[RomaFF8] “The Hunger Games – La ragazza di fuoco” di Francis Lawrence

La settima giornata del Festival Internazionale del Film di Roma si è concentrata sulla presentazione Fuori concorso dell’attesissimo La ragazza di fuoco, secondo capitolo della saga fantasy The Hunger Games, capace con il primo titolo di mettere d’accordo il pubblico adolescente e gli spettatori più esigenti.

Ricapitolando: il mondo non esiste più come lo conosciamo, esiste solo la nazione di Panem con la sua capitale, Capitol City, e dodici distretti periferici intorno ad essa. Per ricordare il fallito tentativo di insurrezione contro il potere della capitale, ogni anno vengono selezionati come Tributi due giovani da ogni distretto per partecipare agli Hunger Games, gioco al massacro in un’arena ripresa costantemente dalle telecamere da cui deve uscire un solo vincitore. La settantaquattresima edizione aveva visto Katniss Everdeen, del dodicesimo distretto, sconvolgere le regole del gioco con il suo partner Peeta Mellark, costringendo gli organizzatori a lasciar sopravvivere i due ragazzi dichiarando quindi per la prima volta un doppio vincitore.

Katniss e Peeta sono diventati delle celebrità ovunque. Con la loro vittoria sono entrati tra i simboli di Capitol City, ma ancora di più Katniss è diventata una speranza per la ribellione. La sua fama fomenta infatti la rivolta dei poveri contro il presidente Snow che cerca, da un lato, di sfruttare la storia d’amore, creata dai due ragazzi come espediente per conquistare favori durante i Giochi, per placare la folla, e dall’altro di neutralizzare lo spirito rivendicativo di Katniss. Decide, quindi, di organizzare un’edizione speciale dei Giochi per il settantacinquesimo anniversario, richiamando da ogni distretto campioni delle precedenti edizioni. Katniss e Peeta si ritrovano così di nuovo a dover combattere nell’arena.

Se nel primo capitolo della serie ci si era concentrati sulle dinamiche dello spettacolo e della rappresentazione del potere che circondano gli Hunger Games, con La ragazza di fuoco la serie assume una sfumatura più marcatamente politica.

È l’uso dell’immagine, della proiezione di sé, che ancora una volta distingue Katniss dagli altri partecipanti agli Hunger Games, la consapevolezza del divario tra messaggio pubblico e messaggio privato e la capacità di gestirlo, apparendo allo stesso tempo come rappresentante del potere e miccia della rivoluzione.

Rispetto al primo capitolo, La ragazza di fuoco si concentra meno sui giochi proprio per far risaltare il contesto socio-politico in cui si agita la rivoluzione: un mondo diviso tra ricchi e poveri sfruttati pronto a esplodere in un conflitto che ha in sé gli elementi di una lotta di classe svuotata di connotati ideologici. La ghiandaia imitatrice della spilla di Katniss diventa sinonimo di rivoluzione. La repressione di Snow si inasprisce mentre la ragazza arriva a sfidarlo apertamente e intorno a lei sempre più persone si mostrano pronte a seguirla.

L’avvicendamento dietro la macchina da presa tra Gary Ross e Francis Lawrence ha dato a La ragazza di fuoco un’impronta più oscura e adulta, più rispondente allo stile del regista (Constantine, Io sono leggenda), che si sposa meglio con il clima cupo di oppressione della trama.

Girato in parte con la tecnologia IMAX, il secondo capitolo di The Hunger Games è ovviamente un tripudio di effetti speciali e CGI perfettamente calibrato che mantiene alto per tutte le sue quasi due ore e mezzo il livello di spettacolarità e di tensione emotiva.

Accanto alla dimensione del puro intrattenimento, e all’attenzione rivolta al suo pubblico specifico, La ragazza di fuoco conferma tutta la capacità della serie di coniugare azione e riflessione, profondità di introspezione e spettacolo puro.

C’è da accettare, ed è un compromesso che le serie cinematografiche richiedono sempre più spesso, l’assenza di completezza di La ragazza di fuoco. Chi non ha visto il primo film si trova senza coordinate per comprendere la trama che si è sviluppata fino a quel punto, e la scelta di rinunciare a un finale vero e proprio, un tempo peccato mortale del cinema, per aprire da subito il collegamento con il capitolo successivo in lavorazione lascia un senso di incompiutezza che prevale, inevitabilmente, sulla attesa per gli sviluppi.

Senza nulla levare agli altri ottimi interpreti (fatta eccezione per il sempre rigido Liam Hemsworth), Jennifer Lawrence, che si conferma attrice di incredibile talento, ha una grande parte di merito per la riuscita del film.

(The Hunger Games – La ragazza di fuoco, di Francis Lawrence, 2013, azione/fantascienza, 146’)

 

[RomaFF8] Giorno 7: “Take Five” e “Il paradiso degli orchi”

Il secondo film italiano ad arrivare in Concorso ufficiale all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma è una storia delinquente ambientata a Napoli con attori che hanno esperienze dirette di vita carceraria e criminalità. Take Five, come lo standard jazz del Dave Brubeck Quartet, è l’opera seconda di Guido Lombardi, già messosi in evidenza due anni fa con un’altra storia di malavita, Là-bas, che si portò via due premi dalla Mostra di Venezia. Se nel primo film i protagonisti erano immigrati africani di Castelvorturno, i cinque di Take Five sono tutti napoletani doc che si ritrovano a formare una banda per rapinare il caveau di una banca e svuotare le cassette di sicurezza.

Hanno tutti precedenti più o meno grandi. Sasà era uno scassinatore, ma un infarto l’ha portato a fare il fotografo di matrimoni, Ruocco era un buon pugile, ma ha spaccato una sedia in testa a un arbitro, Gaetano c’è stato tanto tempo dentro, e ora fa il ricettatore. È lui a mettere su il gruppo chiamando anche lo Sciòmen, un ladro che un tempo era un pezzo grosso nel quartiere e ora sta sotto antidepressivi. Solo Carmine, l’idraulico che ha proposto il colpo, non è mai stato arrestato, ma ha una buona ragione per mettere le mani sui soldi: ha un debito di gioco enorme con un boss della camorra che gli ha già fatto capire di essere prossimo a perdere la pazienza. La rapina riesce ma Gaetano sparisce con i gioielli rubati e i quattro rimasti lo aspettano per ore nella loro base con un nervosismo sempre più crescente.

Probabilmente nessuno aveva mai creduto che sarebbe stato possibile conciliare I soliti ignoti e Le iene, il caper movie all’italiana e il pulp alla Tarantino. Lombardi ci ha provato e si può dire che tutto sommato ci è riuscito. Perché Take Five parte divertendo con questa improbabile banda di rapinatori che impara a conoscersi per tingersi poco a poco di nero e di rosso sangue.

