Oltre il Novecento

C’è un’ombra con cui Giorgio Manacorda sembra sotterraneamente dialogare e combattere, e che forse restituisce la misura di quasi vent’anni vissuti a scandagliare la poesia, le poesie, di cui ha dato conto nei suoi annuari: l’ombra di un parricidio. I termini di questa lotta di pensiero riguardano Parmenide, con la sua pretesa di fondare il molteplice con la sferica e immutevole identità dell’Essere, e Platone, che per via di figure di intermediazione – il Demiurgo, la matematica – è riuscito a far ponte tra l’Idea dell’Uno e del Bene e le singole realtà quotidiane, irriducibili tra loro. L’ombra quindi si allunga e ingoia nel suo cono Aristotele.

Le ragioni per le quali questa lotta riguardi la poesia hanno per estremi lo Ione, il Simposio e la Poetica. Il razionalizzante Platone doveva specificare in quali modi il Dio spossessasse il poeta (il poeta tragico) lo lacerasse (accomunando il suo destino a quello di Dioniso) per farlo poi rinascere trasfigurato nella sua opera: la manìa, che operava come la pietra di Eracle (come un magnete), permetteva alla poesia di legare chi legge a chi ascolta; eppure il poeta non aveva scienza di ciò che scriveva, cento versi di lotte non sono riusciti a rendere Omero un guerriero né un auriga. Perché a parlare non era lui, ma il Dio. Si tratta di possessione diremmo ora: ethousiasmòs, si definiva allora. E poi un testo, il precipitato di questa possessione, cos’era se non la copia di una copia di una copia? Immagine, mimesi, che copiava la realtà, che a sua volta copiava (ontologicamente, per proprio statuto) le Idee. Questa immagine sgranata, la poesia, non aveva allora ragione di essere, pativa inoltre l’aggravante di mescolare l’anima degli uomini allontanandoli dalla ragione, tratto d’elezione dell’uomo.

Che i poeti siano dunque banditi dalla Città Ideale! O che rimangano, ma a patto di educare i cittadini con esempi di eroi e di dèi buoni e giusti (ma povero Platone, costretto in più occasioni a chiosare come il logos di cui voleva delineare natura e contorni dovesse di necessità essere accompagnato dal mythos, da un racconto, per stagliarsi distintamente: ragione che, dualisticamente, per contrappasso, veniva specificata dalla libera associazione di un racconto; logos troppo bathys, profondo, quasi un punto di fuga inattingibile secondo l’occhio di Eraclito, altro padre con cui Platone doveva farsi tornare i conti).

Aristotele comunque blocca di misura la porta che avrebbe sigillato l’irrazionale infilandoci il piede della catarsi. La catarsi, pulizia del corpo (non solo dell’anima), riequilibrio che la poesia tragica donava allo spettatore non più credulo di sé ma scagliato sul palco di un teatro (inaspettata anticipazione, verrebbe da dire con rischio, del lettino di un paziente in cura, in una talking cure). Poesia tragica, testo scritto che pulisce e riequilibra, provvisoriamente.

Ora conosciamo la meccanica della parola. De Saussure ha insegnato come questa si generi sotto specie di «immagine acustica», e sappiamo come l’associazione tra immagine acustica e oggetto che ne sia investito sia arbitraria. Questo arbitrio, il primo, fondativo libero arbitrio che permette di costruire senso prende il nome di metafora. Tutto, nella elaborazione di immagini donate di senso e nella loro sintassi, crea orizzonti di significazione.

Nella lingua e nella poesia – la cui funzione sembra essere costitutiva, a toccare le radici stesse della capacità di far nascere immagini e segni – la detonazione avviene grazie alla sinestesia: percezione simultanea. L’urlo nero di Quasimodo è una sinestesia: il grido di dolore diventa lutto, il lutto trascende al nero. E la sinestesia è un’applicazione esatta della metafora, è una trasposizione di senso che accresce la percezione di un fenomeno (uditivo e visivo, in questo caso); la percezione accresciuta di un fenomeno accresce il fenomeno stesso, potenzia e struttura di significato la realtà.

La mimesi è un ricordo scialbo, Platone aveva torto e noi possiamo sentirci un po’ più vicini al pur freddo e analitico Aristotele, che mantenendo un’ambiguità inaspettata nei confronti dell’espressione poetica ha comunque tollerato la possibilità di un movimento. Manacorda sembra suggerire come tolto forse il Romanticismo (e buona parte del Simbolismo, fino a Trakl e Celan, aggiungo per mia parte), la poesia abbia sempre subito una dissecazione tra razionalità e irrazionalità. Ragione e intuizione, gemelli vicini e lontani come Castore e Polluce: il primo ferito a morte, il secondo che decide di trascorrere un giorno nell’Ade, un giorno nell’Olimpo. Che la poesia attingesse la propria luminosità da pozzi (linguistici) vertiginosamente profondi era idea di Freud; e per Jung, poi, il primitivo viveva epifanicamente la nascita del pensiero, lo percepiva come manìa, di nuovo. E come inciso questo processo ancipite, questo gioco di luce e ombra è stato cristallizzato da Cortázar: «Apollo può avere anche un aspetto notturno, scendere nell’abisso per uccidere il serpente Pitone».

La poesia è forma di pensiero; non imita la realtà, la struttura, la informa (per mettere da parte una volta per sempre Platone e annuire ad Aristotele). E sembrerebbe che la capacità di costruire senso abbia avuto sul piano evolutivo la stessa portata della capacità di costruire un utensile.

Che sia nata per ragioni strumentali, che sia quindi una figlia forse illegittima della magia, o che sia cresciuta in canto come rendimento di gioia per la presenza d’oro degli déi accanto agli uomini, la poesia è per sua stessa natura la lingua, le nostre lingue, attraverso cui comprendiamo esperienza e mondo esterno. L’estensore del Dhammapada l’aveva intuito (e la traduzione che segue viene dalla mano di Chandra Candiani): «Tutto ciò che siamo è generato dalla mente. È la mente che traccia la strada».

Vico ha fatto bene a non dar retta a Cartesio.

(Ma perché oltre il Novecento? Manacorda ha scardinato con estrema e giustificata sicurezza l’intero arco poetico che ha interessato la generazione degli avanguardisti che riproducevano e serializzavano – ma non creavano; ha scansato senza alcun senso di colpa poeti nati editorialmente nella metà degli anni ’70, che avevano reagito alla riduzione dell’io poetico con un abbassamento di autocoscienza e di autocritica, e finisce buttando alle ortiche il nichilismo che ha abbracciato, velato, buona parte del secolo scorso, lasciando l’ultima parola, in apertura a questo saggio, a Nietzsche. Se le ragioni che hanno spinto Manacorda a scrivere non sono state fraintese, le parole che seguono dovrebbero bilanciare questo tentativo di esposizione: «La credenza nelle categorie della ragione è la causa del nichilismo».)

 

(Giorgio Manacorda, La poesia, Castelvecchi Editore, 2016, pp. 150, euro 18,50)

Foto tratta da:
http://www.dinoignani.net/giorgio_manacorda.html

 

Poster italiano di Arrival su Flanerí

“Arrival”
di Denis Villeneuve

Nel giro di pochi anni il canadese Denis Villeneuve è diventato uno dei registi da cui aspettarsi le cose più interessanti, a Hollywood. Dopo i film in patria (La donna che canta su tutti), il passaggio del confine lo ha reso subito un autore in grado di coniugare gli aspetti più popolari del cinema con spunti di riflessione sulla natura umana. Arrival è passato nei mesi scorsi per alcuni dei festival più importanti al mondo – inclusa la mostra di Venezia – raccogliendo consensi e in alcuni casi premi. È una sorta di prova generale, per Villeneuve, con la fantascienza, in attesa di vedere il suo attesissimo Blade Runner nei prossimi mesi.

