Copertina di Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli

Documentare la sparizione

Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli (laNuovafrontiera, 2019) è un’enorme scatola che ne contiene molte altre, quasi senza fondo. Contiene un’auto su cui sale una coppia con due figli per partire da New York e attraversare gli Stati Uniti fino al confine messicano: per scoprire quel che resta delle tribù apache, per indagare sui bambini che arrivano dal Centroamerica. Contiene le sette scatole che costituiscono il bagaglio della famiglia, quelle dei genitori pieni di quaderni e di libri, di dischi e di mappe; quelle dei bambini vuote e leggere, con l’idea di essere riempite strada facendo. Contiene le voci dei viaggiatori e i suoni dei paesaggi attraversati che il padre registra ad ogni tappa; i pensieri della donna che sconfinano nei libri che legge di notte, nelle notizie intercettate via radio, nelle riflessioni su progetti letterari e crisi di coppia; i ragionamenti originali e intelligenti, insistenti, a volte commoventi, di due bambini di cinque e dieci anni che cercano di capire dove stanno andando e dove vanno quegli altri bambini che viaggiano da soli: «Dopo tutto quel tempo a campionare e registrare, avevamo un archivio pieno di frammenti di vite di estranei ma non avevamo pressoché nulla della nostra vita insieme. Ora che ci stavamo lasciando alle spalle un intero mondo, un mondo che noi avevamo costruito, non c’era quasi nessuna registrazione, nessun paesaggio sonoro di noi quattro, del nostro mutare nel tempo».

Con questo libro Valeria Luiselli dà seguito, quasi si sovrappone, al precedente saggio del 2017 Dimmi come va a finire in cui raccontava il lavoro di traduttrice svolto presso il Tribunale Federale dell’immigrazione di New York e le domande che vengono rivolte ai bambini provenienti da Messico, Guatemala, Honduras ed El Salvador una volta arrivati nel nuovo paese.

Con quest’ultimo lavoro l’autrice va oltre. Sconfina tra generi letterari differenti e fluidi con pagine che appaiono reportage, diario intimo, album di istantanee e catalogo di cose e rumori. Amplia la narrazione contestualizzandola a livello sociale e privato. Alla storia personale e familiare infatti si affianca la vecchia storia della tribù apache chiricahua e quella contemporanea dei minori invisibili, in una narrazione continua e a più voci in cui si arriva a non distinguere più tra storie reali o inventate, lette e ascoltate o davvero vissute.

Il progetto della protagonista senza nome, che si va delineando e chiarendo lungo strade polverose e motel anonimi, non è quello di indagare da dove vengano i bambini, i motivi che li hanno spinti ad attraversare il deserto senza mappe, i rischi che li hanno fatti scappare da soli, in treno o a piedi, bensì di immaginare dove vanno a finire quelli che scompaiono una volta arrivati, il limbo sospeso di chi non riesce a raggiungere la famiglia americana, la partenza di chi viene rimandato indietro, la vita di chi semplicemente si perde.

Come raccontare una storia come questa? La Luiselli inventa un libro nel libroElegie dei bambini perduti dell’immaginaria Ella Camposanto – che le viene in soccorso inframezzando la narrazione con una storia nella storia, quella di un gruppo di bambini che superano il confine messicano a bordo di un treno clandestino, e che è in grado di riportare attualità e realtà tra gli sconfinamenti del romanzo, che insieme alle polaroid in fondo alla scatola, alla fine del libro, confermano che tutto, o forse solo qualcosa, è vero.

Come le incertezze nella vita di una coppia che sembra sul punto critico di incrinarsi, come le domande dei bambini che rimangono sospese senza risposte, come l’eco di uno dei paesaggi sonori che la famiglia attraversa, per tutto il tempo del viaggio sembra di sentire anche l’eco dei dubbi sull’intero lavoro, esitazioni sul senso di una ricerca come questa e sull’utilità del reportage che ne sarà il risultato, emozioni su cui si interroga lo stesso alter ego dell’autrice: «Preoccupazione politica: come può un radiodocumentario aiutare dei bambini senza documenti a trovare aiuto? Problema estetico: d’altro canto, perché un racconto sonoro o una qualsiasi altra forma di narrazione, del resto, dovrebbe essere concepito per il raggiungimento di un fine specifico? […] Esitazione professionale: ma d’altro canto, l’arte per l’arte non si risolve spesso in un più che ridicolo sfoggio di arroganza intellettuale? Preoccupazione etica: e cosa mi autorizza anche solo a pensare che posso o dovrei fare arte con la sofferenza altrui?».

 

(Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti, La Nuova Frontiera, 2019, trad. di Tommaso Pincio, 448 pp., euro 20, articolo di Francesca Ceci)

 

Perché, Siberia?

Oggi ricorre il trentacinquesimo anniversario di Siberia dei Diaframma, album capolavoro fondamentale per tutto il movimento new wave italiano. Non a caso, molto tempo dopo, quattro ventenni toscani escono allo scoperto con un nome poco fraintendibile: Siberia, per l’appunto. Più che il loro esordio In un sogno è la mia patria, è stato Si vuole scappare a essere una vera e propria folgorazione: pop intriso di new wave, un bellissimo miscuglio Diaframma/Baustelle. In questo fine 2019, Il loro nuovo album, Tutti amiamo senza fine, che lascia un po’ perplessi.

Nel panorama italiano degli ultimi anni è difficile trovare qualcosa di completo ed essenzialmente bello come Si vuole scappare: un lavoro oscuro, ma paradossalmente pieno di luce, a cui si aggiungono testi notevoli interpretati alla perfezione. Il prototipo dell’album fatto come si dovrebbe fare sempre. Una vocazione autoriale che sa essere trasversale.

Il botto, a livello numerico, quello vero, non c’è stato. Il mercato vuole altro, Si vuole scappare è passato un po’ in sordina. A testimoniare comunque la bravura dei quattro toscani ci hanno pensato i Baustelle portandoseli in tour come apertura ai loro concerti. Tutti amiamo senza fine è una svolta netta nelle intenzioni dei Siberia: un album in tutto e per tutto pop. Bianconi, parlando di quelli che poi sarebbero stati L’amore e La violenza, usava l’espressione album “oscenamente pop”, ma un conto è farlo come l’hanno fatto i Baustelle, un conto come l’hanno fatto i Siberia.

Sì, perché quello che esce di Tutti amiamo senza fine è il tentativo di fare quello che hanno fatto i Baustelle, senza riuscirci, anzi. C’è molto, troppo, del trio di Montepulciano. In maniera preponderante nei brani più incalzanti, da un punto di vista musicale ma a anche a livello di immagini evocate – in “Mon Amour” la voce di Eugenio Sournia canta «E parlavamo di Edith Piaf  / Di nostalgia del cinema di Marlon Brando / Del suo ultimo tango/  E delle sigarette dentro al bar»: sembra la parodia di un generatore di canzoni scritte da Bianconi.

Se in Si vuole scappare i Baustelle c’erano, ma in maniera discreta, come bellissima ispirazione, qui sono ingombranti nel loro essere deformati. I Siberia hanno provato a tendere verso un suono più facile, che quantomeno potesse fare presa con un pubblico più ampio: a livello di arrangiamento si vede come abbiano voluto avvicinarsi forzatamente (da cosa?) a qualcosa di più spendibile.

A testimonianza di questo, in alcuni frangenti, ci sono dei riferimenti al vintage anni ottanta di ritorno stile TheGiornalisti/Tommaso Paradiso: il ritornello di “Non riesco a respirare” è lì a dimostrarcelo, come La canzone dell’estate, brano di cui francamente non si sentiva il bisogno.

Perché, Siberia?

Quello che abbiamo tra le mani con Tutti amiamo senza fine è l’ennesima riprova che il mercato si muove per continue semplificazioni. Qui i Siberia fraintendono il messaggio dei Baustelle e vengono risucchiati da un approccio semplicistico a una cosa complessa come il pop.