Con la fotografia cupa di Francesca Amitrano, Lombardi confeziona un film mai banale, citazionista (con tanto di stallo alla messicana) e divertito, che si regge su un cast azzeccato e perfettamente in parte (menzione speciale per lo Sciòmen, Peppe Lanzetta) che dà il meglio di sé nell’attesa alla base, dall’andamento quasi teatrale.

 

 

Con Il paradiso degli orchi, presentato nella sezione Fuori concorso, il regista francese Nicolas Bary trasferisce sul grande schermo uno dei romanzi cult di Daniel Pennac, il primo della saga dei Malaussène.

Il film racconta del quotidiano insolito di una famiglia a dir poco strana che vive con un senso di felicità perpetua nel proprio caos anarchico e devastante. A questa normalità relativa si viene ad aggiungere una storia macabra fatta di torture, omicidi e scomparse di bambini, descritta con la stessa delicata leggerezza di toni che attraversa tutta la trama.

Nicolas Bary ha vinto la scommessa con un romanzo fondamentale per intere generazioni rimanendo fedele alla prosa letteraria di Pennac, tirando fuori una tragicommedia di tutto rispetto. Veniamo proiettati direttamente nel caos regnante all’interno di quella che è ormai una famiglia leggendaria. Personaggi unici, uno humor pungente, a volte freddo, mentre un’inchiesta rocambolesca struttura la trama, tra il poliziesco e la commedia, del film. Per chi è cresciuto con la saga Malaussène, i personaggi barocchi, marginali, improbabili che si muovono tra i vicoli di una Belleville malfamata, messi in scena da Bary sono la realizzazione di fantasie che lo hanno accompagnato per tutta l’adolescenza. Il regista e i suoi sceneggiatori si mantengono sempre fedeli, quasi reverenti, al romanzo originale e alla scrittura di Pennac.

Piccola critica da fare riguarda il politically correct che l’adattamento cinematografico si trascina dietro. Le mille coloriture che dipingono i protagonisti della famiglia Malaussène, le differenti sfaccettature nelle ambientazioni, le situazioni assurde presenti nel romanzo non riescono ad essere riprodotte sullo schermo, mancano di profondità, dando un leggero senso di incompiutezza a quello che rimane pur sempre un ottimo adattamento cinematografico.

 

“La terra del Sacerdote” di Paolo Piccirillo

«La terra del Sacerdote è una terra avida, non dà né frutta né verdura. Tiene tutto per sé. Quel poco che dà, lo dà male. Non sazierebbe neanche un cane randagio. E anche se sono anni che il Sacerdote la cura, la sua terra non è diversa da una terra abbandonata, morente. L’insalata del Sacerdote ad esempio nasce sporca. Non è quella spolverata di terra che ogni piede di insalata ha. Questo è un nero perenne, che le foglie mostrano più del verde che dovrebbe avere».

Agapito ha vissuto a Stoccarda di espedienti, talvolta ha rovistato fra la spazzatura ed è persino diventato il sacerdote di una piccola comunità di italiani. Macchiatosi di una colpa difficile da espiare è tornato nella natia Monteroduni, in Molise, dove ha ricevuto dal suo complice Mariano una terra, in cambio del silenzio. Gli anni sono trascorsi e Agapito, ormai vecchio, è prigioniero di una squallida routine, fatta di silenzi ostinati in casa e sudore sui campi riarsi: vive con la moglie, malata terminale, e cerca invano di coltivare quella terra sterile e maledetta, come lui.

Florì è una giovane clandestina, vittima di un’associazione criminale: deve pagarsi la libertà partorendo quattro bambini, destinati alle adozioni clandestine o al commercio di organi. Viene tenuta prigioniera nel terreno confinante con quello del Sacerdote. Finché una notte riesce a fuggire e dà alla luce un bambino morto proprio sul terreno di Agapito. L’incontro di queste due esistenze miserabili scatena una serie di miracoli e delitti che avvincono il lettore, in una ridda di sentimenti contrastanti: la repulsione per la crudezza di certe realtà descritte e il fascino di una prosa vibrante, mai banale, arricchita da metafore lontane da ogni cliché.

Paolo Piccirillo è stato paragonato a McCarthy e alla Kristof, ma il suo stile sfugge a una semplice classificazione: un realismo di stampo vagamente verghiano è controbilanciato da una visionarietà lirica che può tramutarsi in favola, paradigmatica come un mito platonico.

La terra del Sacerdote è un piccolo universo antibucolico popolato da personaggi amorali: anche i peggiori crimini sono meccanici, necessari. La natura è matrigna e il Bene è solo ciò che mette a tacere il dolore dell’esistenza. Ecco perché non c’è alcun senso di giustizia, né si avverte l’esigenza di una condanna: in questa campagna arida si incontrano individui come Maurizio “Baffo di Cane”, il folle del villaggio, condannato a portare ogni giorno una croce immaginaria sulle spalle, o come il giovane Armando, che sogna di fare il notaio a Milano, ma nel frattempo aiuta lo zio nei suoi loschi traffici. Lo stesso Agapito, prete spretato, in un primo momento non disdegna di invischiarsi nel traffico di neonati, diventando il nuovo custode di Florì. Tutti sono colpevoli e nessuno lo è veramente.

Leggendo La terra del Sacerdote ho sentito il sapore delle ballate di De André, di cui Piccirillo è grande estimatore. Del grande cantautore c’è la descrizione priva di pregiudizi della vita umile, trasfigurata dalla poesia. Ho pensato a canzoni come “La Città Vecchia”, “Delitto di paese” e “Via del Campo”. E sono forse le parole finali di quest’ultima la giusta chiave di lettura per tutto questo soffrire: «Dai diamanti non nasce niente, / dal letame nascono i fior».


(Paolo Piccirillo, La terra del Sacerdote, Neri Pozza, 2013, pp. 240, euro 16,50)

“Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni” di Deflorian e Tagliarini

Una rapida ricerca sulle pagine online dei maggiori quotidiani relativa alle parole chiave «suicidi» e «crisi» produce, oggi, un’avvilente abbondanza di risultati. È un fatto su cui tutti, indiscutibilmente, abbiamo un’opinione. Un fatto su cui hanno un’opinione anche Deflorian e Tagliarini. Un fatto che emerge potentemente nella messa in scena di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni.

In realtà c’è un’imprecisione. Non si può esattamente parlare di “messa in scena” perché, in scena, non viene messo nessuno spettacolo. Non ci sono personaggi, non c’è trama, non c’è commedia. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni è uno spettacolo che si fa senza farlo e che, nella negazione, traspare.