Arrival inizia quasi come Independence Day, con dodici astronavi dalla forma strana – sembrano un po’ delle vele, un po’ delle lenti a contatto giganti – che appaiono in altrettanti punti del pianeta. Non mandano nessun segnale, semplicemente stanno lì. La linguista Louise Banks viene chiamata dall’esercito degli Stati Uniti per cercare di stabilire un contatto con gli alieni e capire perché sono arrivati sulla Terra.

Le somiglianze con Independence Day si esauriscono nell’apparizione delle navi aliene. Non siamo di fronte a un blockbuster d’azione. È fantascienza filosofica, quella di Arrival, quel tipo di fantascienza riportata in primo piano da Interstellar di Christopher Nolan. C’è una tradizione gloriosa, alle spalle, che va da 2001: Odissea nello spazio a Incontri ravvicinati del terzo tipo passando per Solaris di Tarkovskij. Il centro tematico di questi film, anche quando si spingono ai confini dello spazio e del tempo, anche quando partono dall’idea del contatto con civiltà aliene, è l’uomo.

Villeneuve lo fa capire con la sequenza iniziale. La Louise Banks di Amy Adams è una donna distrutta dal dolore per la perdita della figlia. Con un montaggio in stile Up ma girato alla Terrence Malick vediamo in pochi minuti tutti i momenti della loro vita insieme, dalla nascita alla malattia e alla scomparsa prematura. Nel frattempo la voce fuori campo di Banks si rivolge alla figlia e dice che quella che credeva essere la fine invece sarebbe stato l’inizio.

L’esperienza di dolore della protagonista, quindi, è il motore parallelo che fa muovere Arrival insieme all’arrivo degli alieni. È attraverso Banks che tutto succede. Il film è tratto da un romanzo breve di Ted Chang, Storia della tua vita, pubblicato ora in Italia da Frassinelli nella raccolta Storie della tua vita. Il titolo mostra come la centralità sia spostata sul rapporto tra Banks e la figlia, più che sull’arrivo degli alieni.

Tramite l’incontro e lo studio della lingua degli alieni, la dottoressa Banks riesce a definire il suo passato e il suo futuro, trovando uno spazio e un tempo in cui sviluppare la sua nuova vita.

È interessante notare come Arrival condivida con Interstellar alcuni tratti caratteristici che lo avvicinano a Contact, il film di Robert Zemeckis tratto dal romanzo omonimo di Carl Sagan. Nel film del 1997 entrava in contatto con gli alieni che le si manifestavano nella forma del padre morto quando lei era una bambina. In Interstellar torna forte il tema della paternità, mentre Arrival sposta tutto sulla perdita del figlio per una madre, come già Gravity di Alfonso Cuarón. È nel rapporto che si definisce la natura umana.

Denis Villeneuve e lo sceneggiatore Eric Heissener (una sorpresa, considerando che in carriera ha scritto cose come il reboot di Nightmare o Final Destination 5 sono riusciti a coniugare la dimensione esistenziale con l’approccio scientifico. La ricerca sul linguaggio, che passa attraverso un lento lavoro di studio delle forme espressive, è uno spunto molto interessante per inquadrare la fantascienza di contatto, come la musica in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Il linguaggio è la chiave per evitare il conflitto, lo strumento tramite cui capire chi e cosa è minaccia e cosa non lo è. È proprio nei momenti dell’incontro con le creature aliene che Arrival dà il suo contributo maggiore nel rinnovare la fantascienza. Nella rappresentazione degli alieni si somma psicanalisi e fantasia in un ibrido tra calamari, cetacei, elefanti e ragni, mostrati sempre attraverso un velo di nebbia bianca come fossero sogni. Il loro linguaggio si basa su una scrittura fatta di segni circolari che sembrano evoluzioni delle macchie di Rorschach. Tutto sembra rimandare al subconscio, alle dimensioni più profonde della mente umana.

Il cinema statunitense di Villeneuve fino a questo momento è sempre stato grande cinema a cui però è mancato qualcosa per diventare grandissimo. Il guizzo finale, una certa compattezza, la capacità di arginare le varie suggestioni e incanalarle in un’unica direzione. Anche Arrival avrebbe tutto il potenziale del film indimenticabile, ma procedendo verso la seconda parte si iniziano a intravedere i segni del cedimento. Con un evento dal potenziale traumatico – e decisamente fuori registro – piazzato lì per portare avanti una retorica classica della fantascienza, il film di Villeneuve finisce per accelerare verso una conclusione che si accende in minima parte di azione e comprime in pochi minuti il complesso meccanismo intellettuale su cui si regge tutta la storia. È il cambio di ritmo, questa volta, a non permettere a Denis Villeneuve di arrivare accanto ai modelli altissimi a cui si rifà.

(Arrival, di Denis Villeneuve, 2016, fantascienza, 116’)

“I See You”
dei The xx

Con I See You i The xx erano chiamati al salto di qualità definitivo. Quantomeno, era necessario da parte loro riuscire a staccarsi da un certo manierismo che aveva caratterizzato i primi due lavori. XX, l’esordio, li aveva imposti come nuovo fenomeno di quel mondo ibrido e sfocato che spazia tra l’indie pop e l’elettronica . Un paio di pezzi si stagliavano su tutti, “Intro” e “Crystalised”, avendo l’enorme pregio di riuscire a caratterizzare in maniera lampante l’estetica del trio. Il resto, poi, suonava come un tentativo fallito di toccare quei picchi senza mai riuscirci, facendo sì che tutto il lavoro pareva continuasse a girare a vuoto su se stesso. Coexist, invece, è stato il loro tentativo in tutto e per tutto non riuscito e piuttosto grigio di bissare il successo del primo. Una seconda prova clamorosamente mancata tra riproposizioni di se stessi e tentativi di strizzare l’occhio a non si sa bene quale tipo di pubblico, se al mondo dell’elettro-indie informale o dell’alt-pop d’occasione.

Nonostante questo, fino a oggi, attorno ai The xx si è sempre sviluppato un fortissimo hype – bisognerà capire quanto filtrato dai social – che ha portato I See You a essere uno degli album più attesi di quest’anno, non per reali aspettative musicali, ma come caso mediatico di un certo tipo di underground più approcciabile. Forse, questo interesse sull’interesse (che a sua volta foraggiava sicuramente l’immagine di cosa rappresentavano i The xx stessi) nasceva dal fatto che a un certo punto la band del Wandsworth è diventata un qualcosa di cui era imprescindibile sapere quantomeno il nome e l’esistenza.

Un’ambiguità di fondo, però, rimaneva sempre. Per quanto senza dubbio ben confezionati, i lavori della band inglese risultano sempre perfetti e vuoti, prodotti non da artisti ma da una sorta di staff del marketing che sa cosa produrre, quando farla uscire e perché. Li ascolti da H&M mentre provi i vestiti, da Starbucks mentre paghi un Caffè Mocha, in un bar a Berlino o uno sulla spiaggia mentre aspetti qualcosa da bere. Ascolti e non fai distinzione su cosa e chi sta suonando quel pezzo. La manifestazione della parte peggiore della globalizzazione. È musica che si confonde e si fonde con gli ambienti in cui viene fatta ascoltare. Quindi un negozio, un bar o un aeroporto non fa alcuna differenza.