Tutti amiamo senza fine ha tante canzoncine orecchiabili, si parla di amore declinato in vari modi, ma rimane solo qualcosa da fischiettare distrattamente mentre si fa la spesa.

Fotografia di Robbe-Grillet

Un epilogo alla Robbe-Grillet

«Tutto quel che si può leggere nel Pantarèi a proposito di Céline, di Faulkner e di Robbe-Grillet è farina del sacco di Stern», ovvero del protagonista di ispirazione vagamente autobiografica di questo romanzo. Il pantarèi, scritto ancora negli anni Settanta, pubblicato per la prima volta nel 1985, è stato riedito di recente da TerraRossa (per quanto riguarda la narrativa italiana, a mio avviso una delle case editrici più interessanti del momento). E figura nell’introduzione alla riedizione del volume l’affermazione secondo cui le riflessioni su questi tre scrittori siano «farina del sacco di Stern».

A ben guardare, molti intellettuali italiani erano allora a conoscenza di Robbe-Grillet anche attraverso le edizioni italiane della sua opera (quella del suo primo romanzo, Le gomme, di Franco Lucentini, poi riproposta da Nonostante edizioni, risale al 1961) e avrebbero senz’altro avuto la possibilità di conoscerlo da un punto di vista critico leggendo un po’ di letteratura secondaria. Mi fido ugualmente di quanto Ezio Sinigaglia ci racconta (anche se dovrei domandarlo a Stern) là dove ci confida che si è rapportato allo scrittore francese in un tête-à-tête, senza grandi sovraletture.

Nel Pantarèi, un romanzo acutamente metaletterario, un’intelligente riflessione sugli scrittori modernisti in cui alle parti narrative (in tondo) si alternano gli inserti (in corsivo), Le gomme riveste un ruolo fondamentale verso la fine. Ma già a p. 63, quando Stern dubita dell’efficacia del monologo interiore, si pone delle domande non lontane da quelle a cui i nuovi romanzieri hanno tentato di rispondere:

«Ma posso chiamare, questo, flusso di coscienza? Tanto per cominciare: gli errori di battitura li devo trascrivere? […] Gli spazi fra una parola e l’altra sono come colpi di nocca sul tavolo. E gli oggetti che sono intorno a me? I libri le penne il muro bianco la finestra le mie dita la manica color sabbia del maglione. Non si può dire che li guardi, ma certo li vedo».

Stern sta lavorando a un’enciclopedia. Un’importante casa editrice specializzata in opere divulgative (e di cui si tace il nome) gli ha commissionato la voce “romanzo del Novecento” per una singolare “Enciclopedia della donna”. A proposito di Zeno Cosini, Stern scrive:

«Lo sguardo è puntato sull’uomo, o meglio nell’uomo: argomento del romanzo è proprio, letteralmente, “la coscienza di Zeno”. Con asciutto rigore clinico, Svevo scava nella patologia del suo personaggio: poiché d’una coscienza malata [tondo mio] si tratta, e il romanzo è la storia di questa malattia».

 

Copertina di Il pantarei di Sinigaglia Robbe-Grillet

 

Uno degli interventi di Pour un Nouveau Roman (1963), opera saggistica di Robbe-Grillet, si intitola proprio La conscience malade de Zeno. È un sintagma abbastanza prevedibile, certo, uno spostamento quasi naturale. Ma mi sia concesso di dubitare un po’ del fatto che Stern, un onomaturgo amante della lingua e della letteratura francese, non fosse a conoscenza della rivoluzione epistemologica veicolata dalle sperimentazioni, teoriche oltre che letterarie – i confini tra critica e letteratura sono sempre e comunque labili: sta lì a testimoniarlo anche Il pantarèi –, dei nuovi romanzieri.

Più avanti, alcune descrizioni che ci offre il protagonista, piene di dettagli, potrebbero parzialmente ricordare quelle di Robbe-Grillet, con le quali condividono determinati elementi (per esempio una certa cura della dimensione spaziale, una meticolosa geometria, le linee che si intersecano, la ripetizione di destra e sinistra, la sovrapposizione dei piani). C’è tuttavia una differenza sostanziale: dalla sua storia, Stern non eclissa i personaggi e anzi cerca di descriverli, a volte per sommi capi, altre con maggior precisione:

«Madame Stella, senza dire una parola, fece cenno a Stern di seguirla. Si addentrarono nel corridoio, che era stretto e oscuro, ma si allargava, ogni dieci passi, in ampie e luminose piazzuole circolari. Ne attraversarono tre, tutte identiche fra loro: a destra e a sinistra, due perfetti semicerchi, delimitato ciascuno da una grande vetrata, sotto la quale correva un divano ricoperto di seta rossa cangiante. Anche il quarto salottino, al centro del quale madame si arrestò silenziosamente, era del tutto simile ai precedenti, senonché alla base dell’emiciclo di destra, parallelamente alla direzione del corridoio, era stata disposta un’ottomana sopra la quale, adagiata mollemente su un fianco, la guancia poggiata sul palmo della mano destra, stava distesa Anna. I capelli, tinti di nero, contrastavano vivamente con l’ovale bianchissimo del volto che incorniciavano, mentre il verde intenso degli occhi era sottolineato dall’ampia veste di seta, dello stesso colore, che la copriva fino ai piedi, raccogliendosi in ricchi drappeggi».

Lo sviluppo di questa citazione ha quindi in un certo senso una sua circolarità, o una blanda ricorsività circolare degli elementi; lo sfondo è subordinato ai personaggi, la dimensione spaziale a quella umana: personaggio (Madame Stella), spazio esterno e ancora personaggio (Anna). La descrizione onirica delle piazzole, grazie all’uso di parole come identiche, perfetti, emiciclo e parallelamente, suscita quello che potremmo definire un effetto di geometria. In realtà, si tratta di un sogno del protagonista, una breve parentesi di una narrazione poliedrica e pienissima di riflessioni (meta)letterarie dalla quale si capisce come Sinigaglia (pardon, Stern) non abbia patito nessuna angoscia dell’influenza, almeno da un punto di vista stilistico – molti gli stili interiorizzati, certo (Balestrini, per esempio), ma nessuno di essi prevarica gli altri. Stern non si lascia plagiare neanche scrivendo i paragrafi su Kafka, continuamente interrotti, con effetto comico e straniante, prima dalla registrazione in presa diretta del subbuglio interiore dovuto al ricordo di Carmen, una sua amante giovane e fresca, e poi dall’arrivo del geometra Sambò, un vicino di casa disturbato dal ticchettio della Lettera 22; e che dire delle rocambolesche avventure del ragionier Sperindio? Fantastiche. Mi hanno ricordato Morselli e Wilcock.

Delle Gomme, Stern ricorda in primis la citatissima citazione del pomodoro, descritto a prescindere dalle sue qualità come fosse un semplice oggetto. Forse questo romanzo gli è piaciuto così tanto proprio perché Robbe-Grillet fa tabula rasa e «si propone di detergere la superficie della realtà, e quindi quella della materia narrativa, liberandola di tutti i successivi strati di arbitrarietà che secoli di letteratura vi hanno disteso l’uno sull’altro». La tanto paventata (o auspicata) morte del romanzo, la stessa di cui scrive Sinigaglia introducendo la nuova edizione del Pantarèi, non ha avuto luogo: né negli anni Settanta, né dopo. E per quanto questo genere sopravviva talvolta senza nessuna qualità, in una forma omologante e convenzionale – benché i giudizi di valore vengano ormai demonizzati a prescindere e la critica militante, quella vera e dialettica, sia ormai diventata quasi un tabù –, i romanzi di qualità continuano a esistere.

