“A CASA TUTTO BENE” DI BRUNORI SAS

Con A casa tutto bene, Brunori ce l’ha fatta. Non che con i precedenti album non si potesse intravedere un cantautore di livello, ma è chiaro come Vol.1, Vol.2 – Poveri Cristi e Vol.3 – Il cammino di Santiago in taxi, ci trovassimo di fronte ai lavori di un artista ancora alla ricerca di un proprio linguaggio. Spesso, infatti, si percepiva uno squilibrio tra testi, interpretazione dei testi e apparato strumentale. Con A casa tutto bene, Brunori è riuscito a fare quel salto di qualità necessario, e quel cantautore di livello che prima si intravedeva, ora si vede.

Brunori ha trovato una chiave interpretativa di se stesso, un modo per riuscire a bilanciare al meglio ogni singola componente delle canzoni, riuscendo a farle brillare come mai prima. Non ci sono dubbi che Brunori sapesse scrivere canzoni che funzionavano – dagli esordi con “Italian Dandy” a “Rosa” ha tirato fuori motivetti che fanno parte di quell’epica ambigua dell’indie italiano -, ma rimaneva sempre un dubbio di fondo su quale potesse essere la sua vera natura. Il lavoro fatto con A casa tutto bene lima i punti acerbi attraverso un diverso modo di congiungere un nuovo approccio strumentale, meno statico e più corale rispetto ai precedenti, a testi e interpretazioni dei testi più raffinati.

La scrittura è indubbiamente più alta, sia per qualità sia per tematiche. Sono cambiati gli orizzonti. Non c’è più solo l’Io che sguazza e si crogiola nel proprio disagio, e che di fatto rimane chiuso a casa. C’è l’Io, ma c’è anche l’altro. C’è il mondo. C’è il pressappochismo della politica e di conseguenza della percezione distorta dei posti in cui si vive, fatta di paure infondate e slogan da bar. Ma c’è anche il timore che quelle paure possano insediarsi anche nella testa di chi quei discorsi non li fa, o quantomeno pensa che non gli appartengano.
«Ed hai notato che l’uomo nero / Semina anche nel mio cervello / Quando piuttosto che aprire la porta / La chiudo a chiave col chiavistello / Quando ho temuto per la mia vita / Seduto su un autobus di Milano / Solo perché un ragazzino arabo / Si è messo a pregare dicendo il corano»: quel meccanismo di auto denuncia che Gaber manifestava dicendo di avere paura non del Berlusconi in sé, ma del Berlusconi in me. C’è Brunori che corregge Battiato che cita Sorrenti, per cui sì, siamo figli delle stelle, siamo sicuramente ancora pronipoti di sua maestà il denaro; ma lo siamo anche della Tv, alla quale Brunori dà tutte le colpe dell’ appiattimento della coscienza sociale rendendola ricettacolo di egoismi: «Ma tu mi parli ancora di pensione e di barconi / Pieni di africani come se fossero problemi tuoi / Come se non c’avessi già i problemi miei» (“Sabato Bestiale”). C’è anche la presa di posizione netta di Brunori nei confronti di Brunori artista, di ciò che sono le sue canzoni, del senso che avevano, ovvero nient’altro che «canzoni troppo poco intelligenti», «canzoni buone per andarci la domenica al mare», «che ti ci svegli la mattina e ti ci lavi i denti» (“Canzone contro la paura”). Un modo per espiare ciò che è stato e per entrare in una nuova Era.

In A casa tutto bene ci sono momenti ispirati a un modo di fare musica non tipicamente italiana (certi stacchi de “La verità” possono ricordare alcune sospensioni alla Sigur Ros), ma la base rimane fortemente italiana: De Gregori e Gaetano ispirano costantemente la scelta interpretativa delle parole, Fossati è presente in maniera lampante nell’arrangiamento de “L’uomo Nero”. Ma ci sono anche riferimenti a cantautori più giovani, da Gazzè ( “La vita liquida”) a Cremonini ( “Colpo di pistola”). A casa tutto bene, in definitiva, ha il respiro di una tipica cosa italiana fatta bene.

Brunori qui esce di casa, guarda il mondo, si spaventa per poter essere contaminato, e solo dopo torna a casa. Torna a casa, perché comunque l’esistenza necessita di un luogo dove potersi riconoscere. Ma Brunori ora sa che non esiste solo quel posto sicuro e in questo passaggio c’è tutta la differenza su ciò che era Brunori prima di quest’album, e quello che ora. Un artista nel senso più ampio del termine, consapevole di non doversi accontentare solo di essere un Italian Dandy.

(A casa tutto bene, Brunori Sas, Pop)

“Istantanee”
di Claudio Magris

Sul finire di febbraio 2016 approdava in libreria Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida di Umberto Eco. Lo scrittore era morto da pochi giorni e l’esordio della neonata casa editrice assunse le tinte dell’omaggio a uno dei fondatori; ma forse esagerarono: l’immagine di Elisabetta Sgarbi che al funerale del semiologo tiene stretto sul petto il nuovo volume dalla copertina rossa e fucsia rimase impressa a quanti seguirono le esequie laiche in diretta televisiva. Si potrà dire che questo è il marketing: risponderemo che no, non lo è.

Pape Satàn Aleppe raccoglie numerose bustine di minerva, la nota rubrica che chiudeva i numeri di “L’Espresso”: non dunque un volume originale, pensato apposta per il catalogo della casa editrice, ma un collage organizzato di articoli, un’antologia, ovvero una sorta di album di famiglia, per chi avesse molto amato Eco e volesse di tanto in tanto andarlo a rivedere. Del resto, non è facile allestire un catalogo partendo da zero e operazioni editoriali di tal fatta – collezioni, sillogi, ecc. – sembrano funzionali alla Nave per segnare la propria presenza nel mercato editoriale, e più segnatamente in libreria e nelle fiere. Insomma: stampare molti titoli, essere sugli scaffali, ai saloni con stand ampi e pingui, non con piccoli spazi in cui esporre una dozzina di volumi. I nomi, dopotutto, non mancano, basta scorrere l’elenco dei fondatori e dei primi aderenti alla casa editrice.

Sulla medesima rotta – che ci auguriamo Teseo abbandoni appena l’urgenza di costruire il catalogo sarà superata (in meno di un anno sono usciti oltre sessanta titoli) – si colloca Istantanee di Claudio Magris, una lettura piacevolissima, composta da una cinquantina di suggestioni che l’autore triestino ha pubblicato su quotidiano dal 1999 al 2016.

Scrittore per cui il viaggio ha avuto un ruolo prominente, nelle pagine di Istantanee Magris racconta momenti minuti e intensi, in cui il movimento proviene non tanto dalle membra, quanto dal pensiero, che trattiene ciò che l’occhio vede, arricchendolo, semantizzandolo, facendolo canovaccio di lucidi ragionamenti sulla vita sociale contemporanea. L’autore, come un esperto flâneur, si nutre delle sensazioni offerte dal paesaggio urbano o limitrofo di Trieste e della vita che vi si svolge dentro. E così si sorride quando un bimbetto italiano fa amicizia con una sua coetanea straniera di colore, e dice alla mamma che non deve essere rimproverato solo lui per la marachella appena commessa, ma anche l’atra, quella «che parla che non si capisce niente»: il pensiero che il colore della pelle possa essere un elemento di differenziazione nemmeno lo ha sfiorato.

Ci si trova davanti alla propria pudica vigliaccheria, quando non noi, ma un signore anziano prende le difese di una adolescente che in spiaggia subisce le avance troppo generose di un «gruppo di giovanotti, interscambiabili in una loro scurrilità vagamente minacciosa».

