“Anatomia di un giocatore d’azzardo”
di Jonathan Lethem

La fortuna è cieca, si dice. Alexander Bruno – il protagonista dell’ultimo romanzo di Jonathan Lethem Anatomia di un giocatore d’azzardo (La nave di Teseo, 2017) – non lo è ancora del tutto. Malgrado la comparsa di una macchia, che offusca progressivamente il suo campo visivo, questo dandy di mezza età, cinico e moderno, continua a fare ciò che gli riesce meglio nella vita: spennare ricconi avidi e pieni di sé giocando a backgammon in giro per il mondo, scortato dal suo inquietante manager Edgar Falk. Eppure, nel momento in cui inizia il romanzo, qualcosa non sta andando per il verso giusto. Bruno è reduce da una serie di clamorose e inattese sconfitte al tavolo da gioco in quel di Singapore, e ora deve giocarsela a Berlino con il “pollo” di turno: Wolf-Dirk Köhler. Incredibile ma vero: perderà anche questa volta e – a causa della famigerata macchia – finirà addirittura in ospedale. Cosa sta succedendo? Solo un po’ di sfortuna passeggera? Nient’altro che un semplice malore? Purtroppo no. Per Bruno è solo l’inizio della fine, con le sfide al tavolo da gioco a fare da metafora della lotta contro la morte di un uomo che avanza inesorabilmente verso la vecchiaia e – nello specifico – la malattia: «Il vero giocatore d’azzardo è lì per perdere, per testare la propria mortalità. Perché muore senza morire», ci ricorda lo stesso Lethem in una delle interviste rilasciate alla stampa durante l’ultimo Salone del Libro di Torino.

Più che a una banale lezione di anatomia, quella a cui assistiamo (e che concerne Alexander Bruno) è una progressiva mutilazione fisica e psicologica; una discesa nel sottosuolo dal gusto dostoevskijano di un uomo che «nella maggior parte della sua vita si è affidato alla sua bellezza e al suo carisma, sostituendoli alla capacità di vivere nel mondo». L’autore è molto crudele con lui – ammette lo stesso Lethem –, e nel romanzo gli arriva il conto da pagare, tutto insieme. Era questo l’obiettivo programmatico dello scrittore americano: «Volevo vedere quanto si può togliere a una persona pur facendola rimanere se stessa».

Attorno ad Alexander Bruno – che, come afferma l’autore, sarebbe «un misto tra alcuni amici del college e Geoff Dyer (l’autore britannico di Natura morta con custodia di sax, ndr)» –, ruotano vari personaggi piuttosto bizzarri e dai nomi a dir poco fantasiosi. Il già citato manager Edgar Falk, con inquietanti manie di esibizionismo – «mostrando lo sfacelo delle proprie carni decrepite Falk si appropriava del potere del tempo, punzecchiando gli uomini più giovani con lo spettro di quello che sarebbero inevitabilmente diventati» –; lo strambo compagno di scuola di Berkeley Keith Stolarsky e la sua minuta (ma dotata di un generoso décolleté) amichetta Tira Harpaz – questo nome esiste davvero e Lethem ha vinto la possibilità di usarlo a un’asta al liceo La Guardia –; la misteriosa donna tedesca Mädchen Abplanalp – altro nome autentico preso direttamente dall’elenco telefonico – la cui presenza fluttua nella vita di Alexander fin dalle prime pagine del romanzo; ma soprattutto: Noah Behringer, il chirurgo hippie fan di Jimi Hendrix, con tanto di sandali e coda di cavallo, che opererà Bruno per più di dieci ore nel tentativo di «aprire una porta nel suo volto» al fine di asportare il “meningioma” responsabile della macchia: «Mi hai chiesto di salvarti, ma per salvarti ho dovuto distruggerti. È questo che faccio», dice Noah ad Alexander, che non finiva in ospedale dall’età di undici anni e che dopo l’operazione si ritrova con la faccia ridotta a «qualcosa di simile a un impasto per il pane, gonfia e venata, qua e là tumefatta o afflosciata, in altri punti leggermente squamata, e rattoppata ovunque per aderire al contorno dello scheletro». Una porta, quella scavata a colpi di sega e bisturi dal “rock doc”, che diventa simbolicamente per Bruno un modo per tornare indietro nel tempo e riscoprire se stesso al di là della maschera elegante e impenetrabile che si era artificialmente cucito addosso.

Ma il vero protagonista del romanzo è la lingua di Lethem, fresca e rapida, ma nello stesso tempo molto precisa, in particolare quando si tratta di descrivere i dettagli del gioco del backgammon – passaggi che potrebbero risultare un pelino noiosi per chi non lo conosce affatto – o di fornire le indicazioni topografiche delle varie città che appaiono nel libro (Berlino e San Francisco in particolare). Ancora di più quando, nel raccontarci l’operazione chirurgica subita da Alexander, si serve con disinvoltura di specifici termini medici: «Mia madre morì quando ero adolescente – ricorda Lethem –, aveva un tumore al cervello, diverso da quello di Bruno, ma che ha inaugurato la mia fascinazione per la chirurgia e la neurologia».

Nonostante si tratti di un romanzo realistico – a parte i riferimenti alle misteriose capacità telepatiche di Bruno –, l’autore non rinuncia alla sua caratteristica vena postmoderna, impreziosendo l’intreccio – di per sé non ricchissimo di colpi di scena – con delle metafore fantasiose – definire la macchia come «un granchio reale acquattato dietro i suoi occhi» ne è un piccolo esempio –, simpatici riferimenti alla cultura popolare – da 007 al grande Lebowski a Jimi Hendrix – e gustose digressioni – per fortuna non esageratamente lunghe – come quella del “gioco dell’aereo” praticato da Bruno o quel dialogo in un locale «a forma di stronzo gigante» su come si mangia un hamburger; o ancora immagini difficili da dimenticare come la partita a Gin rummy con una suora al capezzale di un letto di ospedale. Senza dimenticare dialoghi grotteschi, come quando tolgono le bende dagli occhi di Bruno dopo l’operazione: «Devi aver pazienza se c’è qualche sovrapposizione, o qualche mosca volante». «Ti offendi se ti definisco mosca volante?» «Dipende. Quanti nasi ho?» «Lo stesso numero delle barbe, e metà degli occhi». «Sta già scherzando! E ha un ottimo aspetto, non è vero?».

Il continuo cambio di tono tra il romanzo dostoevskijano, o alla Ivan Il’ič, al fumettone postmoderno – unito a qualche battuta comica un po’ infelice, tipo questa: «Ho parlato persino con quella signora inglese, Claudia Benedict. Una brava persona, anche se non un’esperta in questo ambito, e meglio un uovo oggi, che… l’ha capita? Uova alla Benedict» – è forse l’unico vero punto debole del libro, seppur magistralmente concepito e realizzato: non sappiamo mai se credere davvero a quei personaggi e a quelle storie oppure no, quasi come se Lethem avesse paura di renderci tristi o di farci soffrire fino in fondo. Se fosse stato anche lui un giocatore d’azzardo, avrebbe rischiato di più.

 

(Jonathan Lethem, Anatomia di un giocatore d’azzardo, trad. di Andrea Silvestri, La nave di Teseo, 2017, pp. 436, euro 20)

“L’inganno”
di Sofia Coppola

Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, L’inganno segna il ritorno di Sofia Coppola a quattro anni di distanza da Bling Ring. Partendo dal romanzo The Beguiled di Thomas P. Cullinan (noto anche con il titolo A Painted Devil), la figlia di Francis Ford Coppola ha cambiato le premesse che avevano già portato il libro sullo schermo nel 1971 con la regia di Don Siegel, Clint Eastwood come protagonista e un titolo scelto dai distributori italiani che faceva aspettare la presenza di Alvaro Vitali nel cast (La notte brava del soldato Jonathan). Lontano dalle dinamiche quasi horror del southern gothic originale, L’inganno diventa un thriller psicologico che vuole anche riflettere sul ruolo della donna, un po’ a tutti i costi.

Durante la guerra di secessione, il caporale nordista Jonathan McBurney viene ferito in Virginia. Sperduto nei boschi, viene trovato e soccorso da una bambina ospite di un collegio femminile. Lì, in pieno territorio sudista, il soldato trova aiuto e conforto nelle donne dell’istituto rimaste sole. La presenza del nemico in casa scatena i dubbi della direttrice, Miss Martha, combattuta tra l’umanità e il dovere di denunciare la presenza del nemico, e la curiosità delle altre ragazze, inclusa l’insegnante Edwina.

Ci sono tutti gli elementi tipici del cinema di Sofia Coppola in L’inganno. L’attenzione per il mondo femminile e l’indulgenza nei confronti dei protagonisti si uniscono alla modernità del racconto, anche quando si cala in un contesto d’epoca come era già successo con Marie Antoinette. Coppola conferma tutto il suo talento nella capacità di mettere in scena le sue storie. Con l’aiuto fondamentale del direttore della fotografia Philippe Le Sourd, ricrea un mondo di luce naturale ispirato continuamente da raffinati momenti pittorici. Uno splendore da vedere che crea un contesto algido, austero, molto lontano dalla versione del 1971 del romanzo.

Spogliando la trama di quelle sfumature vicine all’horror che avevano fatto del libro un punto di riferimento per il genere southern gothic, e che erano fondamentali anche nel film di Siegel, L’inganno di Coppola sembra tornare allo spirito originale della trama solo nei momenti finali.

Il punto di vista maschile della Notte brava viene messo da parte da subito. McBurney esiste sullo schermo solo in funzione delle ragazze. Tutte è concentrato sulle dinamiche femminili, sulla solidarietà tra le ragazze, sullo spirito protettivo di Miss Martha, il desiderio ingenuo di indipendenza di Edwina. Il titolo originale, ambiguo nella sua neutralità (beguiled può essere tradotto sia come ingannato che ingannate) qui si schiera senza dubbio dalla parte delle donne, illuse dal maschio, pericoloso, cattivo e manipolatore.

Mantenendosi come sempre in equilibrio tra autorialità e spirito pop, Coppola sembra alla ricerca di un immagine di donna moderna in un contesto storico diverso, anacronistico rispetto al messaggio che vuole mandare (si veda la scena finale, soprattutto).

Come ai tempi del suo esordio nel 1999 con Il giardino delle vergini suicide (dal romanzo di Jeffrey Eugenides), come in parte fatto anche con Bling Ring, Coppola guarda alle relazioni femminili, alla naturalezza della condivisione, alla gelosia, ai legami segreti che reggono un gruppo di sole donne. E l’inganno del titolo, a differenza del film del ’71, è tutto psicologico, di illusione, di voglia di credere.

Senza bisogno di approfondire, Sofia Coppola confeziona un film volutamente piccolo, non puramente di genere, ma capace di unire diversi registri. In generale, mette solo quello che è necessario. Quando prova a mettere di più, rischia di finire fuori strada.

Nicole Kidman guida il cast con una delle sue interpretazioni miglior in assoluto, sicuramente la migliore negli ultimi (abbondanti) anni. Kirsten Dunst e Elle Fanning le ruotano intorno, mentre Colin Farrell dà un tocco ruvido al soldato seduttore che neanche Clint Eastwood aveva.

(L’inganno, di Sofia Coppola, 2017, drammatico, 91’)

Protégé

E alle 5.46 di questo mattino nevrastenico il sole brucia i tetti delle case del glorioso immondezzaio dove nasco e abito, fiammeggiando e spandendosi nel cielo come un enorme tuorlo d’uovo disgregato.
Io e Bellisario ce ne stiamo afflosciati sul cofano della sua Audi A3, le spalle scosse da brividi di stanchezza e da un mal di testa mortifero che picchia la grancassa in quattro quarti su quel che resta della nostra povera coscienza.
Bellisario tenta di raccontarmi un film visto di recente. Perdo il filo, sono più concentrato sui suoni che provengono dalle profondità del mio stomaco.
Forse dovrei mettere qualcosa sotto i denti, ma a quest’ora i bar sono un miraggio e penso proprio che se m’infilassi sotto la saracinesca mezza abbassata del forno di Franchino con le pupille ancora sgranate ne uscirei a mani vuote e con la faccia gonfia di ceffoni. Lì per un periodo c’ha lavorato anche mio padre. Si alzava alle quattro, dal lunedì al sabato, e giù a impastare e bestemmiare fino a tarda mattinata, quando veniva  a prendermi a scuola con gli occhi stretti e rossi e un sacchetto di pizzette sotto al braccio. Ricordo con precisione il suono della sveglia, i passi sciancati che si dirigevano verso il bagno, il rimestio approssimativo di piatti e caffettiere che faceva tanto imbestialire mia madre. Mi piaceva l’idea che mio padre fosse già in piedi. Guardavo il buio fuori, attraverso i fori delle tapparelle, e giuravo a me stesso che in vita mia non mi sarei mai alzato a quell’ora per nessun lavoro al mondo. Quando usciva mi ero sempre riaddormentato da un pezzo.

Se faccio piano e non sveglio i miei potrei pure mangiare a casa, penso. Ho acconsentito a fumare la canna della buona notte, ma se Bellisario procede di questo passo i bar faranno in tempo ad aprire e richiudere un’altra volta.
«È un peccato che non sei voluto restare – dice – la situazione aveva appena ingranato…»
«Eddai Enzo, stiamo a giovedì! Devo andare a scuola, mannaggia a te!»
Bellisario stritola la mista nella cartina con aria assorta.
«E io devo andare a lavoro, cosa ti credi?»
A Bellisario piace sbattermi in faccia questa faccenda del lavoro ogni volta che ne ha occasione. In effetti un impiego ce l’ha: stagista presso lo studio di suo zio, che è commercialista. Quattro ore al giorno, seicento euro di rimborso spese, orari flessibili e un mazzetto di ticket restaurant da quattro euro e trenta l’uno. Fra poco tornerà rombando al suo appartamento di Monti, metterà su un film d’azione o imbastirà un mini torneo di Pro Evolution Soccer alla Play Station, si farà una doccia e dopo aver steso un riga generosa sul coffe table tea comprato al mercato di via Appia Nuova andrà in ufficio, dove sonnecchierà fino alla pausa caffè, prima di ammazzare il resto del tempo postando foto della nostra serata al Vicious sul suo profilo Facebook.
Finalmente accende la canna, fa due tiri e me la passa. Il mal di testa si fa strada nelle tempie. Aspiro una mezza boccata e ricaccio in gola il disgusto che mi sale dalla pancia. Vorrei soltanto infilarmi a letto e svenire secco.
«Buona, no?», mi fa.
Rispondo con un’alzata di spalle. Non ho voglia di dargli soddisfazione.
«To’, prendine un po’ – dice porgendomi una bustina che conterrà cinque grammi abbondanti  – ti faccio fare bella figura».
Accetto il cadeau senza troppo entusiasmo: «Ok, grazie».
Con Bellisario va così: compari nel pre-serata, fratelli non appena la droga comincia a fare il suo dovere, e avanti così fino a mattina, quando qualcosa nel suo modo di fare inizia a urtarmi i nervi. A quel punto non vedo l’ora di liquidarlo. Certe volte mi fa persino un po’ pena. Che diavolo ci farà con uno come me?
«A proposito, chi era quella pischella che ti slinguavi davanti al guardaroba?»
«E che ne so. Una. Non le ho chiesto la carta d’identità», taglio corto.
«He he, mica scemo, lui. Ma almeno ti piaceva? Sembrava un bel pezzo».
«Era ok, non il mio tipo».
Bellisario sghignazza divertito, mi dà di gomito: «Ma sentilo! E quale sarebbe il tuo tipo
«Non so, era troppo secca quella».
«Troppo secca. E come la vorresti? In forma? Allora devo assolutamente presentarti delle mie amiche, un giorno di questi. Gran fighe! Tipo quelle di Victoria’s Secret. Hai presente? Bionde, tette sode… Erika e Giada, sicuro di non averle mai conosciute? Mi pareva di sì. Potrebbero sfilare per Victoria’s Secret, credimi. Dovrebbero avere più o meno la tua età. Sì, te le presento. Combino per domani?»
Provo a soffiare il fumo abbastanza forte da spazzarlo via.
«Enzì, non ricominciare. Guarda che ho scuola anche domani, ogni tanto ci dovrò pur andare se non voglio farmi segare un’altra volta. Fammi respirare anche tu. Anzi, guarda, sarà meglio che mi dia una mossa». Con il pollice e l’indice scaglio il tizzone della canna verso un gatto.
«Vabbè, va’…», mugola il musetto godereccio di Bellisario.
Sale in macchina, si guarda allo specchietto e abbassa il finestrino.
«Però te le devo presentare queste qui. Sentiamoci nel week-end».
Mette in moto e parte di gran carriera. Ormai in strada ha già avuto inizio la processione di pendolari intristiti che mi sfila davanti ogni volta che torno a casa a quest’ora. Forse è una mia fantasia, ma ho sempre l’impressione che mi guardino con occhi solidali, come a dire: «Eh, povera creatura, così giovane e già fai parte dei nostri».
E invece in cuor mio so bene che anche oggi non combinerò un bel niente. Niente scuola, niente studio, di lavoro mai vista l’ombra, nessuna attività cerebralmente rilevante per le prossime ventiquattro ore. L’unica cosa di cui mi dovrò preoccupare nel breve periodo sarà rientrare senza farmi beccare dai miei e non rispondere al telefono di casa fino all’ora di pranzo, quando tecnicamente dovrei essere di ritorno da scuola. Nel mezzo, galleggerà una poltiglia di azioni minime, finalizzate perlopiù a riportare in asse l’emicrania e la carcassa guasta che mi ritrovo in dote al termine di questa notte, che come tante altre notti mi ha ingoiato vivo per risputarmi fuori come un avanzo indigesto.

