da protagonista, in un romanzo dolce, che si fa gustare pagina dopo pagina in tutti i suoi sapori, guardare in tutti i suoi colori e immaginare con tutti i suoi profumi: «Di parole ci si può nutrire e saziare, salvare. E anche innamorare. Il vecchio Cornelio lo insegnava ogni giorno. Quelle parole ingoiate andarono subito alle viscere ed erano simili, nel colore, ad uno sciroppo d’ambra».

Un romanzo che pullula di descrizioni sottili, indiscrete, precise e stabili, capaci di farci entrare negli spazi esclusi di una precarietà che non si alimenta e non si sana col denaro e con il cibo, ma si spazza via solo grazie al sentimento, all’amore e alle passioni che dovrebbero rendere ogni vita degna di essere vissuta.

(Maria Rosaria Valentini, Mimose a dicembre, Keller, 2013, pp. 176, euro 14,50)

“I delitti del BarLume”, dai libri di Malvaldi al piccolo schermo

Il burbero barista del BarLume di Pineta – paesino fittizio situato in Toscana creato per l’occasione –, quattro arzilli vecchietti curiosi e testardi e due delitti da risolvere. Tra giallo e commedia Marco Malvaldi presta alla televisione i suoi libri per la nuova produzione di Sky. I due episodi (due film di circa un’ora e un quarto) andati in onda l’11 e il 17 novembre non seguono la “tradizione” portata avanti dall’emittente satellitare con Romanzo criminale, Il mostro di Firenze o Faccia d’Angelo, ma I delitti del BarLume non sfigurano solo per un taglio ovviamente diverso rispetto agli altri progetti.

Scelte azzeccate a cominciare dalla presenza di Filippo Timi nei panni di Massimo, il bisbetico gestore del bar, con problemi di salute («niente cappuccini dopo le 15») e obbligato a tenere a bada i suoi clienti più affezionati, quattro invadenti anziani armati di solo di tanta simpatia e di altrettanto tempo libero. Proprio le azioni di Aldo, Pilade, Gino e Ampelio sono alla base di tutte le indagini e tutti i guai che ne seguono soprattutto per Massimo, costretto a incrociare la sua strada con quella del commissario Fusco (Lucia Mascino, protagonista di Una mamma imperfetta, serie partita dal web e giunta fino alla Rai) per niente eccitata dalla presenza di questi nuovi “collaboratori” durante le indagini.

Ma in paese le notizie corrono, e in un modo o nell’altro i nostri sconclusionati e improvvisati investigatori troveranno comunque il modo di ficcare il naso in faccende che non li riguardano tirando in mezzo non solo Massimo. Sullo sfondo di questo circolo investigativo l’avvenente Tiziana, barista del BarLume, gioca il ruolo di coscienza del povero Massimo, stressato dalle turbolenze create dai suoi vecchietti di fiducia, continuamente rincorsi come dei bambini per non permettergli di ficcarsi in altri guai (intento quasi mai riuscito). Proprio lei, fidanzatissima, sarà la causa dei più grandi dilemmi etici di Massimo che ne è segretamente innamorato ma impossibilitato a uscire allo scoperto. Da qui nascono fantasie e rapidi intermezzi erotici un po’ fuori dal filo della narrazione che non hanno mancato di fare storcere il naso a qualche affezionato dei libri di Malvaldi.

Lo stesso scrittore comunque ha avallato le scelte della produzione avendo partecipato in prima persona al progetto come sceneggiatore, quindi nessun pericolo di snaturare le sue opere con una trasposizione televisiva. Adesso resta da vedere se Sky e La7, che ha preso i diritti per la trasmissione in chiaro dei due film, saranno stati così soddisfatti del loro lavoro da procedere con la realizzazione di altri episodi (della serie dei delitti del BarLume fanno parte altri due libri non ancora utilizzati da Sky). Purtorppo però il paesino di Pineta e i nostri protagonisti dovranno fare a meno di Ampelio (zio di Massimo), interpretato dal compianto Carlo Monni scomparso dopo la fine delle riprese.