Leggere le brevi cronache di Istantanee rappresenta, in un certo senso, anche un corso di mantenimento dell’attenzione per apprendisti scrittori. Se accettiamo l’assunto – e così parrebbe essere, se gli scrittori sono sinceri quando rilasciano interviste – che l’osservazione del mondo è ancora alla base della dieta del narratore, quello che Magris ci insegna è come guardare, con quale sensibilità, affondando a piene mani nel nostro bagaglio culturale. Si tratta sì di notare il dettaglio, ma di farlo inserendolo in un contesto ampio, coinvolgendo tutti gli attori sulla scena: gli uomini – senz’altro – ma anche lo scenario naturale e gli animali, tentando persino di percepire le sensazioni di questi ultimi. È il caso degli uccelli della prima istantanea, un racconto ornitologico che prende spunto dalla statua di «un’Italia seminuda con un’aquila bicipite sulle spalle – simbolo dell’Austria asburgica abbattuta nella prima guerra mondiale e trasformata in una specie di selvaggina prelibata» – e narra il macabro rito sessuale inscenato ai piedi della statua fra alcuni piccioni e una colomba morta. Combinare il riferimento alto all’impulso carnale dell’accoppiamento, persino necrofilo: se non sembra il paradigma di una lezione di scrittura, ditemi voi.

Più universalmente, Magris ingenera nel lettore il rimpianto di tutte quelle occasioni di godimento del vero che ci siamo persi tenendo gli occhi troppo a lungo sullo smartphone: è l’elogio dello sguardo.

 

(Claudio Magris, Istantanee, La nave di Teseo, 2016, pp. 184, euro 18)
Poster italiano di La battaglia di Hacksaw Ridge su Flanerí

“La battaglia di Hacksaw Ridge”
di Mel Gibson

Sei nomination agli Oscar tra cui miglior film, miglior regia e migliore attore protagonista per La battaglia di Hacksaw Ridge, grande ritorno al cinema di Mel Gibson. Dieci anni dopo, uno degli attori più amati degli anni Novanta decide di rimettersi dietro la macchina da presa che gli aveva dato tanta gloria – Braveheart nel 1995 – e tanta infamia – La passione di Cristo nel 2004.

Che fine avesse fatto Gibson dopo Apocalypto, il suo ultimo, folle film del 2006, ce lo hanno raccontato le pagine della cronaca – scandalistica e non – più che quelle dello spettacolo. Alcolismo, razzismo, violenza domestica, arresti, accuse, tribunali, divorzi hanno scandito gli ultimi anni della vita privata e pubblica dell’ex Mad Max – diventato per tanti Mad Mel – condannandolo a un esilio da Hollywood interrotto solo da apparizioni in film di scarsa importanza e dal tentativo nel 2011 dell’amica Jodie Foster di concedergli una rinnovata dignità d’attore con Mr. Beaver.

Il tempo passa, l’alcol evapora, arrivano nuovi amori e nuove vite e ora il sessantunenne Gibson è pronto a tornare nel giro dei grandi con La battaglia di Hacksaw Ridge. Hollywood sembra averlo già perdonato, con una presentazione in grande stile all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e candidature sparse in tutti i principali premi della award season.

La storia vera di partenza è pura manna per gli standard del cinema statunitense. Durante la seconda guerra mondiale Desmond Doss, un contadino della Virginia animato da un profondissimo senso religioso, decide di arruolarsi volontario nel corpo medico militare verso Okinawa senza portare armi con sé. Finirà per salvare la vita di settantacinque commilitoni durante la battaglia di Hacksaw Ridge. Fu il primo obiettore di coscienza della storia a essere insignito della medaglia d’onore dell’esercito degli Stati Uniti.

Gibson, con gli sceneggiatori Andrew Knight e Robert Schenkkan, decide di partire dall’infanzia di Doss per raccontare la radice della sua religiosità. Ci sono un paio di eventi traumatici, un padre alcolizzato che non ha mai superato la perdita degli amici di sempre durante la prima guerra mondiale, e una madre devota. Ovviamente c’è anche la bella infermiera di cui innamorarsi e un fratello che si arruola contro la volontà del padre. Segue il durissimo addestramento, con Vince Vaughn che gioca a fare il sergente Hartman e i commilitoni che scambiano il suo rifiuto delle armi per vigliaccheria e quindi lo picchiano ogni volta che ne hanno l’occasione, poi c’è la guerra.

Non c’è niente, a parte lo spunto fornito dalla storia eccezionale di Desmond Doss, di davvero originale o sorprendente in La battaglia di Hacksaw Ridge. La trama si evolve secondo un binario percorso un’infinità di volte per riproporre la parabola dell’emarginato che diventa eroe. Lo sguardo al passato collega il Gibson di oggi a quello di Braveheart. L’ostinata perseveranza con cui Doss continua a portare via i compagni feriti richiama Forrest Gump. Andrew Garfield, al secondo ruolo da estatico religioso dopo Silence, sfoggia tutto un repertorio di facce e sorrisi da bravo ragazzo della Virginia che comunicano molto poco. Molto meglio quando è diretto da Scorsese, eppure è arrivata la nomination.

Con una messa in scena che si ferma un centinaio di passi più indietro rispetto ai grandi film di guerra contemporanei – uno su tutti, Salvate il soldato Ryan –, La battaglia di Hacksaw Ridge ha ricevuto molte più attenzioni di quelli che sono i suoi meriti reali. È fuori di dubbio che Mel Gibson, malgrado la lunga pausa, sia ancora adesso un grande regista di scene d’azione. La sequenza della battaglia del titolo è un concentrato di tensione ed emozione come non si vedeva da anni. Le cifre stilistiche del cinema dell’attore australiano sono rimaste immutate. L’eroe è sempre al centro della sua narrazione, che sia un guerriero scozzese, il figlio di Dio o un volontario pacifista. La violenza va sempre mostrata in primo piano, senza risparmiare i dettagli più raccapriccianti, anzi è proprio su quelli che bisogna insistere.

La forte religiosità di Doss permette poi a Gibson di insistere sul tema della religione, elemento centrale nella sua formazione d’uomo. Tutto il film è attraversato da una tensione verticale verso il divino che incontra l’uomo. Doss rivolge le sue preghiere a Dio e trova la forza di salvare i compagni grazie alla sua fiducia nel Signore. La sua fede diventa la forza di tutti. La battaglia di Hacksaw Ridge può essere visto come un’unica grande parabola biblica, con il peccato originale e la sua lenta espiazione attraverso il sacrificio. In sostanza, gli anni sono passati, ma Mel Gibson è sempre il fondamentalista che aveva dimostrato di essere con La passione.

(La battaglia di Hacksaw Ridge, di Mel Gibson, 2016, guerra, 131’)

“Quell’angolino tranquillo a sinistra”
di Mehdi Rabbi

Da tempo ho sostituito il comfort food con il comfort book. L’ultimo in ordine cronologico è Quell’angolino tranquillo a sinistra di Mehdi Rabbi (Ponte33, 2015), una piccola raccolta di racconti da cui non sono riuscita a staccarmi per settimane.