Come ci spiega Stern, Robbe-Grillet ha saputo allo stesso tempo distruggere e creare, inserendosi nella stessa tradizione che criticava apertamente. Paragonato a Musil, il romanziere francese ha decostruito gli elementi strutturali del romanzo classico (vicende, personaggi, ambiente) per proporre, insieme agli altri nuovi scrittori (e nonostante le differenze), una forma alternativa di letteratura, al di là del personaggio e del soggetto. Debenedetti (Il romanzo del Novecento, 1970) ha parlato di antipersonaggio in relazione ai romanzi di Robbe-Grillet: a differenza di Stern, tuttavia, Debenedetti non apprezzava affatto le derive contemporanee della narrazione sperimentale, né la freddezza disumanizzante della sua prosa.

Il movimento di cui è considerato il caposcuola, tuttavia, si chiama nouveau roman: gli antipersonaggi (ma sarebbe quasi meglio dire: la scomparsa dei personaggi) e la forma del romanzo non entrano in contraddizione. Nel “racconto critico” debenedettiano la narrativa di Robbe-Grillet rappresenta una sorta di tragico punto di non ritorno: il fondatore dell’école du regard è ritenuto responsabile dell’assassinio del personaggio-uomo e quindi, ipso facto, della irreversibile disgregazione della forma-romanzo antropocentrica, e quindi del romanzo tout court.

Fotografia di Ezio Sinigaglia Pantarei

 

Non ho resistito alla tentazione di interpellare direttamente l’autore del Pantarèi su questa affinità divergente rispetto a Debenedetti. Sinigaglia spiega così il senso della presenza di Robbe-Grillet nell’economia del suo romanzo: «È vero: Debenedetti non lo ama proprio per via della freddezza disumanizzante della sua prosa, ma a dire il vero non mi sembra voglia ascriverlo alla categoria degli antiromanzieri; in ogni caso, è proprio la sua ‘posizione di confine’ che mi ha attratto, in Robbe-Grillet, convincendomi dell’opportunità di farne il punto d’arrivo paradossale (e non-concludente) del saggio di Stern e del romanzo stesso. Robbe-Grillet vuole destrutturare quel che resta del romanzo, ma vuole scrivere romanzi, non anti-romanzi. Non per niente la scuola da lui fondata si chiama nouveau roman. Si è soliti affermare che questa scuola, detta anche école du regard, è tipicamente anti-romanzesca perché lascia nel mondo tutti gli oggetti che lo compongono, sottraendone l’uomo. Ma lo sguardo dell’uomo, il suo occhio, sono indispensabili alla narrazione: nulla avrebbe senso senza il regard umano. Purtroppo, ma ben comprensibilmente, questa presenza soverchiante dell’occhio ha fatto scivolare Robbe-Grillet dal romanzo nel cinema, con esiti non felicissimi e, soprattutto, controproducenti rispetto alla sua attività di scrittore».

E ancora: Sinigaglia, intervistato su Crapula da Giuseppe Girimonti Greco, ben prima che la riedizione del Pantarèi diventasse un piccolo ‘caso’ editoriale, già cercava di spiegare perché Stern avesse canonizzato Robbe-Grillet, e lo faceva in questi termini:

«Robbe-Grillet, poi, nei suoi libri successivi, a mio parere si perde un po’ per strada, ma la cosa interessante di questo scrittore (la cosa che mi ha indotto a inserirlo nel canone del Pantarèi) è il fatto che abbia anche molto teorizzato sul suo lavoro di scrittore e sul nouveau roman da lui fondato, e questo mi offriva la possibilità di contrastare la sua teorizzazione con un’altra teorizzazione (fondata sulla metodologia del paradosso) per dimostrare non soltanto come il romanzo non sia  morto ma addirittura come proprio la posizione di questo autore porti a concludere che è impossibile ucciderlo, il romanzo, perché restano pur sempre, alla fine, un autore, un libro e un lettore».

Così, sul filo dell’ironia, Stern immagina un libro di Robbe-Grillet recensito (in realtà descritto) par lui-même:

«Il libro è un parallelepipedo molto schiacciato e non perfettamente squadrato, in quanto presenta un dorso leggermente convesso cui corrisponde una leggera concavità della faccia opposta. A giudicare dallo spessore, dovrebbe contenere circa cento fogli. La copertina rigida, di colore rosso, nascosta da una sovracoperta bianca e lucida, è visibile solo osservando le due facce laterali più corte. Essa sporge di circa un millimetro oltre il bordo delle pagine ed è rinforzata, in corrispondenza del dorso, da un cordoncino dello stesso colore. Eccetera eccetera».

Verso la fine della sua riflessione sulle Gomme e in generale sull’intera produzione di questo scrittore, il narratore arriva a una conclusione intelligente, benché obbligata: l’unico oggetto che sopravvive incolume alla disumanizzazione della letteratura è il romanzo stesso (perché altrimenti non potremmo leggere Robbe-Grillet, né nient’altro), oltre che naturalmente la parola. L’enciclopedia a cui Stern sta lavorando finisce sul nouveau roman: «La conclusione, meno paradossale di quanto sembri, è che non c’è nessuna conclusione. E con questa frase, che giaceva ironicamente in perfetta solitudine in cima all’ultimo foglio, Stern aveva davvero concluso».

A queste due conclusioni impossibili e paradossali non mi resta che aggiungerne una terza, sicuramente più inutile, perché non è necessario che scriva nient’altro.

 

PS: Vi assicuro che non è uno spoiler. Leggete Il pantarèi per sapere se vi sto mentendo!

 

Copertina di Santa Rita di Wieringa

L’universo è una causa persa

Con Santa Rita di Tommy Wieringa (Iperborea, 2019), nell’ottima traduzione di Claudia Cozzi, è tornata a circolare tra gli scrittori una massima di Čechov. Se vuoi aspirare all’universale, accetta il provinciale; punta ai massimi sistemi, e non saprai esplorare nemmeno i tuoi paraggi. Ce lo dice anche l’ultima prova di Vanni Santoni, I fratelli Michelangelo: ambienta la tua storia nella terra a te più prossima, e svelerai la verità del mondo, specie di quello che conta. New York, Londra, Berlino, Hong Kong…

Se non serve a scusare un localismo esasperato, l’universalità della provincia può sempre contare su una falla cognitiva: ci spinge a credere che gli eventi e i ricordi che recuperiamo con meno sforzo siano anche quelli più disponibili e condivisi. Giudichiamo universale quello che meno ci costa giudicare universale.

L’Overijssel, la provincia al confine con la Germania in cui è cresciuto Wieringa, è l’universo di Paul Krüzen, lo scapolo e figlio unico protagonista di Santa Rita. Quando Paul è ancora un bambino, un aeroplano russo si schianta a pochi metri da casa. Questo episodio imprime nella sua biografia il bipolarismo storico che spaccò l’Europa in nazisti e comunisti. Paul, infatti, si guadagnerà da vivere smerciando oggettistica militare nazista. La sua avversione per tutto ciò che odora di sovietico viene risvegliata dall’arrivo di un russo che stringe subito amicizia col losco proprietario del Club Pacha. Nel tempo libero, accudisce il vecchio padre, frequenta un caffè-ristorante gestito dai cinesi e incontra la sua santa Rita in un nightclub.

A capitoli alterni, il passato e il presente di Paul si mostrano secondo un modello già collaudato in Questi sono i nomi. I piani narrativi, in apparenza poco comunicanti, si sfiorano con l’inesorabile lentezza della vita in una sonnolenta regione di confine, dove a fare notizia sono il traffico di stupefacenti e il talento musicale che cantava alle feste di paese. Wieringa allestisce pazientemente la scena che prelude all’esplosione, a tal punto che Santa Rita corre il rischio di finire nell’antologia dei libri lasciati a metà. Ma superato il punto di non ritorno, la parabola della seconda parte precipita con una rara forza d’urto.