A casa di Lucio, ore 21. Ho dormito tutta la mattina, mi sono alzato, ho tirato giù alcune compresse che davano l’impressione di fare al caso mio, ma che forse ho sopravvalutato, ho acceso la televisione e ho ascoltato a occhi chiusi due puntate di Forum e una televendita che reclamizzava un attrezzo per tagliare le verdure a cubetti finissimi. Alle 14 è tornato mio padre dal suo nuovo, ennesimo lavoro – venditore di contratti porta a porta per l’Enel – abbiamo mangiato insieme una pasta col tonno e due sofficini, «Hai una faccia – mi fa – a che ora sei tornato?», «Presto, ma stamattina a scuola non mi sentivo granché. Mi sa che ora vado a farmi un riposino», e così per il resto del pomeriggio non ci sono stato per nessuno.
Difficile da credere, eppure anch’io certe volte mi faccio schifo da solo, improvviso discorsi da adulto, specie quando riapro gli occhi dopo ore d’incoscienza, ritrovando fuori dalla finestra il quartiere incendiato da un sole che non è più un focolare che accende, ma un tizzone che divora le ceneri rimaste. È allora che sollevo interrogativi sulla mia condotta, sugli espedienti che ho brevettato per scivolare senza sbucciarmi. Ma poi vedo gli altri, mia madre che si spacca la schiena otto ore al giorno,  mio padre che riesce a malapena a tenerselo, un lavoro per otto ore, Bellisario, i miei compagni che si rodono il fegato per un’interrogazione di latino, e allora concludo che non va poi tanto male, che ce n’è ancora in abbondanza di tempo per avvelenarsi.
Sul divano con Lucio, dicevo, a guardare una partita di Europa League con un paio di Moretti sul tavolo e l’erba di Bellisario a macinare dentro il grinder.
Parliamo della chiusura di un kebabbaro sulla Prenestina, di quanto sia legittimo finire Silent Hill consultando le soluzioni su Internet. Parliamo di niente, e nel frattempo ci lasciamo cullare dalle poche azioni salienti che possono offrirci due squadre come il Braga e lo Shakhtar Donetsk.
Lucio e io siamo cresciuti insieme, siamo stati perfino bocciati insieme. La prima volta è stata colpa sua – fu lui a scagliare l’astuccio nei paraggi della professoressa di matematica, per recuperarlo dovetti saltare gli ultimi due mesi di scuola – la seconda, invece, potrebbe dipendere dalla scoperta da parte mia di una ghiotta fetta di studenti interessati all’acquisto di sostanze stupefacenti direttamente sul luogo di studio, scoperta che, pur fruttandoci un bel gruzzolo senza mai essere scoperti, ci costò una smaccata inimicizia del corpo docente.
Quest’anno, almeno a parole, ci siamo promessi di fare i bravi. È che ormai ci saremmo anche stufati di questo tran tran. In fin dei conti, se devo fare l’impiegato, tanto vale andare a fare il segretario insieme a mia madre e farmi rimborsare per filo e per segno il tempo che mi strappano dalle dita. È la primavera che tenta, illude e in fondo ci chiede il conto. Ci lasciamo abbindolare senza opporre resistenza dal sole languido, dalle carni esposte, dalle chiusure ormai imminenti dei locali, dagli after open air, dai primi nomi che compaiono sui cartelloni dei festival estivi. Ci facciamo promettere che questa volta sarà diverso, che sarà per sempre, che stavolta no, non passerà: le resteremo aggrappati senza farci disarcionare.
E così ci ritroviamo a settembre, un anno ogni due in una nuova classe, circondati da corpicini in via di sviluppo che ormai ci sembrano minuscoli, a sentirci ripetere le stesse cose dai soliti tre insegnanti disgraziati. Forse il problema sta nel fatto che non abbiamo voglia di rinunciare a niente, troviamo talmente insopportabili i discorsi sui sacrifici e sul duro lavoro che ci viene la pelle d’oca soltanto a scherzarci sopra. La nostra esperienza ci ha educato a seguire la scorciatoia, non per pigrizia, ma per convenienza. Non ce la beviamo più la parabola del sudore, abbiamo ben presente i segni sulle facce dei nostri genitori, conosciamo di riflesso la fatica, e per questo ce ne teniamo debitamente alla larga. La fatica toglie lucidità, fiacca, fa perdere concentrazione. Noi vogliamo essere freschi, marciare su una pista da ballo per tutta la notte, rimanere presenti a noi stessi, seppur a modo nostro. È una filosofia che io e Lucio condividiamo sin dall’infanzia senza bisogno di doverla riaggiornare verbalmente. Ci basta uno sguardo, un gol in rovesciata, un culo come Dio comanda, una canna grassa come quella che gli sto passando in questo momento. La afferra con due dita, senza nemmeno degnarla di uno sguardo, e continua a scorrere qualcosa sul suo cellulare.
Sembra sul punto di completare una delicata operazione finanziaria.
«Programmi il week-end?», faccio.
«Macché, ’sto week-end sono in Abruzzo».
«A fare?»
«Mia nonna s’è sentita male, un ictus o che so io…»
«Ancora?»
«Ehhh, che ci vuoi fare? Quella è più morta che viva».
Si gira d’improvviso verso di me: «Però…»
«Però?»
«Tieniti forte: prossima settimana c’è Donato Dozzy al Goa. Quattro ore di dj set».
«Allora vedi di non disfarti in Abruzzo dalla nonna, riposati per venerdì».
Ridiamo. Lucio si rabbuia un poco: «Peccato chiedano venti sacchi e io al momento non c’ho una lira. Devo provare a imbucarmi di straforo, sennò tanti saluti».
«A chi lo dici…»
Restiamo diversi minuti in silenzio fissando le squadre che fanno il loro ritorno in campo dopo l’intervallo.
«Forse riesco a procurarmi degli ingressi», dico.
Lucio ingolla una boccata di birra che quasi gli va di traverso.
«Ah sì? E come?»
«Faccio un tentativo, ho detto, non prometto niente», rispondo mentre gli strappo la bottiglia dalle mani.
«Coraggio, illuminami». Si volta verso di me. Adesso ho tutta la sua attenzione.
«Mah, posso sentire Bellisario. Lui ha conoscenze, magari salta fuori qualcosa…»
Lucio si sganascia dalle risate. «Bellisario? Sarà già tanto se conosce il suo nome. Ascolta, ma non è che quello è un po’…», e con l’indice e il medio si picchietta l’orecchio.
«Ma va!»
Lui insiste: «Che poi il motivo per cui ci passi tanto tempo insieme ancora non l’ho mica capito. Cosa fate, eh? Vi siete fidanzati? Non devi vergognarti, puoi dirmelo».
«Cosa c’è, sei geloso? Me lo vorresti buttare tu? Ti interessano i biglietti sì o no? E allora finiscila di sparare cazzate», taglio corto.
Rivolgiamo nuovamente lo sguardo allo schermo e per il resto della partita non ci diciamo granché, giusto una sequela di «mi passi il…», «hai finito con…», «puoi abbassare il volume» e compagnia bella. Piuttosto che dire «grazie» o restarsene muto quando rimedi una soluzione al posto suo, Lucio sarebbe capace di mangiarti a morsi.
Appena scattano gli highlight e i commenti del dopo-partita lo lascio a rotolarsi nel suo rancore e mi dirigo verso casa. Non è ancora passata la mezzanotte e ho tutte le carte in regola per trascorrere una notte da studente modello.

Di nuovo con Bellisario, aperitivo all’Erg su via Cristoforo Colombo. A chi sollevasse dei dubbi sul trascorrere del tempo al bar di un distributore di benzina, non saprei francamente cosa ribattere. È stato Bellisario a portarmici la prima volta, e io non ho mai avuto niente da ridire. I Gin tonic sono sempre belli carichi e il buffet è compreso nel costo del drink. Questo mi basta. Non mi interessa come sia arrivato qua uno come lui e che cosa vada cercando, l’importante è che alla fine dei nostri bicchieri, quando la porta a vetri automatica si apre e ci restituisce al mondo un po’ più serafici di come eravamo prima, un paio di giri li abbia offerti il mio buon amico. Questo basta e avanza.
Seduti a un tavolino di fronte alla grande finestra che affaccia sulle pompe, tuffiamo la mano dentro un piatto stracolmo di mini-sandwich infilzati da bandierine di paesi caraibici e post-sovietici. Bellisario prende le Barbados cotto e maionese e se le ficca in bocca senza masticare. Gli argomenti che affrontiamo sono sempre leggeri e di poco conto, rilassanti nella loro assenza di pretese. Parliamo per lo più di serate. Rave, after, feste in terrazza. Serate, serate, serate. A pensarci bene è spropositata la quantità di parole che dedichiamo alla descrizione di esperienze quasi uguali a loro stesse e spesso confuse nella memoria come un ricordo della prima infanzia. Eppure è sbalorditiva la nostra capacità di cogliere le sfumature non banali dei sabati che abbiamo calpestato, di confrontare le prestazioni dei dj, la qualità delle sostanze assunte, di mettere in relazione una notte con un’altra trascorsa nello stesso posto, allo scopo di comprendere quale siano i motivi profondi che ci risputano fuori da un club, all’alba, felici o depressi.
Io e Bellisario ci siamo conosciuti così: nella coda «ingressi omaggio/liste» di un locale imprecisato.
Davanti a me si gingillava questo volpino inquieto, con l’occhio vispo e le guance arrossate da due macchie giulive perfettamente circolari, tipo quelle di una Matrioska. Non avrà avuto più di trentaquattro/trentacinque anni, eppure il suo modo di vestire e di tenere legato alla vita il golf lo facevano somigliare a un pappone avanti con gli anni in trasferta a Milano Marittima. Si accese una sigaretta e io gliene scroccai una. La fila non scorreva, così ci mettemmo a chiacchierare di musica. Quando arrivò il suo turno, venne riconosciuto dal buttafuori del locale, che con un gesto amichevole lo invitò a entrare. Subito dopo toccò a me. Il trucco della lista non funziona sempre, ma con una buona dose di faccia tosta e di insistenza regala spesso gioie insperate. Funziona così: si deve conoscere il nome di un Pr, accertarsi possibilmente della sua assenza, infine giurare e spergiurare fino alla morte che tu su quella lista ci sei, in caso contrario deve esserci stato un errore da parte dell’organizzazione e il treno per Cerveteri se l’accolla il club e anche il costo di un ostello e del taxi per arrivare all’ostello a quest’ora della notte. È così banale che il tizio in cassa è propenso a credere alla tua buona fede, o forse è soltanto troppo stanco o vigliacco per tirarla per le lunghe. In anni di collaudo, potrei sostenere senza troppa approssimazione che il trucco della lista funziona all’incirca in sei casi su dieci. L’importante è non ripeterlo più di una volta per locale e insistere solo finché i buttafuori non cominciano a strabuzzare gli occhi. Quella sera il trucco non funzionò e se Bellisario non fosse intervenuto, in quel locale non ci avrei messo piede nemmeno per fare le pulizie. Lo ringraziai e ci separammo quasi subito. Soltanto alla fine, quando il sole era ormai alto e la mia carcassa semi-svenuta si trascinava verso la fermata più vicina della metro A, lo ritrovai immerso nella valutazione dell’entità di un minuscolo graffio sul parafango della sua Audi. Mi fermai per salutarlo un’ultima volta, ma quando mi voltai lui mi urlò dietro: «Ma come? Non vieni all’after?» Con un gesto della testa mi fece posto sul sedile del passeggero.

«Senti Enzì, venerdì prossimo ci sta Donato Dozzy al Goa, che pensavi di fare?»
«Sì, ho visto. Andiamo».
«Ah, grandioso. Non è che avresti modo di far entrare me e un altro amico?»
«Ovvio, lo dico a Pinuccio. Ti faccio lasciare in cassa cinque omaggi».
Stacca la bandiera del Brasile a un tramezzino e la esamina. Cerca di apparire spontaneo, la naturalezza fatta Pr, ma io so che dentro di sé sta gongolando.
«Wow, grazie, fantastico. Ti devo un favore».
Bellisario scaccia il debito con un gesto vago della mano.
«Ah, piantala. Dopotutto sei o non sei il mio protégé
«Prote-chè?», domando sporgendomi sul tavolo.
«Protégé», ripete.
«Ah».
Faccio per prendere un tramezzino, poi ci ripenso e lo metto a posto.
«Senti, ma non è una roba da froci vero?»
«Ma no scemo, è francese!»
«Appunto».
Scoppia a ridere, leggendomi in faccia la preoccupazione per questa storia che non ho ben inquadrato, e subito dopo mi metto a ridere anch’io. Scoliamo un altro paio di Gin tonic, saliamo in macchina, siamo carichi a mille. Per rilassarci cominciamo a girare a vuoto. Avanti per il Gra, a respirare gli scarichi dei camion, Tor De’ Cenci e i suoi alberi giurassici, la via Pontina, con gli zingari appostati ai bordi della strada come vedette folli, i sorci nel fosso Valleranno. Bellisario guida all’impazzata, s’incattivisce sull’acceleratore. Con gran fatica stendo un paio di righe su un cd dei Simply Red che Bellisario giura essere di sua madre. Facciamo tappa in un bar di viale America per dare una ripulita a Simply e mandare giù un digestivo. Il bar è stretto e lungo, ha l’aria di essere un dehors coperto abusivamente da una calotta di ferro e vetro. È popolato da anziani e da brutte facce che non vedono l’ora di incontrare l’occhiata sbagliata. Vado a pisciare e quando esco dal cesso mi si para di fronte un vecchio pazzo con i capelli arruffati e un bastone traballante che lo sorregge a malapena. Mi guarda negli occhi: «Mussolini… resuscita!», grida. Gli passo accanto e torno alla macchina.