Sappiamo tutto: il titolo è tratto dalle prime pagine di L’esattore di Petros Markaris; i personaggi sono quattro anziane che scelgono di suicidarsi per alleggerire lo Stato del carico rappresentato dalle loro quattro pensioni; il tempo della storia è l’Atene di qualche anno fa, nello specifico i cinque minuti prima che le quattro donne compiano il gesto di togliersi la vita; la scena si ambienta nell’appartamento in cui vengono ritrovati i corpi.

Sappiamo tutto anche senza spettacolo perché Deflorian e Tagliarini, superando la forma classica della rappresentazione, nel senso etimologico del termine, salgono sul palcoscenico e aprono un dialogo con il pubblico parlando con lo spettatore da pari a pari, mostrandogli il lavoro dell’attore, dallo studio del personaggio all’elaborazione della rappresentazione simbolica del testo, ma anche attingendo, in qualità di persone, a intime e condivise ansie e riflessioni.

Questo spettacolo si inserisce perfettamente nella filosofia di questa edizione 2013 del Romaeuropa Festival. The art reacts, con l’arte si può reagire, contro «l’onnipresenza di un dibattito politico che non affronta mai veramente la questione culturale come un’opportunità, la crisi economica che minaccia quel poco di risorse destinate alla creazione e al patrimonio, l’eterno ritardo nelle decisioni amministrative che mette a repentaglio i programmi», come afferma Monique Veaute, Presidente della Fondazione Romaeuropa, e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni si assume il compito politico di far riflettere il pubblico sul tempo presente, rimanendo uno spettacolo estremamente contemporaneo nel suo non dare luogo alla catarsi e nel mancare di un «momento edificante».

Ci si guarda in faccia. Ed è già tanto.


Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
con Daria Deflorian, Antonio Tagliarini, Monica Piseddu, Valentino Villa

Prossime date:
Livorno  – Grattacielo 14 novembre
Milano – PIM off dal 16 novembre al 18 novembre

Qui maggiori informazioni sull’Romaeuropa Festival.

[RomaFF8] Giorno 6: “Gods Behaving Badly” e “Blue Sky Bones”

L’esordio alla regia del produttore Marc Turtletaub arriva in anteprima mondiale Fuori concorso all’Auditorium per il Festival Internazionale del Film di Roma.

C’è da dire dire subito che Turtletaub farebbe meglio a rimanere lontano dalla macchina da presa, e dai copioni, e continuare la sua ben più convincente attività di produttore, perché Gods Behaving Badly è un film che non funziona proprio per regia e sceneggiatura.

Se l’idea di partenza, seppur non completamente originale e recentemente portata al cinema con la saga di Percy Jackson, potrebbe avere un potenziale interessante, lo sviluppo della trama si perde in confusione di generi e registri incapace di conferire a Gods Behaving Badly un’identità definita.

Siamo nella New York di oggi. In una grande casa vivono tutti insieme gli dei dell’Olimpo. Da quando gli umani hanno smesso di adorarli hanno visto indebolirsi i loro poteri e si sono dovuti reinventare nel mondo. Dioniso lavora nei locali notturni, Afrodite vende trattamenti di bellezza, Apollo fa l’indovino in tv, mentre Zeus rifiuta la vita mortale e vive rintanato in soffitta a ricordare la gloria del passato. Sarà un capriccio di Apollo, invaghito dell’umana Kate per una freccia scoccata da Eros su ordine di Afrodite, a mettere a rischio la sopravvivenza della Terra. Neil, umano innamorato di Kate, dovrà calarsi negli Inferi per convincere Ade ad aiutare suo fratello Zeus.

Con le premesse ci siamo: Turtletaub gioca con la mitologia greca (con le consuete licenze e dimenticanze di Hollywood quando si confronta con la cultura europea) e i suoi attori lo seguono e si divertono. Le trovate non mancano (i mestieri, l’iperefficienza di Ade che con foga imprenditoriale vuole creare un Oltretomba migliore del mondo emerso), ma non basta reclutare Christopher Walken come Zeus, Sharon Stone come Afrodite, Oliver Platt per Apollo o John Turturro nei panni di Ade, per fare un film riuscito. Le star ce la mettono tutta, ma, serviti da dialoghi minimi e con un intreccio che non si definisce in alcun modo, Gods Behaving Badly vaga per novanta minuti senza essere un film comico, fantasy o una commedia romantica prima di spegnersi nell’inevitabile e totale lieto fine. Una buona idea sprecata.
 


In Concorso ufficiale si è visto intanto Blue Sky Bones, opera prima di Cui Jian, vera e propria leggenda del rock cinese, voluto direttamente a Roma dal direttore artistico Marco Müller. Fresco vincitore del Premio Tenco, il regista è definito dai più come il Bob Dylan d’Oriente. Lo spunto di questo film viene proprio dal testo di una canzone dello stesso regista-rockstar, «mia madre è uno schianto, mio padre una spia e io un hacker». La trama, a tratti confusa, complessa e poco lucida, affronta una storia d’amore controversa, sofferta e melanconica. Un film drammatico ambientato in una Pechino nel pieno del fermento della Grande Rivoluzione culturale.

Blue Sky Bones è il dramma esistenziale e generazionale di una intera Nazione. È allo stesso tempo un film delicato e profondo, con momenti di lentezza e ripetitività, capace però di scavare nell’animo più puro e nascosto di una Cina per noi spesso impenetrabile e ancora troppo distante. La visione risulta interessante proprio per quella voglia di scoprire un mondo e un pensiero che forse è solo apparentemente chiuso. Sorprende la voglia di quella parte di Cina che vuole reagire e mostrare le proprie capacità. Questo dà lustro ad un film che merita a tutto gli effetti la rassegna internazionale.

Il menestrello di Tien An Men ha deciso di osare e sfidare un assoggettamento culturale ancora oggi forte, ancora oggi indecoroso. Il buon film presentato a Roma è il primo e timido riscatto sociale di un intero Paese. Un film triste dove una famiglia non vedrà mai la felicità tanto sospirata, la libertà mai assaporata. Blue Sky Bones è la ricerca tra le fratture sociali e culturali di quelle radici profonde di un paese in continua contraddizione. La famiglia del film ne è solo il riflesso. Quelle di Cui Jian sono immagini forti e spesso forzate per riuscire a parlare di sesso e amore, di natura e giustizia in un mondo ancora chiuso.
 

“L’anno di vento e sabbia” di Roberto Delogu

«Papà aveva commissionato una bella lapide con un epitaffio vagamente polemico che recitava: “Dopotutto non ci ha fatto annoiare”. Meno male che il titolare dell’impresa funebre era un mio affezionato cliente che si è ripreso indietro il marmo con poche spese».