Rispetto a Questi sono i nomi, in cui i due filoni della trama sono troppo lontani per intrecciarsi indissolubilmente, la maestria compositiva ha senso proprio perché passato e presente si chiariscono a vicenda, e non per via di un epos collettivo, quanto per la propensione di tanti minimi dettagli a cospirare e ingigantirsi a vicenda fino a evocare violenza e assurdità. L’angoscia descritta nelle ultime pagine è tanto più serena e devastante se a innescarla è proprio la credenza che il miglior amico di Paul non ha il coraggio di smentire. Lo stillicidio delle informazioni è efficace perché mima l’oppressione tipica della provincia, in cui l’inesorabile ma estenuante profilarsi della rivolta prende il posto delle rivoluzioni cittadine.

Gli abitanti dell’Overijssel sono xenofobi latenti, già post-wildersiani. Costruiscono case in stile pseudosassone e si nutrono di cibo asiatico borbottando stereotipi sulla cucina asiatica. Ma lo straniero che si ferma in queste lande è un migrante pronto a volare via non appena fiuta un’occasione migliore: nel giro di una pagina, Paul è empatico verso i cinesi, «finestra sul mondo», che dopo aver acquistato un vecchio locale lo lasciano così com’è – a parte qualche tettoia e le foto ritoccate di cascate – ma al tempo stesso gli rimprovera di non saper mettere radici, di non distinguere un esker da un campo alto.

In Santa Rita si trova qualche frase ad effetto di troppo, ma anche pagine poetiche, come quelle che raccontano la passeggiata oltreconfine di Paul e suo padre in un campo di patate. La rude lode di Wieringa all’ingrediente principale della dieta olandese è una magnifica sintesi di Heaney e Van Gogh. Ed è qui che Santa Rita riesca a portare un sentimento trasversale in superficie.

 

(Tommy Wieringa, Santa Rita, Iperborea, 2019, 320 pp., euro 18,50, articolo di Giuseppe Cocomazzi)

 

copertina di Gli occhi vuoti dei santi di Giorgio Ghiotti

Qualcosa di coraggioso

Con la nuova raccolta di racconti di Giorgio Ghiotti, giovane autore che frequenta con successo sia la poesia che la narrativa, ci immergiamo in una materia dalla forma estremamente controllata e dosata ma dal contenuto sensibile: un complesso nodo di reminiscenze, pulsioni, ricordi ancestrali e legami ambigui, anche quando sono – o dovrebbero essere – quelli fondamentali per la crescita dell’individuo, ovvero quelli familiari.

Nelle dodici brevi e conchiuse storie che si avvicendano in questo ultimo libro, dal titolo Gli occhi vuoti dei santi, in libreria per i tipi di Hacca (il terzo relativamente alla narrativa dopo la raccolta Dio giocava a pallone e il romanzo Rondini per formiche, entrambi per nottetempo), Ghiotti mette in scena personaggi spesso disposti a narrarsi in prima persona, che non hanno timore di rivelare i propri lati più intimi e nascosti, una vocazione distruttiva o autodistruttiva, il desiderio inconfessato per qualcuno, sovente dello stesso sesso, o il sentimento di invidia e addirittura odio verso un fratello, una sorella, che assume lo strano ruolo ambivalente di persona molto vicina, dello stesso sangue, e indesiderato collettore delle attenzioni degli adulti, come si legge per esempio nei racconti “La casa di via Bolivares”, tutto giocato sul rapporto tra due fratellini complementari e antitetici, e “Santi giorni”, in cui si ritrovano le tematiche dell’omosessualità, del catechismo, della religione, della letteratura come mezzo per esprimere il desiderio.

Vi è nella scrittura di Ghiotti una naturale inclinazione per il dato biografico, regalato e sventagliato davanti agli occhi del lettore con un florilegio asciutto e dolente, privo di indulgenza, alle volte impietoso, per esempio in passaggi come: «Quello era veramente mio padre, una creatura stanca e muta in piedi sotto la porta, la vita breve, il sonno pesante, un collezionista di illusioni e speranze fallite, un nulla» (“Sacra famiglia in fiamme”).

Altre volte un giro di frase, un’accoppiata di parole, rievocano ricordi e momenti teneri, puliti, facilmente riconoscibili e ricollocabili, da parte di un lettore universale, nel grande vaso di pandora dell’infanzia, sul fondo del quale rimane solo quella perfetta briciola di felicità: «Allora eccomi con le gambe strette alla pancia, piccolissimo, fare corpo col suo che mi abbraccia scongiurando la vecia, poi senza preavviso prende a farmi il solletico, sempre più forte, da lacrime agli occhi, e solo la voce di mia madre che ci chiama alla cena ci rende la tregua, esausti e felici, fuori dal gioco della vecia per sempre» (“Che cosa sono i padri”); oppure ancora: «Si mette a quattro zampe per farsi perdonare e mi carica sulla schiena, fa il giro di tutta la casa. In quel momento sento di volergli bene davvero, mi sento invincibile. Sono in seconda elementare e la mattina dopo la maestra ci mette davanti un foglio con su scritto Disegna tuo padre; io disegno un cavallo bianco senza criniera in un prato pieno di fiori» (dal racconto che apre la raccolta, “Mio padre”).

Come si può notare da questi stralci la figura paterna è ricorrente, e a essa ci si riferisce come a qualcosa di inevitabile di cui, purtroppo, si conosce ogni miseria, oppure al contrario della quale non si giungerà mai a comprendere il senso, come «un pigiama da tirarne le maniche per metterlo a dritto».

Ma anche alle madri, e al rapporto madre-figlia, l’autore riserva strali importanti, nuovamente ambivalenti, descrivendo, e sempre con l’ausilio di nomi stranieri (la coppia Fleur-Christine in “È permesso” e Grace-Myra in “Mattatoio”), dinamiche miste di affetto e distrazione, vicinanza e fastidio, quando non proprio insofferenza, incomunicabilità: «Tra Grace e sua figlia si erano accumulati negli anni molto affetto, centinaia di sorrisi e un buco nero di incomprensioni».

C’è in questi racconti una sorta di fascinazione e antagonismo nei confronti della figura materna, soprattutto se indipendente o colta, ma anche in questo caso le venature di affetto, quasi indulgenza, ammirazione, e distruttività sono così vicine da formare un miscuglio in cui è facile perdersi, anche quando l’esito è fatale, come per la madre del racconto “Elena Gigli”. La donna madre è un’entità misterica e nello stesso tempo tangibile, cangiante attraverso le età e le situazioni, e verso la quale il figlio prova un sentimento di sudditanza, che poi in qualche modo rompe.
«Fu allora che la persi; non la vidi più, perché le madri nei parei sono tutte uguali e tornano bambine anche loro, e attraversare il mercato del lunedì con tutta quella gente sudata in bicicletta e cappelli di paglia e creme abbronzanti è una guerra che non possiamo affrontare di prima mattina con uno yogurt nello stomaco e il sonno ancora dentro le scarpette».

Oltre all’amore omoerotico, all’indagine sui rapporti familiari e a uno scavo della psicologia infantile che porta sempre alla luce qualcosa di non trasparente, in questa raccolta emerge anche un cantico potente innalzato alla giovinezza, a quella fase della vita in cui si fanno cose sconsiderate con l’eroismo dell’incoscienza. Allora un’amica speciale con cui ammazzarsi di videocassette d’estate – e imparare a memoria tutto Almodóvar – diventa il simbolo di un periodo che non tornerà mai più, così come la compagna di università con cui dividere sigarette ed esami di letteratura sudamericana, o quel drappello di scriteriati adolescenti della periferia di Roma che il narratore fa a tempo a sospirare come un mondo perduto, rendendosi conto che: «Non ci saranno più iniziazioni e corse con i motorini che chi vomita perde, né vedette dall’alto come pirati in cima all’albero maestro. Noi siamo pirati di una ciurma scomparsa, di una nave fantasma. Mastichiamo bastoncini di liquirizia amara, un sapore che mette inquietudine e ci fa vedere già grandi, e crescere fa paura se cresceremo lontani in sterminate metropoli, in camere d’albergo, nessun bar dove sentirci invincibili nessun corpo da spiare sotto la luna, il corpo di Lorenzo che è un corpo di capitano e strappa bestemmie e preghiere».