Quelle narrate da Mehdi Rabbi, infatti, sono storie-rifugio in cui è piacevole galleggiare ogni qual volta se ne senta il bisogno. Non fraintendetemi, la realtà descritta non è edulcorata né tanto meno resa banale da situazioni stereotipate, semplicemente Rabbi riesce a rendere immediata la complessità delle emozioni che regolano l’inizio di un amore, un rifiuto, una sconfitta, un’amicizia, il difficile confronto con la morte e così via. Tematiche ordinarie, esperite da tutti prima o poi, ma fatte affiorare con parole sincere che rifiutano l’esasperazione artificiale dei sentimenti poiché ricercano la verità. Il rischio quindi di incorrere in dialoghi patetici, fortunatamente, non esiste.

Ponte33 è una piccola casa editrice che si propone di far conoscere la produzione culturale della vasta area geografica di lingua persiana. Nel caso di Rabbi è l’Iran, che non scompare ma rimane sullo sfondo, divenendo il luogo che accoglie tutti i personaggi e li lascia liberi di agire. L’autore alterna senza sosta, racconto dopo racconto, il caos della città, la modernità con le sue regole frenetiche ai campi e alla spontaneità di villaggi e piccoli paesi. Tutto, in ogni caso, concorre a chiarire la narrazione creando una corrispondenza armoniosa, ma non coincidente, tra quanto accade fuori e dentro l’animo dei personaggi.

A dare il titolo all’intera raccolta è il primo racconto, una narrazione che muove dall’esistenza solitaria del protagonista sino a giungere all’incontro con l’Altro, imperfetto e bizzarro ma comunque complementare. In questo racconto Rabbi dimostra una sensibilità straordinaria nel mantenere intatta l’unicità dell’individuo senza però abbandonare la ricerca della felicità che, sebbene sia declinata in modo differente dai vari personaggi, risulta assumere sempre la forma di condivisione. I momenti così condivisi cessano quindi di essere ordinari poiché, senza presunzione, rivelano la loro fragilità emozionale.

La vita di tutti i giorni tende a farci dimenticare quanto sia bello essere fragili ma Rabbi ce lo ricorda con parole semplici.

 

(Mehdi Rabbi, Quell’angolino tranquillo a sinistra, trad. di Mario Vitalone, Ponte33, 2015, pp. 123, euro 14)

“Se questo è un uomo”
di Primo Levi

È stato Jacque Le Goff a tracciare in maniera netta il confine tra memoria e storia: la prima seleziona i ricordi, tralasciando tendenzialmente gli elementi meno rilevanti o quelli sgraditi, la seconda persegue l’idea della ricostruzione precisa, esatta, documentata. Primo Levi, con Se questo è un uomo, riesce a intrecciare i due percorsi e a dar vita a un capolavoro in cui il processo di selezione dei ricordi è mirato alla ricostruzione esatta di uno degli episodi più bui del Novecento: la Shoah.

Ma la narrazione dei fatti dell’Olocausto non è operazione semplice, per cui l’edizione dell’opera, così come la leggiamo oggi, è frutto di un processo di rielaborazione costante, durato almeno fino al 1976, quando Levi decide di aggiungere al testo l’“Appendice” con le risposte alle domande più frequentemente postegli dai lettori (e in questo modo aprendo ancora di più l’orizzonte della memoria/storia della vita nel campo di Auschwitz). Un processo di miglioramento anche linguistico, caratterizzato dalla sempre maggiore precisione nelle citazioni in altre lingue.

La memoria, quindi, che si fa storia grazie alla precisione del ricordo messo nero su bianco per far raggiungere un obiettivo: mettere a nudo il costante processo di “bestializzazione” degli uomini deportati nei campi di sterminio. Una rivendicazione della dignità umana delle vittime che Levi mette in atto mostrando, senza mai sfociare nell’eccesso, tutti gli espedienti degli aguzzini volti a ridurre i deportati in qualcosa d’altro che uomini. L’unico modo per sopravvivere è non pensare, come ci avverte l’autore a p. 129: «Fare economia di tutto, di fiato, di movimento, perfino di pensiero».

L’avvertimento circa quello che affronterà, al lettore arriva subito, quando aprendo il libro si trova di fronte la poesia in epigrafe “Shemà”, che riprende il testo sacro ebraico in cui si invitano i padri a tramandare ai figli la nozione dell’unico Dio. Primo Levi non è ebreo praticante, anzi, non è nemmeno credente, e la scoperta dei riti e delle tradizioni del popolo ebraico, per il chimico votato alle lettere (si tenga presente, per un senso che si può ben definire “del dovere” verso sé e verso gli altri) è successiva all’esperienza della deportazione. Il testo epigrafico, come ci fa notare Cesare Segre, riserva cinque versi per gli uomini e cinque per le donne, riproducendo la struttura bipartita del lager e quindi si fa proiezione di esso e avviso, si diceva, immediato al lettore sul prosieguo.

Restando in tema di strutture, possiamo ben affermare che il libro, nella descrizione di alcuni aguzzini, ma anche in quella delle diversi parti del lager, spesso assimilabili ai gironi infernali, richiama la Commedia, il cui ricordo sembra esplodere nel capitolo dedicato al “Canto di Ulisse”, dove si vede Levi impegnato nel tentativo di spiegare il passo dantesco al francese Pikolo. Allora ci si inoltra in una dimensione meta-testuale tale da rendere l’idea della cultura dell’autore, le cui conoscenze letterarie diventano strumento per uscire dal soffocamento di un ricordo che permea per intero la sua opera, e non solo in prosa.

Se questo è un uomo prosegue letteralmente con il successivo racconto del ritorno in patria a piedi: La tregua, ma la memoria della prigionia si incontra anche nelle sue poesie (si ricordino le raccolte L’osteria di Brema e Ad ora incerta).

Il ricordo di Primo Levi, quindi, che in alcuni capitoli del libro si esplicita con carattere diaristico, si fa testimonianza di un momento storico; il suo pragmatismo di uomo di scienze rende la sua scrittura (per sua stessa ammissione) semplice (ma non per questo meno espressiva, basti pensare alla sensazione che si prova leggendo della sete da combattere durante il trasferimento da Fossoli ad Auschwitz: ci si sente disidratati), adatta al grande pubblico e, proprio per questo, capace di raggiungere il fine imposto per imperativi proprio nel testo d’epigrafe, quello di considerare, ricordare, meditare «che questo è stato».

 

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1947)

Poster italiano di La La Land su flanerí

“La La Land”
di Damien Chazelle

Film d’apertura dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, trionfatore ai Golden Globes 2017 con sette premi, testa di serie per gli Oscar con quattordici nomination, un successo di pubblico enorme nonostante un genere ritenuto fuori moda. La La Land di Damien Chazelle è già entrato nella storia del cinema ed è destinato a rimanerci molto a lungo.

Ci voleva del coraggio per tornare a puntare sul musical, dalle parti di Hollywood. La stagione gloriosa dei grandi film è passata da un pezzo e gli ultimi tentativi di riportarli in auge hanno dato risultati incerti. Eppure, Damien Chazelle, il regista rivelazione di Whiplash, era convinto della sua idea già da anni. Il primo copione di La La Land è del 2010, quando il regista e sceneggiatore aveva solo venticinque anni e un film, Guy and Madeline on a Park Bench, passato e apprezzato esclusivamente nei circuiti dei piccoli festival. Dopo il successo di Whiplash, che ha trasformato i tre milioni di dollari di budget in quasi cinquanta di incasso e tre premi Oscar, l’idea di un musical moderno è sembrata d’improvviso molto interessante per tutti.