Scontato il consiglio della visione, non solo per l’effettiva qualità del prodotto ma anche e soprattutto perché in televisione il made in Italy sembra diventare sempre più merce rara, a maggior ragione se si parla di buon made in Italy. 
 

La collana Sotterranei di minimum fax

Il catalogo di minimum fax si divide in numerose collane. Tra esperienze concluse, esperimenti riusciti e punti fermi, attualmente si contano quattordici collane (esclusa Sur che è una casa editrice a sé). 

Due sono dedicate a singoli autori: Minimum Classics Fitzgerald e I libri di Carver, scrittore di riferimento per la casa editrice che è riuscita negli anni Novanta a rilanciarlo e ritradurlo, pubblicandone anche testi inediti, fino a restituire Carver ai suoi lettori, come scrittore riscoperto e di culto.

Nichel è la collana rivolta agli scrittori italiani: NI come narrativa italiana oppure nichel come il metallo ricercato da cocciuti minatori, secondo quanto narrato da Garzanti; in ogni caso l’origine e il significato del nome resta tuttora misterioso.

Tra le collane principali spicca anche Indi, diretta da Christian Raimo: «saggistica strabica, perché dotata di uno sguardo doppio, uno sguardo che riesce da una parte a inquadrare le figure importanti del passato recente e dall’altra i narratori di talento, gli intellettuali di oggi».

La tradizionale scelta di DietroLeQuarte di esplorare una collana della casa editrice del mese, con minimum fax vira quasi obbligatoriamente verso Sotterranei, poiché è proprio attraverso questa collana che il progetto editoriale ha definito negli anni il proprio profilo.  

Nel 1995 dopo Filigrana, saggi critici sulle pratiche della scrittura e Macchine da scrivere, nasce Sotterranei inaugurata dal primo libro di Lawrence Ferlinghetti: Non come Dante.

La collana non solo è la carta d’identità di minimum fax, ma è anche la testimonianza di un progetto editoriale che unisce la ricerca al lavoro minuzioso e artigianale. Nata nel vasto territorio della letteratura americana, Sotterranei è lo spazio dove si conservano le opere di David Foster Wallace, Jonathan Lethem, A.M. Homes, Rick Moody, Dave Eggers, grazie al lungo lavoro della direttrice editoriale Martina Testa.

Martina Testa è inoltre la curatrice, insieme all’editore Marco Cassini, di Burned Children of America, una raccolta che nel 2001 è diventato un vero e proprio caso editoriale. I due curatori non hanno tradotto un’antologia, ma hanno selezionato diciotto inediti, pescando tra le voci under 40 più rappresentative di una generazione caratterizzata dalla programmatica eterogeneità: sagli autori già citati, aggiungiamo Aimee Bender e naturalmente George Saunders.   

Un lavoro di ricerca durato più di un anno, i cui diritti sono stati acquistati in molti paesi (Inghilterra, Olanda, Germania, Polonia, Croazia) e che ha definitivamente tracciato la direzione di minimum fax tra i sentieri della narrativa americana contemporanea, con delle brevi, ma importanti aperture alla narrativa europea (inglese, russa, francese, scozzese, irlandese). Un esempio in questo senso è la fortunata antologia New British Blend: i migliori talenti inglesi selezionati dagli editor di Granta.

 

Questi i titoli che vi consigliamo tra i Sotterranei:

–       Dieci dicembre di George Saunders: già annunciato come caso letterario dell’anno, la raccolta di dieci storie che raccontano con commozione e ironia i tic del nostro tempo; 

–       Un antidoto contro la solitudine, raccolta di interviste e conversazioni con David Foster Wallace;

–       È il tuo giorno, Billy Lynn! di Ben Fountain: accolto con grande entusiasmo dalla critica, una riflessione sulla Storia degli ultimi anni.