L’ironia di Gigi, il giovane protagonista di L’anno di vento e sabbia, romanzo di Roberto Delogu (Hacca, 2013), delinea a poco a poco un vivace microcosmo familiare, allentato dalla separazione fra i genitori: all’instabilità fra la madre e il padre, descritti con brevi osservazioni, si unisce la ricerca di leggerezza dello sguardo del figlio.

La nostalgia acquarellata del padre che intona le canzoni di Lucio Battisti accompagna il percorso di crescita di Gigi, che vive, fra partite di calcio e prime cotte, anche le difficoltà di comprendere gli anni di attentatati che attanagliano la sua coscienza. La madre, dopo aver studiato Belle Arti, si divide fra Cagliari e Roma, giusto perché «ogni tanto gli adulti hanno voglia di stare da soli».

Quando Gigi assiste alle udienze conclusive del processo a una cellula sarda delle Brigate Rosse, la realtà sismografica e densa degli anni di piombo gli si palesa in tutto il suo inquietante misto di rigore e ingenuità ideologica. In una scena dai toni semplicisti, Gigi interroga un giovane brigatista, Cosimo, la cui versione va a creare sospetti sul passato della madre. «Aveva ragione quando sosteneva che non era possibile cacciare la vecchia classe politica con metodi democratici. Quello che però, ai tempi non poteva sapere è che la loro rivoluzione non sarebbe servita a nulla. Terminato lo slancio del successo, gli antichi marpioni si sarebbero rifatti il trucco e sarebbero tornati; i pochi nuovi, come nella Fattoria degli animali, sarebbero diventati peggiori dei vecchi».

A poco a poco Gigi vede infranta la ragionevolezza delle sue convinzioni e si accorge delle reali intenzioni della madre. La contrapposizione fra il ragionevole realismo di Gigi e l’errore, l’estrema coerenza di chi ha dichiarato guerra alla democrazia è un tema già a lungo dibattuto, diafano e poco incisivo nella seconda metà del romanzo. La metafora del vento è legata a una nostalgia di orme invisibili, eppure sono onde lente che si scontrano con uno stile che imprigiona lo sforzo di immaginazione del lettore, colpito invece dalla scarsa totalità della narrazione.

(Roberto Delogu, L’anno di vento e sabbia, Hacca, 2013, pp. 152, euro 14)

[RomaFF8] Giorno 5: “Out of the Furnace” e “I corpi estranei”

Martedì è stato il giorno del secondo attesissimo film statunitense in Concorso ufficiale al Festival Internazionale del Film di Roma, Out of the Furnace di Scott Cooper, con un cast di grandi nomi: Christian Bale, Casey Affleck, William Defoe, Zoe Saldana, Forest Whitaker, Sam Shepard e Woody Harrelson.

Siamo nella provincia siderurgica degli Stati Uniti. Russel e Rodney sono fratelli, diversi ma profondamente uniti. Russel è uomo serio, onesto. Lavora nell’acciaieria della città come tradizione di famiglia, ama una donna, Lena, e deve spesso aiutare il fratello. Perché Rodney tende a finire nei guai. È un soldato di leva in Iraq e quando è in licenza in città si indebita sempre con l’allibratore locale, John Petty. La loro vita non è semplice, il loro anziano padre sta morendo di cancro, i soldi non bastano, ma se la cavano, finché tutto non rotola via all’improvviso: Russel finisce in prigione per omicidio colposo dopo un incedente stradale, la sua donna lo lascia per mettersi con un poliziotto, il padre muore, Russel termina il servizio e torna in città senza un mestiere. Quando Russel esce dal carcere tutto il suo mondo è da ricostruire, a partire da Rodney, spinto da una rabbia autodistruttiva che lo porta a rifiutare una vita normale e a finire in un pericoloso giro di combattimenti clandestini.

Dopo il successo di Crazy Heart, Scott Cooper torna con un film che guarda alle storie dei reduci del Vietnam della New Hollywood, soprattutto a Il cacciatore (citato direttamente), per aggiornarle con la nuova ondata di sindrome del Golfo e speranza illuse negli Usa di oggi (siamo nel 2008, poco prima dell’elezione di Obama). È un film sporco, Out of the Furnace, splendidamente fotografato da Masanobu Takayanagi, che guida una messa in scena di elevata fattura, pieno di esseri inquietanti e spietati, figli di quelle montagne che già il recente Gelido inverno ha insegnato essere posti in cui vigono leggi alternative a quelle della civiltà urbana.

Con un Casey Affleck sorprendentemente maturo e inquieto come Rodney, Out of the Furnace ha la sua forza principale in un cast che conferma tutto il suo valore. Accanto a un Christian Bale sempre convincente, Woody Harrelson nei panni del bieco hillibilly DeGroat si conferma eccellente caratterista.

A convincere meno è lo spiritualismo di fondo che attraversa la storia, con Russel elevato a Cristo laico, con tanto di tappe di passione (il carcere, il lutto, l’abbandono), che si trova a farsi carico di tutti i mali e a inseguire una giustizia più alta di quella della legge per redimere le miserie e i peccati del (suo) mondo.

 

 

Con I corpi estranei, intanto, arriva il momento anche per il primo film italiano di cimentarsi nel Concorso ufficiale.

Antonio ha un figlio di pochi mesi, Pietro, con un cancro al cervello. Lo deve portare a Milano per farlo curare, mentre sua moglie rimane a casa con gli altri due bambini. Mentre all’ospedale è solo ad aspettare, i giorni passano. Antonio si confronta con gli altri parenti in attesa, in particolare con un ragazzo tunisino, Jaber.

I corpi estranei del titolo sono quelli di Antonio e Pietro, separati da un dolore che il piccolo non può comunicare se non con il pianto, sono quelli di Antonio e Jaber, vicini nel dolore ma distanti culturalmente. Antonio è una persona diffidente e fondamentalmente razzista. Guarda con dispetto gli arabi che si muovono per l’ospedale, finisce per spiarli e seguirli, più per noia che per sospetto. È proprio la ripetitività della noia di chi attende il tema di I corpi estranei, il limbo inesorabile e ciclico dei giorni passati ad aspettare che qualcosa si risolva. Antonio si aggira per l’ospedale, passa le ore che gli sono concesse con Pietro, mangia in mensa, fuma, prega, bestemmia, finisce anche a scaricare cassette ai mercati generali, più per vincere l’insonnia che per necessità economica.