A Los Angeles (il titolo del film è un gioco di parole tra la sigla L.A. e “Lalaland”, termine inglese che indica uno stato di euforia mentale vicino alla pazzia), Mia sogna di diventare un’attrice e tra un provino e l’altro serve caffè in un bar dentro gli studios in cui vede passare ogni giorno le sue attrici preferite. Sebastian suona il pianoforte dove capita e spera un giorno di riuscire ad aprire il suo locale in cui difendere quel che resta del jazz. Quando si incontrano ci mettono del tempo a capire di avere bisogno l’uno dell’altra e quando arriva l’amore arrivano anche le prime occasioni di successo, e le incomprensioni.

Chazelle è riuscito nell’impresa di creare un musical moderno con grandi dosi di romanticismo e nostalgia. La La Land è un omaggio ai classici, da Cantando sotto la pioggia a Gioventù bruciata, perfettamente calato nella Los Angeles di oggi. È questo che stupisce, visivamente: la capacità assoluta di ogni comparto di riuscire a inserire elementi moderni in una cornice che risulta allo stesso tempo vintage e classica. Gli iPhone, i campionatori, youtube che si uniscono al vinile, alle auto, ai vestiti. Vieni fuori un mondo senza tempo, allo stesso tempo credibile e impossibile.

In questa cornice che è quasi un palcoscenico di Broadway, Mia e Sebastian sono i protagonisti assoluti della loro storia d’amore. Ryan Gosling e Emma Stone recitano insieme per la terza volta dopo Crazy Stupid Love e Gangster Squad. Fanno una grande coppia cinematografica. Lei è stata premiata con la Coppa Volpi a Venezia. In molti sostengono che la sua bravura sovrasta Gosling nel film, di sicuro il suo ruolo di aspirante attrice è più evidente e sfaccettato, le permette di affrontare più registri, di trasformare il personaggio con l’evoluzione della trama. Gosling è più statico ma conferma l’inattesa vena comica già mostrata in Nice Guys. Riesce a unire Gene Kelly, Buster Keaton e l’aria da duro di poche parole in una serie di piccole mosse, di labbra appena sollevate.

È una delle rare volte in cui nessuna delle quattordici nomination sembra esagerata. Vale la pena elencarle tutte: miglior film, miglior regia, miglior attore e attrice protagonista, sceneggiatura originale, fotografia, costumi, montaggio, colonna sonora, due canzoni, montaggio sonoro, sonoro, scenografia. Se non fosse per la doppia candidatura nella categoria miglior canzone originale ci sarebbe da aspettarsi l’en plein.

È difficile resistere al fascino di La La Land, alle suggestioni nostalgiche delle continue citazioni ai vecchi musical, a Los Angeles che non compariva così bella in un film da decenni, alle coreografie e alla colonna sonora così immediatamente orecchiabile. Basta la sequenza iniziale del traffico sul cavalcavia per capire di essere di fronte a un film che è destinato a durare nella memoria. E non è solo la leggerezza a colpire. Damien Chazelle dimostra il suo valore di regista cambiando completamente registro rispetto alla velocità di Whiplash. Qui si apre in piani sequenza eleganti che seguono i movimenti dei suoi personaggi, con la macchina da presa che entra a far parte dei numeri di ballo. E di fronte a quella che sembrerebbe essere una commedia romantica piuttosto convenzionale, la sceneggiatura riesce a spiazzare con una dose di realismo cinico che cambia tutta la prospettiva sul film.

La La Land è piaciuto praticamente a chiunque lo abbia visto e sta confermando la capacità di Chazelle di trasformare piccoli – in senso relativo – investimenti in grandi capitali, con i trenta milioni di budget già trasformati in quasi duecento al botteghino mondiale. Come è ovvio che sia, c’è comunque a chi non è piaciuto. C’è chi ha criticato l’immagine che viene data del jazz, completamente distaccata dalle evoluzioni più recenti, chi contesta la scelta di un attore bianco per interpretare un appassionato di un genere musicale “nero” come il jazz, chi l’immagine della donna intellettualmente sottomessa al maschio, chi il personaggio di Sebastian che viene definito «il peggior appuntamento che si possa mai avere». Addirittura qualcuno ha avuto da ridire perché nel film viene fatta dell’ironia su “Take on Me” degli a-ah. Sono tutti commenti che lasciano il tempo che trovano. La La Land riesce a mantenere un equilibrio perfetto tra le sue imperfezioni e la leggera e poetica nostalgia da cui è animato. È dedicato ai folli e ai sognatori, e viene voglia di esserlo.

(La La Land, di Damien Chazelle, 2016, musical, 126’)

“Pink Floyd a Pompei”
di The Lunatics

Non sorprende leggere in una recentissima intervista a Adrian Maben che «se c’è un band con la quale vorrei girare un film sarebbero i Radiohead». Perché nel 1971 il regista scozzese filmò Pink Floyd – Live at Pompeii 1971, e dopo quasi mezzo secolo evidentemente gli è rimasto il buon gusto di riconoscere cosa, almeno nel mondo che, genericamente, continuiamo a definire rock appartiene all’arte e non alla maniera o al mero intrattenimento. Nelle scorse settimane il collettivo The Lunatics, già autore di altri volumi sul gruppo di Ummagumma, di questo film ha raccontato l’intera vicenda, Pink Floyd a Pompei – una storia fuori dal tempo (Giunti, 2016). Maben ne ha firmato la prefazione.

Il libro – un volume patchwork di capitoli fatti di interviste, testimonianze, minibiografie, racconto della costruzione del film, del suo destino cinematografico, esplorazioni della musica del gruppo e più di un centinaio di fotografie – inizia presentando il regista, illustrandone la biografia e la concezione di fondo del lavoro. Cultore del film d’arte da sempre, Maben riuscì nell’intento di convincere Gilmour e gli altri – e il loro manager – a volare fino alla città campana per un’impresa piena di incognite, nonostante la meticolosa preparazione del regista. Il racconto di tutta l’avventura è assai gustoso. Perché sembrava assai difficile, a partire dai permessi per l’uso dell’anfiteatro, e i primi giorni tutto fu più volte sul punto di naufragare (il problema principale era la corrente elettrica, e le riprese alle solfatare di Pozzuoli nacquero dal bisogno di Maden di traccheggiare con i quattro musicisti nell’attesa che si risolvessero i problemi nell’anfiteatro). Il racconto di quei giorni si avvale anche del ricordo degli abitanti di Pompei, giovani curiosi che fecero i guardiani alla strumentazione, nonché personale dell’albergo (immaginabile la sorpresa dei locali davanti alla scena di quattro capelloni che s’ingozzano di prelibatezze culinarie indigene).

L’obiettivo di Maben era fare un film anti-Woodstock (non solo immagine presto archetipa di un certo mondo ma anche matrice dei film rock: adunate di ascoltatori – per lo più fricchettoni – in trance e rockstar altrettanto eccitate sul palco). Qui invece si voleva creare – e vi si riuscì benissimo – tutt’altra atmosfera; «ciò che contava era la musica e il silenzio» – il suono Floyd ne venne esaltato. Echoes, il caso di dire, la suite che Maben nemmeno ancora conosceva risultò la musica ideale per i muri dell’anfiteatro – la cosa più impegnativa fu la sincronizzazione della musica con le immagini. Nonostante i piani saltati all’ultimo momento – l’attrezzatura arrivata solo in parte, la scaletta dei brani modificata rispetto alle aspettative del regista, processioni religiose che bloccavano qualsiasi movimento, la quantità di girato insufficiente che costrinse tutti a un supplemento di lavoro a Parigi e a Abbey Road – nonostante tutto questo, al film riuscì proprio quell’aura irripetibile che ognuno sa. Basta rivederlo, ancora una volta.