Eur, Palazzo dei Congressi. Sulla terrazza dello Spazio Novecento Bellisario mi consegna un pacchetto di chicche che ho una gran fretta di piazzare. Sono di ottimo umore e non vedo l’ora di ballare. Mi aggiro recitando nelle orecchie dei presenti il tipico mantra – emmeddì emmeddì emmeddì emmeddì – finché non rilevo una qualche reazione favorevole. Sono un ambulante che gira le spiagge con i secchi di cocco incastrati sotto le ascelle. La serata è incandescente e la gente ha premura di sconvolgersi. Vendo tutto con rapidità, dal guadagno prelevo il solito 20% e arrotolo le restanti banconote nell’altra tasca. Prendo un Gin lemon al bar, con il cocktail in mano mi faccio strada nella calca. Comincio ad assecondare i battiti della cassa, immagino Bellisario seduto come al solito su un divanetto, a scambiare ovvietà con un ex compagno di Luiss o con un promoter fradicio di sudore.
Chiudo gli occhi, non saprei dire se per un attimo o per qualche minuto, li riapro di scatto quando mi sento scuotere la spalla. Di fronte a me, un ragazzo col sopracciglio mezzo rasato, il piercing al labbro e una maglietta verde militare mi sta chiedendo qualcosa che non capisco. Lo conosco. Si tratta di Pietro Crisante, un mio coetaneo pluri-ripetente che frequenta ancora il terzo anno nella mia scuola. È il genere di persona che vorresti sempre come amica, perché in caso contrario sarebbe capacissimo di riempirti di botte per niente. Lucio ogni tanto ci esce per via di conoscenze in comune, io non ci ho mai avuto a che fare. Spesso lo vedo aggirarsi per i corridoi in tuta da ginnastica, alla ricerca di soldi o sigarette che tutti quanti sembrano molto di felici di donargli. Altre volte passa intere lezioni chiuso in bagno a spacciare un nero catarroso e ignorante che ti raschia la gola che manco la cartavetro.
Mi ripete la domanda, la musica è troppo alta per capire. Intuisco che mi sta vendendo qualcosa e che non ha riconosciuto la mia faccia. Con la testa faccio di sì, sì a qualsiasi cosa mi abbia appena proposto. Estrae la roba da sotto il polsino da tennista, con l’altra mano mi fa un due e un dieci. Fanno venti. Srotolo dal fascio una banconota azzurra da venti euro e mi ritrovo catapultato fuori dal suo cono d’attenzione. Ficco in bocca senza complimenti e riprendo a ballare. L’ultima cosa che ricordo è Bellisario che mi pizzica il braccio e dice: «Venerdì prossimo ti presento le Victoria’s Secret».

In bagno, al cambio dell’ora, giro le ultime scorte d’erba per affrontare la lezione di Latino.
Crisante apre la porta con un calcio, facendomi sobbalzare. Spalanca le braccia e guarda in alto, grida: «Ho del potenziale! La Bruni dice che ho del potenziale!»
Le mani gli ricadono lungo i fianchi, la breve performance sembra averlo sfiancato. Sospira e dice: «E ora datemi da fumare».
Si guarda attorno. Due tizi scuotono la testa impauriti, mostrano la sigaretta che stanno dividendo, un ragazzino esce dal cesso a occhi bassi e infila il corridoio di gran carriera. Resto solo io. Gli faccio cenno di avvicinarsi.
«Sono stufo di quella suora. Non vede l’ora di farmi la paternale ogni volta che mi incontra. “Stai buttando la tua vita, sei un ragazzo intelligente, se le energie che impieghi per far danni le utilizzassi per studiare adesso potresti essere all’università…” e allora mi spieghi perché mi sbatti sempre fuori, brutta troia?»
«La Bruni è una troia», confermo.
Ci passiamo la canna.
«Però! – mi fa – Buona. Dove la prendi?»
«Sulla Prenestina. Ci sta un tizio ai domiciliari, si annoia e allora coltiva un po’».
«E non ha paura delle guardie?»
Improvviso: «Evidentemente ha il culo parato».
Fisso le piastrelle del bagno nella speranza che abbia esaurito le domande a riguardo. Lui si presenta. Gli dico che già lo conosco, gli faccio il nome di Lucio e gli ricordo la serata allo Spazio Novecento, lui sostiene di non averne proprio memoria, né di Lucio né di me alla serata allo Spazio Novecento.
«Ti è piaciuta?», chiede lui.
«Sì».
«A me è sembrata una merda. Che senso ha far finire tutto alle quattro?»
«Sì, è vero. In effetti non è stata granché».
Viene fuori di venerdì al Goa. Vorrebbe venire. Gli dico che se vuole ho un biglietto in più, forse anche due. Crisante accetta, pare molto soddisfatto della proposta. Ci scambiamo i numeri di telefono e ci accordiamo per risentirci nei prossimi giorni. Esce dal bagno trotterellando, con i suoi pantaloni della tuta grigiastri calati a mezzo culo. Prima di rientrare in classe resto ancora un attimo in bagno. Mi auguro davvero che quei cinque biglietti promessi da Bellisario esistano veramente, il trucco della lista potrebbe non attaccare con uno come Crisante…

Il tipo alla cassa abbozza una strana espressione, ma forse è soltanto disgustato dall’umanità rappresentata da persone come me, Lucio, Crisante, Carletto, il loro amico in comune, e Nervo, l’altro ceffo che si sono portati appresso. Guardi pure quanto crede, il mio nome è in lista con un bel +4 a fianco. Siamo dentro, dondoliamo la testa al crescere dei bpm. Dozzy scalcia sulla testa, infierisce sulla vulnerabilità di noi poveri drogati. Mi giro verso il bar per valutare l’entità della coda. Nei pressi del bancone scorgo Bellisario. Mi sta a sua volta osservando, probabilmente mi ha già notato da un pezzo. Alzo la mano in segno di saluto, lui fa altrettanto. Sembra aspettarsi che lo raggiunga ma Lucio mi afferra per un braccio e grida qualcosa, mi passa una delle bottigliette che abbiamo preparato a casa sua e mi trascina sotto cassa. Crisante e Carletto sono già persi nello spaccio di Md e Ghb, Nervo si muove legnoso a pochi metri da noi, nel tentativo di appoggiarlo a una ragazza che sembra non accorgersi affatto della sua presenza. Chiudo gli occhi, ballo. Scompaio gradualmente, mi sciolgo nella musica, sono una pastiglia effervescente contro i sintomi influenzali. È come se nessuno intorno a me riuscisse a vedermi. Sprofondo nella soffice consapevolezza che anche oggi tutto ciò che dirò e farò mi sarà irrimediabilmente perdonato.
Finalmente mi avvicino al bar. Lo trovo ancora lì, Bellisario, un gomito piantato sul bancone e un sorriso tirato sulle labbra. Ci salutiamo. «Allora?», chiede, «Allora?», rispondo.
S’interrompe per permettermi di ordinare da bere. Il cassiere batte lo scontrino ma quando provo a raggiungere il portafogli Bellisario allunga una banconota. «Faccio io».
«Be’, non mi presenti i tuoi amici?»
«E tu non dovevi presentarmi le tue amiche?»
Si guarda le scarpe: «Eh, ma è ancora è presto…»
La sua remissività mi urta, è benzina per la mia insofferenza.
«Vabbe’ vabbe’, se le vedi salutamele».
Faccio per tornare dagli altri ma lui mi blocca. È un gesto goffo, eseguito senza convinzione né familiarità. Mi guardo intorno, il pensiero che possano averci visto mi manda in bestia.
«Ma che hai? Ti ho fatto qualcosa? Non siamo più amici?»
Con una manata gli allontano il braccio.
«Amici? Ma chi ti conosce! Hai trent’anni suonati, Enzo. Trovati qualcuno della tua età per farti pascolare. Ah già, dimenticavo: quelli della tua età non se l’accollano uno come te».
Bellisario è pallido come uno straccio, boccheggia. Penso di averlo visto così soltanto un’altra volta, la sera in cui il bancomat di piazza San Pantaleo gli aveva mangiato la carta.
«Credevo fossimo amici…», ripete lui rivolto alla parete, una spalla puntellata contro il muro per reggere il resto del corpo. È un gigantesco bambino alla deriva.
«Io te l’avevo detto: niente robe da froci. Non sono il tuo fidanzato».
Raggiungo la pista prima che possa aggiungere altro, ma quando riprendo a ballare è come se avessi perso l’invisibilità. D’un tratto avverto una gran pesantezza, gli arti si muovono molli e scoordinati, sono al centro di sguardi e di battute, almeno credo. «Ti senti bene?», chiede Lucio.
Eccomi lì, mentre batto strada tra la gente, sudato come gli sputi, risalgo a fatica la corrente di pubblico pagante, la massa accreditata, le file che si abbeverano al bar, gli ingorghi di vesciche accrocchiate nei pressi dei bagni. Se questa è la vita che voglio, penso prima di stramazzare di fronte a un buttafuori impizzato, ho appena mandato al diavolo il mio pass per il privé. Ma è solo il pensiero di un attimo, l’attimo prima di quando tutto attorno a me si smorza e io cado a terra di faccia.

Quanti anni saranno passati? Due, tre? Se pensate che abbia trascorso tutto questo tempo a rodermi per il senso di colpa vi sbagliate di grosso. Ho proseguito per la mia strada. La maturità, per prima cosa. Un non disprezzabile 72/100 che finalmente mi è valso un foglio di via dalla scuola dell’obbligo. Non contento, sono addirittura giunto alla conclusione che l’università potesse essere la soluzione ottimale per proseguire nella mia opera di scivolamento coatto. Ecco dunque una borsa di studio nuova di pacca e un corso di laurea – il Dams – che mi garantiva il giusto equilibrio tra esami e vagabondaggi notturni. Così non è stato.
Dopo sei mesi, mi sono ritrovato con il libretto ancora in bianco e con la consapevolezza che la vita universitaria non faceva al caso mio, o meglio, forse lo faceva troppo.
Ho scoperto anche che i professori universitari sono soltanto un po’ più nostalgici e un po’ meno attenti all’igiene personale rispetto a quelli delle superiori.
Custodiscono l’accademica virtù di sbattersene di chi sei e delle figuracce che farai una volta seduto di fronte a loro. Per esempio, non se la prendono a male se invece di studiare per l’esame hai trascorso tutta la notte a bilanciare raglie di coca e di ketamina a una festa tekno dalle parti di Ciampino. Puoi ripetere la scenetta quante volte vuoi, loro continueranno ad annuire senza trasporto al tuo balbettio e a liquidarti con un: «Forse è meglio se si ripresenta la prossima volta». Così non poteva durare, e infatti non è durata.
Una volta smascherato il bluff, mia madre ha detto: «Forse è meglio se ti trovi un impiego», esattamente con lo stesso tono rassegnato con il quale venivo congedato dal docente in sede di esame. Mio padre ha fissato la tovaglia. Era d’accordo, ma evidentemente non era in vena di impartire lezioni di vita dall’alto del suo contratto a provvigione.
Grazie a un amico di Lucio sono stato assunto come cameriere in un ristorante del Pigneto, uno di quei posticini per coppiette che tengono più alle ore di lievitazione di una pizza piuttosto che alle ore che ti dovrebbero pagare. In ogni caso, uno stipendio lo ricevo, e quando sono fuori nessuno si sente più in diritto di dirmi cosa dovrei fare con il mio tempo. La mia vita non è poi cambiata molto, se non per quella lieve fitta d’angoscia che mi percorre tutte le volte che regolo la sveglia prima di andare a dormire. Di Bellisario non ho più saputo niente, non una telefonata, un sms, mi ha persino bloccato su Facebook. L’ultima novità che mi è giunta da Lucio è che suo padre – il noto immobiliarista Antonio Eraldo Bellisario – si è candidato l’anno scorso a sindaco di Latina con le liste del Pd, ma ha perso al ballottaggio.
Eppure sono convinto che un giorno ci rincontreremo. Mentre io starò riprovando con stanchezza l’ennesimo numero della lista, lui passerà avanti, seguito da un manipolo di studenti universitari. Il tempo di una pacca sulla spalla, di un come stai, cosa combini, ti vedo bene, due chiacchiere sulla musica, sul più e sul meno, un augurio di rivedersi presto per un bicchiere che cadrà tacitamente nell’oblio. Quanto basta per domandarsi che diavolo avevamo a che spartire, noi due, e proseguire con le nostre vite. Oppure faremo finta di non esserci mai conosciuti, asseconderemo il corso naturale delle cose con reciproco sollievo. Perché a questo mondo nessuno protegge nessuno. Si tratta di passare un’altra serata in compagnia, di ballare ancora per un po’, fino a che le luci non si riaccendono e il dj fa partire l’ultimo svuotapista. Chi lo capisce è bravo.

 

Martin Hofer, nato nel novembre 1986 a Firenze, vive da qualche anno a Torino. È stato finalista a “Esor-dire 2012”, ha partecipato a due edizioni di “8×8, un concorso dove si sente la voce” e ha pubblicato alcuni racconti su Colla, Cadillac Magazine e Verde Rivista. Ha scritto una guida – Torino (quasi) gratis – per Laurana Editore. Al momento lavora come ufficio stampa per una casa editrice di Milano. Insieme a Bernardo Anichini ha fondato e dirige L’Inquieto, rivista quadrimestrale di racconti illustrati.

Copertina di Una separazione di Katie Kitamura su Flanerí

Lasciarsi andare

Se si potesse avere il controllo delle proprie azioni al punto da saper distinguere in che misura ciò che facciamo sia espressione di una precisa volontà e quanto invece sia un riflesso condizionato, sarebbe risolta gran parte della difficoltà di stare al mondo.

Attorno a un momento di scelta ruota Una separazione, l’ultimo romanzo edito Bollati Boringhieri di Katie Kitamura, classe 1979, giapponese di nascita, ma cresciuta in California. La protagonista della storia è una donna senza nome e senza volto, è l’ombra di un legame, l’altra metà di qualcosa che è svanito: la incontriamo nell’attimo prima di porre fine al matrimonio con Christopher, sebbene i due siano separati – in segreto – probabilmente anche a causa dell’infedeltà di lui.

A innescare l’intreccio, però, è la richiesta da parte della suocera che conduce la donna sulle tracce di Christopher, partito da qualche tempo verso una regione remota della Grecia per una ricerca antropologica, ma di cui non si hanno più notizie. La protagonista si trova così a fare i conti con la sparizione dell’uomo di fronte al quale non sa che ruolo interpretare: «Ma io? Cos’avrei fatto? Come e chi – marito, ex marito, amante, ipocrita – avrei pianto?».

Sin dal titolo, Una separazione sembra il racconto del «processo in cui due vite si districano l’una dall’altra».

La prima cosa che chiedo a Katie Kitamura, però, è se si tratti davvero di una scelta o se la ragione che spinge la protagonista a partire non sia piuttosto il bisogno di scoprire chi è davvero l’uomo che ha sposato.

Quando ho cominciato a scrivere Una separazione, anche io mi sono chiesta perché questo personaggio acconsenta alla richiesta di mettersi in viaggio per andare a cercare l’uomo da cui si è separata. Il nucleo della storia è tutto qui: la protagonista decide di partire, ma non per cercare una separazione definitiva. Al contrario, non è capace di lasciar andare il marito, non riesce ad accettare questa separazione.

Le storie che mi interessano sono quelle con al centro personaggi che essenzialmente non si capiscono. Nella cultura americana esiste questo falso mito della totale intimità e conoscenza dell’altro, invece io sono convinta che non sia mai possibile sapere tutto delle persone che abbiamo accanto; che esista – debba esistere – per ciascuno di noi uno spazio che agli altri non è dato conoscere. E questa ricerca di una dimensione di intimità ha molto a che fare con lo scrivere.

Man mano che la storia va avanti seguiamo questo percorso di scoperta di sé e dell’altro così come si dipana nella mente della protagonista. È curioso come l’espressione di emozioni intense sia affidata a uno stile narrativo che procede per sottrazione: una scrittura algida, tagliente e attraversata da un’inquietudine sottile, come se un presagio triste aleggiasse su questo romanzo sin dalle prime righe.

Quando il libro è uscito negli Stati Uniti, le recensioni si sono divise tra quanti hanno identificato in questa “freddezza” una caratteristica della mia cultura d’origine, e quanti invece hanno visto una componente gender nel riserbo della protagonista. Io preferisco la prima interpretazione e riconosco nel mio modo di scrivere molto delle mie radici giapponesi.

Quello che accade alla protagonista della mia storia è di non trovare il modo di entrare dentro la propria sofferenza. Questa donna non piange, non è ancora riuscita a fare l’esperienza piena e completa del dolore e mi sembra che averne scritto in questo modo abbia rispecchiato la sua condizione.