Risolvendo così anche il rapporto con la spiritualità, ovvero con un intreccio di bestemmie e preghiere, diciamo che Gli occhi vuoti dei santi è una piccola bussola letteraria attraverso cui mappare le preferenze dell’autore: si va da Michele Mari, ai sudamericani, alla grande Ernaux sino a una onnipresente, cara Ginzburg.

E la scrittura, tanto corteggiata, non è per questo meno dolorosa: «Mi ha chiesto “Come va la scrittura?”, e io sono scoppiato a piangere».

Però, nel caso di Ghiotti, è proprio la scrittura a dire qualcosa di nuovo, o, comunque, di coraggioso.

 

(Giorgio Ghiotti, Gli occhi vuoti dei santi, Hacca, 2019, pp. 192, euro 15, articolo di Teodora Dominici)
Poster italiano di Light of My Life su Flanerí

Sopravvivere senza le donne

Un’esordio alla regia decisamente ambizioso, quello di Casey Affleck. Nove anni dopo il mockumentary Joaquin Phoenix – Io sono qui!, l’attore premio Oscar per Manchester by the Sea si piazza dietro la macchina da presa per Light of My Life, interessante tentativo di aggiornare il filone post-apocalittico che tanto va di moda negli ultimi anni.

In un futuro non meglio definito una strana malattia ha decimato la popolazione femminile. Un padre e la figlia di undici anni si trascinano tra boschi e case disabitate per tenere la bambina al riparo dalle bande di uomini allo sbando.

C’è un grande riferimento dietro a Light of My Life: The Road, di Cormac McCarthy, e la sua versione cinematografica firmata John Hillcoat. Affleck si è ispirato alla distopia più cerebrale e meno d’azione di cui il romanzo premio Pulitzer è uno dei migliori esempi.

Se lì il padre cercava la salvezza verso il caldo del sud per il figlio, qui la meta è il nord e il freddo, lontano dagli uomini. La sparizione delle donne porta con sé anche i bambini, come in I figli degli uominidi Alfonso Cuarón, e lascia intendere un mondo pronto a divorare se stesso. Rimangono dei brandelli di umanità nelle città e in un sistema di distribuzione delle risorse con tessere annonarie, come in guerra.

Gli uomini, però, o forse è meglio dire i maschi, sono pronti a lottare per la possibilità di una donna, ridotti a uno stato primordiale di istinto e desiderio.

Casey Affleck scrive, dirige e interpreta un wester post-apocalittico che non vuole essere d’azione, ma di riflessione. L’intenzione è chiara dal primo piano sequenza, in cui il padre racconta alla bambina una favola inventata su una volpe e l’Arca di Noè, e si manifesta completamente quando i due parlano della differenza tra etica e morale.

La sceneggiatura prende molti dei temi classici del mito statunitense della natura come luogo di salvezza. Ci sono elementi filosofici che rimandano al giusnaturalismo e alla personale ricerca nei boschi di Henry David Thoreau. È un’idea che torna spesso nella letteratura e nel cinema nordamericano: la società è feroce ed è meglio rifugiarsi nelle terre desolate che affrontare gli uomini

Affleck concentra nel suo primo vero esordio tutta la voglia di dimostrare il suo valore. Il mockumentary Io sono qui! era cannibalizzato da Joaquin Phoenix e dal suo finto passaggio dalla recitazione alla musica rap.

Con Light of My Life, l’ex fratello piccolo di Ben cerca di affermarsi ancora una volta. Non è bastato l’Oscar a dargli lo spazio che probabilmente merita. Ci sono state le accuse di molestie da parte di due ex collaboratrici che hanno bloccato la sua carriera. Questo film può essere letto come una specie di mea culpa: un grande atto di riconoscenza verso le donne, la cui assenza scaraventa il mondo maschile nella brutalità primordiale.

L’ansia di voler dire troppe cose e di doversi dimostrare all’altezza delle sue stesse aspettative porta Affleck a strafare. Light of My Life è frenato da un eccesso di dialoghi e da un’incompiutezza della sua tesi di fondo su chi davvero sia il salvatore nella dinamica tra padre e figlia.

(Light of My Life, di Casey Affleck, 2019, drammatico, 119’)

 

Copertina di L'ambizione di Vermeer di Arasse

L’invisibile nel visibile: quella presenza impenetrabile nei quadri di Vermeer

Si può ammirare il chiaroscuro di Rembrandt o il brio di Velázquez, ma solo della qualità inesplicabile che il colore assume in Vermeer (1632-1675) si può dire che «è una coppa di miele colma fino all’orlo, l’interno di un uovo, una goccia di piombo fuso». Una volta che si sono visti i suoi quadri, tutto ciò che i maggiori artisti tendono a mostrarci della loro tecnica e del loro saper fare ci appare come vanità o debolezza, quasi una sorta di bluff. La sua più che singolare capacità di elevare la luce e la materia al rango di personaggi, rendendoli concreti, fisici e spirituali insieme, è la precisa scelta artistica alla base della celebrata dimensione enigmatica delle sue tele, tema cardine del saggio L’ambizione di Vermeer del grande storico dell’arte Daniel Arasse (1944-2003), di recente riproposto da Carocci editore (2019).

Attraverso una rigorosa analisi del corpus dei trentaquattro quadri che ci sono pervenuti, più il dipinto Fanciulla con cappello rosso (1665 circa) di incerta attribuzione, Arasse si interroga sulla più immediata delle caratteristiche del pittore di Delft; quell’ipnotico quid che cattura lo sguardo, quella soffusa aura segreta che inspiegabilmente emana dalla banale semplicità delle quiete scene d’interni, con le sue donne che leggono una lettera o versano lentamente del latte da una brocca, i suoi pavimenti di marmo a riquadri e le grandi finestre aperte che nulla lasciano trapelare dell’esterno.

Vermeer, ben più che semplice «pittore della luce», la cui fortuna critica si è spesso prestata a limitanti semplificazioni, ci viene svelato per quello che realmente è: un geniale precursore che, pur muovendosi all’interno dello specifico Kunstwollen della pittura olandese del XVII secolo, dunque entro i termini di un’arte dell’interiorità, la sorpassa incommensurabilmente, donandoci la suggestione di un invisibile nel visibile, di un’intimità allo stesso tempo vicina e preclusa, di un inconoscibile nel manifesto. Anche in lui, infatti, ritroviamo topoi e pratiche diffuse all’epoca, quali la lettera, gli strumenti musicali, lo specchio, le perle, ecc. non meno che l’espediente volto a separare il primo piano dal vero protagonista della rappresentazione, interponendovi «barriere» di oggetti come tendaggi, tappezzerie, tavoli, seggiole, nature morte e così via.

Ma ciò che lo distingue e rende unico è la portata del suo scarto rispetto ai cliché del periodo, come possiamo osservare ad esempio in La merlettaia (1669-70 circa). Nella sua versione del tema ogni cosa è studiata affinché lo spettatore non veda nulla di ciò che lei fa, dal punto di vista obliquo o la mano che nasconde la visuale del suo lavoro alla ripresa della scena dal basso. Non solo, ma il filo con cui l’artigiana sta lavorando è perfettamente a fuoco, mentre le matasse dei fili bianchi e rossi ai margini del campo visivo sono volutamente sfumati e imprecisi. Il loro colore è spesso, pesante, lento.

Il suo genio ha cioè sapientemente predisposto lo spiazzante paradosso di una visibilità al contempo offerta e sottratta allo sguardo dello spettatore, invitandoci a far nostra l’attenzione che la merlettaia rivolge al tombolo, partecipando così alla sua concentrazione interiore, ma al contempo escludendoci da ogni visione del merletto, da ogni possibile condivisione. Noi non vediamo quello che guardiamo, eppure tutto sembra mostrarlo.