La questione che si pone di fronte ai The xx, dunque, è sempre la stessa: sono quello di cui si parla quando si parla di loro, oppure sono solo il parlare attorno a loro? Con I See You, a conti fatti, pare che la risposta cada sempre sulla seconda di queste due possibilità.

Certo, la produzione dell’album targata Jamie XX, non può passare inosservata. L’autore di In Colour, che due anni fa aveva scosso l’intero panorama musicale elettronico, ha dato ai The xx maggiore sostanza e un tocco di maturità in più. Ma nonostante questo, anche I See You li conferma come artisti enigmatici che proseguono la loro carriera avvolti da un alone di inconsistenza e superficialità. In quest’ultimo lavoro, le voci riverberate di Oliver Sim e Romy Croft continuano a mischiarsi e a intercarmbiarsi come in precedenza, ci sono echi dei Beach House sparsi qua e là (“Say Something Loving”), campionature (di “I Lie di David Lang” in “Lips” e di Hall & Oates in “On Hold”), la sensualità alla Beth Gibbons (“Performance”), e niente di più oltre al costante incedere assonnato e ai riff di chitarra che ripercorrono sempre le stesse e identiche strade già battute.

Forse, il problema di fondo, rimane il fatto che la musica dei The xx va a colpire sempre le stesse zone del cervello, non riuscendo mai a interessarne altre. Così, il ristagno artistico ammesso in I See You sembra essere l’unica direzione o deriva scelta dalla band londinese.

(I See You, The xx, elettro-pop)

La bellezza non ci salverà

Overlove (LiberAria, 2016), romanzo d’esordio di Alessandra Minervini, affronta in maniera inedita le questioni dell’amore contemporaneo, nonostante la formula “amore contemporaneo” risulti una semplificazione davvero riduttiva, dal momento che l’amore è uno, a tutte le latitudini, e in tutti i quando possibili. A rendere prezioso Overlove, al di là della trama, sono le forme espressive in esso contenute e la sua struttura che ricorda quella del trattato. Per esempio, nei dialoghi che esplicano i titoli delle tre parti in cui è diviso il romanzo (“La mancanza di presente”, “La mancanza di passato”, “La mancanza di futuro”), l’amore viene sempre presentato come assenza: a parlare potrebbero essere i protagonisti o chiunque altro, dentro o fuori dal libro, conferendo una certa coralità all’esperienza amorosa. Ma cos’è esattamente Overlove? Amore in assenza? Eccesso di amore? Forse è il momento di addentrarsi nei retroscena. E dopo esserci reciprocamente e autoironicamente confessate che troviamo orribili le nostre voci registrate (lei “grossa” la sua, io infantile la mia), inizio con Alessandra Minervini pirotecnica intervista telefonica destinata a sfuggire a qualsiasi tentativo di catalogazione.

 

Overlove è la storia di una relazione che finisce, iscritta in un microcosmo variegato ma ancorato a una realtà perfettamente riconoscibile: una Puglia a te ben nota, rievocata fin nei nomi propri. Come nasce in te l’idea di questa storia e quale è stato – se c’è stato – il la che ha messo in moto il processo creativo?

Innanzitutto è stato un percorso lungo, iniziato nel 2012. Un po’ perché la scrittura porta via una certa quantità di tempo, un po’ per l’effettiva mole di lavoro da conciliare con la stesura del romanzo. Il fulcro è il ritorno in una Puglia che nel frattempo si è trasformata. Lo spunto è raccontare un sentimento di mancanza, l’essere privi di qualcosa, rappresentato parallelamente da Anna e da Carmine, i due personaggi principali. Doveva essere una storia sulla Puglia, sulle radici eluse e riscoperte. Poi inaspettatamente i miei due protagonisti si sono innamorati, da una pagina all’altra, ed è diventata una storia d’amore. Sembra che la tendenza odierna sia “riempire” le storie, qui invece la storia è fatta di assenza, forse anche per il fatto che scrivo togliendo. Meno parole ma più precise. Per il processo creativo posso dire che non si identifica per esempio con la frase “studiato a tavolino”, proprio perché io vivo la letteratura come imperfezione.

 

Andando oltre la trama nuda e cruda (lei, lui, i modi di declinare la relazione) credi che i significati profondi che hai voluto consegnare al libro siano facilmente comprensibili ai lettori? Come descriveresti il tuo modo di scrivere?

Ho sempre pensato di dire le verità nude e crude, non drammatizzate, ma scritte tra i denti, e per conseguenza di essere diretta e onesta nel trasporre. Il mio modo di scrivere lo definirei una “scrittura dell’attesa”, nel senso che c’è un tempo per qualsiasi cosa, e la scrittura per esempio ne porta via tanto e ne esige tanto, come ti dicevo. Mi viene in mente Annie Ernaux, la lunghissima attesa prima di potersi dedicare alla scrittura. Io per molto tempo ho preferito lavorare e lavorare, per allontanarmi dalla scrittura, che è una prassi difficile da conciliare con la vita perchè fa strage attorno a sé. Con la mia scrittura ho voluto dare l’idea di un mondo senza speranza, un mondo non salvato dalla bellezza, per quanto la bellezza sia ovunque (parlo sia di quella fisica che di quella territoriale e paesaggistica). La bellezza è egocentrismo, e a volte proprio crudeltà.
In termini geografici l’Italia è un esempio perfetto di questo processo, è bellissima ma piena di dolore e contraddizioni: la bellezza costa molto cara, e non risolve niente. La verità è che la bellezza non salva, non salva le persone né i Paesi. Chi si salva è perché accetta se stesso in tutti i suoi limiti, come Bowie e Blondie in Overlove.

 

Carmine e Anna sono i due poli opposti attorno a cui si orientano tutti gli altri personaggi: lui cantautore quasi sociopatico, intimista, insoddisfatto, dedito alla cura del corpo e al salutismo con un’attenzione quasi maniacale, addensatore di precipitazioni meteorologiche; lei ex ricca, anaffettiva, desiderabile ma respingente. Due freddi, due che litigano a silenzi piuttosto che esternando, due che si inibiscono, che si censurano (e in più, lei odia la musica!): come ti sono venuti in mente questi due personaggi e cosa ci vogliono dire?

Diciamo che Anna è un’egocentrica vittima di se stessa. Carmine invece nasce dall’osservazione degli artisti in generale, da queste specie di divinità, persone comuni, con vissuti comuni, che sul palco diventano altro. Una sorta di trasfigurazione. Questa secondo me è una delle divertenti incongruenze degli artisti. Lacerati dalle loro stesse creature. Se in Anna ho voluto riassumere l’incapacità di perdonarsi e di dare affetto, con Carmine rappresento l’inconcludenza come reazione alla paura di emergere ed essere messi a nudo. Per esempio Carmine prova ad allontanare la sua vera natura mettendosi progressivamente in vendita (con il pubblico, con i media, con il sistema). Anna e Carmine in realtà sono la stessa persona, per questo si appartengono, ma sono troppo concentrati su loro stessi, nonostante condividano l’origine da una stessa terra. Una specie di “amo te dentro me”.