In Una separazione c’è un passo in cui sono messe a confronto le professioni dei due protagonisti: studioso e scrittore lui, per deformazione professionale sempre al centro della scena; traduttrice lei e abituata a lavorare «come se lo scopo finale […] fosse quello di risultare invisibile». Scrivere per te rappresenta un modo di essere visibile o di sparire?

Questa domanda mi riguarda in maniera molto personale come scrittrice, perché io sono arrivata tardi alla scrittura letteraria e, anche dopo aver pubblicato due libri, per anni ho esitato a definirmi una scrittrice, perché sentivo il bisogno di proteggermi da questo lavoro e quindi la storia che ho scritto è una storia raccontata da qualcuno che è riluttante a parlare, che è a disagio con ciò che gli sta capitando e deve ancora prendere le misure rispetto a quanto ha di fronte a sé. È chiaro che si tratta di una questione che sento profondamente mia, è centrale per la mia identità oltre che per quella dei miei personaggi.

Ancora prima di irrompere nella storia, la morte viene anticipata dall’incontro a Gerolimenas con una prefica, una di quelle donne che per professione piangono il dolore altrui. Se, come scrivi, è vero che «quando si vive una perdita pesante, ci si sente come impalati, difficilmente in grado di esprimere la propria sofferenza», si viene per reazione spinti a cercare un modo per farla emergere: può la scrittura diventare un mezzo per affrontare il dolore?

La questione del superamento del dolore per la perdita è per me estremamente delicata. Non so, penso che scrivere significhi in larga misura essere testimone di qualche cosa, e di conseguenza per me è come se la scrittura possa quantomeno aiutare a essere testimoni del dolore e della morte. Anche se non si tratta di una soluzione convenzionale al problema del dolore, perché la scrittura è qualcosa che ti mantiene ancora dentro al rapporto con il dolore. Il problema è che noi viviamo in un’era, in una cultura che sembra fare di tutto per incoraggiare le persone a tirarsi fuori dall’intensità dell’esperienza del dolore e della morte.

Provo a spiegarmi ancora sull’aspetto della testimonianza: quando, per esempio, io ho perso mio padre, quando la morte si approssimava a lui e io capivo di non poter fare niente dal punto di vista medico, mentre lui scivolava nel coma ed era chiaro che se ne stesse andando, mi sono detta che l’unica cosa che avessi potuto fare sarebbe stato testimoniare ogni aspetto, ogni momento di questo suo scivolare nella morte. In altri termini, ho preso la decisione di non girarmi dall’altra parte, perciò credo di poter dire che per me la scrittura sia questo: non girarsi dall’altra parte.

Gli occhi di Katie sono diventati lucidi. Sembra emozionata, mi stringe la mano e mi fa un sorriso. Le chiedo scusa se con quello che le ho chiesto posso aver toccato qualche tasto che fa ancora male.

(Katie Kitamura, Una separazione, Bollati Boringhieri, 2017,  trad. Costanza Prinetti Castelletti, pp. 189, euro 16,50)

Primal Scream @ Ex-Dogana, 16 luglio 2017

Non solo U2. In una serata in cui Roma e tutti i social erano invasi dalle notizie che arrivavano dallo Stadio Olimpico, gli appassionati di rock e bella musica attendevano la data romana di Bobby Gillespie e dei suoi Primal Scream che tornavano nella Capitale a distanza di sei anni da quel magnifico live celebrativo del ventennale dello storico album Screamadelica, festeggiato nel 2011 alla Cavea dell’Auditorium.

All’interno dello scenario metropolitano e post-industriale dell’Ex Dogana, con il palco incastonato sotto il ponte della Tangenziale romana, si svolge il concerto della storica formazione scozzese. Una di quelle band, i Primal Scream, che certamente meriterebbe in Italia una maggior fortuna popolare. Ma si sa che il vento del successo mainstream soffia in maniera confusa e, spesso, dove gli pare.

Quello dei Primal è un sound che si muove tra acidrock in salsa britannica, blues e folk, che con il celebrato e straordinario disco del 1991 ha dato una svolta pioneristica anche al rock contaminato dall’elettronica e dai suoni e ritmi della musica house.
Ma, in fondo, «It’s only rocknroll» cantava qualcuno.
Suoni di altissima qualità e con un leader come Gillespie, abbastanza bisbetico e carismatico, al punto tale da non far impallidire nessuno davanti a vizi e virtù dei più grandi della storia del rock.
Eppure la band di Glasgow nel nostro paese è una formazione di nicchia. Non pìù di seicento le persone presenti alla serata organizzata da Viteculture. Poche centinaia che però hanno saputo caricare Gillespie che dopo il primo pezzo, partito a freddo e col pilota automatico, ha poi ingranato la marcia ricaricandosi come per osmosi grazie a un energetico e caloroso pubblico romano.

Prima di iniziare, due opening act di valore (ma di diverso taglio musicale) con Lilian More, al secolo Linda Bosco ̶̶ artista milanese classe 1994 che, dopo aver debuttato nel 2013 con l’ep Now we go! e dopo la pubblicazione nel 2015 del singolo “Believe in chance”, è attualmente impegnata nella lavorazione del nuovissimo progetto musicale In Bloom.
A seguire arrivano gli interessanti fiorentini ⁄handlogic! con il loro suoni intimistici tra Notwist e Radiohead.
Breve pausa, qualche accordatura di basso e chitarra in più del dovuto da parte dei responsabili del palco (la sera prima, a un altro live italiano degli scozzesi, si legge nelle cronache in rete di qualche problema “tecnico” di troppo) ed entrano in scena, finalmente, i Primal Scream.

Inizio fulminante con la sempreverde e bellissima “Movin’ On Up” e il pubblico comincia a scaldarsi. A seguire parte il riff di “Jailbird” da Give Out But Do’t Give Up del 1994, quello con la bandiera sudista americana in copertina. Il basso è donna, suonato dalla brava Simone Marie Butler. La stonesiana “Dolls (Sweet Rock and Roll)” scatena il pubblico e scioglie ogni freddezza iniziale della band. Lo stesso Gillespie, magrissimo, in camicia lucida e argentata incita più volte il pubblico a battere le mani. Fans che non si fanno certo pregare. Arriva una lunga sequela di brani splendidi della trentennale carriera della formazione. Con “It’s All Right It’s Ok” da More Light del 2013 l’atmosfera si scalda con il coretto «ulalà, ulalà» che rimbalza tra pubblico e band in una coda emozionale e quasi da falò sulla spiaggia tra amici.

Due soli i pezzi (per fortuna) tratti dall’ultimo Chaosmosis del 2016, album decisamente minore e trascurabile della band. Brani che fanno da spartiacque all’interno di una scaletta di quattordici brani per novanta minuti di musica dal vivo.

Dal 1989 – anno del secondo disco ominimo della band, che aveva esordito due anni prima con Sonic Flower Groove – arriva la splendida ballata elettrica “I’m Losing More Than I’ll Ever Have”. Non si illuminano più gli accendini in platea come all’epoca, perché nel 2017 è tutto un fiorire di braccia alzate e smartphone d’ordinanza tra il pubblico.

Con “Country Girl” e “Rocks” si balla e la band è decisamente presa bene. Ride, suona assoli, si dimena, e la bassista con minigonna e stivaletti attira più di uno sguardo dagli astanti e dagli stessi fotografi sotto il palco che a tratti sembrano ignorare completamente il povero Gillespie.
Il buon Bobby canta bene, si agita, parla, scherza verso chi gli accenna a tratti cori da stadio. «So, are you enjoying?» – vi state divertendo? – chiederà compiaciuto.

Finale, nei bis, tutto dedicato all’album pietra miliare della band con “Higher Than the Sun” e (soprattutto) col capolavoro della band: quella “Come Together” che vanta numerose versioni e che nel disco sfora i dieci minuti. Il già citato Screamadelica appunto, come il disco, ma anche come la celebre e storica serata romana firmata dal celebre dj e producer capitolino Fabio Luzietti, che proprio da questi suoni prendeva spunto. Quell’orgia di suoni tra pop, black music, psych-rock, house ed elettronica che sono il marchio distintivo di una band tra le più influenti e importanti del panorama mondiale. Anche se questa volta sono stati a appannaggio di poche centinaia.

L’inquilino di sopra

Io e Paolo siamo stati compagni di scuola, è vero, ma amici direi proprio di no. Abbiamo passato gli anni del liceo a due passi l’uno dall’altro, eppure la distanza fra cinque banchi, fra cinque nomi e i destini a loro annessi – Flaviano Mario, ora odontotecnico; Fenati Elisabetta, barista; Brugnolo Alberto, allora fancazzista oggi emigrato all’estero; Stevan Ilaria, disoccupata e mamma; Diodi Massimo, professore ad interim – non l’abbiamo mai superata. Quando la scuola finì e andammo all’università, di lui non sapevo granché. Avevo sentito dire che si era iscritto a Giurisprudenza e mi sembrava – vista la famiglia in cui s’era trovato a nascere, padre notaio e madre professoressa di diritto – una scelta logica. Immaginavo già che finiti gli studi sarebbe andato a lavorare da suo padre per poi prenderne il posto e vivere una vita facile e rispettabile come la rotta di una nave portacontainer che va da Hong Kong a Los Angeles. Nel pensare questo non provavo invidia, solo un certo fatalismo o forse – come direbbe Charlie – appena un pelo di rancore di classe. Quanto a me, ero venuto fuori dal liceo con un’infatuazione per Thoreau e gli scrittori russi dell’Ottocento che mi aveva portato a credere che una laurea in Lettere fosse la direttrice giusta su cui volgere i miei sforzi. Di fronte all’indifferenza stanca dei professori e all’inedia colma di vaghi ideali dei miei compagni di corso avevo velocemente capito quanto mi fossi sbagliato.

Sette anni e una laurea più tardi mi dibattevo fra ripetizioni di latino a dodici euro l’ora e infime supplenze in scuole private. Avevo una ragazza di nome Carlotta che insisteva a farsi chiamare da tutti Charlie senza dirne il motivo, forse per qualche personaggio di film o magari per odio verso quel nome che trovava troppo borghese. Di Paolo mi ero scordato. L’avevo sepolto in quello strato limaccioso del cervello al confine fra il ricordo e l’obsolescenza dove si lasciano marcire informazioni divenute irrilevanti. Un amico mi aveva detto che, nell’ordine: si era laureato con il massimo dei voti, lavorava ovviamente con suo padre e usciva con una ragazza piuttosto attraente. Immaginavo dunque vivesse una vita noiosamente felice.

Così, quando quella sera ci ritrovammo seduti ad appena un tavolino di distanza fuori da un bar, ero pronto a tollerare i limiti della nostra reciproca indifferenza, sia che fosse dettata da un suo sentimento piccolo-borghese di superiorità nei miei confronti, sia che fosse frutto della mia dimenticanza. L’unico pensiero che mi tallonava era quello di bermi uno spritz, leggere il giornale e tornarmene a casa. E invece lui mi si era piazzato di fronte, ha teso la mano e mi ha sorriso.
«Ehi, Paolo!», gli ho detto. «Tutto bene?»
«Bene, bene. Non sai che piacere vederti!»
Sono rimasto sospettoso a guardarlo sorridermi troppo e aver troppo piacere di vedermi, me ne sono stato zitto e ho fatto un cenno con la testa.
«Allora, che fai? Racconta».
«Insegno, ma solo qualche supplenza breve: due o tre mesi, se sono fortunato».
Paolo ha annuito e poi se ne è saltato fuori col dire che al liceo gli piacevo un sacco: «Cioè, eri forte: sempre sulle tue, sempre a discutere col professore. E lui che ti stava pure a sentire! A noi invece non ci cagava neanche. Non so come spiegartelo, ma mi ero preso una specie di cotta per te – o meglio, una cotta no – più che altro mi sarebbe piaciuto essere come te, capisci?»
Gli ho fatto segno di sì, che capivo, ma non è che in realtà ci capissi molto. Non sapevo bene che dirgli, provavo a deviarlo lungo sentieri più battuti: «Tu invece che fai?»
«Lavoro con mio padre. Ti ricordi Francesca, quella che stava in quinta B? Ecco, stiamo insieme. I miei genitori ci hanno preso un appartamento in centro».
«Però».
«Perché non vieni a trovarci? Mi farebbe piacere. Magari a cena. Porta anche la tua ragazza. Ce l’hai una ragazza?»

Quando gliel’ho detto, non è che Charlie sia stata tanto contenta. Cresciuta in una famiglia di operai, a sedici anni ha letto Marx ed è diventata comunista. Ma va detto che la laurea in Filosofia se l’è pagata lavorando come cassiera in un supermercato e credo che questo, comunismo o no, valga qualcosa. Comunque, le nostre storie qui c’entrano poco, volevo solo farvi capire perché se l’era presa tanto. M’ha detto che lei non cenava con i padroni, che potevo andarci da solo se proprio ci tenevo e ha aggiunto che un tempo non ci sarei certo andato, anche se questa secondo me è una sciocchezza perché non è che io abbia mai creduto troppo nella lotta di classe. «È solo un vecchio amico», ho provato a giustificarmi. Lei mi ha risposto sbattendomi contro la porta della camera.
Ma qualche ora più tardi, mentre stavo dormendo sul divano, ho sentito che si sedeva per terra accanto a me. Ci siamo guardati negli occhi al buio e lei, con il mento appoggiato sulle ginocchia, mi ha detto: «Solo per questa volta». In quel momento i fanali di un’auto fuori dalla finestra le hanno illuminato per un istante le sopracciglia imbronciate sopra il cavo scuro degli occhi. Era terribile e bellissima.
«Vieni», ho detto, e lei mi si è stesa di fianco. L’ho baciata e abbiamo fatto l’amore.

Due giorni dopo Paolo mi ha chiamato.
«Allora, venite a trovarci?»
«Sì, ma non preparare nulla di speciale, ok?»
«Non preoccuparti, sarà giusto una cena fra amici».
«Posso portare qualcosa, che ne so, il vino?»
«Basta che ci siate voi».
Poi mi ha spiegato come arrivare a casa sua, anche se non era difficile: abitava praticamente in piazza.

La sera dopo io e Charlie ci stavamo preparando. Ero indeciso se fosse il caso di mettere la cravatta. Charlie si era messa un vestito marrone di lana cotta: sarà che il marrone mi è sempre piaciuto, sarà che la serata mi ha un po’ messo in pre-allarme, ma mi sembrava ancora più bella e più Charlie del solito. Non credo capiate quello che intendo, anzi certamente no perché non la conoscete: dovreste vederla per capire quanto è bella quando non è a suo agio nelle situazioni. Aveva i capelli legati in una coda, le orecchie piccole e perfette con gli orecchini d’ambra che le avevo regalato a Natale. Era senza trucco, come al solito: Charlie dice che è un’invenzione della mercificazione capitalista, ma devo ammettere che sta bene anche senza. Anzi mi farebbe strano vederla truccata. Quando stavamo per uscire – avevo deciso di non mettere la cravatta – l’ho vista prendere un pacchetto avvolto in carta da pacchi e metterselo in borsa.
«Non possiamo certo presentarci a mani vuote», ha detto. «Gli ho preso un libro».
«Spero non sia Marx».
Lei si è messa a ridere e mi ha assicurato: «Niente Marx per i borghesi».