Mirko Locatelli, al secondo film dopo Il primo giorno d’inverno e una serie di documentari, incolla la telecamera a Filippo Timi e non la stacca mai, finendo in pratica per girare in soggettiva. Timi regge tutto il film con una naturalezza estrema, rimanendo spesso solo in scena a parlare (al telefono o con il figlio) e a muoversi tra affetto, preoccupazione e rabbia con maturità e consapevolezza. È quello che si muove intorno, incluso il rapporto con Jaber, a essere poco sviluppato. La scelta di Locatelli per una rappresentazione realistica della lunghezza del tempo sospeso coincide con una lentezza espositiva a tratti estenuante che penalizza l’ottima interpretazione di Timi.

 

“La banda del formaggio” di Paolo Nori

Bisogna esserne coscienti. Questa lettura non è disarmata. Viaggia leggera, fischietta perfino, ma è piena di dossi e di feritoie. Chi predilige una linea retta, la peggiore aspettativa per un buon romanzo, farebbe meglio ad astenersi. Aprendo La banda del formaggio di Paolo Nori (marcos y marcos, 2013), appare evidente: questo libro ha in allegato il suo bugiardino. Rischio aguzzo di vertigini, spasmi voraci da saliscendi, senso incombente di smarrimento. Nettamente sconsigliato a chi ha problemi di equilibrio.

Poi certo, se si è già frequentatori assidui di Paolo Nori, del parco faunistico delle sue storie sgangherate, se Learco Ferrari, rattoppato esilarante protagonista di capogiri di carta come Basstotuba non c’è e Si chiama Francesca questo romanzo, è un fiero inquilino dei propri ricordi, in questo caso allora, non c’è niente da temere. La trama fa fatica a srotolarsi, è vero; da un apparente punto centrale ne sgorgano secchiate di altri, che sembrano atomici, gioiosamente minuscoli ma poi, a incapparci dentro, si rivelano periferici a niente e cuore di se stessi e arterie del resto. La trama si tram-uta in un tappeto intarsiato da tante mani che sono una sola. La strampalata geografia del testo presenta un narratore, Ermanno Baistrocchi, editore impegnato a dimostrare la qualità intrinseca dei suoi “prodotti” al cospetto dei vari concorrenti.

La casa editrice non indossa il suo cognome, perché quel Baistrocchi strideva troppo col fruscio delle pagine e allora il padre scelse Barbarini, più fluido da stampare e da rimanere impresso.

In un momento di necessità, quando Ermanno ha bisogno di liquidi per acquistare un paio di librerie, il libraio Paride, che condisce ogni parere con un grosso «Zioboja», gli propone di diventare socio.

Salvo poi scoprire che quella gerla di ossigeno e futuro, forse, era più sporca del previsto. Che quei soldi erano coperti di briciole. Scaglie di parmigiano, per l’esattezza. Soldi derivati da un furto di formaggio.

Salvo poi appurare che Paride non è più salvo, perché si è suicidato. E questo è solo l’inizio della spirale.

Perché nel gorgo frastagliato dei discorsi di Ermanno, nella giungla dei suoi “che polivalenti”, nella bufera delle sue parentesi, scivolano come un soffio d’olio la figlia Daguntaj, che non è frutto di un’adozione indiana, ma la versione gustosamente locale di «dacci un taglio», il genero «Illuminista», che si rivolge all’elettricista anche per avvitare una lampadina, i polmoni svuotati da un sonoro «Mo Mama» (titolo dell’ultimo saggio di Nori pubblicato da Chiarelettere), le sere pedalate al tramonto di Parma, che respirano di un fiato quasi indescrivibile, i cieli sgolati di via Porretana, le fiere del libro, i treni interregionali, coi biglietti lunghi per scongiurare il caldo.

E Paolo Nori è lo stesso che, oltre agli slalom tra gli anacoluti, alle giaculatorie chiacchierate delle sue riflessioni da spulciamento del giornale, ha magistralmente tradotto Daniil Charms, Velimir Chlebnikov, Michail Lermontov, lo stesso che snocciola frammenti di Auden, Mandel’stam, Tolstoj spacciandole per esalazioni liriche di poeti della Guyana belga. Lo stesso che sembra un dirimpettaio saggio e dissacrante intento a sciorinare segreti tra uno sbadiglio e l’altro. Come fa Ermanno, il suo portavoce ne La banda del formaggio, sostenendo per esempio che il suo lavoro consiste nel: «far notare un’impercettibile differenza. Come uno che è alto uno e cinquantanove e uno che è alto un metro e sessantuno, una differenza impercettibile, ma sostanziale».

E così gli era sovvenuto che «le differenze importanti erano quelle lì, quelle impercettibili, che avevano una loro natura che poi, quando le percepivi la prima volta, dopo non potevi più fare a meno di percepirle».

Bisogna farlo. Assaggiare l’impercettibile. E accettare. Che vortichi la testa, che il fraseggio non sia iperletterario, lineare, inappuntabile, ma piuttosto disorganico, rimasticato, (fastidioso?), un bolo di pensieri spuntati da una botola. Che la vicenda passeggi tra continue digressioni, mentre il soffitto del giorno è Casalecchio del Reno o una fiera del libro da cui congedarsi alla svelta voltando le spalle.

E non importa ricordare esattamente cosa si è detto prima di impugnare quell’ultima porta. Ciò che importa è la «La vite tagliata», «Filastrocca per la morte del nonno», versi per nipoti che non esisteranno. Ciò che conta in un libro di Paolo Nori non è dove si arriva, ma quello in cui s’inciampa nel tragitto.

Leggere o mollare.

(Paolo Nori, La banda del formaggio, marcos y marcos, 2013, pp. 224, euro 15)

[RomaFF8] Giorno 4: “Sorrow and Joy”, “Quod erat demonstrandum” e “Stalingrad”

In Concorso ufficiale arriva il dramma della depressione e della perdita di una neonata nel danese Sorg og glæde/Sorrow and joy.

Quando Johannes torna a casa dopo una conferenza fuori città trova ad attenderlo i suoceri. Sua moglie Signe non è lì, neanche la figlia di sei mesi, Maria. Il fatto è che Signe ha ucciso Maria, l’ha sgozzata con un coltello da cucina. Era depressa, e Johannes lo sapeva, per questo aveva chiesto alla suocera di stare con lei. Dal dramma della figlia persa, Sorrow and Joy si trasferisce presto alla ricerca delle ragioni della depressione. Attraverso un lungo flashback, Johannes espone allo psichiatra forense la storia del suo rapporto con la moglie fino al giorno della morte di Maria. Emerge un marito che impone la propria personalità e visione del mondo a una donna innamorata che non ha strumenti per difendersi. Signe è una persona fragile con un passato e una storia familiare di disordini psichiatrici. Era affascinata da Johannes, famoso regista cinematografico, prima ancora di conoscerlo. La realtà della vita insieme le ha fatto scoprire quanto il lavoro occupi quasi la totalità del suo tempo, quanto la sua pretesa di controllo non coincida con la presenza. L’uccisione della figlia diventa un ultimo, disperato, tentativo di attirare l’attenzione, come una specie di disperata Medea.