 

Il significato del libro e la sua ambientazione non possono prescindere dalla tematica della creatività, che si traduca nel comporre musica e testi, come Carmine, o nello scrivere libri di successo, come Mario. Ma sia l’ambiente musicale che quello editoriale sono descritti a tinte abbastanza fosche: Carmine è continuamente in tensione tra l’essere troppo d’elite o troppo pop, Mario vampirizza la vita delle persone vere usandola per i suoi romanzi. Vuoi dire qualcosa sul perché hai scelto di parlare di questi ambienti?

Tutto nasce dalla lettura delle vite degli artisti, liste infinite di biografie di scrittori, musicisti, romanzieri, attori, che compro e leggo voracemente da anni. Avevo iniziato con quelle dei musicisti e degli attori, poi ho scoperto le vite degli scrittori e delle scrittrici. Quindi la mia personale rivisitazione del tema in Overlove deriva da una profonda conoscenza delle “vite degli altri”. Ho sempre amato i divi, tutto ciò che luccica, che è visuale. Leggendone le biografie sono giunta alla conclusione che gli scrittori in particolare sono portati a fare qualsiasi cosa per la scrittura. Non è una critica, ma capisco che possa inquietare.

 

In qualità di esordio, Overlove esprime una visione delle cose e della vita molto precisa, che investe i rapporti umani in generale, e quelli sentimentali in particolare: parafrasando le parole di un grande, credi che tutti gli amori felici si assomiglino ma che ogni amore infelice sia infelice a modo suo?

Questa è una bellissima definizione, e sì, è proprio vero, è così, anzi si potrebbe aggiungere: tutti gli amori iniziano, ma non tutti finiscono, ed è la fine che li rende diversi, perciò ogni amore doloroso è infelice nella sua specifica e insostituibile maniera.

 

Se dovessi scegliere solo tre nomi, chi sono i tre autori che hanno maggiormente formato la tua identità di scrittrice?

Tre fari: Goliarda Sapienza, Fëdor Dostoevskij e Dino Buzzati.

 

Cosa pensi del fare autobiografia mentre si scrive? Non trovi che imperversi da un po’ di tempo a questa parte una tendenza a portare sulla pagina il morboso, l’esagerato?

Beh, in Overlove la Puglia è un dettaglio biografico usato come spunto letterario. Niente di più e niente di meno. Io tendo a essere molto poco istintiva, amo le scritture che entrano nelle menti degli altri, perché è questo che deve fare la scrittura, instillarsi, prendere possesso. Ho sempre pensato che la letteratura, quando funziona, assomigli a una trappola per incastrare le menti degli altri. E direi che è da questo punto di vista che si può parlare di scrittura cerebrale, perché le cose principali che succedono succedono nella nostra mente, e la mente è in grado di raggiungere obbiettivi molto più grandi che la persona nella realtà concreta.
Per la seconda domanda sono d’accordo ma si dovrebbe aprire un grosso capitolo, la morbosità è tipica della scrittura contemporanea soprattutto maschile, ed è dovuta a una visione troppo ombelicale, proprio… ombelicale, ecco. In Overlove invece ci sono cose “eccentriche” e cose che “eccedono”, come dici tu, ma dedicate al personaggio, mai come autocompiacimento del sé scrivente.

 

Come agisci nel tuo lavoro da editor?

Mi immedesimo, prendo in tutto e per tutto i panni dell’altra voce.

 

Visto che hai scritto un romanzo sull’amore anche se non volevi, parlaci dell’amore oggi.

Oggi si dà un valore sbagliato ai sentimenti, c’è alienazione, l’amore è vissuto come ibrido, contiene sempre troppe cose. Come se se ne avesse paura. Perciò si è perso. Ma è vero [ride, ndr], la relazione raccontata nel mio libro è un esempio da non seguire. Decisamente da non seguire. È un libro che vuole comunicare una sorta di allarme. Una storia in negativo. È una cosa difficile da capire, infatti il più delle volte viene letta come una storia d’amore e basta.

 

La prima cosa che mi ha spinto ad avvicinarmi a questo libro quando ancora ne sapevo poco e niente è la copertina: minimale, coloristica, quasi onirica. In essa l’essenza femminile si mostra, sicura della propria nudità, quella maschile è spersonalizzata, con un vinile al posto del viso. Come è stata scelta?

È vera questa cosa del maschile e del femminile, ti dirò che infatti all’inizio c’era solo la donna, e allora io ho detto a Maria Rosa Comparato, l’illustratrice: «Mettici l’uomo, è proprio qui che serve l’uomo, in copertina». Maria Rosa, anche lei pugliese, ha una sensibilità incredibilmente accentuata, più artistica che grafica, e infatti si vede. È poetica, ha la poesia dentro. La copertina è bellissima e disegnata a mano, ed è la sua prima copertina. Sono felice di poterne parlare perché è un’opera che merita davvero attenzione.

 

Prossimi progetti? Un altro romanzo forse?

Una raccolta di racconti e un saggio sull’autobiografia. Visto che non voglio diventare quella che si blocca dopo il primo romanzo, non dico niente sulla seconda domanda!

 

Qui stacco la registrazione, dopo ulteriori confronti su letture imprescindibili («E quindi questi me li consigli? Li ho appena aggiunti al carrello!»), panoramica sulla situazione attuale dell’editoria, e la promessa di incontrarci presto di persona. E di tutte le risposte che ho avuto, mi viene il dubbio che le più importanti siano quelle per cui ha speso meno parole.

 

(Alessandra Minervini, Overlove, LiberAria, 2016, pp. 200, euro 12)

 

Poster italiano di Allied su Flanerí

“Allied – Un’ombra nascosta”
di Robert Zemeckis

Se ne è parlato tanto per motivi di inutile pettegolezzo, adesso Allied, il nuovo film di Robert Zemeckis con la coppia (solo cinematografica) Brad Pitt-Marion Cotillard arriva anche nelle sale italiane per riportare in auge il cinema patinato di un tempo.

Siamo nel 1942, in piena seconda guerra mondiale, quando l’ufficiale d’aviazione canadese Max Vatan arriva a Casablanca per incontrare Marianne Beausejour, spia e membro della resistenza francese. I due devono fingersi marito e moglie per infiltrarsi nell’alta società locale e ottenere un invito al ricevimento dell’ambasciatore tedesco. La loro missione è quella di eliminarlo. Mentre preparano il piano, Vatan e Beausejour finiscono per innamorarsi e quando lasciano il Marocco decidono di sposarsi a Londra. Quando ormai sono una famiglia felice, anche sotto i bombardamenti nazisti, Vatan deve confrontarsi con il dubbio che sua moglie non sia davvero chi dice di essere.

C’è molto fascino in Allied, il diciottesimo film di Robert Zemeckis, il regista che forse più di qualunque altro a Hollywood ha esplorato nella sua carriera ogni genere possibile (tra gli altri film: Ritorno al futuro, Forrest Gump, Le verità nascoste). Ha guardato molto al passato per costruire questa storia di sospetto e finzione. Con uno sguardo quasi metacinematografico, Zemeckis ha riproposto un immaginario patinato proprio dei classici degli anni d’oro di Hollywood, mettendo al centro una coppia di divi sempre impeccabile e bellissima.

Viene in mente subito Casablanca, di cui si riprende l’ambientazione nella prima parte, ma c’è soprattutto l’Hitchcock dei grandi film internazionali nella costruzione narrativa.