 

(The Lunatics, Pink Floyd a Pompei – Una storia fuori dal tempo, Giunti, 2016, pp. 192, euro 25)

“L’amore e la violenza”
dei Baustelle

Nonostante Battiato e gli Alt-J, forse non tutti sanno che la parola “pop” ha fatto il suo corso qualche decina di anni fa e che gli artisti che fanno pop fanno in realtà Avant-Pop. Se una è rimasta a indicare un qualche vago senso comune, l’altra parola mira precisamente a un universo strettamente estetico e metodologico. Ma, come invece tutti sanno, a quasi parità di nome approssimare è d’obbligo. Ecco perché L’amore e la violenza, l’ultimo album in studio dei carissimi vecchi Baustelle, è un’opera Avant bellissima che non tutti hanno capito, non cogliendo, purtroppo (per loro), lo scarto intellettuale tra le due dimensioni.

Lo dice anche Bianconi, esponendosi all’imbroglio: «L’amore e la violenza è un album “oscenamente pop”». Ci toccherà correggerlo, o tradurlo: l’amore e la violenza è un album Avant-pop splendidamente votato alla cultura dei mass media, al riconoscimento artistico dell’enorme influenza che la comunicazione di massa ha sulle nostre individualità. Il citazionismo sfrenato degli intrattenimenti globali come cinema e musica (uno su tutti, “Sandokan” degli Oliver Onions nell’intro di “Basso e Batteria”, ma anche i costanti rimandi a La Voce del Padrone del loro padre illegittimo), che è da sempre il cuore pulsante della composizione di Bianconi, Bastreghi e Brasini, sembra aver raggiunto con quest’ultimo album la tanto ambita purezza della dimensione Pop con la “p” maiuscola.

Ne L’amore e la violenza, infatti, c’è quello che a oggi ha a che fare con tutto questo: c’è la cultura popolare dei riferimenti letterari nell’era dell’Università obbligata, e c’è il contesto neobellico delle nuove chiacchiere da bar tra terrorismo e brexit («Che fesseria la guerra / Quando finirà davvero ce ne andremo in Inghilterra / A far l’amore senza paura / Io e te»). Ma c’è anche la leggerezza musicale colorata dai sintetizzatori e dalle ritmiche, che abbassa i toni, certo, ma non le pretese («Io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera / Meglio sparire nel mistero del colore delle cose quando il sole se ne va»). Come se l’intento dell’intero album fosse quello di attraversare il più profondamente possibile la superficie delle cose, rendercela nelle tematiche attraverso il dualismo guerresco della pietà e dell’abitudine alla morte, e nelle melodie attraverso una revisione consapevole dei suoni anni ’80 – sempre irrinunciabili, da “Amanda Lear” a “Musica Sinfonica”.«Torneremo a fare l’amore, vedrai, a guardarci dritto negli occhi / Ci si abitua a tutto, al dolore, alle stagioni, alla storia, al calendario».

Bandita l’orchestra, il passaggio dalla ricercatezza all’estremamente noto è paradossalmente di una raffinatezza fuori dal comune – della quale, comunque, Bianconi è sempre stato una perla nel panorama italiano. I Baustelle non si inseriscono nella fiumana con la pretesa di essere un elisir curativo e rivelatorio. Bianconi e compagni abbracciano e vestono i cliché emotivi dei tempi post-postmoderni, rifiutando quasi sempre la critica radical chic alla deformità dell’uomo mediatico per aprirci alla bellezza dell’uomo comune nell’aspra contingenza. L’amore e la violenza è un Sussidiario creato per mostrare nella maniera più sensibile possibile non l’appiattimento, ma l’omogeneità trasversale delle paure – paure che derivano da un internazionale bagaglio informativo creato dalla tv, dai video sul web e dai social network. «Lo so, la vita è tragica, la vita è stupida / Però è bellissima,essendo inutile».

Ed è in fondo quello che i Baustelle sono sempre stati, una fotografia sull’essere umano, un racconto fuori dai cardini dei sistemi morali che prescinde da qualsiasi giudizio. La bellezza e la raffinatezza dei tre di Montepulciano si è manifestata (nel corso di sette album in studio in diciassette anni) nel loro saper intervistare quegli «uomini schifosi» di wallaciana memoria, non per giudicarli, ma per mostrarceli come parte di noi, per farci accettare con eleganza e fermezza che oscilliamo tutti tra l’amore e la violenza, la rabbia e la comprensione, l’adolescenza e la maturità, eccetera eccetera.

(L’amore e la violenza, Baustelle, Avant-Pop)

“La figlia femmina”