Saggio fondamentale, L’ambizione di Vermeer ci rivela la struttura profonda dell’opera del maestro, quel fine ultimo della pittura che non esiste semplicemente per far conoscere il suo oggetto, ma per rendere colui che guarda testimone di una essenza – inafferrabile tuttavia innegabile – che non si lascia spiegare né permette di essere ricondotta al mero registro dei suoi contenuti, come ne è aderente quanto affascinante esempio La lezione di musica (1662-64 circa), dove l’inaccessibilità interna del quadro è l’inaccessibilità della vita stessa.

Qui lo specchio di fronte all’osservatore è appeso alla parete al di sopra della donna che, di spalle, suona il virginale. Sulla sua superficie – opaca, di una profondità di tono densa come il rovescio di un cucchiaio – vi sono riflesse sia lei che il cavalletto del pittore che sta dipingendo la scena che vediamo. Perciò, a prima vista, lo specchio sembra far coincidere il nostro sguardo e quello dell’artista. Eppure, dal momento che quest’ultimo non vi appare, Vermeer ha deliberatamente escluso ogni testimone esterno dalla sua propria prospettiva. Nell’intimità del quadro, tra il pittore e noi, si instaura una presenza-assenza di cui non possiamo che essere testimoni, senza però penetrarla né risolverla.

Perché di fatto è proprio in questa sospensione di senso, nella voluta ambiguità che rende indecidibile la leggibilità di ciò che è visibile, che si trova la ragione del richiamo singolare e profondo di Vermeer, la sfinge di Delft. Dal piccolo mondo assopito e provinciale della quotidianità ha saputo evocare, come nessun altro, l’anima della vita con tutto il suo mistero.


(L’ambizione di Vermeer, Daniel Arasse, Carocci Editore, 2019, 188 pp., euro 28, articolo di Claudia Cautillo)

 

Finalmente i Coldplay tornano a fare quello che sapevano fare

Come la mettiamo ora con tutti quelli che hanno conosciuto i Coldplay da Viva la Vida and Death ad All of His Friends in poi? Quella band iper-pop, fuochi d’artificio, testi insignificanti e approccio radiofonico/da stadio come unico stilema? Musica svuotata e trasformata in solo divertimento. Che succede ora? Perché Everyday Life è la miglior cosa prodotta dai quattro londinesi da più di dieci anni e si muove su linguaggi non immediati.

Quest’ultimo lavoro, che in realtà è un doppio che si divide in due parti, Sunrise e Sunset, infatti è tra i più variegati e plurali della loro carriera. Gli esordi erano un bellissimo pop che si nutriva degli insegnamenti del brit pop e dei Radiohead, ma non osava mai troppo. Qui convive world music, afrobeat, assoli di corno, gospel, oltre a ballate vere e proprie alla Coldplay. Un delirio, se confrontato a quanto accaduto negli ultimi anni. Certo, il singolone c’è sempre, “Orphans”, ma è un caso unico e tutto sommato funziona.

Già con Ghost Stories, comunque, si intravedeva qualcosa che potesse, se non cancellare un decennio di immondizia, quantomeno ricordare che un tempo i Coldplay erano un gruppo per cui si poteva perdere la testa. Era un minimalismo controllato, un buonissimo album con sprazzi, forse troppi, alla Bon Iver (“Midnight”, per esempio), ma c’era poco coraggio reale.

Poi A Head Full of Dreams ha riproposto gli stessi dogmi stomachevoli del post X&Y e i Coldplay sono tornati a essere I Coldplay  fastidiosi, non ispirati e sostanzialmente inutili se non per il loro profitto.

I Coldplay: o sono furbi, o sono dei mercenari tipo i Muse (cosa che fino a qualche anno fa era più che una supposizione) o semplicemente vivono di enormi alti e bassi, di cui potremo capire l’andamento solo a fine carriera.

Arabesque”, probabilmente il miglior episodio di quest’album, è il caso più lampante e si fa fatica a credere che le persone che hanno scritto questo brano sono le stesse che hanno scritto “Charlie Brown”: trombe jazzy che dialogano con un testo politico, l’assolo di Femi Kuti, figlio di Fela Kuti, e un finale di fiati in un crescendo-vortice. A seguire, un coro non più da stadio, ma liturgico, “When We Need a Friend”, intimo e potentissimo, che chiude il lato A, Sunrise. Ma non è solo questo: prendiamo “Trouble in Town”, di chiara matrice Police? Oppure il commovente intro strumentale “Sunrise”? Il low-fi di “WOTW/POTP”?

Chi scrive ricorda il concerto del 15 Novembre 2005 al Palamalaguti di Bologna. Era il Twisted Logic Tour, la promozione di X&Y. Chi scrive ricorda il timore di quei palloni colorati che a un certo punto vennero tirati tra il pubblico e che si allacciavano a  un modo di fare che, fino ad allora, non era parte dell’immaginario prodotto dai Coldplay. Era il momento in cui veniva a definirsi un pre  e un post nella storia dei Coldplay.

Quindi ritrovarsi  tra le mani, 14 anni dopo,  un album come Everyday Life non può che procurare un’enorme nostalgia: quando Chris Martin, ad esempio, canta così ispirato in “Everyday Life” – una canzone a cavallo tra Parachutes e A Rush of Blood to the Head -, «Am I the future or the history?»,  è difficile non ricollegarsi a “Clocks” e al suo «Am I a part of the cure or am I a part of the disease?». Ma il sentimento provato è anche  di profonda avversione nei confronti di quattro artisti che per troppo tempo hanno messo davanti alla musica altro.

Forse non sono tornati quei Coldplay – o almeno non è tornata la promessa di qualcosa che non sono più stati. Quello che è sicuro è che oggi, nel 2019, siamo di fronte a una sorta di miracolo nel mondo della musica: i Coldplay hanno scritto un bell’album, lontano dalla nauseante accondiscendenza servile  nei confronti del mercato.

Non perdoneremo mai a Chris Martin di essersi tradito, ma possiamo godere oggi di un’ispirazione che sembra ritrovata, sperando che questo non sia un caso e che la loro carriera prosegua su questi binari.

Copertina di Il vichingo nero di Birgisson

Dell’importanza di continuare a raccontare storie a voce

Il Vichingo nero di Bergsveinn Birgisson (Iperborea, 2019) è una lettura che lascia il segno e arricchisce. Il taglio evidentemente scientifico di Birgisson filologo e storico mina a volte la capacità di apprezzare la storia in quanto tale di uno dei primi e semi-leggendari colonizzatori d’Islanda, Geirmund Helijarskinn, Geirmund Pelle scura. Infatti, talvolta il lettore potrà gradire poco alcuni excursus, giudicandoli pesanti, ma occorre ricordare che questi fanno parte della struttura e dello stile di un’opera, prima di tutto, storica.

Le vicende sono raccontate con l’acribia dello storico e con una grande precisione nella raccolta delle fonti che, come scritto in chiusura dall’autore, sono state confrontate e studiate anche grazie al supporto di professori e istituzioni scientifico-culturali sia norvegesi che islandesi. Norvegia e Islanda sono, infatti, i due poli principali della storia vichinga e Birgisson confronta costantemente le tradizioni di questi due Paesi per la toponomastica e per i soprannomi dei vari personaggi vichinghi.

Il pretesto narrativo nasce dall’esigenza storica di raccogliere quante più notizie possibili su una tale ancestrale figura, purtroppo dimenticata dalla storia. Geirmund, a differenza dei più noti Harald Bellachioma o di Ragnarr e dei suoi figli (al centro della serie tv Vikings e di saghe più celebri), non ha mai avuto uno spazio definito in una saga personale. Questo libro si propone di essere anche la saga che Geirmund meriterebbe, ma Birgisson indugia troppo sul dato storico, sottraendo alla storia stessa l’anelito mitico che una saga dovrebbe avere.