Tutto, però, in Allied sembra pensato per creare un effetto straniante nello spettatore. Chi guarda non deve capire mai cosa sia vero, ci deve sempre essere il sospetto. Zemeckis coniuga l’estetica del cinema classico con la tecnologia e il linguaggio contemporaneo. C’è un ricorso massiccio – e ormai abituale per il regista di The Walk, alla post-produzione digitale. Il linguaggio si riempie di turpiloquio fuori registro, in una delle prime sequenze viene mostrato Pitt che uccide a sangue freddo e a mani nude un uomo in una cabina del telefono, cosa impensabile per un eroe del cinema classico. È tutto un gioco sul doppio: l’ambiguità dei personaggi, l’alterazione della messa in scena, le intrusioni dei dialoghi e situazioni attuali in un film d’epoca.

Il contrasto tra forma e sostanza è uno standard nel cinema di Zemeckis e qui trova un nuovo modo per svilupparsi. Il suo interesse per il cinema digitale, esplorato nella “trilogia” Polar Express, Beowulf, A Christmas Carol, lo porta a immergere i suoi attori in un contesto irreale generato dall’animazione al computer. È l’immagine, il primo interesse del padre di Roger Rabbit, e Allied lo conferma sin dalla prima scena, con Brad Pitt paracadutato con calcolata lentezza in un deserto digitale.

Se l’uso massiccio della post-produzione permette di creare scenari di rara suggestione, come i tramonti sui tetti di Casablanca, il suo eccesso porta però anche a banalità di ridondante manierismo, come la tempesta di sabbia che avvolge le due spie nel momento in cui per la prima volta sboccia il loro amore. L’obiettivo di Zemeckis, si presume, era quello di creare un contrasto tra la sostanza del racconto e la forma della narrazione, facendo capire senza pretese di realismo che tutto è finzione. L’inganno, però, si perde spesso in immagini vuote, e ogni possibile suggestione data dal digitale non appare mai funzionale al racconto.

I paesaggi digitali fanno da sfondo a una sceneggiatura che si impegna veramente poco per essere avvincente. Nonostante Stephen Knight in scrittura, che in carriera ha tirato fuori, tra gli altri, La promessa dell’assassino di Cronenberg e Locke, di cui era anche regista, Allied si sviluppa senza sorprese e – soprattutto – senza tensione. L’omaggio ai classici passa anche da un registro artificiosamente melodrammatico – «Questa sono veramente io, nuda come Dio mi ha fatto», dice Cotillard a Pitt dopo aver partorito sotto i bombardamenti di Londra –, ma tra sentimentalismi triti e un’evoluzione della trama decisamente piatta, si esce da quasi due ore e mezzo di visione senza niente che lasci davvero il segno.

(Allied – Un’ombra nascosta, di Robert Zemeckis, 2016, spionaggio, 147’)

“La frantumaglia”
di Elena Ferrante

«Io penso che, in arte, la vita che conta sia la vita che resta miracolosamente viva nelle opere. […] La via biografica non porta al genio di un’opera, è solo una microstoria di contorno. O, per dirla al modo di Northrop Frye, la dirompente energia immaginativa del Re Lear non è minimamente scalfita dal fatto che di Shakespeare ci restano solo un paio di firme, un testamento, un certificato di battesimo e il ritratto di un tale con l’aspetto dell’imbecille».

La frantumaglia di Elena Ferrante (Edizioni e/o, 2016) è un libro sedicentemente autobiografico. Già il titolo fa parte di un lessico familiare che risale all’infanzia e si insinua nel carattere delle protagoniste dei suoi romanzi: «Il processo di frantumazione in un corpo di donna mi interessa molto dal punto di vista narrativo. Per me significa raccontare, oggi, un io femminile che all’improvviso si percepisce in destrutturazione, smarrisce il tempo, non si sente più in ordine, si avverte come un vortice di detriti, un turbinio di pensieri-parole».

Ce ne spiega la genesi al termine di una lunga lettera del 2003 indirizzata alla sua editrice Sandra Ozzola: «Mia madre mi ha lasciato un vocabolo del suo dialetto che usava per dire come si sentiva quando era tirata di qua e di là da impressioni contraddittorie che la laceravano. Diceva che aveva dentro una frantumaglia. La frantumaglia (lei pronunciava frantummàglia) la deprimeva».

Il volume esce ora a tredici anni dalla prima edizione (2003) e a nove dalla seconda (2007), ampliata di 150 pagine e contiene scritti che ci offrono nuovi spunti e nuove opportunità di lettura dell’opera della Ferrante.

Si tratta di lettere e interviste (esclusivamente via email) che narrano venticinque anni di lavoro e di vita: dalle prime lettere agli editori su L’amore molesto al carteggio con il regista Martone per la riduzione cinematografica dello stesso, dalle interviste con la stampa internazionale, ricche di riflessioni sulla letteratura, il femminismo, la maternità e la politica, ai testi non destinati alla pubblicazione, abbozzi di articoli o articoli completi come quello sul film di Chéreau-Gabrielle, confrontato con il racconto che l’ha ispirato, Il ritorno di Conrad o sulla origine di L’amica geniale, la storia di «un’amicizia che comincia col gioco perfido delle bambole e si esaurisce con la perdita di una figlia».

Elena Ferrante mette continuamente in discussione le convenzioni della comunicazione di massa, ribadisce sin dagli esordi che il suo non è anonimato ma piuttosto «assenza», rivoluzionando così il protagonismo odierno di certi scrittori e proiettando la sua persona verso la dimensione dell’invisibilità e del mistero: «…la mia è una piccola scommessa con me stessa, con le mie convinzioni. Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che sono stati scritti. Se hanno qualcosa da raccontare troveranno presto o tardi lettori; se no, no».

In La frantumaglia si scoprono tanti aspetti della sua vita, della sua passione per la scrittura e per la lettura, riflessioni sulla città di Napoli dove sono ambientate le vicende di cui scrive, il cui mare è un invito ad andarsene in fretta e che tuttavia non si lascia mai davvero, una città che invece di consolare non smette di perturbare, una città «senza possibilità di redenzione»: «Napoli è la mia città, e non so prescindere da essa anche quando la detesto. Vivo altrove, ma devo tornarci spesso perché solo lì ho l’impressione di redimermi e tornare a scrivere con convinzione».

La prosa della Ferrante anche in questi scritti occasionali è priva di inutili timidezze, mima la dialettica, problematizza come in un dialogo. È come se anche nel modo di pensare accadesse quello che accade nei romanzi, che si esplica in energia. Lascia che a parlare per lei sia la scrittura insieme a quel senso di presenza intangibile lontana da pose e compiacimenti.

 

(Elena Ferrante, La frantumaglia, Edizioni e/o, 2016, pp. 392, euro 19)

“La Grande A”
di Giulia Caminito

Giulia Caminito è nata appena un anno al di qua. Un anno prima della morte del Muro, quello maiuscolo e acuminato. Un anno prima che la fortezza si sfaldasse e che i suoi frantumi vorticassero per anni come spine innominabili. Un anno prima che il Mondo si slacciasse, il suo doveva ancora cominciare. Eppure, quella che ha sprigionato nel suo primo romanzo, datata, polverosa e smaccatamente intercontinentale, è proprio la sua storia. La Grande A (Giunti, 2016) è un baule rovesciato. Un gomitolo di voci, incontri, partenze, snocciolato dalla fumosa Legnano fino al midollo d’Africa. Fatto a forma della sua famiglia.