Dopo i primi quattro anni di servizio all’Ambasciata Italiana, Giorgio fu collocato fuori ruolo nella delegazione europea in Marocco. Fu una grande fortuna e ci permise di dare alla bimba una continuità scolastica fino a che non compì i nove anni. Vivevamo in una villa vuota e fredda. Tre camere per gli ospiti e quattro bagni, ognuno di un colore diverso. Il bagno azzurro era il bagno degli specchi e ognuno si rifletteva dentro l’altro. Una delle immagini che ho più impresse è quella di Maria, ancora piccolissima, che entra in quel bagno e comincia a canticchiare. Nel gioco degli specchi vedeva infinite piccole Marie riflesse intorno a sé. Avrebbe potuto colpire lo specchio con una spazzola trafiggendo con un solo gesto tutte quelle Marie, perché erano delle bambine sbagliate. Ma poi quell’impulso si perdeva nei meandri della sua testolina, lei girava la spazzola e la teneva dal manico come fosse un microfono. La casa si riempiva della sua voce. Si lavava la faccia con il sapone, strofinava più volte i suoi occhietti neri. Dormiva in una camera troppo grande, con i muri bianchi e un letto matrimoniale. Con lei c’erano solo gli animaletti adesivi incollati sul muro e ritagliati insieme alla nonna Adele.
Adele aveva un’incredibile capacità di comunicare con Maria, senza mai indispettirla, prendendola con tenerezza ma anche con polso, riusciva a farla divertire, a tenerla calma, persino a farla studiare qualche volta. Maria era molto attaccata alla nonna e, quando Adele non c’era, gli animaletti colorati le davano malinconia. Ricordo di quando, a Carnevale, vestivo Maria da coccinella e lei gironzolava per la strada con le antennine nere e la schiena maculata. Gli altri bambini la guardavano curiosi. In Marocco era tutto diverso: Giorgio era un uomo molto importante e Maria la reginetta del quartiere. Lì c’erano principesse, bambini che parlavano l’arabo e il berbero. La bimba parlava francese, andava a scuola ed era ben vestita. Vivevamo non lontano dalla sponda sinistra del fiume Bou Regreg. Non era difficile, quando si andava un po’ fuori dalla città, vedere da vicino un bufalo o uno struzzo. O una coccinella.
Il citofono suona troppo presto.
«Maria mancano i bicchieri a tavola. È arrivato Antonio».
«È in anticipo?», urla dal piano di sopra.
«Siamo noi in ritardo. Scendi, su, aiutami per favore».
«Aiutati tu, mi sto pettinando».
Completo la tavola, mi guardo di sguincio allo specchio, ho sudato e si è sbavato leggermente il trucco.
«Arrivo! Scendi Maria, Antonio è qui».
«Ti ho detto che mi sto pettinando».
Lui mi saluta con un bacio a metà tra la bocca e il mento, ha gli occhi affettuosi e ridenti. Un fiorellino in mano, “una margherita?”, una bottiglia nell’altra.
«I fiorai sono chiusi. L’ho raccolta per strada, vale il gesto?»
«Vale quanto tutto un mazzo, e forse di più».
«È una minuscola gazania, una margherita del sole. Sai perché si chiama così?»
«Perché?»
«Perché ha una corolla sensibilissima alla luce, e si richiude non appena il sole tramonta».
«E l’hai trovata per strada, così».
«In un prato».
«Di qualcuno?»
«Di nessuno, è un’erbacea perenne. Durante l’inverno sfiorisce, per poi rinnovarsi in primavera. Ma questa credo sia appena fiorita. È splendida, no?»
«Molto».
Mi bacia uno zigomo.
«Guardati quanto sei accaldata, sono arrivato troppo presto?», con il pollice mi disegna una luna sul volto.
«No, sei in perfetto orario. Sono io che mi sveglio sempre all’ultimo».
«Non è mai troppo presto, eh?»
«Non è mai neanche troppo tardi, dipende dai punti di vista».
Riprende il fiore dalle mie mani, solleticandomi giocoso con la punta delle dita.
«Per me non è mai troppo presto per arrivare e mai troppo tardi per andare via».
Non è mai stato a casa mia, ma si muove disinvolto per la cucina. Apre le ante della credenza, scuote la testa, «mmm… no, qui non c’è». Controlla nel pensile appeso sul lavabo e trova un bicchierino di cristallo, di quelli che si usano per bere il whisky. Lo riempie d’acqua sino a metà, ci infila il fiore giallo e lo posa davanti alla finestra.
«Ecco fatto».
«Lì non ci batte molto il sole».
«Meglio, può darsi pure che metta su qualche radice, ma tanto è una gazania destinata a morire. Te ne porterò un’altra però, una di quelle così grosse che puoi contare i pistilli. Oppure un vaso, un vaso pieno di gazanie».
«È quello che ci vuole».
«Insomma, Maria dov’è?»
«Maria, scendi! Si sta pettinando», brontolo. Quasi spero che non scenda più. Se è di cattivo umore, se ha intenzione di rovinare la giornata, tanto vale che se ne resti in camera sua.
«Mi sei mancata stanotte», sussurra Antonio. Mi avvolge i fianchi, preme con le mani. «Mi sei mancata davvero».
«Non posso dormire fuori ogni notte, lo sai».
«Ma dai che se stai fuori una notte in più tua figlia è solo felice».
«Quello senz’altro. Ma non è detto che le faccia bene».
«Ce l’avrà un ragazzino anche lei, o no?»
«È complicato, ti ho già detto che è una bambina difficile».
«Non è un po’ grandicella per essere chiamata bambina?», scherza Antonio e mi pizzica il lobo di un orecchio.
«Ha tredici anni! Non scende?»
«Scenderà».
«Sediamoci intanto. Lo bevi del prosecco?»
«Non si rifiutano mai le bollicine».
Ecco Maria che viene verso di noi. È incantevole, con i capelli bruni raccolti in una treccia spessa e il vestitino a fiori che si agita a ogni suo passo e le scopre le cosce bianche. Sorride spavalda, accavalla le gambe, saluta con cordialità il nostro ospite.

 

Questo passo è tratto da La figlia femmina, romanzo d’esordio di Anna Giurickovic Dato, in uscita il 26 gennaio per Fazi editore.

Anna Giurickovic Dato è nata a Catania nel 1989, ma vive a Roma da sempre. Il suo racconto Polimena, Polimena, si è aggiudicato nel 2012 il primo posto nella classifica del concorso Io, Massenzio in seno al Festival Internazionale delle Letterature, e nel 2013 è stata finalista al Premio Chiara Giovani con il racconto Ogni pezzo di sé. La figlia femmina è il suo primo romanzo.

La figlia femmina: Silvia ha conosciuto Giorgio quando aveva solo 16 anni. Lei un’adolescente insicura, lui già adulto, con una carriera diplomatica avviata, qualcuno a cui affidarsi e di cui fidarsi. Venti anni dopo, dalla sua casa romana Silvia assiste inerme al tentativo scioccante da parte di Maria, sua figlia quasi adolescente, di sedurre il suo nuovo compagno, invitato a pranzo perché finalmente conosca la bambina. Un gioco al massacro, una sfida e una richiesta di aiuto, che Silvia osserva, immobile, incapace di reagire, mentre ripercorre la sua storia e quella di una famiglia che non c’è più, muovendosi tra Roma e Rabat, avanti e indietro nel tempo, dalla sala di un appartamento romano al Marocco, quando Silvia era una donna acerba, incapace di proteggere sua figlia, impermeabile ai terribili, concreti segnali di un pericolo. Attraverso il racconto di un dormiveglia, due contrappunti e una scena di seduzione che colpisce come un pugno ben assestato, Anna Giurickovic Dato esplora con grande maturità i ruoli di vittima e carnefice, i loro chiaroscuri e le loro ambiguità.

 

“Oggetti solidi”
di Virginia Woolf

Chiunque ami Virginia Woolf conosce bene la sensazione che si prova di fronte a una sua pagina mai letta prima: una specie di conforto nel ritrovare qualcosa di caro e insieme la sorpresa per aver scoperto un dettaglio inaspettato. È una di quelle autrici di cui si finisce per amare tanto le vicende personali quanto quelle dei personaggi che hanno inventato, a tal punto la sua vita sembra coincidere con l’atto stesso di scrivere. Virginia Woolf è sempre così dentro ogni parola che si riesce ad avvertire la sua presenza, quasi ci si potesse avvicinare, un passo per volta, a cogliere lo splendore tormentato della sua anima.

C’è qualcosa di molto simile all’intimità degli scritti privati di Virginia Woolf in tutti i quarantaquattro Racconti e altre prose che compongono la raccolta pubblicata da Racconti edizioni con il titolo Oggetti solidi, dallo scritto eponimo del 1918. Dopo oltre vent’anni di assenza, torna disponibile per i lettori italiani la raccolta integrale già stampata nel 1988 da La Tartaruga edizioni con la traduzione di Adriana Bottini e Francesca Duranti. La nuova curatela di Liliana Rampello – come l’edizione inglese a cura di Susan Dick – attraversa l’intero arco temporale della produzione woolfiana e mette insieme racconti pubblicati mentre la scrittrice era in vita, brani postumi e appunti ritrovati nei suoi quaderni. È un’alternativa a Tutti i racconti edito da Newton Compton (tradotto da Lucio Angelini, con un saggio introduttivo di Eraldo Affinati) e completa la collezione parziale contenuta nel meridiano Saggi, prose e racconti del 1998. E il tratto di Franco Matticchio si dispone fitto sulla copertina attraverso un’illustrazione realizzata negli anni Ottanta per accompagnare il racconto La vedova e il pappagallo, pubblicato da Emme Edizioni.

Il rigore della sequenza cronologica lascia al lettore la possibilità di esplorare la raccolta su un percorso arbitrario. Si può seguire il flusso della scrittura che «fiorisce, scaturisce, sboccia, esplode» e orientarsi tra gli intrichi di steli in una natura rigogliosa, a partire dagli asfodeli in “Il segno sul muro” che sembrano riecheggiare i daffodils dei versi di Wordsworth. Si possono catturare le suggestioni sonore di un quartetto d’archi e provare a distinguere le voci degli strumenti musicali in una fuga di Bach, o le parole degli invitati a una festa in mezzo al brusio delle chiacchiere da salotto. Si possono cercare i primi ritratti dei personaggi che troveranno una fisionomia compiuta nei romanzi Mrs Dalloway e Al faro. Oppure ancora, provare a rintracciare qualcosa della vera Virginia tra le righe, fino a rabbrividire scoprendo un presagio funesto nel congedo dalla vita di uno dei personaggi di “La fascinazione dello stagno” e della protagonista di “Il lascito”.