Siamo arrivati alle otto e cinque. Ho suonato al campanello e dopo pochi secondi la porta d’entrata si è aperta con un lungo scatto elettrico. La tromba delle scale testimoniava lunghi anni d’uso, consunzione, ricchezza. Il marmo dei gradini era lucido dei passi che l’avevano calpestano. C’era un forte odore di cera per pavimenti. In mezzo alla tromba inquilini più moderni avevano trovato il posto per un ascensore. Charlie ha sempre sofferto un poco di claustrofobia, dunque abbiamo evitato l’ascensore. Mi ha stretto la mano e siamo saliti per le scale fino al terzo piano. C’era una porta aperta su una grande sala illuminata da un imponente lampadario d’acciaio e vetro. Ho bussato e chiesto permesso. La voce di Paolo mi ha gridato di entrare. Siamo entrati. La stanza era vuota, poi da una porta alla nostra destra è uscita una ragazza bionda vestita di rosso.
«Francesca», le ho detto. Si è avvicinata con un sorriso di circostanza e mi ha dato due baci veloci sulle guance. Indicandole Charlie, ho detto: «Questa è Carlotta».
«Charlie», mi ha corretto lei.
Francesca l’ha guardata con un certo fastidio, poi le ha risposto: «Ciao, Carlotta», come se non l’avesse sentita. Le ho osservate stringersi la mano. Le donne hanno sempre questa maniera strana di presentarsi: sembra che ognuna di loro possieda un segreto e sia curiosa di scoprire se anche l’altra lo conosce.
«Andiamo in cucina», ha detto Francesca, «Paolo sta facendo il risotto».
L’abbiamo seguita. Sotto al lampadario c’era un tavolo enorme e massiccio, le pareti erano piene di quadri astratti. In cucina Paolo ci è venuto incontro. Nemmeno lui portava la cravatta.
«Spero vi piaccia il risotto», ha detto e io e Charlie abbiamo fatto di sì con la testa. Poi lei ha tirato fuori dalla borsa il regalo e l’ha dato a Francesca dicendole che era giusto un pensiero. In quel momento mi sono accorto che Francesca aveva delle mani perfette, le unghie lucide, quasi trasparenti. Le unghie di Charlie invece erano tutte mangiucchiate e piene di pellicine.
Francesca ha appoggiato il regalo sul ripiano della cucina. «Lo apriamo dopo cena, ok?», ha detto come se stesse parlando a una bambina e Charlie le ha risposto che andava bene, anche se negli occhi c’era ancora qualcosa di inespresso.
«Volete del vino?», ha chiesto Paolo mentre stava già versando quattro bicchieri di rosso.
«Possiamo darti una mano?», gli ho detto.
«Ma no, è quasi pronto, andate a sedervi di là».
Siamo andati nell’altra stanza e ci siamo seduti al tavolo. Per riempire il silenzio ho chiesto a Francesca cosa facesse nella vita. «La designer», ha risposto con una certa noia indicandomi la sedia vuota di Paolo. «Quella l’ho fatta io». La sedia sembrava uguale a qualsiasi altra sedia, a parte lo schienale un po’ più alto del normale. Sembrava una bella sedia, solida e resistente. Le ho fatto i complimenti. Charlie non ha detto niente ma sono quasi sicuro che stesse pensando al processo produttivo che sta dietro alla costruzione di una sedia e volesse dire a Francesca che quella sedia non l’aveva fatta lei, ma l’aveva soltanto pensata. Pensando alle mani di Francesca mi sono reso conto che, anche se ci dicono che è fatta in scala di grigio, spesso la vita è bianca o nera: o fai le cose oppure scegli di tenerti le tue mani perfette.
Fortuna che in quel momento è arrivato Paolo con il risotto. Prima ha servito Charlie e Francesca, poi è tornato in cucina, ha portato altri due piatti, si è seduto e ha alzato il calice di vino.
«A noi!», ha detto buttandolo giù in un sorso.
Abbiamo iniziamo a mangiare. Paolo mi ha domandato quando io e Charlie ci siamo conosciuti.
«In facoltà», ho detto. «Era inverno, stavo seduto accanto a lei su una panchina in giardino. Leggeva Hemingway e continuava a starnutire. Le ho passato un fazzoletto e insomma, una cosa tira l’altra, siamo andati a bere un caffè e poi… le solite cose».
«Dio, ero proprio un orrore quel giorno», ha detto Charlie.
«Non lo eri per niente», le ho risposto.
Mi ha sorriso. Francesca ci guardava un po’ indispettita, così le ho domandato come aveva conosciuto Paolo.
«I nostri genitori erano amici e al liceo uscivamo con la stessa compagnia. Non c’è stato un momento particolare. O almeno, non me lo ricordo».
Paolo l’ha guardata con tristezza. Il silenzio stava calando di nuovo quando abbiamo sentito un rumore netto. Tunc. Charlie è sobbalzata al mio fianco. A intervalli di due o tre secondi ha risuonato di nuovo quel tunc, tunc, tunc.
«Cazzo», ha detto Francesca guardando il soffitto.
«Che cos’è?», ho chiesto.
«Quel bastardo», ha risposto. Mi sono voltato verso Paolo, anche lui osservava il soffitto. Poi, di colpo, il rumore è cessato.
«Scusate, è l’inquilino di sopra», ha detto Paolo. «Un vecchio professore. Usa un bastone…»
«Quel figlio di puttana lo fa apposta».
«No, Francesca, non dire…»
«Sì, invece. Certe volte cammina su e giù per tutta la notte solo per tenerci svegli!»
«Stai esagerando».
«No che non esagero. Su e giù, su e giù. Ogni. Cazzo. Di notte. Gli abbiamo chiesto mille volte di mettere qualcosa su quel bastone. Basterebbe una punta di gomma! Ma niente, lo stronzo vuole farci andare fuori di testa. Era il proprietario del palazzo, poi ha perso tutto, dicono che gli usurai se lo siano mangiati vivo. Però non possono metterlo in strada perché c’è qualche clausola che lo tutela fino alla morte. Finché campa può vivere qua sopra. Ma vuole vendicarsi perché gli abbiamo portato via la casa».
Mentre parlava Francesca era diventata tutta rossa e gli occhi le si erano ingranditi nelle orbite. Charlie teneva lo sguardo basso e Paolo fissava la tavola, non so se per vergogna o per spavento.
«È per questo che non invitiamo mai nessuno», ha detto alla fine lui. «Ogni volta dovremmo spiegargli tutta ’sta storia…»
Allora ho capito che noi due non eravamo altro che due tentativi, due cavie per il loro esperimento, e doveva averlo capito anche Charlie perché la sentivo trattenere per un attimo il respiro al mio fianco.
«Per noi non è un problema», ho detto.
Francesca teneva gli occhi chiusi. Charlie mi ha preso la mano e l’ha stretta forte sotto la tavola.

Tutta la cena è andata avanti così. Francesca dava l’impressione di essere da un’altra parte, in compagnia del suo malumore. Io e Paolo provavamo a fare conversazione sostenuti dal vino e qualche volta pareva che avessimo imboccato la strada giusta: Charlie entrava nel discorso e Francesca sembrava ascoltarci o quantomeno far finta di farlo. Ma ogni volta che cominciavamo davvero a parlare, subito tornava quel rumore – tunc, tunc, tunc – e le parole ci morivano in gola a vedere la faccia stralunata di Francesca.
Finito il dolce ho detto a Paolo che dovevamo andare. Lui mi ha guardato deluso e confesso che per un attimo mi è parso quasi di tradirlo, ma non potevo fare altrimenti.
Appena usciti dalla porta d’entrata ci siamo voltati per ringraziarli della serata e ho visto, oltre la soglia, tutta la sala: la grande tavola sembrava rovinata dai piatti lasciati in disordine e le sedie di Francesca erano diventate pezzi di legno che l’indomani sarebbero stati venduti per qualche soldo da un rigattiere di paese. Quando Charlie ha salutato Francesca con un bacio sulla guancia mi è parso di cogliere nei suoi occhi una strana pietà. Eppure non mi pare che nel Capitale ci sia scritto qualcosa riguardo alla pietà per i padroni capitalisti.

Siamo tornati a casa in silenzio. Guidava Charlie, io avevo bevuto troppo. Quando siamo arrivati nel nostro appartamento – che prima ci sembrava perfetto e ora era diventato di colpo piccolo e malandato e spoglio – lei è andata in bagno mentre io ho messo il pigiama e mi sono infilato direttamente sotto le coperte. Charlie è uscita dal bagno e mi si è stretta addosso. Le ho preso le mani: erano fredde, potevo percepire ogni screpolatura e pellicina attorno alle unghie, ma non le avrei scambiate con le mani di Francesca. Siamo rimasti così, con le mie mani che si raffreddavano pian piano nelle sue. Nel dormiveglia, forse per il vino o per l’inquietudine della serata, continuavo a sentire in lontananza un rumore che faceva tunc, tunc, tunc. Ci ho messo un bel po’ prima di capire che era soltanto il cuore di Charlie che le batteva nel petto.

A pensarci bene, credo sia stato proprio in quella sera che le cose fra me e Charlie hanno cominciato a cambiare. Anche se nessuno dei due lo ammetterebbe apertamente, era come se quella cena ci avesse dato un’altra consapevolezza, facendo nascere una qualche forma di comunanza. Forse è una cazzata, di certo è una cazzata, e le cose invece sono cambiate dopo, poco per volta. Sì, dev’essere andata così. Però il principio è stato quello.
Sono passati tre anni da quella sera. Io sono stato assunto da una scuola privata dove insegno italiano, storia e geografia; Charlie lavora in una piccola casa editrice scolastica. Ci siamo trasferiti in un appartamento più grande e anche se non navighiamo nell’oro non possiamo certo lamentarci. Abbiamo quasi trent’anni. Ogni tanto parliamo dell’eventualità di avere un bambino. Io leggo ancora romanzi russi, mentre Charlie ha progressivamente abbandonato il marxismo e ora dice, per scherzo ma nemmeno troppo, di sentirsi anarchica.
Un martedì sera di qualche settimana fa stavo passeggiando da solo per la piazza. Nell’aria c’era quella sorta di energia schiacciante tipica delle giornate che cominciano ad allungarsi. D’un tratto ho sentito qualcuno che mi chiamava: mi sono voltato e ho visto Paolo venirmi incontro. Nonostante non facesse freddo portava un giaccone invernale, nero e piuttosto lugubre. Si è avvicinato, ci siamo stretti la mano. Ho notato la sua nuova faccia misteriosa e contorta, un poco tirata. Mi ha chiesto come stavo, cosa facevo al momento. Gliel’ho raccontato senza troppi dettagli. Ha chiesto se stavo ancora con Charlie. Gli ho risposto di sì, e poi ho aggiunto: «Sempre». Lui ha sorriso, un sorriso meno triste di una volta.
«E a te come va?»
Ha alzato le spalle: «Abbastanza».
«Francesca?»
«Se n’è andata pochi mesi dopo quella cena. Diceva che non poteva più stare con me. Però non credo d’essere stato io il problema: era quel professore, ti ricordi? Cazzo, quel bastone la mandava fuori di testa. Che poi, senti questa: erano passati solo dieci giorni e una mattina mi capita di non sentire più nulla dal piano di sopra. Passa un giorno, due, e niente bastone. Quello stronzo mi aveva rovinato la vita e adesso decideva di smetterla! Ero triste e incazzato, davvero, non puoi capire. Allora sono salito e ho suonato il campanello: niente. Ho bussato: nessuna risposta. Gli ho pure urlato di uscire se aveva il coraggio. Niente di niente. Allora mi sono preoccupato e ho chiamato la polizia. Anche loro hanno provato a bussare, suonare, urlare, ma niente. Hanno chiamato i vigili del fuoco, si sono fatti aprire la porta, e indovina? Il vecchio era morto!»
Paolo ha cominciato a ridere di una risata isterica e sono rimasto a guardarlo senza sapere cosa fare.
«Capisci? Morto! Se Francesca l’avesse sopportato per altri dieci giorni sarebbe tutto finito, invece…», e ha ripreso a ridere. Per farlo smettere gli ho chiesto cos’ha fatto dopo.
«Ho provato a cercarla, naturalmente. Ma era andata non ricordo dove, a Roma mi pare. Di me non ne voleva più sapere».
«E adesso stai ancora in quell’appartamento?»
«No no, figurati. Dopo tutta ’sta storia odiavo quel posto: i lampadari, la cucina, il letto… soprattutto le sedie! E poi il bastone del vecchio in fondo mi teneva compagnia. Quando è morto, be’, non aveva più senso restare e sono tornato dai miei».
Ho annuito senza dire nulla.
«Dovrei ringraziare, invece, te e Charlie».
«Per cosa?»
«Per il libro che ci avete regalato quella sera. Dopo che Francesca è andata via me lo sono letto tutto. Un sacco di volte. E insomma, credo proprio che abbia ragione. Infatti sto per partire».
«Partire? Per andare dove?»
«Ma come, dove? In mezzo ai boschi per succhiare il midollo della vita, no?»
Ho annuito di nuovo, ma facevo fatica a capire di cosa stesse parlando e – tempo che mi venisse in mente – Paolo mi aveva già stretto la mano e continuando a ringraziarmi se n’era andato. Sono rimasto fermo a guardarlo allontanarsi e poi ho pensato: Cazzo, Charlie gli ha regalato Thoreau!

Secondo Charlie può succedere che ognuno di noi abbia un destino e che – non importa come quando dove e perché – alla fine ci tocchi percorrerlo. Non so se abbia ragione, ma certo pensare che uno come Paolo stia per andare a vivere nei boschi solo perché ha letto un libro mi dà un po’ da riflettere. Alla fine mi sono sentito in dovere di rileggere Thoreau e ho trovato una frase che forse può fare da finale a questa strana storia: «Un uomo non deve fare tutto, ma qualche cosa; e poiché tutto non lo può fare, non è necessario che faccia qualcosa di sbagliato». Quindi forse Francesca era sbagliata per Paolo e il suo qualche cosa era andarsene a vivere nei boschi; e forse il mio qualche cosa è stare vicino a Charlie e continuare ad amarla; e forse anche al destino piace travestirsi da altre cose – tipo l’inquilino di sopra – per farci comprendere questo qualche cosa. Chissà. Queste comunque sono parole che non rivelerei mai a Charlie perché, da anarchica, mi direbbe che sono soltanto uno stupido idealista romantico. Anche se, per me, le due cose non sono per niente in contraddizione. No, proprio per niente.

 

Ciro Gazzola (1990), nato a Bassano del Grappa, vive a Solagna. Lavora come insegnante. Nel 2010 ha vinto la XV edizione del Premio Campiello Giovani, mentre nel 2015 un suo romanzo è stato segnalato al Premio Calvino.

“Galizia”
di Martin Pollack

Dell’importanza della toponomastica ci accorgiamo solo quando capita di avvicinarsi ai confini; solo quando dal finestrino della nostra auto cominciamo a notare che città e paesi vengono indicati con il doppio nome, e a Bressanone si affianca Brixen; a Gorizia Gorica e così via. Nulla di strano, si dirà, del resto sono città di confine.

Immaginarsi di vivere in un luogo con non due, ma quattro nomi; un luogo non di confine, ma la capitale della più grande e popolosa provincia di un impero; immaginarsi, dicevo, di essere a Leopoli/Lemberg/L’viv/L’vov ci pone di fronte a un’evidenza: «Ogni nome della stessa città è una città diversa, a seconda di chi la vive. All’interno della stessa città ce ne sono molte altre – una tedesca, una ebraica, una rutena». Ed è tutta la Galizia raccontata da Martin Pollack (Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa, Keller Editore, 2017) a vivere di questa sorta di unità nella diversità, come fosse un motto che dovremmo ben conoscere ma che spesso ignoriamo.

Regione storica che oggi non esiste più e che inoltre condivide il nome con un’altra parte remota d’Europa – quest’ultima da anni sempre più frequentata da camminatori armati della conchiglia di San Giacomo – la Galizia che viene visitata da Pollack ci viene presentata seguendo i percorsi delle ferrovie imperial-regie fino alla Bucovina. Con minuzia e attenzione ai particolari, i luoghi, le persone e le culture vengono raccontate soprattutto per come apparivano prima della Grande Guerra, quando era da Vienna che si prendevano le decisioni su quelle terre che rappresentavano un importante baluardo geopolitico. Una tappa dietro l’altra, ci si immerge nella lettura di brani di romanzi, di vecchi articoli di giornale, di reportage. E sebbene nessuna lingua, religione o cultura sembri prevalere sull’altra, una in particolare lascia spazio alla malinconia e al risentimento: è la cultura ebraico-orientale, quella violentata, usurpata e scomparsa nel torno di pochissimi anni con la Shoah. Malinconia per tradizioni perse e risentimento per la nostra civiltà, che tutto ciò ha consentito. Un libro, come ricorda Claudio Magris nella postfazione, in cui il mondo raccontato «ha risvegliato l’interesse degli occidentali soltanto a partire dalla sua distruzione – forse anche, aggiungerei, almeno in parte, l’interesse di chi ha contribuito a distruggerlo».