Di Geirmund l’autore venne a sapere da ragazzino, quando un amico dei suoi genitori gliene raccontò le gesta. Una fonte orale, dunque, è alla base della ricerca, poi approfondita attraverso la lettura comparata di fonti locali, di manoscritti insulari e di tradizioni che vengono da lontano, dagli irlandesi che ne documentarono i contatti in alcuni manoscritti pervenutici, dagli arabi che con questi popoli del Nord intrattennero relazioni commerciali. Tale presentazione della fonte orale, il racconto udito durante l’infanzia, posta come prologo, ricorda da vicino le Storie di Erodoto, in cui l’autore ammette che la sua ἰστορίης άπόδεξις, la sua ‘esposizione’, prende avvio da fonti che, seppure non confrontabili, sono affidabili perché, prima di tutto, da lui udite.

L’esposizione della storia, proprio come in Erodoto e negli storici antichi, procede per capitoli autonomi, in cui ogni aspetto viene approfondito con rigore, puntualizzando la questione etnica dei popoli norreni e, tra questi, quello cui avrebbe potuto appartenere la madre di Geirmund; i loro costumi; la peculiare pesca con gli arpioni, che le fonti arabe descrivevano come un rituale sacrale e straordinario, un lancio di spade nel mare perché i pesci venissero a galla dopo aver invocato gli dèi; la caccia al tricheco, per ottenerne grasso e cordame per le imbarcazioni e, in una fase successiva, quando cioè furono interrotti i contatti con l’Africa, per l’avorio; la peregrinazione di un popolo sempre votato al viaggio, curioso e ingegnoso.

Come già detto, una tale precisione storica, filologica appunto, talvolta sottrae piacevolezza alla lettura. Il motivo sta ancora una volta nelle precisazioni iniziali dell’autore, che vuole restituire del suo antenato non soltanto un profilo storico accurato, ma pure personale: «Le fonti non rivelano nulla sulla personalità di Geirmund Pelle Scura. Se quando sorrideva gli si scoprivano i denti consumati, se era crudele oppure equanime con i suoi sottoposti o se riusciva a vedere il lato comico dell’esistenza […] se diventava logorroico quando beveva, se zoppicava o aveva cicatrici, se ha mai pianto, se reprimeva gli impulsi peggiori o invece li esternava con i suoi cari», o intellettuale: «i pagani avranno ascoltato la storia del Cristo Bianco e della sua morte, che sarà senz’altro parsa loro strana […] Che cos’è il peccato? potrebbe aver chiesto Geirmund».

Birgisson consegna al lettore, infine, la sua personale saga del vichingo nero, ricomponendo finalmente la fama che Geirmund avrebbe meritato con una rapsodica operazione di tessitura delle fonti, tenute insieme da una scrittura sapiente, ma spesso difficile da seguire con attenzione.

 

(Il vichingo nero, Bergsveinn Birgisson, Iperborea, 2019, trad. di Silvia Cosimini, 448 pp., euro 20, articolo di Marco Miglionico)

 

 

Copertina di Fame di Isabella Corrado

Un tattile senso di precarietà

Il ritratto di una generazione vorace, in bilico tra sogni e ambizioni, avvolta da una dimensione precaria e instabile. Fame di Isabella Corrado (Ensemble, 2019) si snoda in una trama fluida e serrata tra romanzo di formazione – attraverso gli occhi di una trentenne, Manuela Riva, talentuosa ma sfruttata dal sistema, e quelli di Derek, giovane ricco e demotivato, a caccia di un senso e di una vocazione – e il romanzo psicologico.

Manuela e Derek sono due giovani d’oggi: si incrociano per caso, si rincorrono e hanno molte cose in comune, seppur appaiano molto diversi al primo impatto. Lei, laureata in storia dell’arte con un master in fotografia e design al Royal College di Londra, l’istituto d’arte più prestigioso d’Europa, passa da uno stage all’altro, ingoiando l’inevitabile frustrazione lavorativa essendo poco retribuita, trattata molto al di sotto delle sue capacità e attitudini.
Rientra a casa di sera per ordinare la cena a domicilio, che trangugia facendo un giro sui social. Ed è lì che consolida l’amicizia virtuale con Marco De Chinto, un artista performativo conosciuto durante una mostra. Un uomo che la sfrutterà come una musa ispiratrice, usando le foto del suo corpo – a pezzi, chiarirà la protagonista – scambiate durante le conversazioni virtuali. Una delusione per Manuela già provata dal rapporto conflittuale con i genitori: la madre, una psicanalista che vive a Londra e si è risposata con un brillante uomo d’affari e il padre che vive a Roma.

Derek Zinni è figlio di genitori italiani ma è nato a Londra: il padre è un affermato imprenditore, ricco, colto. La figura della madre invece è assente e Derek si troverà in parte a sostituirla con la sua terapeuta, la dottoressa Rooper. Anche Derek vorrebbe affermarsi nel mondo, sopraffatto dal confronto con un padre di successo ha delle velleità artistiche profonde, ma che non riesce a rendere concrete, passando da una dipendenza a un’altra: quella per le donne e il sesso, il cibo, lo shopping, la vita piena di agi e di vizi. Questo il motivo principale per cui, come confida al suo migliore amico Hamed, decide di iniziare un percorso terapeutico e affrancarsi da quella fame atavica e compulsiva che lo imprigiona.

Derek e Manuela si incontrano a Southbank alla festa di inizio anno del Royal College, un party al quale di solito sono invitati i ricchi rampolli inglesi e si intercettano immediatamente: questo loro legame fluido e sotterraneo si dipanerà per tutto il romanzo, in un rincorrersi di pensieri e di appuntamenti mancati.

Per Derek, che decide sotto il consiglio della sua terapeuta di isolarsi per smettere di avere fame di sesso, alcol e cibo, Manuela diventa una sorta di ancora di salvezza, un pensiero autentico che possa finalmente colmare i vuoti insopportabili di cui soffre da anni.

Manuela per un caso (che probabilmente come l’autrice di Fame suggerisce, non esiste) trova degli appunti di Derek: ed è lì che scatta in lei la ricerca verso un ideale di empatia e di corrispondenza con questo coetaneo, con il quale magari sentirsi tutta intera e meno affamata. Fino al colpo di scena finale, che intreccerà ulteriormente le loro vite e le loro radici.

Fame è la radiografia del nostro tempo, in cui tutto è permeato da un senso di precarietà, reso quasi tattile dall’autrice. Perché subito, attraverso i racconti in prima persona, all’inizio di Manuela e poi di Derek, si tocca la realtà che viviamo, il contesto in cui le generazioni attuali devono confrontarsi, facendo i conti con la dispersione di molti ideali e di numerose certezze.

«La mia forse è una generazione più malata di tutte le precedenti che si ricordino […] forse perché ancora siamo all’interno della Storia e sembra che non riusciamo a far nulla che ne sia degno, nulla per cui saremo ricordati».

Ma senza smettere di avere fame: fame di affermazione lavorativa e professionale, di famiglia e di stabilità, di sogni.

 

(Isabella Corrado, Fame, Ensemble, 2019, pp. 159, euro 15,00, articolo di Antonella De Biasi).
Poster del film La famosa invasione degli orsi in Sicilia su Flanerí

Gli orsi siciliani di Buzzati

È un grande film, La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Una piccola perla di animazione italiana, con produzione francese, che riesce a coniugare altissima qualità di disegno con una storia raffinata e ben scritta.

Presentato nella sezione Un Certain Regard dell’ultimo Festival di Cannes, e poi ad Alice nella città a Roma, il film parte dall’omonimo romanzo scritto e illustrato da Dino Buzzati nel 1945. Le illustrazioni originali, pubblicate a puntate sul Corriere dei piccoli a corredo del racconto, sono servite solo da spunto di riferimento per il film, che si evolve con uno stile personale di grande fascino.