Ciò che resta invariato in questi racconti è la qualità squisita del timbro di voce di Virginia Woolf, che la rende inconfondibile, seppure mediata dal filtro della traduzione e della carta stampata. La forma breve è il luogo a lei più congeniale in cui esercitare le idee, lasciare spazio alle cose ancora da dire, dipingere sentimenti grandiosi attraverso immagini essenziali senza mai dire troppo apertamente, preferendo suggerire con pochi tratti decisi ciò che di straordinario balugina tra le pieghe di momenti ordinari.

Nel mondo visto attraverso gli occhi di Virginia Woolf ci sono stoffe in grado di prendere vita, diari di bisnonne vissute nel Cinquecento che parlano di storie mai raccontate, ci si interroga sulla felicità e sulla stranezza dei rapporti umani, si fa l’inventario degli «oggetti perduti nel corso di un’esistenza», con un’attenzione morbosa per le «cose che non accadono mai, sembra, mentre qualcuno sta guardando». In queste pagine succede spesso di osservare attraverso qualcosa: il riflesso di uno specchio, il vetro di una finestra, la superficie increspata di uno stagno, perché l’intento della scrittrice è sempre di spingere lo sguardo oltre il bordo troppo netto delle cose.

Oggetti solidi è una raccolta corposa che non ha la pretesa di insegnare nulla, ma da cui si imparano almeno due cose. La prima, che «la vita è quello che si vede negli occhi della gente; la vita è ciò che essi imparano e, dopo averlo imparato, mai cessano, per quanto tentino di nasconderlo, di essere consapevoli – di cosa? Che la vita è così, pare». La seconda, che sperimentare la bellezza in ogni forma è la fortuna più grande in cui si possa sperare di imbattersi.

 

(Virginia Woolf, Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose, trad. di Adriana Bottini e Francesca Duranti Racconti edizioni, 2016, pp. 468, euro 19)

I libri al cinema del 2017

Il 2016 avrebbe dovuto essere l’anno cinematografico di Philip Roth. Quando un grande attore decide di passare dietro la macchina da presa e di confrontarsi con uno dei capolavori della letteratura contemporanea, diciamo che l’aspettativa è quantomeno alta. Sappiamo tutti come è andata a finire con la American Pastoral di Ewan McGregor. Nel 2017 Roth dovrebbe rimanere tranquillo, a parte Trump e la solita febbre da Nobel che si riaccende verso la fine dell’anno. Il cinema non ha in cantiere altri adattamenti, ma non mancheranno i film tratti da libri più o meno grandi della letteratura mondiale. L’anno è già iniziato con Silence di Martin Scorsese, tratto dal romanzo omonimo di Shūsaku Endō, e Arrival di Denis Villeneuve dal romanzo breve di Ted Chiang, Storia della tua vita. Nei prossimi mesi ne arriveranno molti altri, qui proviamo a mettere insieme i più attesi tra quelli che dovrebbero arrivare nelle sale italiane.


Hollywood, prima di tutto

 

Non possiamo che partire con quello che di nuovo offrirà il cinema statunitense. Non si sa ancora se arriveranno finalmente alcuni film usciti nei mesi – e anni – scorsi, come Indignation, ancora da Roth, o Childhood of a Leader, con Robert Pattinson e tratto dal racconto di Jean-Paul Sartre che conclude la raccolta Il muro, o A Hologram for the King con Tom Hanks dal romanzo di Dave Eggers del 2012. Quello che si sa è che sono in arrivo molti altri titoli. Per rimanere su Dave Eggers e Tom Hanks, James Ponsoldt, il regista di The End of the Tour, dedicato a David Foster Wallace, ha preparato la sua versione di Il cerchio, dal romanzo forse più famoso di Eggers, con Hanks nei panni di Bailey, uno dei tre Saggi, e Emma Watson come protagonista. Il film uscirà negli Stati Uniti a fine aprile e dovrebbe arrivare in Italia nello stesso periodo.

 

Il 23 febbraio, invece, tornerà come regista Ben Affleck. Dopo il successo e l’Oscar per Argo, il nuovo Batman ha deciso di confrontarsi di nuovo con Dennis Lehan, uno degli scrittori più amati da Hollywood negli ultimi anni. Dai suoi romanzi sono venuti fuori Mystic River di Clint Eastwood, Gone Baby Gone dello stesso Affleck e Shutter Island di Martin Scorsese. La legge della notte è ambientato all’epoca del proibizionismo e racconta la storia di Joe Coughlin, un contrabbandiere di alcolici, interpretato dallo stesso Affleck. È tratto dal secondo libro di una trilogia dedicata alla famiglia Coughlin. Nel 2013 aveva fatto vincere a Lehan l’Edgar Award per il miglior romanzo. In Italia i libri di Lehan sono pubblicati da Piemme.

Un altro degli autori più amati di tutti i tempi dal cinema è Stephen King. Il 2017 porterà sullo schermo molti dei suoi lavori. Ad agosto si inizia con La torre nera, verosimilmente il primo film di una nuova saga cinematografica tratta dagli otto romanzi fantasy di King pubblicati a partire dal 1982. Tra i protagonisti ci sono Idris Elba, come Roland di Gilead, e Matthew McCounaghey come L’uomo in nero. Non sono ancora stati pubblicati trailer e non si sa neanche bene in che modo si infilerà il film nella linea temporale dei romanzi, ma l’attesa è alta. Così come è alta per la nuova versione di It, il terrificante clown che dopo il romanzo aveva rovinato le notti di molti con l’adattamento televisivo del 1990. A interpretare il pagliaccio sarà Bill  Skarsgård, mentre tra i bambini protagonisti c’è anche Finn Wolfhard, già visto nella serie Stranger Things, che aveva più di un debito con King. Nel 2017 dovrebbe uscire, sempre da King, Il gioco di Gerald, tratto dal suo romanzo del 1992, mentre è stato annunciato ed è in fase di preproduzione, Cujo, la storia del docile cane San Bernardo che si trasforma in assassino già diventata film nel 1983.

idris-elba-battles-jackie-earle-haley-on-dark-tower-set-19

Per parlare di alcuni dei casi editoriali dello scorso anno, invece, dovrebbe arrivare a settembre Annientamento, il primo dei tre film tratti dalla “trilogia dell’Area X” dello scrittore di fantascienza Jeff VanderMeer pubblicata in Italia da Einaudi. Il film, che parla di un gruppo di quattro scienziate inviate a esplorare la misteriosa Area X, è diretto da Alex Garland (aveva avuto molto successo con Ex Machina) e vede tra i protagonisti Natalie Portman Oscar Isaac. Con Netflix arriverà anche Le nostre anime di notte, tratto dal romanzo di Kent Haruf che NN Editore sta per pubblicare dopo il grande successo della “Trilogia della pianura”. Il film vedrà Robert Redford e Jane Fonda di nuovo insieme sullo schermo dopo A piedi nudi nel parcoLa caccia Il cavaliere elettrico.