Sebbene il racconto si svolga come un viaggio, non è un’opera che si possa godere a pieno se non si è stati frequentatori di Joseph Roth, Bruno Schulz, Paul Celan, e senza aver tratto da loro quelle suggestive immagini, quella fantasia di odori e sapori, quelle sensazioni sulla pelle che Galizia consente di ritrovare come un groppo allo stomaco, e che forse solo un vero viaggio consente di dischiudere appieno.

 

(Martin Pollack, Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa, trad. di Fabio Cremonesi, Keller Editore, 2017, 256 pp, euro 18)

“Umami”
di Laia Jufresa

Umami (Edizioni SUR, 2017) è il quinto sapore, quello che conosciamo senza saperlo e che non sappiamo riconoscere. È la stessa cosa che capita con il dolore o con l’abbandono, è inevitabile assaggiarli, non avranno un gusto comprensibile, andremo avanti ugualmente.

Laia Jufresa, autrice messicana al suo primo romanzo – finora aveva scritto racconti e una sceneggiatura –, costruisce un libro diviso in pochi anni e a ogni anno dà una voce, a ciascuna voce una casa e a ogni casa il nome di un sapore. Risultato di questa costruzione è un’architettura costituita da una narrazione intrecciata, frammentaria e interrotta in cui il tempo scorre all’indietro dentro i confini di un complesso residenziale, consentendo tuttavia di seguire in modo chiaro il mosaico di storie e di ricordi che ne rappresenta le fondamenta.

Ana vive nella casa Salato con i genitori musicisti, due fratelli in viaggio e una sorella minore che non c’è più. Alle vacanze americane dalla nonna preferisce restare in cortile a far crescere la milpa, tradizionale coltivazione messicana di mais, fagioli e zucca, e a leggere i libri di Agatha Christie o i classici elisabettiani che la nonna le invia. La madre di Ana sembra vivere a cavallo tra questo mondo e un altro di cui non parla mai ma a cui guarda di notte in giardino, da sola. Porta sulla testa un turbante ogni giorno diverso come per avvolgere la perdita di sua figlia dentro qualcosa di molto stretto e non va più a trovarla al cimitero.

Nella casa Acido abita la migliore amica di Ana, una ragazzina bella dal nome brutto ma di cui è orgogliosa perché è lo stesso della coreografa Pina Bausch, che in quel posto però nessuno sembra conoscere. Pina sopravvive allegra e triste con il padre alla partenza della madre, una donna dallo spirito hippie incapace di tornare indietro, che prima di andare via ha lasciato una lettera che la figlia non ha mai letto.

Ogni tanto con le due amiche, a volte solo nei pensieri di qualcun altro, si sentono le parole infantili di Luz, sorella di Ana, l’unico personaggio che ogni anno che passa non cambia mai età. La sua suona come la voce di un pesciolino rosso in fondo al lago, dove sperava di trovare un castello, un imperatore e un desiderio e dove invece è diventata un ricordo.

Accanto a loro, casa Amaro è stata presa in affitto da Marina, pittrice che non mangia più, che cerca di capire se ha abbandonato la propria famiglia di origine o se è lei a essere stata abbandonata. E mentre lo fa inventa nomi di colori che forse non le serviranno mai per dipingere ma che sono perfetti per descrivere stati d’animo e tutte quelle cose che altrimenti non esisterebbero.

Ideatore e proprietario del comprensorio Villa Campanario è Alfonso Semitiel, antropologo vedovo che passa le sue nuove giornate a scrivere e scrivere – su un pc che chiama Nina Simone – della moglie che non c’è più, anche se parlare di lei è allo stesso tempo necessario e impossibile come spiegare l’umami. Trascorre il tempo che non ha ormai molto senso ascoltando le strane teorie della ragazzina che gli abita accanto e condivide clandestinamente il lutto con la vicina di casa in un bar dove non era mai andato prima.

Nel romanzo non trova spazio nessuno degli stereotipi spesso attesi nella letteratura messicana. In Umami non c’è violenza, né politica, né povertà. Jufresa, così come altre autrici latinoamericane della sua generazione come Guadalupe Nettel e Valeria Luiselli – entrambe messicane – si allontanano dai canoni del romanzo cliché, non si sentono necessariamente tenute a raccontare temi che ci si aspetterebbe in quanto caratterizzanti, nel luogo comune, quella parte di mondo, non vogliono essere testimoni incastrate in un ruolo previsto da altri, semplicemente intendono essere libere di raccontare a prescindere da qualunque imposizione geografica. Le loro storie raccontano di quello che succede dentro – all’interno di una famiglia, in una sola persona, dentro un corpo – e questo permette di leggere storie universali, in cui il dolore, i sentimenti del singolo, le relazioni umane sono forti come quelli di tutto un popolo.

In particolare in Umami, tra ricordi che non vanno via, confronti e litigi e risate, ogni personaggio si plasma e si descrive negli occhi del proprio vicino, si incrociano alcolici per dimenticare – o per ricordare – e infiniti tentativi di restare a galla, di sopravvivere alla sofferenza, di imparare a conviverci ognuno in un modo che nessun altro capirebbe.

«Solo che non è nemmeno un fiume la nostra tristezza, è acqua stagnante. Da quando Luz è affogata, c’è sempre qualcosa che affoga a casa nostra. Certi giorni no. Ci sono giorni in cui si potrebbe credere che siamo ancora vivi, i cinque rimasti della famiglia: mi viene un brufolo, Theo riceve una telefonata da una ragazza, Olmo dà il suo primo concerto, papà torna da una tournée, mamma fa una torta. Ma poi entri in cucina e c’è la torta, ancora cruda, sul tavolo di legno, la metà della superficie già punzecchiata con la forchetta, l’altra ancora liscia, mamma con la forchetta sospesa per aria, la forchetta immobile, lei imbambolata, e allora capisci che a casa saremo per sempre quasi sei».

 

(Laia Jufresa, Umami, trad. di Giulia Zavagna, Edizioni SUR, pp. 250, euro 16,50)

Mark Lanegan @ Parco Rosati, 11 Luglio 2017

Dentro a un posto inusuale per il rock, all’interno degli spazi del Parco Rosati di Roma all’Eur che è generalmente pervaso e invaso da ben altri suoni, la voce ruggente di Mark Lanegan con la sua band si è esibita nell’attesa data capitolina del suo Gargoyle Tour.

Due parole più del solito meritano i due artisti che hanno preceduto il live del Nostro.
Open act di assoluto livello per due musicisti anche membri effettivi della Mark Lanegan Band, ma che meritano il palcoscenico offertogli per i loro progetti solisti.
Mentre il sole tramonta sul palco dell’arena del Fiesta (ebbene sì!) per una sera trasformato in tempio bluesrock, arriva per primo il bassista e cantautore belga Fred Lyenn Jacques, in arte solo Lyenn con il suo songwriting sussurrato, intimo e quasi lisergico: il pubblico attento e rispettoso, un migliaio che pian piano pervade gli spazi dell’arena, resta stregato dal suono e dalle atmosfere create dal belga. A seguire arriva il cantautore e chitarrista inglese Duke Garwood con le sue ambientazioni sonore bluesy-folk e una vocalità perfettamente in linea con quella del suo mentore Lanegan ma anche – ovviamente – lungo quel solco immaginario che collega entrambi a fantastici “dinosauri” e crooner fumosi e deragliati del rock come Tom Waits e Nick Cave.

Il cielo si è oscurato del tutto quando in total black sale sul palco Mr.Mark Lanegan, che si posizionerà al centro della scena per non muoversi più per le restanti due ore dello show.
La staticità del rocker e songwriter statunitense durante l’esibizione fa da perfetto contraltare a un live nerboruto e variegato con una scaletta che, però, neanche per sbaglio sconfinerà nel repertorio degli anni ‘90 del Lanegan solista.
Per non parlare dei lavori ancora precedenti con gli Screaming Trees (band storica di Lanegan tra le fondanti del movimento grunge) che più di qualcuno dal pubblico, inascoltato, proverà a richiedere a gran voce verso il palco.

Un «thank you so much» ancora più gutturale e raschiato di quando canta, sarà quasi l’unica frase rivolta al pubblico dal cantante. Empatia zero del Nostro. Ma i fan di Lanegan conoscono già il loro artista e ne resteranno comunque stregati, come chi scrive del resto.

Un vecchio e vissuto leone come Mark, uno degli ultimi sopravvissuti dell’epoca del grunge, uno che nel suo primo disco solista del 1990 duettava con Kurt Cobain e incideva per primo inni generazionali come “Where Did You Sleep Last Night” (brano tradizionale di musica folk statunitense, composto probabilmente negli anni settanta del 1800) poi ripresi successivamente dai Nirvana, uno così, insomma, non deve giustificarsi di nulla.
Uno che nella sua carriera nonostante tante traversie personali e artistiche rimane sempre fedele a se stesso e alla sua storia e che con il suo ultimo disco Gargoyle, pubblicato ad aprile del 2017, quando in tanti si sono svenduti agli dei del mercato, ha consegnato ai suoi estimatori ancora una volta un grande album.

Eccolo dunque Gargoyle, come i mostri di pietra usati nelle cattedrali gotiche per far defluire l’acqua dai tetti ma anche come oggetto di difesa dagli spiriti. E il nostro cantore, decisamente personaggio quasi gotico, sembra invocare i suoi demoni protettori attraverso la sua musica.
Nell’ultimo disco così come nei suoi ultimi lavori il musicista statunitense contamina la sua voce e i suoi brani con ritmiche e suoni elettronici, ma l’anima non ne è intaccata per nulla. Anzi.
Proprio da quest’ultimo lavoro arriva il brano iniziale “Death’s Head Tattoo” con le sue tastiere elettroniche post-punk seguite da due brani tra i suoi più belli della sua recente produzione come la cavalcata elettrica di “The Gravedigger’s Song” e le schitarrate rocknroll di “Riot in My House” entrambe da Blues Funeral del 2012.

I brani più “vecchi” dal repertorio solista di Lanegan in scaletta per questo live arrivano dal 2004 con il disco Bubblegum dal quale è proposta “Hit The City” che nel disco vedeva Lanegan in duetto con PJ Harvey. Da Phantom Radio di due anni dopo arriva “No Bells on Sunday”. Poker di brani ancora dall’ultimo lavoro a seguire con la sulfurea “Nocturne”, il blues rockeggiante di “Emperor” , la dolce leggiadria di “Goodbye To Beauty” e la new wave di “Beehive”.

Il pubblico della platea rimane seduto e composto mentre attorno alla pista c’è chi prova a ballare su “Ode To Sad Disco” e sulla cavalcata ritmica di “Harvest Home” che pervadono le atmosfere di un Parco Rosati che – sommessamente – suggeriamo agli organizzatori di utilizzare più spesso per live del genere. Acustica perfetta e spazi adeguati e ariosi per live estivi di artisti di questo calibro e pubblico.
Da Bubblegum arrivano ancora la dolce ballad di “One Hundred Days” e le belle chitarre di “Head” sottolineate dal bravissimo Jeff Fielder, fido chitarrista della Mark Lanegan Band, sul palco con i già citati Lyenn e Garwood.
Nei bis anticipata dalla iancurtisiana “The Killing Season”, arriva il gran finale con la ben riuscita cover di “Love Will Tear Usa Apart” degli Joy Division.

Si accendono le luci del Parco Rosati e il Nostro, annunciato da Fielder, firmerà per un’oretta buona indolente e sornione centinaia di dischi ai fans cui concederà anche qualche imbarazzato, imbarazzante e romanesco serfie.
It’s only rocknroll, bellezza.

Ph. Credits: Alessio Belli

Anche in Messico hanno l’inquinamento

Mi sono messo il piumino azzurro, quello che ho preso l’anno scorso, Nadia mi ha visto e ha tentato di fermarmi. Dove stai andando?, mi fa, con due occhi così. Non puoi uscire, mi dice, poi si pianta sulla porta e inizia a spingermi verso il tavolo. Io le dico che non ce la faccio più a stare lì, che non ho alcuna intenzione di rintanarmi in casa come un malato, che prima o poi si deve ricominciare a vivere. Ma lei non sente, dà un’occhiata fuori come se dal quarto piano si vedesse la strada.
Siamo rimasti così per un po’, stretti uno addosso all’altra. Alla fine le ho abbassato le mani. Per quel che mi riguarda, le ho detto, la mia vita ricomincia adesso. L’ho fissata e dovevo avere un’espressione davvero terribile, Sergio, perché lei si è subito ritirata.
Si è seduta in un angolo del divano, ha incrociato le braccia e non ha più detto nulla. Aveva ancora addosso il pigiama, odorava di caldo e comodità, mentre io con il piumino mi sentivo un pagliaccio. Bene, le ho fatto, battendo le mani sul petto, come per togliere la polvere, e sono andato alla porta. Sapevo che qualcos’altro dovevo pur dirle, ma non mi è venuto in mente niente.
Il televisore era acceso, ma senza il volume, così noi potevamo farci compagnia e gli altri non potevano sapere se eravamo in casa. La presentatrice teneva in mano un foglio. Dettava cose a dei tizi vestiti da cuochi dietro a dei tavoli, muoveva le labbra in silenzio verso quei tizi con il grembiule rosso e verde che cucinavano. A un certo punto ha alzato gli occhi e si è messa a ridere. A me è venuto da vomitare.
Sono uscito.
Fuori, sul pianerottolo, ho sentito una porta chiudersi. Vicini di casa. Razza di bastardi, ho pensato. Mi sono tirato la cuffia sulla fronte, ho chiuso la porta e ho fissato l’ascensore. Poi però ho preso le scale.
Il parcheggio era pieno di gente, li vedevo attraverso i vetri dell’ingresso. Si muovevano tutt’attorno come squali, alcuni avevano dei cartelli in mano, tutta roba che riguardava il bambino. Non potevo uscire da lì. Mi sono guardato in tasca, le chiavi dei garage ce le avevo quindi sarei potuto andare giù e risalire dall’altra parte, come una talpa in un cunicolo.
Dal parco, la gente si vedeva ancora. Non si erano accorti di me, mi sembravano tanti piccoli pupazzetti malvagi. Camminavo più in fretta che potevo, un po’ per il freddo e un po’ perché avevo una gran voglia di togliermi dalle scatole. C’era ancora qualche spruzzetto di neve, qua e là, anche se il grosso ormai si era sciolto. Il cielo era grigio, pesante, il campanile del duomo svettava sui tetti e gli alberi del parco. Il resto era un misto di freddo, aria pallida e tutto lo smog di questo mondo. È sporca la mia città, in inverno, si fa fatica persino a respirare.
C’era una mamma con i suoi bambini vicino alle altalene, l’ho guardata appena mentre le passavo accanto. Un sergente, pareva, con due piccoli astronauti, due esserini gonfiati di gomma. Erano buffi. Il maschietto ce la metteva tutta a spingere la sorella, ci dava proprio dentro e si vedeva che faceva una fatica boia. Il risultato però era deprimente.
Ho rialzato la testa, la mamma mi stava osservando. Qualcosa mi è morto sul viso, mi sono stretto nelle spalle e ho allungato il passo. Gli occhi pesanti di quella donna li ho sentiti sulla schiena per tutto il tempo, e anche dopo, quando ormai ero giunto in centro. Lì, almeno, speravo di confondermi con il resto della gente.
Erano tutti in giro a comprare i regali dato che oggi è la Vigilia. Ci sono queste luci appese alle case, per le vie del centro, sono tutte gialle e lampeggianti e i negozi sono tutti in tiro, sembra che vogliano attirarti e poi mangiarti. Come i pesci degli abissi, no? Eppure, lo devo proprio dire, c’era tutta quest’aria di gran felicità. La nauseante accoglienza che può darti una via del centro, in inverno, a Natale. C’era persino un barbone con un sombrero rosso e bianco.
Questa felicità, Sergio, io la percepivo, eccome, ma da lontano. Come quando guardi i colori di un acquario, dentro a una stanza brutta. Sentivo anche tanta indifferenza dietro la superficie di quel mondo dorato. Però va bene così. Mi sono detto, l’indifferenza è proprio ciò di cui ho bisogno.
Ma mi sbagliavo. Ho sentito l’aria che si spostava ancora prima che il colpo mi arrivasse sul collo e il brodo colasse giù, caldo e appiccicoso lungo la pelle della schiena. Devo aver sviluppato una specie di sesto senso, immagino. Mi sono girato e dietro di me c’era un ragazzino che avrà avuto sì e no dieci anni. Teneva il dito sollevato verso di me, per terra un cartoncino vuoto e qualche cappelletto che agonizzava in una pozzanghera di brodo fumante. Cappelletti fast food, la moda del momento. Li mangi mentre vai in giro, te li fanno anche pagare piuttosto bene. Noi qui li chiamiamo galleggianti, i cappelletti, perché stanno a galla come tante boe dentro al loro mare ustionante. I genitori hanno raggiunto il figlio in un attimo, quasi correvano, lo giuro, e il padre aveva un’aria sconvolta. Anzi, no, forse sconvolta è troppo, però sembrava davvero dispiaciuto. L’hanno afferrato che aveva ancora il braccio alzato. La madre ha fatto per dire qualcosa, poi mi ha visto e in un lampo l’ha capito. Le labbra strette come due fessure, tremava di rabbia e i suoi occhi dicevano tutto quello che c’era da dire. Chissà perché le donne ci arrivano sempre prima in queste cose. Sarà l’intuito femminile. Ma a così tanto odio non ci si abitua, Sergio. È impossibile, non riesci proprio a farci i conti.