E proprio da quel guscio lombardo, da lì si avvia la vicenda di Giada. Dagli scoppi del cielo sotto la guerra. L’odio che gronda, la terra che si spancia per farsi rifugio. Lei è una ragazzina in un corpo di ossa mal rivestite e non può che scappare mentre i nemici bombardano la notte. Ci si comprime finché l’allarme non cessa, finché non spuntano i liberatori, o quelli che amano farsi chiamare così. Ma niente diventa più facile solo perché i tetti non si sventrano.

Giadina vive con sua zia perché la mamma è lontana, oltremare a inventarsi un mestiere e lei e i suoi fratelli distribuiti in giro come arnesi ingombranti. Intrasportabili. Non ci sono premure, né avanzi di carezze. Solo pane nascosto, insaccato sotto il maglione, raffermo come gli sguardi di casa e trafugato come un divieto. Giadina è Cenerentola, marginale e fastidiosa nel suo esserci scheletrico. Non le resta che attendere, sua madre Adele come fosse un principe: «Lei ogni pomeriggio guardava dalla finestra oltre il cortile, aspettando un clacson in lontananza, profumo francese, vestiti a colori e pacchi di biscotti». Solo quel ritorno sarebbe stato primavera. E un giorno la mamma si riaffaccia, con le sue incandescenze e i suoi vapori di tabacco, risucchiando Giada nel capitolo centrale del romanzo, trapiantandola nella Grande A.

Quell’Africa etiope retaggio coloniale, dove ha aperto un bar, dove tutto è distante dagli scampoli di tende e ceramiche che Giada vagheggiava tra i suoi stenti di Legnano: «La cucina a carbonella era vecchia e puzzava pure da spenta, fatta di latta e piena di bozzi […] Non c’erano altri odori, se non quelli della latrina e del sudore forte della donna che veniva a pulire».

Giada fatica, anche lì, affiancando la madre, servendo clienti. Finché non spunta Giacomo, che la sposa di corsa, quando il matrimonio per lei è una nebulosa di mosse imperscrutabili. Si consacra a un estraneo, con un abito che pizzica, come la vita che sta per indossare. Suocera e cognata a berciare doveri, a tracciare solchi. Le incombe tutto sul fiato, anche quel figlio che non sa come accudire. E poi i doveri coniugali e Giacomo che si pavoneggia nel suo dopobarba, che ha bisogno di piacere al punto di scegliere un’altra. È lì che Giada matura davvero. Col dolore avvinghiante di chi è ancora deposto nell’angolo.

La solitudine allenante la confronta con se stessa, con un volto che non sia suo marito, con un sospeso che affanna i risvegli. E comunque tutto cambia ancora, per tornare a essere com’era. Matrimonio ricomposto e finalmente più di qualche agio. Stoffe sagomate sulla sua figura, apparizioni al Circolo e tavoli da gioco.

All’improvviso però l’Africa non è più sicura, la guerriglia scompagina la quiete. «Trent’anni di storia etiopica si accasciarono, pantano di sangue, e con loro Selassié salutò i polmoni del suo Impero».

Per Giada c’è di nuovo l’Italia e un freddo che sembrava archiviato. Ma la sua stella fissa, la vera assoluta Grande A rimane sempre Adi. Donna di frontiera, amazzone impavida in un mondo di uomini forti e femmine accucciate. Ogni atto del ricominciare la vede sempre stagliarsi sullo sfondo, come la carne di un orizzonte: «Non poterla raggiungere, isola remota, quel sentirsi sempre diversa, in difetto, stare un po’ indietro a tirare le tende per aprire il sipario mentre la Mamma saliva sul palco».

A incorniciare l’adorazione di nonna Giada per sua madre, lo iato solenne di quella distanza e un trancio robusto di trascorso italiano, c’è la scrittura dell’autrice-nipote, un ricamo sul corredo delle proprie origini. Variopinta, vivace e fotografica. Una fontana scrosciante d’immagini a condire una vicenda di per sé già avventurosa, in cui sono proprio le donne a scandire ogni tempo.

Il bisogno di trasformare le memorie in romanzo, di farne storia per gli altri, di rendere pagina un coro d’infanzia valorizza tutta la narrazione, in cui si ripescano reperti, odori fossili, scatti che appartengono al nostro cordone.

E brava Giulia, che di anni da scrivere ne ha ancora parecchi per raccontare, magari, anche un po’ di futuro.

 

(Giulia Caminito, La grande A, Giunti, 2016, pp. 288, euro 14)

Poster italiano di Silence su Flanerí

“Silence”
di Martin Scorsese

Forse Silence è il film più personale e sofferto nella gloriosa carriera di Martin Scorsese. Una produzione lunghissima, interrotta più volte da una serie di problemi tra cui una causa legale con Cecchi Gori (addirittura) e con un cast che ha visto passare Daniel Day Lewis, Benicio Del Toro, Ken Watanabe, Gael Garcia Bernal, prima di fermarsi su Andrew Garfield, Adam Driver e Liam Neeson. Quasi trent’anni di lavoro per portare sullo schermo la storia – in parte vera – di due gesuiti nel Giappone del XVII secolo.

Scorsese ha scoperto Silenzio, il romanzo di Shūsaku Endō da cui è tratto il film (e a cui aveva già lavorato il regista giapponese Masahiro Shinoda, portandolo a Cannes nel 1971), dopo una proiezione riservata alle gerarchie ecclesiastiche di New York di L’ultima tentazione di Cristo, nel 1988. Il film ha iniziato a prendere forma, in fase di scrittura, già negli anni immediatamente successivi. Il regista di Taxi Driver sentiva molto vicina la storia del viaggio interiore dei protagonisti alla ricerca di Dio nella sua assenza. A mancargli,nel tempo, è stata la convinzione di essere maturo a sufficienza per affrontare in maniera compiuta il tema. Fino al 2016.

Silence inizia nel Portogallo del 1633. Due giovani gesuiti, padre Garupe (Driver) e padre Rodriguez (Garfield) partono per il Giappone alla ricerca del loro padre spirituale, padre Ferreira (Neeson), di cui si sono perse le tracce da anni. Una lettera, ritrovata su un mercantile, afferma che Ferreira abbia abbandonato la fede cattolica e viva con una moglie secondo i costumi giapponesi. I due preti si mettono in mare per cercare di salvare l’anima del maestro dall’apostasia (l’abbandono della fede) raggiungendo un Paese in cui i cattolici sono perseguitati e sottoposti a torture di vario livello di abiezione. Nella loro ricerca, Garupe e Rodriguez mettono a rischio la loro vita e tutte le loro convinzioni.

Tutto il cinema di Scorsese può essere letto come un’unica, prolungata, ricerca, sul senso dell’uomo nel mondo. La formazione cattolica del regista italo-americano, passata anche per un periodo in seminario, ha lasciato un’impronta profondissima nella sua visione dell’umanità e della solitudine esistenziale. Scorsese si interroga in ogni ogni suo film sulla presenza di qualcosa, o qualcuno al di sopra, come un occhio che osserva dall’alto senza mai intervenire.