Sul versante dei classici, Kenneth Branagh porterà per l’ennesima volta sullo schermo Omicidio sull’Orient Express di Agatha Christie, e interpreterà Poirot in un cast che comprende anche Johnny Depp e Michelle Pfeiffer, mentre il regista Notting Hill Roger Michell dirigerà Rachel Weisz in Mia cugina Rachele, dal romanzo di Daphne Du Maurier già al cinema nel 1952. Per i “classici moderni”, invece, arriverà The Dinner, con Richard GereLaura LinneyRebecca Hall, tratto dal romanzo La cena di Herman Koch che era già diventato film in Olanda e poi in Italia con il titolo I nostri ragazzi e un cast composto da Alessandro Gassman, Luigi Lo Cascio, Giovanna Mezzogiorno e Barbora Bobulova.

redford_fonda_haruf

 

Il cinema italiano

 

Per quello che riguarda il cinema italiano, Gianni Amelio, uno dei più importanti registi in attività ha deciso di misurarsi con un grande successo della letteratura popolare recente, un po’ come ha fatto quest’anno Marco Bellocchio con Fai bei sogni tratto dal memoir di Massimo Gramellini. Amelio è partito da La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone, pubblicato da Longanesi, per arrivare a La tenerezza, con Elio Germano Micaela Ramazzotti, in una Napoli che viene descritta come “inedita” nella sinossi ufficiale, sfondo per una storia borghese sull’orlo della disperazione.

Tenerezza

I fratelli Taviani, invece, hanno chiamato Luca Marinelli, uno degli attori italiani di maggior talento degli ultimi anni, per interpretare il partigiano Milton nella loro versione di Una questione privata, capolavoro di Beppe Fenoglio, già diventato un film per la televisione nel 1991.

Ferzan Ozpetek ha deciso di tornare in Turchia per adattare Rosso Istanbul, tratto dal suo stesso romanzo pubblicato nel 2013, da Mondadori, mentre Luca Guadagnino, il regista meno italiano tra i registi italiani, osannato negli Stati Uniti e quasi unanimemente bistrattato dalla critica nazionale, sta già riscuotendo un grosso successo al Sundance Film Festival con Call Me By Your Name, tratto dal romanzo Chiamami con il tuo nome di André Aciman, pubblicato nel 2007 da Guanda, che racconta la nascita di un amore omosessuale nella riviera ligure degli anni Ottanta.

Graphic Novel e fumetti

 

L’esordio alla regia di Valerio Mastandrea tratto dal romanzo a fumetti di Zerocalcare La profezia dell’Armadillo ha ormai assunto i contorni del mistero. Non si sa se ci stiano lavorando, non si sa se e quando uscirà. Gli amanti dei graphic novel (o delle graphic novel) avranno comunque di che gioire con Wilson, tratto dal fumetto di Daniel Clowes pubblicato in Italia da Coconino. Non c’è ancora una data di uscita per il mercato italiano, ma si sa che ci saranno Woody Harrelson Laura Dern.

Negli ultimi mesi si è parlato moltissimo di Ghost in the Shell, il film con Scarlett Johansson tratto dal manga Masamune Shirow che insieme ad Akira di Katsuhiro Otomo ha contribuito a fondare l’immaginario cyber punk alla fine degli anni Ottanta. Se ne è parlato per polemiche, più che altro, per il cosiddetto whitewashing, la decisione, cioè, di assumere attori occidentali per interpretare personaggio orientali. Il 30 marzo, comunque, arriverà al cinema, e si capirà se c’è altro di cui parlare.

A parte poi tutti i film in arrivo tratti da fumetti (Justice LeagueGuardiani della galassia 2Wonder WomanLogan e così via), il regista francese Luc Besson tornerà quest’anno alla fantascienza come con Il quinto elemento, uno dei suo migliori film di sempre, con Valerian e la città dei mille pianeti, partendo da una serie di albi a fumetti, Valérian et Laurelin, pubblicati in Francia tra il 1967 e il 2010. Molte idee di questa serie sono state poi riprese da George Lucas nei film di Star Wars. Il film di Besson sarà interpretato da Cara Delevingne, Dane DeHaan, Clive Owen, Ethan Hawke e Rihanna.

“effe – Periodico di Altre Narratività”: numero sei

Avviso a tutti i lettori curiosi, ai frequentatori assidui delle librerie indipendenti, agli editori in ricerca di voci nuove, ai divoratori onnivori di racconti e agli amanti delle illustrazioni: è uscito effe – Periodico di Altre Narratività #6 e questa volta le storie che lo compongono sono ispirate da una sola parola: limite. Il confine, la linea terminale o divisoria, il livello massimo al di sopra o al di sotto del quale si verifica normalmente un fenomeno, il limite come superamento, oppure come impedimento fisico, umano o divino.

È a partire da questa suggestione che Paolo Cognetti, Luca Ricci, Davide Coltri, Alessio Schreiner, Matteo Pascoletti, Laura Fusconi, Luca Franzoni e Francesca Morelli hanno costruito i loro racconti ed è proprio partendo da questi racconti che Nathalie Cohen, Marianna Coppo, Alessandra De Cristofaro, Geometric Bang, Giovanna Lopalco, Alessandro Ripane, Alice Socal e Olga Trachini hanno realizzato le illustrazioni che troverete all’interno del volume.

Questo numero lo riconoscete dall’asinello in copertina, il simbolo scelto dall’illustratrice Pamela Cocconi per rappresentare la forza testarda (e necessaria) per superare gli ostacoli e abbattere tutti i muri perché, alla fin fine, «Nihil difficile volenti». Noi abbiamo trovato quella di Pamela una buona intuizione oltreché un’ottima sintesi dello spirito necessario a far crescere progetti indipendenti, a promuovere una narrativa breve di qualità e a scovare voci nuove.

Ma c’è di più, perché effe #6 è anche il frutto di qualcos’altro: del contest che abbiamo lanciato lo scorso ottobre e dello scouting portato avanti dalla nostra redazione in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee, ma anche della grinta delle librerie indipendenti amiche che supportano il nostro progetto.

Per chi ancora non lo sapesse, effe è un volume semestrale di narrativa inedita illustrata ideato in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee. Nasce nel 2012, con l’intento di scandagliare il panorama narrativo italiano, offrendo una «zona franca» in cui gli autori esordienti siano sostenuti da scrittori già affermati e nella quale i migliori racconti inediti possano trovare pubblicazione. La tiratura limitata e la distribuzione diretta, vis-à-vis con i librai indipendenti, ribadiscono la volontà del progetto di pensare al libro come il risultato di un lavoro artigianale e insieme capace di riportare in auge la pratica dello sperimentalismo in campo narrativo, esulando dai soliti circuiti editoriali e proponendo la varietà di stile e di pensiero come principali premesse di indagine culturale.

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero sei

 

  • Il grande blu di Roberto Bioy Fälsher
  • I lanciatori di Paolo Cognetti (ill. di Alessandra De Cristofaro)
  • Eidetica di Matteo Pascoletti (ill. di Alice Socal)
  • La figlia del padrone di Laura Fusconi (ill. di Marianna Coppo)
  • Kalat di Davide Coltri (ill. di Giovanna Lopalco)
  • Ci vorrebbe il mattino che scaccia i fantasmi di Alessio Schreiner (ill. di Olga Tranchini)
  • Un cosa che non si aspettava nessuno di Luca Franzoni (ill. di Alessandro Ripane)
  • Solo cose morte di Francesca Morelli (ill. di Nathalie Cohen)
  • La poltrona di Luca Ricci (ill. di Geometric Bang)

 

Qui è possibile acquistare online effe #6 e consultare l’elenco delle librerie indipendenti amiche.

Per maggiori informazioni: periodico.effe@gmail.com