Nel ricostruire la storia di un dramma, oltretutto che attinge ampiamente dalle sue vicende personali, il veterano del cinema danese Nils Malmros contamina registri, metacinema e ironia nelle parti dedicate al lavoro di Johannes sul set, un po’ Truffaut in Effetto notte, e al mondo dei festival (Berlino, Cannes). Quando si concentra sulla trama principale, il sentimentalismo prevale, ma è sterile: non riesce a creare tensione emotiva o drammatica e l’esposizione del dolore finisce per essere didascalica, mortificata da dialoghi deboli e ripetitivi.

 

 

Sempre in Concorso il regista Andrei Gruzsniczki conferma il buono stato di salute del cinema rumeno con Quod erat demonstrandum. Siamo nel 1984, la Romania è sotto il regime comunista di Ceausescu. Sorin è un matematico che vede frustrate dal partito le sue aspirazioni. Ha trentacinque anni e ancora non ha ottenuto il dottorato. Le sue ricerche, per quanto all’avanguardia, non vengono prese in considerazione per la pubblicazione. Allora decide di rivolgersi, illegalmente, all’estero. Un suo studio viene pubblicato da una rivista americana grazie a un suo amico rimasto clandestinamente in Francia dopo una conferenza. Su quell’articolo indaga la Securitate, i servizi segreti di stato, proprio mentre Sorin si rivolge a Elena, la moglie dell’esule, per portare fuori dalla Romania altre ricerche approfittando della legge per il ricongiungimento familiare.

Girato in un bianco e nero rigoroso con una predominanza netta di interni, Quod erat demonstrandum rende l’idea del controllo e del rigore che vigevano a Bucarest negli ultimi anni del comunismo. Guarda senza nascondersi a Le vite degli altrinel riprendere l’idea del lato umano dell’agente segreto che osserva gli altri, con la differenza che qui l’agente Voican ha una vita da difendere, un divorzio da affrontare, una carriera che non riesce a procedere.

Gruzsniczki, alla seconda prova, mostra una stile personale fatto di geometrie e campi lunghi che rivelano una certa consapevolezza degli spazi. La scelta del bianco e nero contribuisce a rendere l’idea dell’atmosfera mortificante dell’epoca ma certo appesantisce anche.

 

 

Presentato fuori concorso Stalingrad del regista Fedor Bondarchuk, primo kolossal russo prodotto in 3D in formato IMAX, forte di un budget di trenta milioni di dollari.

Siamo nel 1942 e l’inferno è a Stalingrado. Un manipolo di soldati russi rimane accerchiato in una casa in mezzo alla città ormai quasi totalmente rasa al suolo. Tra invasori e perseguitati, l’uomo ha perso tutta la propria dignità. I cinque soldati della gloriosa Armata Rossa incontrano una giovane donna che decidono di difendere da tutto, in un ultimo rantolo di umanità, come fosse l’incarnazione stessa di Stalingrado.

Un assunto interessante che non riesce in alcun modo a svilupparsi. Una confusione di generi che presto si vengono a sovrapporre, definendo più che un kolossal, un polpettone propagandistico che sa tanto di patchwork forzato, con tanto di primi piani alla spaghetti western, battaglie truculente che si rifanno ai più disparati generi d’azione e scontri frontali tra soldati girati al rallentatore quasi alla Matrix. Nonostante un cast di discreto livello, con Thomas Kretschmann come protagonista, la nota e attraente modella russa Yanina Studilina, e ancora Petr Fedorov e Maria Smolnikova, la recitazione è melensa, con personaggi che non troverebbero riscontro in nessuno dei grandi classici delle letteratura russa, e, ovviamente, in un’ottica manichea da guerra fredda, la rappresentazione del nemico tedesco è quasi infernale.

Il risultato è un bel polpettone di due ore e un quarto. È un paradosso, ma il film sembra proprio un filmaccio storico americano incapace di rendere il senso di tragedia del fatto raccontato. Una pellicola che non trasmette alcun pathos e nessuna possibile considerazione su fatti che sono stati reali e hanno inciso profondamente sul destino dell’umanità. Sul piano del puro spettacolo funziona. Gli effetti speciali sono strepitosi e potenti, gli applausi sono venuti unicamente da quella parte della platea che ama i film di guerra che non risparmiano particolari truculenti. Ma in questo modo, ancora di più, tutto viene a banalizzarsi in una mal riuscita operazione di marketing, che la Russia post-Muro tenta di perseguire con la voglia di americanizzarsi alla ricerca finora vana di una propria Hollywood.

 

“Il bacio inspiegabile del sole” di Christine Leunens

Da cosa nasce la proverbiale rivalità fra suocera e nuora da sempre oggetto di opere letterarie e cinematografiche? È davvero così inevitabile o si tratta solo di una leggenda metropolitana? Proprio questo rapporto familiare è al centro de Il bacio inspiegabile del sole di Christine Leunens (Meridiano Zero, 2013), con tutte le contraddizioni, le emozioni e le vicissitudini che due persone legate solo dall’affetto per il figlio/marito possono trovarsi ad affrontare nel corso di un’intera vita.

Ambientato in Nuova Zelanda, il romanzo è incentrato sul rapporto controverso fra la newyorkese Nancy, docente universitaria di astrofisica, e la neozelandese Edith, sua suocera, una donna energica e indipendente che a volte fatica a trovare la linea di demarcazione fra una affettuosa partecipazione nella vita del figlio, Michael, e l’esagerazione.

La presenza di Edith è sempre stata molto ingombrante nel ménage quotidiano di Michael, e di conseguenza anche in quello della moglie Nancy e della piccola Chloe, tanto da presentarsi a sorpresa alle Fiji durante una loro vacanza, adducendo la scusa di voler passare più tempo con la nipotina, lasciando a loro il tempo per un viaggio di coppia. Ovviamente le dinamiche familiari vengono turbate da questa intrusione inaspettata e quando Michael decide di affrontare la madre e di convincerla a tornare a casa, Edith sviene sulla spiaggia, in modo così improvviso e plateale da indurre Nancy a sospettare che si tratti solo di una finta, e viene ricoverata d’urgenza in ospedale.

Sulla strada verso la clinica, Michael viene coinvolto in un incidente d’auto e muore tragicamente sul colpo, lasciando Nancy sconvolta ad assimilare l’assenza del compagno di una vita e completamente sola a occuparsi della figlia Chloe e della suocera Edith.