Alle matite – e alla regia, e alla sceneggiatura insieme a Jaen-Luc Fromental e Thomas Bidegain – c’è Lorenzo Mattotti, fumettista e illustratore italiano al suo esordio sul grande schermo dopo una serie di collaborazioni che vanno da Eros del trio Antonioni–Won Kar-wai–Soderbergh al Pinocchio di Enzo d’Alò.

Leonzio è il re di una nazione di orsi che vive pacifica e beata sulle montagne siciliane. Quando suo figlio Tonio si perde, poco prima del letargo invernale, il re guida il suo popolo verso le valli degli uomini alla ricerca del cucciolo e di cibo per l’inverno. Il Granduca di Sicilia, però, affronta gli orsi sul campo di battaglia. Leonzio e i suoi dovranno misurarsi con mille avventure prima di ritrovare Tonio e il senso autentico della loro natura animale.

La storia dell’invasione viene raccontata dal cantastorie Gedeone e dalla sua assistente Almerina a un vecchio orso che svegliano inavvertitamente dal letargo nel loro viaggio verso Caltabellotta. Lo spunto della cornice narrativa colloca il film nella tradizione antica dei cantastorie siciliani, dando spessore a un racconto leggero ma carico di contenuti.

Si sente la presenza del romanzo di Buzzati, alle spalle, uno dei suoi libri forse meno ricordati e celebrati, ma non per questo opera minore.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia rappresenta un’opportunità per il cinema d’animazione italiano, capace a intermittenza di proporre grandi film. Mattotti arriva all’esordio in età matura, a sessantacinque anni, ma può rappresentare una continuità ideale con gli interessanti lavori del napoletano Alessandro Rak L’arte della felicità e Gatta Cenerentola.

La produzione francese alle spalle garantisce il supporto di un’industria che ha saputo valorizzare negli ultimi anni una serie di grandi titoli, a partire da Kiriku e la strega Karaba del 1998 fino a straordinari esempi più recenti, come la coproduzione con Studio Ghibli per La tartaruga rossa.

Film come La famosa invasione degli orsi in Sicilia dimostrano che è possibile fare grande animazione senza i mega-budget di Disney e compagnia. Un film capace di divertire e ispirare i più piccoli, di affascinare e convincere i grandi.

Ottime le voci dei doppiatori, con Toni Servillo, Antonio Albanese e Corrado Guzzanti. Fa tenerezza il cameo vocale del grande Andrea Camilleri per l’orso anziano.

 

(La famosa invasione degli orsi in Sicilia, di Lorenzo Mattotti, 2019, animazione, 83’)

 

Il grande sogno spezzato dei Management (del dolore post-operatorio)

Ritrovarsi a pensare agli autori di Auff!! porta sempre con sé una dose di malinconia per qualcosa che poteva essere, ma che si è spezzata troppo presto. Due anni fa con Un incubo stupendo, oggi con Sumo. C’è stato un momento, poco meno di dieci anni fa, in cui gli allora Management del dolore post-operatorio sembravano potessero essere una delle band di culto del secondo decennio del 2000. In qualche modo lo sono stati e forse lo sono tutt’ora, ma ciò che è successo nella musica italiana ha cambiato il modo di percepirli.

È già storia il fatto che abbiano mancato per pochissimo la combinazione tendenza/social network, di cui si è nutrito e si nutre ancora tutto il movimento e l’ideologia di tutto quello che viene chiamato itpop. Strutturalmente non adatti a partecipare a uno stravolgimento del genere, hanno cercato negli anni di calibrare il tiro, non riuscendo del tutto a capire come fare.

Qualcosa andò storto, o meglio. Ci fu un’ingenua incapacità di non saper cogliere un momento favorevole. O forse era troppo forte una corrente completamente diversa che piano piano metteva le radici e che negli anni è andata inerpicandosi come un’edera nel panorama musicale italiano. Il che creò una sorta di interruzione di una storia che sembrava poter prendere una direzione, ma che andò a finire invece in tutt’altro posto. La storia, oltretutto, di come un’etichetta, MArteLabel, che soccombe a un’altra, Bomba Dischi.

Perché l’immagine iconica di Luca Romagnoli che durante il concerto del primo maggio a Roma mostra un preservativo come fosse un’ostia, è ancora impressa nella memoria della musica italiana di questo fine secondo decennio del duemila – facile qui il parallelismo con Lorenzo Kruger che si rasa sullo stesso palco: esibizionismo provocatorio fatto ai piedi di uno dei luoghi fondamentali della storia cristiana, in televisione, di fronte a una grossa parte di pubblico che non aveva la minima idea di chi fosse quel gruppo. Era punk, era ribellione, era un messaggio chiaro e diretto, era una presa di posizione: era qualcosa che trasudava nei loro brani.

Quel «sei tutto il porno di cui ho bisogno», oppure «i palazzi quegli enormi cazzi», avevano la capacità di poter essere collante di una simbologia alternativa che in quegli anni si andava ricostruendo dietro l’eredità dei CCCP, Afterhours e Marlene Kuntz e che sembrava essere, prima di loro, nella mani dei Nobraino.

Di fatto, però, sono stati letteralmente fagocitati e ghettizzati da tutto un movimento artisti/pubblico/ mercato che aveva bisogno di altro: Auff!!, del 2012, usciva un anno dopo Il sorprendente album d’esordio dei Cani, che involontariamente apriva le porte a Caltutta e a tutto ciò che ne è derivato. I Management non hanno avuto la forza di tenere testa e di essere coscientemente una valida alternativa.

L’anno scorso il tentativo di ripulirsi, riducendo il nome a un più intellegibile Management. Magari, se non ci mettiamo di traverso, possiamo provare a confonderci in tutto questo enorme calderone, avranno pensato. Oramai, purtroppo, sembrano fa parte di un passato il cui unico sbocco è un presente nostalgico. Il nuovo album di quelli che oggi chiamiamo Management lo si attende con un modo di fare che sfiora il disinteresse, ma che di fondo porta con sé, per chi ha seguito la loro genesi, la curiosità di capire. E chissà, alla fine hanno fatto pure un bell’album.

Ha senso, quindi, un album dei Managment, ora? Che cos’è Sumo?

È un buon lavoro, sicuramente migliore rispetto ai suoi ultimi due predecessori, ma non ci voleva molto. I Love You e Un incubo stupendo, senza giri di parole, erano solamente due album mediocri. Sumo invece ha qualcosa. Qualcosa di già sentito, certo. Qualcosa di fruibile, quantomeno. C’è molto Contessa, nella grammatica della melodia. Una sorta di itpop un po’ più sporco. Lo si riconosce scorrere lungo tutte le tracce (tranne l’ultima “Sessosesso”, che emerge come universo indipendente), lo si tocca, è palese che ci sia – la frase presa da “Chiara scappiamo”, «Lo conferma sempre il cielo grigio di Milano», cantata in quel modo, potrebbe essere di un qualsiasi epigono di Calcutta. Non potrebbe essere altrimenti: è la carta che oggi devi giocarti per provare a uscire fuori se non ce la fai in altri modi.

Fa un po’ tristezza, in fondo, perché i brani funzionerebbero lo stesso. Senza eccedere in paragoni sconvenienti, “Avorio” rimanda un po’ ai The National. Spazzi di drone qui e là (“Sto impazzendo”). Gli ultimi Bloc Party che escono in “Sumo”. Un lavoro cupo che desta interesse. Questo per dire che i bani ci sono, ma che in qualche modo si bloccano dovendosi confrontare forzatamente a un mondo per cui pare obbligatorio per forza passare. Una specie di ultima spiaggia, un’isola dei famosi per emergenti e non.

I Management sono uno strano episodio della musica italiana: cosa sia successo dal punk degli esordi a oggi è, in qualche modo, il cambiamento accaduto in quest’ultima decade di musica in Italia. Peccato, perché Auff!! era il seme di qualcosa che sarebbe potuto diventare molto più di quello che è stato.

Ma continueremo ad ascoltare i Managment, per capire. E magari perché no: avranno pure fatto un bell’album.