Questa indagine sulla trascendenza è più che mai evidente in Silence, terzo capitolo di una trilogia ideale iniziata nel 1988 con L’ultima tentazione di Cristo e proseguita nel 1997 con Kundun. Il tratto comune di questi tre titoli di vocazione “spirituale” è la centralità della dimensione umana del rapporto con il divino. Nel 1988 la tentazione da cui doveva difendersi Cristo era quella di una vita normale così come gliela mostrava il diavolo nei quaranta giorni nel deserto. Niente croce, niente sacrificio, ma una moglie, dei figli, un lavoro. Kundun, invece, mostra l’umanità dell’ultimo Dalai Lama partendo dall’infanzia e attraverso la storia del Tibet.

In Silence, la fede alimenta ogni azione dell’uomo in una convinzione unidirezionale. La presenza del divino si manifesta nella sua continua assenza, nel silenzio – appunto – di Dio che sembra abbandonare i protagonisti anche nei momenti più difficili. La religiosità è un rapporto individuale e univoco con l’assente, che va al di là dei luoghi e delle istituzioni per dimorare all’interno. È questo quello che sembra dire Scorsese, che ha anche scritto il film con Jay Cocks. Il padre Rodriguez di Andrew Garfield è il primo a dubitare dei dogmi della formazione gesuita nel momento in cui si trova a doverli applicare alla realtà dei fatti. Gli esercizi spirituali nella cella del monastero sono una cosa, autorizzare un gruppo di contadini giapponesi a calpestare l’immagine di Dio per salvare la vita è tutto un altro discorso. È attraverso padre Rodriguez che la ricerca nel silenzio si svolge fino in fondo. Passando per il dubbio, la rabbia, la follia, Rodriguez vive una passione personale che lo porta a un’identificazione delirante con Cristo. Interrogando il silenzio, capisce la natura umana della fede.

Animato da gigantesche intenzioni di riflessione, Silence mostra probabilmente nella forma più compiuta mai raggiunta dal cinema l’interiorità della religione. Per farlo, Scorsese si è affidato alla lentezza, alla dilatazione dei tempi, a un passo che si adatta più al pensiero che all’azione. Questa esposizione per accumulo finisce per indebolire il carico narrativo del film. In cabina di montaggio Scorsese avrebbe potuto rinunciare ad almeno altri venti minuti di film per scendere al di sotto delle due ore e quaranta attuali (si dice che la prima versione superasse abbondantemente le tre ore complessive). È lecito affermare che anche il percorso spirituale di Rodriguez ne avrebbe giovato in coesione e compattezza.

Se si può rimproverare la muta prolissità, Silence va elogiato anche per la qualità estrema della messa in scena, dalla scenografia sontuosa di Dante Ferretti, che ha ricostruito il Giappone del ’600 a Taiwan, alla fotografia nebbiosa di Rodrigo Prieto. Scorsese come regista conferma di vivere, alla soglia dei settantacinque anni, un periodo di immensa ispirazione. Andrew Garfield (di cui magari si può discutere il capello cotonato in pieno tormento) e Adam Driver restituiscono la visceralità del dubbio e del tormento scolpendo i loro colpi nella magrezza.

(Silence, di Martin Scorsese, 2016, drammatico, 161’)

Il 2017 In Musica

Il 2016 è stato un anno nefasto per il mondo musicale, ma allo stesso tempo ci ha regalato tanti ottimi album che hanno evidenziato il buonissimo stato di forma del pop e del rock. Il 2017 si preannuncia ricco di novità e di grandi e graditissimi ritorni (National, Arcade Fire e Baustelle su tutti), alcuni dei quali davvero insperati (Slowdive). Ecco qui le uscite da segnalare in agenda:

 

 

Arcade Fire – Uno dei più attesi lavori dell’anno è l’ultima promessa artistica degli Arcade Fire, enfants prodiges canadesi e statunitensi che, dopo Reflektor, si sono guadagnati la benedizione della critica mondiale. Nessuna traccia ancora ad anticipare lo stile e l’approccio del nuovo album, ma sarà difficile vederli uscire dal binario indie-pop che ne ha segnato l’intera carriera. (Senza titolo. Data da definire).

The National – Il tempo e la cura richiesti per la creazione di un album costituiscono uno dei motivi per cui i grandi artisti meritano un appellativo del genere. I National, raffinati professionisti del rock indipendente, sembrano aver cavalcato l’onda di una sorta di creatività riflessiva che ha caratterizzato recentemente l’approccio di gruppi come Radiohead e Bon Iver. Durante i quattro anni di attesa, il gruppo di Matt Berninger si è trascinato dietro un enorme carico di aspettative. Qualche mese fa, il leader della band ha rivelato che l’album sarà il più cupo di tutta la loro carriera e che tratterà delle difficoltà intrinseche del matrimonio. Voci di corridoio prevedono l’ennesima svolta elettronica in arrivo. Staremo a vedere.

Baustelle – Se c’è un gruppo in Italia che si staglia sugli altri, quello è sicuramente il trio composto da Bianconi, Bastreghi e Brasini. Con fantasma avevamo iniziato a familiarizzare con dei Baustelle non più devoti all’adolescenza, ma impegnati in tematiche e sonorità più adulte. L’ascolto del singolo, Amanda Lear, che ha anticipato l’uscita del nuovo album, rinnega quello che sembrava essere diventato l’approccio definitivo della band. (L’amore e la Violenza: Data di uscita, 13 Gennaio).

Sun Kill Moon – Un altro album, un’altra esperienza visiva per Mark Kozelek, che dopo la creazione dell’acclamatissimo Benji e di Universal Theme, torna a ripromettere le sue atmosfere folk mistiche che hanno caratterizzato il suo tradizionalismo contemporaneo, incantevole marchio di fabbrica dell’ex Red House Painters. Già il titolo del nuovo album rimanda a universi cinematografici da lui già battuti (come nella collaborazione con Sorrentino nel suo Youth). (Common as Light and Love Are Red Valleys of Blood. Data di uscita da definire).

Depeche Mode – Reduci da Delta Machine, tentativo tutt’altro che memorabile di un ritorno in scena, la band di Basildon, ormai agli sgoccioli di una lunga carriera, va alla ricerca della perduta gloria con una nuova uscita. I Depeche Mode, forti di uno storico e appassionato pubblico, accopagneranno il disco con un tour che a Giugno toccherà anche iMilano, Roma e Bologna. (Spirit. Data di uscita da definire).

The xx – Riusciranno i The xx a smentire finalmente la convinzione andatasi a creare intorno a loro che vede il mito più grande della realtà artistica? L’occasione di ritrovare uno statuto di credibilità profonda arriva con I See You, in uscita oggi stesso. Si capirà se il mix di indie, elettronica e dubstep sfiora ancora e soltanto il fenomeno mediatico o arriva a toccare livelli più elaborati. (I See You. Data di uscita, 13 gennaio).

Slowdive – Tra tutti i ritorni di quest’anno, quello degli Slowdive è sicuramente il meno aspettato. Tra i pilastri dello shoegaze (e quando pensiamo a loro non possono non venire in mente gruppi che sembrano appartenere a un altro universo musicale rispetto a quello attuale come i Pale Saints, i Ride o i My Bloody Valentine – questi ultimi hanno prodotto MBV ventuno anni dopo il loro capolavoro Loveless), la band di Leeds si troverà catapultata in un’era dove la geografia musicale sembra dirigersi anni luce di distanza rispetto alle sonorità di Just For a Day, ed è per questo che sarà interessante capire cosa accadrà ai loro riverberi che oggi sanno di mitologia. (Senza titolo. Data di uscita da definire).