Il bacio inspiegabile del sole racconta come nei dieci anni che seguono a questo tragico evento Nancy e Edith, e in un certo modo anche Chloe, si trovano a vivere un rapporto stretto e controverso che comprende grandi momenti di vicinanza rafforzata dal supporto reciproco, dall’amore di entrambe verso Michael e Chloe, e altri di insofferenza, e intromissione reciproca nella vita privata.

Christine Leunens racconta in modo magistrale la storia di un rapporto altalenante, fatto di lunghi periodi passati nel silenzio ovattato dell’indifferenza, in cui le due donne finiscono per perdersi di vista, e altri in cui si ritrovano. Proprio quando sentono di essere rimaste completamente sole, entrambe guardano all’altra come una possibilità di vivere serenamente il tempo che resta.

Attraverso gli anni, queste donne dovranno trovare un modo pacifico per convivere e imparare a volersi bene, inizialmente solo per il bene di Chloe, che cerca incessantemente di portare armonia fra la madre e la nonna, e successivamente per se stesse, riscoprendo un affetto stretto e incondizionato che le lega profondamente.

È così che fra pomeriggi passati in giardino a sorseggiare tè e lifting estremi, matrimoni e separazioni, partenze e malattie, amori inaspettati fuori tempo massimo e una ultima crociera insieme, nuora e suocera troveranno finalmente il modo di amarsi e sostenersi, di esserci l’una per l’altra giorno dopo giorno.

Il bacio inspiegabile del sole è un romanzo sull’amore, sulla solitudine, sulle gioie e sui dolori che la vita ci mette davanti e sui conflitti da affrontare. Ma è anche e soprattutto un romanzo che parla delle donne, di tre generazioni di donne che in modo diverso trovano dentro di sé la forza necessaria per rialzarsi e reagire, per riprendersi e reinventarsi una vita anche quando tutto intorno a loro sembra indicare che non c’è via d’uscita. Un libro sulla speranza nel futuro.

(Christine Leunens, Il bacio inspiegabile del sole, trad. di Della Belleri, Meridiano Zero, 2013, pp. 288, euro 15) 

“Un gomitolo di concause” di Carlo Emilio Gadda

Le lettere di Carlo Emilio Gadda, inviate al suo amico Pietro Citati e raccolte in Un gomitolo di concause (Adelphi, 2013) – quarantaquattro in tutto –, sono una testimonianza delle sofferenze e delle profonde amarezze che tormentarono il corpo e la psiche dello scrittore milanese e abbracciano un periodo che va dall’agosto del 1957 all’agosto del 1969 – alcune riguardano quasi gli ultimi anni della sua vita: morirà infatti nel 1973, all’età di 80 anni.

Un gomitolo: un ammasso confuso di sofferenze, che non ha una sola causa esterna, ma molte cause (con-cause), anche se per capire il tutto bisogna fare attenzione alla testimonianza di Citati, che nel descrivere l’origine della sua amicizia con Gadda e nel delineare il carattere dello scrittore, mette in evidenza l’instabilità della sua psiche: «Diventava all’improvviso furibondo: poi disperato, in modo irrimediabile». Parla inoltre di «male oscuro», di «male invisibile», di «ferita sempre aperta» – Gadda da parte sua sembra confermare tutto ciò, allorché afferma: «La realtà è che tiro la vita coi denti».

Il gomitolo, che richiama l’ingravalliano «gliuommero» della realtà, evocato in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, è costituito da sofferenze fisiche e da disagi psichici e morali, causati da circostanze esterne: rapporti con organizzatori di premi letterari, intervistatori, cinematografari, esattori di tasse, denigratori e soprattutto con editori (Garzanti, Einaudi, Mondadori), che come cani famelici lo perseguitano e minacciano di dilaniarlo

La sua vita sembra snodarsi in un ambito ristretto di località che hanno come asse Roma e Milano e che abbracciano sporadicamente alcuni luoghi di villeggiatura, in cui lo scrittore amava rifugiarsi per lenire le sue sofferenze fisiche, per lo più nelle vicinanze dell’amico Citati. Ovunque riecheggia il paesaggio toscano e sullo sfondo domina quasi sempre la Maremma, di cui Citati è assiduo frequentatore:da Giuncarico, ove egli acquistò una villa denominata la Castellaccia, al Cinquale, a Livorno/Antignano/Quercianella, a Grosseto e dintorni.

È presente nelle lettere, inoltre, tutto il mondo letterario contemporaneo allo scrittore, con personaggi più o meno apprezzati dall’“ingegnere milanese”: da Cecchi, Bo, Contini, i coniugi Bellonci a Parise, Moravia con Elsa Morante, Pasolini, Luzzi.

La lettera del 27 ottobre 1965, scritta da Roma, rappresenta un unicum nell’insieme dell’epistolario gaddiano, non solo perché può considerarsi un prezioso saggio del tipico stile dello scrittore, soprattutto nell’impasto linguistico, ma anche perché vi riecheggia l’animo bucolico di Gadda: verrebbe voglia di accostarlo al “poeta delle piccole cose”, se non fosse per quella connaturale antipatia, che nelle stesse lettere lo scrittore fa trasparire per il Pascoli: «Il pigolante Zvanì». È pur vero comunque che la matrice dei sentimenti espressi in questa lettera è profondamente diversa. Emergono infatti il «vecchio sogno dei muratori lombardi», nonché vaghi accenti freudiani, sparsi qua e là; e, se proprio si vuole scorgere un nesso poetico, questo è da cogliere in quel «consentirà loro di meriggiare sereni» di montaliana memoria e in alcuni preziosi riferimenti dannunziani.

Tutte le altre lettere purtroppo rivelano profonde amarezze e sofferenze costanti a cui si è accennato all’inizio.

È pur vero che tutto sembra essere mitigato da un sentimento perenne, quasi una dipendenza psichica, che ha la radice in una reciproca stima tra Gadda e l’editor Citati. E non solo con quest’ultimo. Non vi è lettera infatti, in cui non sia menzionata la figura di Elena, moglie di Pietro, quasi a sottolineare che oltre al vincolo dell’amicizia, Gadda si sentiva come incardinato in quella famiglia.

Il richiamo di Elena ci riporta poi alle donne che in genere sono rappresentate nell’epistolario. Sappiamo quale fosse il concetto della donna in Gadda. Le sue due opere tipiche: La cognizione del dolore e in particolare il suo capolavoro Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ne danno un’ampia galleria. Qui emergono l’esemplare tuttofare furbesco e quello materno: il primo rappresentato dalla concierge russa, il secondo dalla governante italiana, premurosa e fedele.