La gente mi detesta, la città, il paese, forse il mondo intero mi detesta, e gran parte della colpa è di Giusy. Su questo, Sergio, non puoi proprio non darmi ragione.
Ce l’ha messa tutta, Giusy. Prima con gli amici, poi con le autorità, ha persino provato a lanciarmi addosso qualche avvocato pazzoide. E la notte, ti confesso, non riesco più a dormire perché penso che da un momento all’altro qualcuno potrebbe entrare, magari uno zingaro, o qualche altro poco di buono pagato da lei o da Alfonso. Le ha provate tutte, quindi chi può escluderlo? Quando ha visto che con la legge non ce la faceva, che il nostro era un caso eccezionale e che non c’erano precedenti in tutta la storia, Giusy ha fatto l’unica cosa che le rimaneva da fare: si è rivolta ai giornali. E lì la questione ha fatto breccia come un coltello dentro alla carne cruda. Lì, di gente da spremere, Giusy ne ha trovata, eccome. E le cose, per me e per Nadia, non hanno fatto che peggiorare.
Che devo dirti, ormai mancano pochi giorni e una decisione devo pur prenderla. Ormai siamo agli sgoccioli e tra la stampa, la tv e internet qui è diventato un inferno (tanto per rimanere in tema). Mi sento tutte le luci addosso, mi sembra di essere sul fondo di un imbuto con tutta la gente che urla lanciando cose dall’alto. E nonostante questo non riesco a condannarla. Immagino che anche lei debba sentirsi disperata, dico davvero.
Ma una cosa è sicura: io, di lasciare questo mondo, proprio non ne ho voglia. Ho trentadue anni, e la vita aveva appena preso una piega decente. Il progetto a cui stavo lavorando era quasi pronto e un investitore aveva persino deciso di finanziarlo. Uno piccolo, intendiamoci, ma pur sempre meglio di niente. Anche per Nadia le cose si stavano sistemando, stava cambiando lavoro. Capirai quindi che io, di sacrificarmi, non ne ho alcuna intenzione.
Te l’ho scritto, Sergio, voglio prendere di nuovo in mano la mia vita. Mi spiace per Giusy, ma non sono mica un eroe. Sono uno che ha paura, proprio come tutti gli altri. Paura delle cose che fanno paura alla gente normale, che ti credi? La morte, le malattie. La miseria. Cose così, insomma. E quelli che agitano i loro cartelli contro di me, anche loro dovrebbero saperlo, anche loro avranno pur paura di qualcosa. Parla bene, la gente, mica ci sono loro al mio posto. È facile, così. Pronti a puntare il loro dito contro. Che ci si infilino loro nei miei panni, dico io! Che si facciano aiutare dai politici o da qualche santone di turno. Che invochino ancora il Diavolo, o Dio in persona, questa volta. Se gli riesce. Che gli chiedano di farsi sostituire a me, dato che sono così bravi e coraggiosi. Loro, gli eroi. Bambino o mica bambino.

Prima che qualcuno si mettesse a gridare ho girato le spalle e mi sono infilato in un vicolo, mica potevo starmene lì. Ho tirato giù il cappuccio maledicendo la mia stupida idea di mettermi questo piumino azzurro squillante. Peggio di un razzo segnalatore o del triangolino sui calciatori dei videogiochi. Maledetta la mia situazione, maledetta Giusy e maledetto il giorno del battesimo!
È quasi passato un mese, ormai, dal battesimo di Michelino, ma a me sembra soltanto una settimana. Tu non c’eri, Sergio, ma di sicuro hai visto il video. Ora ti racconto come l’ho vissuta io.
Quel giorno Giusy continuava a fare foto, filmini, riprendeva uno per uno tutti gli invitati con in braccio il piccolo Michelino. Non se ne poteva più, non ne poteva più nessuno, compresi quelli che adesso ce l’hanno con me. Manuel, poi, l’ha presa in giro per tutto il tempo. Ci si metteva dietro e faceva certe facce, imitava gli occhi storti del bambino.
Manuel ora non mi risponde più. Lo chiamo e non risponde, è come se non esistessi. Anche gli altri non mi rispondono, mando le mail ma non arriva indietro niente. Nelle chat prima leggevano e basta, poi hanno smesso di fare anche quello. Alla fine si sono tolti, qualcuno ha persino bloccato il mio profilo. Non riesco a comunicare con nessuno, mi trattano come un appestato, uno da cui si deve stare alla larga. Ho provato anche alla vecchia maniera analogica, cioè con la carta, proprio come sto facendo ora con te. E penso sia davvero un’ottima idea perché così nessuno mi può intercettare. Penserai che sono paranoico, forse hai ragione. Comunque, non rispondono nemmeno alle lettere, magari però le leggono.
Tornando al dannato giorno del battesimo. Quel giorno si stava davvero bene. Nonostante Giusy, e nonostante Alfonso che le correva dietro come un cane. Faceva freddo, ma c’era il sole. Io ero con Robertino a giocare sui trattori. Avresti dovuto vederlo, Robertino va matto per i trattori. Come tutti i ragazzini, del resto. La casa di campagna del papà di Giusy dev’essere un posto magico per un ragazzino. Ci sono le anatre, le mucche, i cavalli. Questo per farti capire quanto li amo, io, i bambini, e che tutto quello che dicono e scrivono su di me sono solo stronzate. Quel giorno lì è stato l’ultimo giorno felice della mia vita, e anche della vita di Nadia, puoi starne certo.
Verso sera è arrivata la nebbia. Quando c’è il sole in campagna d’inverno, poi arriva sempre la nebbia, puoi metterci la firma. Ma quella era una nebbia strana, io l’avevo capito. Ho raggiunto gli altri, e poi è successo.
E chi poteva prevederla una cosa simile? Solo nei film accadono certe cose. E quel tipo, quello che ha ripreso tutto con il cellulare. Quello è stato il vero dramma perché i casini sono iniziati tutti da quel video. Solo Dio sa il danno che m’ha fatto. Avrei dovuto prenderlo e sbatterlo contro un albero, il suo cavolo di cellulare, e invece non ho fatto niente. Sono rimasto a bocca aperta come tutti gli altri. In mezzo alla puzza di zolfo, al fumo delle fiaccole, accerchiato dalle luci azzurre dei telefonini, le nostre torce del futuro. E i cani che urlavano come lupi e i cavalli che per poco non tiravano giù le stalle. Dio, che roba.
Alla fine, quando la nebbia s’è diradata, mi sono guardato in giro. Erano tutti lì, fermi a osservarmi. Il perché lo sai anche tu. Lo sanno tutti, ormai.
Poco fa ero davanti a una vetrina. C’erano certe locandine incollate al vetro. Posti esotici, quest’anno pare vada un casino il Messico. Ci sei mai stato Sergio? Non sai quanto li vorrei anch’io, dei regali per le mani. Darei meno nell’occhio. Ma se entro in un negozio è sicuro che mi riconoscono, e allora sì che scoppia un altro casino.
Il bar dove sono adesso sembra tranquillo, si sta bene e al caldo. C’è solo il problema della schiena, me la sento tutta appiccicosa. Per via del brodo, piccola peste. In ogni caso, sto sul chi va là. Come un gatto. Sto attento a qualsiasi movimento. Persino ai respiri.

Sarà una madre e sarà anche disperata, però Giusy è sempre stata un’opportunista. Egocentrica e rompiscatole. Non so come faccia Alfonso a sopravvivere con una così. Che poi, per qualche strano motivo che non so spiegarmi, lei ce l’ha sempre avuta con me. E ora mi chiedo se le due cose non siano collegate, in qualche modo.
Ogni volta che ci sono io e c’è anche lei, Giusy prende nota di tutto quello che faccio. Mi tiene d’occhio, insomma. Guarda se preparo il tavolo, se sparecchio, se tiro l’aspirapolvere, cose così. Se cucino. Che poi lo sanno tutti che non so cucinare. Lei comunque deve sempre farlo notare.
Una volta pure Nadia le ha detto, Giusy, e lascialo un pochino in pace, Cristo santo. Non ne poteva più neanche lei, e sai bene la pazienza che ha la mia Nadia. Che magari è anche così, cavolo, magari è vero che non mi faccio in quattro per gli altri, ma non do neanche fastidio a nessuno. E se mi dicono di fare una cosa, stai pur sicuro che la faccio, e senza lamentarmi. Solo, non sono uno che prende l’iniziativa.
Ma poi, dico io, se agli altri va bene così, a Giusy che gliene frega? Che se vogliamo guardare in casa sua, allora, cosa dobbiamo dire di lei e suo marito? Povero Alfonso, sgobba come un negro tutto il santo giorno e per fortuna che ha un buon stipendio, altrimenti Giusy si scorderebbe lo yoga, le lampade, il personal shopper e il parrucchiere ogni venerdì. Ho anche saputo che quando arriva a casa, poveretto, deve pure ciucciarselo lui, Michelino, perché Giusy deve guardare i programmi alla tv. Ci mancherebbe, pretende la sua libertà.
E poi Giusy è invidiosa. È una di quelle che se le cose non le vanno meglio di tutti allora il mondo può mettersi a girare al contrario, pur di accontentarla. Rode di invidia, dai retta a me.
Prendi la storia dei figli. Quando tutti si sono messi a figliare come conigli lei andava in giro a dire che non aveva tempo perché era una donna in carriera. Poi è arrivato Michelino e la musica è cambiata, Giusy è diventata la madre perfetta. E tutte quelle senza figli, che cosa aspettavano a farli? Che pena, si vede che erano donne vuote e tristi. Nadia non le ha mai detto niente, ma ti assicuro che ci è rimasta davvero molto male.
Ti confesso una cosa, Sergio. A noi andava bene anche così. Noi, a Giusy, credici o no, le volevamo bene, non ti sto mica mentendo. Le persone ci vengono fuori, con i difetti, mica puoi farci niente, ce li abbiamo tutti e quindi le devi prendere come sono. Anche se personalmente ritengo che i lunatici siano i peggiori. Non le sopporto proprio, io, le persone lunatiche. Come quelli che da un giorno all’altro smettono di fumare e allora iniziano a rompere le palle a tutti quelli che fumano perché gli avvelenano l’aria. E per dimostrarti che non conto mica fesserie ti dirò di più, Giusy per me ha anche delle ottime qualità. Sennò che ci stavamo a fare, tutti, con lei? Mica siamo masochisti o coglioni. Giusy, quando vuole, con le persone ci sa davvero fare. E qui, maledizione, arriviamo al fulcro del mio problema. Ho la metà del pianeta contro, senza contare quelli che non hanno internet e la tv. E tutto grazie a quel video, a Giusy e al suo maledetto saperci fare con la gente. Quel video sta facendo il giro del mondo ora che ti scrivo, praticamente è come se fosse in orbita. È Giusy a pomparlo dentro a ogni sito, ogni portale, ogni social network, e Alfonso che rema per accontentarla, le mani su diciotto tastiere diverse, usa persino le dita che non ha.
Navigo in un oceano di merda, Sergio. Solo che in quest’oceano di isole non ce ne sono, e nemmeno navi o salvagente. Qui si può solo affondare, ecco come stanno le cose.
E devo ancora prenderla, la mia decisione. Scegliere tra me e Michelino, intendo.
È così che ha voluto quel coso, quell’essere, non saprei proprio come altro definirlo. Quel demonio sbucato da terra il maledetto giorno del battesimo. L’hanno sentito tutti, uno dei due dev’essere sacrificato e la decisione è soltanto mia.
E in tutto questo vuoi sapere qual è stato il momento peggiore? Quando ho capito come si sarebbero messe le cose, e cioè subito. Dopo che quella creatura ha parlato, dopo la puzza e tutto il resto, quando mi sono sentito tirare per una mano. Erano i genitori di Robertino, mi fissavano in silenzio. Gli occhi spaventati, gli stessi con cui guarderesti uno stupratore o un serial killer. Mi avevano strappato il figlio dalle mani, lo capisci? Come se per il solo fatto di aver giocato con me anche Robertino fosse segnato. Che poi, dico io. Ma con tutti quelli che c’erano alla festa, proprio con me doveva prendersela quell’affare?

Nadia insiste che non devo mollare. Secondo lei, non devo farmi mettere i piedi in testa da questa cosa che il mondo pretende da me, che non mi salti in mente di lasciarmi convincere. Non cascarci, mi dice, tappati gli occhi e le orecchie se proprio non ce la fai. Per lei non è mai stata una questione di età. La morte non guarda in faccia nessuno, mi ha detto. Come pretende la gente di quotare un’anima, in base all’età? Il mondo non va così, guarda in Africa, ne muoiono ogni giorno. Perché nessuno si interessa a quei bambini lì?
In tutta onestà, Sergio, questa cosa dà da pensare anche a me. E poi, se io schiatto, ha minacciato, il giorno dopo si butta anche lei. Sa bene che questo non potrei mai accettarlo, perciò ci fa leva. Ma è comunque una cosa che va considerata, Nadia di bugie non ne dice mai.
Adesso ti dirò come la penso davvero. Sei una persona intelligente quindi cerca di usare qualcuno dei tuoi filtri quando leggerai questa lettera. Io non lo so, amico mio, e questo è quanto. Però c’è una cosa che continua a ronzarmi in testa. Una domanda che fugge e ritorna come un elastico. Può davvero soffrire un bambino di sette mesi? Lo sa, un bambino così piccolo, cos’è la sofferenza? Capisce il concetto di perdita? Secondo me, no. Michelino non può saperne nulla. Non può piangere per qualcosa che non ha mai avuto, non può nemmeno immaginare ciò che si perderebbe.
Prendi il sesso, per esempio. A me mancherebbe un sacco. Ma a Michelino no, non sa neanche cos’è. Non s’è mai fatto un bagno nel mare, magari di notte, e magari con una bella donna. Non ha mai assaggiato un filetto di manzo, non ha mai sofferto per qualcuno. Non si è mai innamorato, Sergio, lo capisci? Non si è mai innamorato, e non è mica poco. E allora sì che in quel caso gli caverei un bel problema. Un bel dente, come si dice. C’era anche un filosofo che la pensava così, credo. Via tutto, via subito, diceva, più o meno il senso era quello.
E poi quell’affare ha detto che sarà una cosa istantanea, praticamente indolore. Puff, via, sparito. L’ha sentita il mondo intero, questa cosa, tutti hanno visto quel video quindi è meglio che la smettano di andare in giro a raccontare cazzate.
Mi fa davvero imbestialire, mi vedo tutto il mondo che corre dietro a Giusy, dietro alla sua biga infuocata e ai suoi cavalli di cenere, lasciandosi alle spalle una scia di odio e menzogne. E poi vedo questa tremenda bilancia dove ci sono io e dall’altra parte c’è Michelino con i suoi sette piccoli mesi. Solo che la decisione è tutta mia, sono la vittima e anche il carnefice, ma se ci fosse stato un sorteggio sarebbe andata meglio. Con un sorteggio, almeno, avrei potuto sedermi e non pensare più a niente, stare lì e aspettare. Tutti mi avrebbero lasciato in pace.
Insomma, Sergio, so solo che Nadia tutti i santi giorni continua a dirmi, Dài, non mollare, ma io credo che abbia semplicemente paura di rimanere sola. Nessuno dovrebbe rimanere solo a questo mondo. Comunque non so se alla fine farebbe ciò che ha detto. Le cose uno le dice, ma poi da lì a farle ce ne passa.