Un gomitolo di concause è, in conclusione, una pubblicazione piacevole e un documento utile, di cui bisogna essere grati alla casa editrice Adelphi, che come in casi analoghi, sa compiere un’opera scientifico-filologica apprezzabile, resa ancora più pregevole dai due saggi aggiunti: l’uno di Citati su Gadda e l’altro di Giorgio Pirotti, il curatore dell’epistolario e delle note, sui rapporti tra Citati e Gadda.


(Carlo Emilio Gadda, Un gomitolo di concause, Adelphi, 2013, pp. 239, euro 14)

[RomaFF8] Giorno 3: “Her”, “Song’e Napule” e “En Solitaire”

Quarto film per Spike Jonze, dopo l’escursione nel mondo dell’infanzia con Nel paese delle creature selvagge, che arriva in Concorso ufficiale alla Festa Internazionale del Film di Roma con Her, storia d’amore e di solitudine.

Theodore è un uomo solo. Sta uscendo da un matrimonio, ha perso la voglia di uscire e stare con gli amici. Passa le giornate tra il lavoro e i videogiochi. Quando viene rilasciato un nuovo sistema operativo informatico in grado di relazionarsi direttamente con l’utente (una specie di Siri ancora più evoluto) lo istalla sui suoi terminali e incontra così Samantha, il suo assistente virtuale. Theodore si ritrova in una relazione tutta particolare con una voce artificiale che sembra essere l’unica a comprenderlo e assisterlo, finché l’amicizia non diventa amore, ricambiato.

Non è la prima volta negli ultimi tempi che un film Usa si interroga sul senso e le possibilità di un amore disfunzionale. Era capitato che uno scrittore si innamorasse di un proprio personaggio in Ruby Sparks, o che un uomo non proprio equilibrato perdesse la testa per una bambola gonfiabile in Lars – Una ragazza tutta sua, ora Spike Jonze declina la solitudine nelle nuove frontiere della realtà digitale. Siamo tutti in collegamento, eppure non riusciamo a comunicare, al punto che appaltiamo ad altri il compito di scrivere le lettere ai nostri cari. È questo il lavoro che Theodore fa, nel futuro non così lontano immaginato da Jonze: mettere in parole i sentimenti degli altri, dagli innamorati ai nipotini grati. Quando si tratta di farlo per sé, però, non è in grado. Solo Samantha riesce a comprenderlo, di trovare il modo di entrare in contatto con la sua natura intima come non succedeva da molto tempo. Non è solo Theodore a beneficiare del rapporto. Samantha dalla relazione con l’uomo apprende una dimensione sentimentale che non era in grado di comprendere. Un po’ replicante di Blade Runner, la voce digitale anela ad una completezza umana che la sua forma superiore non gli consente.

È un’immagine dolce e amara delle relazioni umane, nonché una riflessione, leggera, sui rischi delle tecnologie e dei suoi abusi, quella messa in scena in Her. Spike Jonze si è scritto il film da solo senza l’aiuto del fido Kaufman. La sceneggiatura ne risente nella seconda parte, troppo virata sul dramma sentimentale. Joaquin Phoenix nei panni di Theodore condensa solitudine e tristezza. Scarlett Johanson offre la sua voce sensuale a Samantha e lascia il segno (sarà dura trovare una doppiatrice all’altezza).
 


Nel frattempo, Fuori concorso, i fratelli Manetti continuano a omaggiare il cinema italiano di genere degli anni Settanta e Ottanta con Song’e Napule, poliziottesco in salsa partenopea.

Paco Stillo è un poliziotto senza vocazione. Ha studiato pianoforte al conservatorio, poi grazie a una raccomandazione imposta dalla madre è finito suo malgrado in polizia. Il suo talento pianistico lo farà finire infiltrato nella band di Lello Love, cantante neomelodico ingaggiato da un pericoloso camorrista per il matrimonio della figlia. Tra gli invitati ci dovrebbe essere il latitante Serracane, detto O’Fantasma, ricercato da decenni e di cui non si conosce neanche il volto, ma un solo segno particolare.

L’omaggio al poliziesco all’italiana riesce e funziona. Song’e Napule diverte senza preoccuparsi di analizzare la malavita campana o la corruzione delle istituzioni a cui fa riferimento, ma limitandosi a proporre una storia di amicizie improbabili ed eroi casuali.

Giampaolo Morelli, già Coliandro per i Manetti, scrive il soggetto e si diverte a interpretare il tamarrissimo Lollo Love.
 


Nella sezione Alice nella città, il primo lungometraggio del francese Christophe Offenstein, En Solitaire, vede uno strepitoso François Cluzet (Quasi Amici) affrontare in solitaria l’Oceano. Che i francesi siano un popolo di navigatori, partendo dalle antiche tradizioni bretoni per arrivare fino all’epoca coloniale e napoleonica, già lo sapevamo. Il mare è una costante per i nostri cugini d’Oltralpe. Lo spirito dei matelots (così chiamano i marinai in Francia) è qualche cosa di forte e sentito.

Con questo lungometraggio ci si imbarca direttamente nella mitica corsa nautica della Vendée Globe al fianco del protagonista Yann, vecchio lupo di mare arrivato a questa avventura, che prima ancora che sportiva è soprattutto una vera e propria sfida umana, filosofica ed emotiva. La competizione è tutto, vincere è l’unica parola d’ordine. Tutto è perfetto, tutto è destinato a rendere grande Yann. Tutto viene però a vacillare quando il bretone si rende conto di non essere più solo su quella barca. Un giovane clandestino mauritano è salito a bordo. La tempesta non è più solo in mare, ma anche dentro Yann.

Si riesce a respirare l’aria salina, la forza violenta del vento, l’infinito senso di impotenza quando tutt’intorno non si ha nient’altro che il mare in En solitaire. Girato in quaranta giorni di crociera, con impressionanti riprese in esterna tra burrasche e vele da cazzare in continuazione, questo thriller marittimo cerca di dipingere il ritratto di un eroe moderno, un eroe di tutti i giorni. Cluzet interpreta a meraviglia una persona ordinaria che di punto in bianco si ritrova in condizioni straordinarie.

Nonostante la buona idea di partenza, nella sua evoluzione En solitaire non riesce ad essere all’altezza delle premesse. La sceneggiatura manca di costanza e poco a poco si perde. È ben realizzato, ma incompleto. La storia presenta proprio il classico cliché francese: la ricerca della morale. Questo finisce per banalizzare un film che poteva essere davvero promettente ed originale, senza tramutarlo nel solito polpettone hollywoodiano. Perché quindi non attenersi alle cose più semplici, perché non mettere in scena unicamente la maestosità di una sfida sportiva?