Mia sorella è un altro paio di maniche.
Di lei non saprei proprio cosa dire. Ha già i suoi casini e mi ha detto chiaro e tondo che non ci tiene affatto a entrare in questa cosa, che per lei è solo l’ennesima grana.
La verità è che io e Angelica non siamo mai andati d’accordo. Da piccoli litigavamo sempre, e ora ci comportiamo come perfetti sconosciuti. Due estranei. Ci scambiamo auguri e regali, e tanto basta. Ci vediamo soltanto se ci sono di mezzo gli altri.
È meglio che prendi una decisione e la fai finita, mi ha fatto sapere.
Sai bene che Angelica è un personaggio pubblico, e che questa faccenda è meglio se rimane fuori dalla sua vita. Per telefono mi ha detto, Lo sai già qual è la cosa giusta da fare. Lo sai bene. Poi però ha aggiunto, Se decidessi di farlo, ecco… C’è stata una pausa, poi ha ripreso a parlare, Mi piacerebbe poter dire che ti ho aiutato, far sapere a tutti che ho contribuito. Aspetta un attimo, mi ha detto e dopo qualche secondo ho sentito un click. Parla più forte, adesso, mi fa. Ho messo giù il telefono. Lei non ha richiamato.
Ti sto scrivendo da un altro bar, Sergio, quello dove prendevamo il caffè prima di andare a lezione, ricordi? Vicino al negozio di Alan. Vorrei poter parlare, invece di scrivere, ma so che non è facile. So anche che hai avuto qualche difficoltà e lo capisco, figurati, non te ne faccio mica una colpa se non ti sei ancora fatto vivo. Spero solo che ciò che c’è stato tra noi sia acqua passata, come lo è per me. Cerca di capire, avevo bisogno di confidarmi con qualcuno che fosse lontano anni luce da questa brutta faccenda. Qualcuno che non sentivo da tempo. Un vecchio amico, insomma.
A proposito, come sta tua madre?
Questa non so come mi sia uscita. Che cosa inutile. Queste domande di circostanza, intendo. Sono inutili, che senso hanno?
Ci sono due tizi che hanno preso a fissarmi, credo che tra poco mi alzerò. Anzi, mi alzo subito, mi cerco un altro posto.

Mi sono infilato in biblioteca, quella nuova vicino alle aule. Ho guardato il telefonino mentre venivo qui, era pieno di chiamate e messaggi, sai che novità. Qualcuno ha dato il mio cellulare a un sacco di gente. E la mail. Ho la posta intasata di minacce. Là fuori è pieno di persone che vorrebbero vedermi morto. Mi scrivono che è inutile che sto tanto a pensarci, che comunque andrà a finire la risolveranno loro, la cosa. Come in carcere, no? La giustizia sommaria dei carcerati.
Che poi non è vero che sono un vigliacco. Sai cosa farei, se fossi un vigliacco? Uscirei di qui, anche adesso, in questo preciso istante. Direi a tutti che ho preso una decisione, direi quello che vogliono sentirsi dire da un pezzo e chi s’è visto s’è visto. Che vengano pure a cercarmi in Cina. O sulla Luna, sai che spasso. Non lo saprebbe nessuno. E invece se ne rimane a casa buono e tranquillo, il vigliacco, guarda un po’.
Ma poi, è possibile sparire al giorno d’oggi? Non so, credo sia molto difficile. Queste teste parlanti… Per loro il male dev’essere a tutti i costi esorcizzato. La gente si fissa uno scopo, un obiettivo, e finché non l’ha raggiunto non è contenta. Sicuro, tra un mese succede qualcosa di catastrofico, tipo una guerra, e allora vedi come si scordano di me alla svelta. Finirà così, vedrai, non verrebbe a cercarmi nessuno. Ma ora è tutto così nuovo, così vicino. È come se non dovesse finire mai, avere per sempre tutto il mondo addosso, capisci? C’è un limite, un luogo in cui la paura non può arrivare? Forse no, forse questo posto non esiste. A nessuno interessa quanti orfani ha fatto Rambo, basta che ci abbia liberati dai cattivi. E finché ci sei dentro la pensi come loro, era così anche per me, ma ora è diverso. Comodo, starai dicendo. E magari hai ragione anche stavolta.
Nadia comunque se la caverà benissimo anche da sola. Sopravviverà anche senza di me, non credo farà ciò che ha detto.
Ah, Sergio, ho visto anche il tuo messaggio in mezzo a tutto il marasma. È stata proprio una bella sorpresa, mi ha fatto davvero piacere! Sono contento, in ogni caso questa lettera la finisco. Ormai l’ho scritta e te la voglio lasciare anche se tra poco forse ci rivedremo. Mi hai fatto proprio un bel regalo, sai? Un po’ di luce in mezzo a tutto questo nero. Dopo ti mando la posizione. Tanto tra poco dovrò spostarmi, qui anche i cani ormai mi conoscono. Sono più famoso di Britney Spears e di Madonna. Be’, forse un pochino ho esagerato. Ma gli youtuber, ci scommetto, quelli li ho battuti tutti.

Però l’idea di sparire… Mica male, eh? Andarsene, fine.
Scusa se arrivo al dunque, Sergio, ma il fatto che tra poco ci incontreremo ha cambiato tutto, sono un po’ su di giri. Ho deciso che ti spedirò la lettera. Voglio farlo oggi stesso, prima che qualcosa possa impedirmelo. Non te la do di persona, ti faccio una sorpresa. Così ricambio.
Ti ho appena mandato la posizione. Sono qui, ora, vicino alla statua di gesso, quella a forma di coppa. Sto ridendo perché penso a quando leggerai queste righe. Considerale il mio testamento morale, ti ho scritto queste cose perché nonostante tutto so che di te ci si può fidare. Anche di Nadia, certo, ma lei è troppo coinvolta. Di certi argomenti non vuole nemmeno parlarne. Ma a qualcuno dovevo pur dirlo, no? Cosa ho deciso di fare, intendo.
Be’, in realtà che cosa farò non lo so ancora. E se fuggissi per davvero? Magari in uno di quei posti che c’erano sulle locandine. Magari in Messico. Non ci sono mai stato in Messico. Conosco un sacco di gente che c’è andata, però. Ho persino due amici che laggiù si sono sposati. E poi non fuggono tutti quanti lì, i cattivi dei film? Quelli che vogliono sparire dalla circolazione. E se lo fanno nei film allora forse posso farlo anch’io.
Io il Messico me lo immagino un posto pieno di sole, mare e palme. Con la gente che si gode la vita e non rompe le palle a nessuno. Anche perché in Messico non ti conviene mica. Devi farti gli affari tuoi, c’è solo una regola che ti devi ricordare. Non. Rompere. Ti parcheggi in spiaggia e ti rilassi, punto. La chiamano la siesta, no?
Ah, il Messico… E poi laggiù la vita costa molto meno. Altrimenti perché ci va la gente? Be’, certo, soprattutto per il mare.
Però ho sentito anche certe brutte cose, sul Messico. Anche là c’è un sacco di inquinamento. Una volta ho letto che Città del Messico è una delle metropoli più inquinate del pianeta. E poi il Messico è pieno di gente violenta. Lo si vede anche nei film e nelle serie tv, dev’essere difficile vivere in un posto così pericoloso. Pensa che mi hanno detto di un paesino, sempre in Messico, che ha il più alto numero di omicidi al mondo. Il nome non me lo ricordo, Ciudad qualcosa.
No, secondo me non se la passano tanto bene, in Messico. È per questo, no, che i messicani cercano sempre di espatriare? Scappano dai loro amici e parenti che ce l’hanno fatta, o almeno ci provano. Ti ricordi quanti messicani nelle cucine di New York?
Sergio, ci stai mettendo un po’ troppo a raggiungermi, ma che giro hai fatto?
Che poi, comunque, il problema del Messico è tutto lì, non capisco come mai non ci siano ancora arrivati. Voglio dire, se i cattivi se ne vanno tutti in Messico, e i messicani, quelli buoni, scappano da un’altra parte, allora il Messico non può che restare un’area di guerra. Un ricircolo di cani rabbiosi. E se poi ci aggiungi l’inquiname—

 

Mattia Frigeri è nato a Parma nel 1981 . Laureato in architettura, lavora come grafico digitale e docente in vari istituti privati. Ha partecipato al percorso Fondamenta della Scuola Holden e all‘Area Letteratura presso Bottega Finzioni, la scuola di Carlo Lucarelli. Le sue storie sono raccolte sulla piattaforma Wattpad, nel tempo libero si diverte a leggerle ad alta voce sul suo canale YouTube.

“Grande Era Onirica”
di Marta Zura-Puntaroni

Grande Era Onirica (minimum fax, 2017) è il romanzo d’esordio della giovane marchigiana Marta Zura-Puntaroni: romanzo-confessione, narrazione in prima (e unica) persona, prosa impressionista, ambientazione senese (nell’accezione tozziana del termine).

La Grande Era Onirica, anzi le grandi Ere Oniriche, le stasi mentali che costituiscono l’argomento delle narrazioni episodiche, diaristiche, del romanzo; non però in forma di scene ben definite, ma sempre circoscritte in un soliloquio della voce narrante che accosta vari eventi, vari piani temporali, franti, in una sorta di continuo flusso di coscienza che non si ferma mai. È un tono gelido e distaccato quello che racconta, che accosta sogni, riflessioni, azioni, assorbendoli in un’opacità inquietante che aliena il lettore dalla vicenda, come uno psicofarmaco, appunto, o l’alcol, o altre fra le tante sostanze con cui la protagonista, Marta, si inibisce/(de)finisce.

Marta giovane, laureata, di famiglia più che benestante; i suoi problemi non derivano dall’esterno: come per la narrazione, è tutto all’interno. E all’interno c’è la depressione, il disturbo borderline, lo spaesamento. Un rapporto insano con sé stessa e con l’altro sesso. L’immagine, distorta, di sé, che proietta fuori, rendendo la propria vita un bozzolo atemporale, com’è la prosa, atemporale, lontana, congelata in un presente-assente che ben si adatta alla protagonista in quanto non partecipa.

Non partecipa, Marta: il suo destino sembra già segnato, il suo commentare i fatti una rassegnata, annoiata spiegazione, che comprime anche le reazioni emotive in un discorso indiretto che non si sfilaccia dall’esposizione degli eventi della voce narrante.

E gli eventi sono soprattutto le relazioni di Marta, il modo in cui si esplica attraverso i rapporti sociali, e ancora di più i rapporti sessuali, che non sono altro che la traduzione, apatica, disinteressata, di sé stessa – il proprio disagio, il proprio problema col maschile – nel linguaggio fisico della comunicazione con l’Altro (lacaniano?), il professore più grande, il padre che non la ama (non nel modo giusto, almeno), l’uomo (che qui forse andrebbe scritto con la maiuscola) che la sovrasta, anche fisicamente, come nell’emblematica scena d’apertura del romanzo.

Una serie di uomini che diventano simboli che diventano definizioni, definizioni di e per Marta, e come le droghe, o meglio, gli psicofarmaci che scandiscono il ritmo della sua vita, anche gli uomini passano, muoiono, tornano in sogno, l’accompagnano sempre con la loro presenza, poi con la loro assenza, e sono personaggi effettivi di quello che non possiamo che chiamare romanzo di formazione, essendo Marta, in qualche modo, ancora informe.

Un primo romanzo già maturo, meditato, che prende di petto il solipsismo tipico degli esordienti e ne fa non un punto di forza, ma direttamente una struttura portante, senza cercare facile rifugio nell’umorismo, che qui è totalmente, drammaticamente assente: non c’è un attimo di respiro dalla claustrofobia di una narrazione che potrebbe ricordare la confessione di Alex Portnoy, da cui però si distanzia: non punta all’autobiografismo e non cerca di eludere la propria natura.

Ciò che resta è una voce unica, in tutti i sensi: sola, ma anche inimitabile; un personaggio unico, escluso da tutto, escluso dalle stesse vicende che narra (le subisce e non le assimila: la morte del Primo, l’abbandono del Poeta, la sudditanza verso l’Altro), com’è escluso il lettore, tenuto a distanza dalla vaghezza della confessione, intesa qui nel senso pseudo-religioso di confessione psicanalitica (“religione della parola”), che non si richiama che a sé stessa, non dipinge alcuna scena con contorni precisi.

Non c’è finale e non c’è forse salvezza, «la domanda resta», c’è solo accettazione, forse rassegnazione, nelle parole che chiudono il libro: il superamento della ristrettezza egoica della protagonista che riconosce che le Ere Oniriche «tanto, in un modo o nell’altro, le hanno un po’ tutti quanti».

 

(Marta Zura-Puntaroni, Grande Era Onirica, minimum fax, 2017, pp. 180, euro 16)

“CIGARETTES AFTER SEX”
DEI CIGARETTES AFTER SEX

Prima ancora di essere il nuovo campione d’esordi, Greg Gonzalez è un eccellente creatore di atmosfere. Se è domenica mattina, se fuori piove e se state pensando a come uscire dal disastro emotivo della sera prima, Gonzalez e i suoi Cigarettes After Sex hanno scritto l’album perfetto per voi. L’omonimo Cigarettes Afer Sex forse non vi aiuterà a rimettere insieme i pezzi, ma la vostra danza di sigarette e caffè sembrerà trovarsi al posto giusto nel momento giusto.

Uscito il mese scorso, il disco è un finissimo ricamo di ambient pop e di tutto quello che il tramonto degli anni Ottanta ci ha melodrammaticamente lasciato in eredità – shoegaze e experimental compresi. Non che il lavoro della band di El Paso sia una sorpresa, anzi. Già il primo EP lanciato dai Cigarettes nel 2012 “EP I.”, aveva fatto salire l’hype alle stelle, e i successivi cinque anni passati a seminare i singoli del futuro primo album avevano provocato, tra i più attenti, quasi una febbre. Ed eccolo qui, Cigarettes After Sex, esattamente quello che ci aspettavamo di ricevere, dove i preannunciati richiami chill-out, a volte vaghi, a volte strutturali, giocano al rimpallo con i bassi e le chitarre acustiche più vicine allo slowcore e alle famiglie dell’indie ( late ‘80s e non).

E slowcore sono i testi malinconici e tristissimi, una vera e propria sigaretta solitaria dopo una disfatta irrevocabile. “K.”, “Sunsetz” e “Apocalypse” su tutte, break-up songs da manuale, ognuna con la stessa storia, ognuna con la stessa atmosfera – una monodimensionalità che è allo stesso tempo il pregio e la pecca dell’album.
“Youth and Dumb”, con un’intro dal rimando inquietante alla “Forever Young” degli Alphaville, è la traccia che chiude l’album ed è anche la più liricamente esplicita. È il tentativo di riprendersi da una tristezza devastante, un tentativo da “cheater” nelle terre dove le ragazze sono belle, sciocche, giovani e nude. Un tentativo che però, stando alla musica, è destinato risolversi in un’altra sigarette dopo il sesso.

I The National direbbero «feeling defeated», sentirsi sconfitti: questo è il mood universale che percorre l’intero album, senza muoversi mai dalle stesse corde sentimentali e musicali (anche i testi, in fondo, appaiono molto simili agli uni agli altri). Sicuramente Cigarettes After Sex è un bell’album d’occasione, ricco di momenti alti e di espedienti musicali ben riusciti, ma non va oltre la comfort zone di un’emozione definita in questo modo già decenni fa, e di cui i Mazzy Star solo sono uno degli esempi da poter fare.