Queens of the Stone Age – Con Songs for the Deaf, la band americana si impose come uno dei fenomeni di inizio millennio, attraverso il loro suono grezzo e allo stesso tempo di gran classe. Ora Johns Homme e compagni dovranno riuscire a dare continuità al loro predecessore …Like Clockwork e, dopo il non riuscitissimo Eva Vulgaris, cercare di confermarsi ancora una volta paladini di un genere, lo stoner, che li vede da quindici anni ancora assoluti protagonisti. (Senza titolo. Data di uscita da definire).

U2 – Nessuno, o quasi, credeva davvero che Donad Trump si insediasse alla Casa Bianca, tanto meno Bono. L’album sarebbe dovuto uscire quest’anno ma, a causa di incongruenze tematiche con l’assurdità dei fatti, la band ha deciso di ritirare l’uscita del lavoro e rimandarla a data da destinarsi. Non che dagli U2 del 2000 ci si aspetti più chissà quale innovazione artistica, ma quantomeno è apprezzabile un certo rigore morale. (Songs of Experience. Data di uscita da definire).

In Italia, oltre ai già citati Baustelle, da ricordare il ritorno di Brunori Sas con A Casa Tutto Bene, e quello di Edda con Graziosa Utopia. Inoltre, bisognerà fare particolare attenzione – perché se ne parlerà sicuramente, quantomeno come fenomeno mediatico, visti i precedenti Calcutta e Pop X – alla nuova scommessa di Bomba Dischi, Giorgio Poi, che, stando al singolo “Tubature”, sembra accodarsi in tutto e per tutto all’estetica della casa discografica romana.

“Portami oltre il buio”
di Giorgio Boatti

C’è un’Italia, in Italia, che ha deciso di rimboccarsi le maniche; ce n’è una che ha fatto volare un albero per studiarne il cervello; una che ha fatto lavorare chi di diverso ha solo «un cromosoma di troppo», a dispetto di chi “di troppo” ha solo la presunzione di essere dal lato giusto della barricata che si è costruito da solo e che da solo bada a tenere in piedi; e c’è chi lotta per la libertà delle vite.

Se state pensando a un racconto surrealista vi sbagliate, perché queste “Italie” esistono davvero. Né sarebbe corretto (come sono stato tentato di fare) ricorrere alla metafora della Matrioska, la bambolina che contiene tante sosia di se stessa nascoste al proprio interno. No, non andrebbe bene. «L’Italia che non ha paura» non si nasconde, anzi, si mette in mostra e raggiunge ogni latitudine ed è apprezzata forse più dagli altri, che da noi.

Giorgio Boatti (1948, giornalista, storico e scrittore), con Portami oltre il buio – Viaggio nell’Italia che non ha paura (Laterza, 2016), ci racconta il suo terzo viaggio nel Bel Paese (dopo quello tra i monasteri di Sulle strade del silenzio, 2012, e quello tra le aziende agricole di Un paese ben coltivato, 2014, anch’essi editi da Laterza) facendoci scoprire le persone e le aziende che hanno reagito alla sfida della crisi economica scegliendo di attaccare, uscendo dagli schemi, soprattutto guardando negli occhi la paura e preferendo la posizione offensiva alla difensiva.

Con il suo stile sempre semplice, ma non banale, e la sua ironia mai scontata, lo scrittore lombardo riesce a suscitare nel lettore l’entusiasmo e la voglia di fare dei personaggi che incontra e, dobbiamo dire, anche la sua. Perché questa volta più del solito l’autore svela qualche aspetto di sé, come l’«aclufobia» o «nictofobia» di cui soffre, che non è altro se non la paura del buio con cui deve fare i conti quando, in uno dei sotterranei della Loccioni Group (una delle aziende straordinarie che descrive, caratterizzata dal coworking come mezzo per contribuire alla «felicità» dei propri lavoratori, al punto da poter essere definita «play factory») va via la luce.

Un Boatti che sentiamo più vicino, che ci racconta delle sue passeggiate nella Contea (così chiama il territorio in cui abita già nei testi precedenti), ma anche qualcosa di più, sebbene sempre all’insegna della «giusta distanza», su cui però non sveliamo altro (saprà di che si tratta chi ha già conoscenza dell’autore).

Più che da consigliare, la lettura di Portami oltre il buio è da auspicare. Perché quando un libro lascia dentro qualcosa è un buon libro, ma se questo qualcosa consiste in una spinta verso la scelta del coraggio, in tempi come questi, vuol dire che è un viaggio per cui vale la pena di partire.

 

(Giorgio Boatti, Portami oltre il buio – Viaggio nell’Italia che non ha paura, Laterza, 2016, pp. 242, euro 18)

Il 2017 al cinema

Dopo il meglio del 2016 iniziamo a guardare cosa ha da offrire il cinema al pubblico italiano per il 2017. Dovrebbe essere un anno ricco di grandi film sin da gennaio, quando inizieranno ad arrivare anche da noi alcuni dei film già visti e apprezzati nei festival in giro per il mondo e tra i probabili protagonisti della prossima notte degli Oscar del 26 febbraio 2017. Non mancheranno neanche i grandi titoli commerciali, tra sequel e ritorni di alcune delle saghe cinematografiche più amate di tutti i tempi.

Di seguito trovate quelli che secondo noi sono i film più importanti in arrivo nelle sale nel 2017. Li abbiamo scelti tenendo conto della possibilità che hanno di essere tra i protagonisti dei grandi premi dei prossimi mesi e della capacità che dovrebbero avere di attirare il pubblico in sala ottenendo allo stesso tempo il consenso della critica. Ce ne sono molti altri che abbiamo deciso di tenere fuori. In caso siamo pronti ad aggiungerli alla classifica dei migliori film del 2017, quando verrà il momento.
 


• La la land di Damien Chazelle

Dopo il trionfo ai Golden Globes (7 premi su 7 nomination, tra cui miglior commedia, miglior regia e migliori protagonisti per Ryan Gosling ed Emma Stone), il film di Damien Chazelle arriva in Italia con un’attesa ancora più grande di quella generata a Venezia la scorsa estate. Il ritorno del musical classico con due protagonisti di grande richiamo e un regista che con il film d’esordio Whiplash ha fatto subito parlare di sé fanno di La la land uno dei sicuri protagonisti per gli Oscar 2017. Uscita in sala: 26 gennaio.

 

• Moonlight di Barry Jenkins

Passato come film d’apertura per l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, il film di Barry Jenkins ha vinto il Golden Globe come miglior film drammatico oltre a una serie di altri riconoscimenti che lo rendono il titolo con il maggior numero di premi in questa prima parte di season award. Viste tutte le polemiche per #OscarSoWhite degli scorsi anni, il film prodotto da Brad Pitt incentrato su tre fasi della vita di un giovane omosessuale afroamericano nella povertà della periferia di Miami potrebbe finire tra i principali candidati il prossimo 26 febbraio. Uscita in sala: 2 marzo.

 

• Arrival Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve

Villeneuve è senza dubbio uno dei registi più interessanti arrivati a Hollywood negli ultimi anni. Ogni volta che fa un film cambia genere e fa sempre, più o meno, centro, vedi Prisoners SicarioArrival, presentato all’ultima Mostra di Venezia, ha riportato in auge la fantascienza di incontro con gli alieni, con una profonda dimensione filosofica, senza il bisogno di effetti speciali alla Interstellar, ma è soprattutto il ritorno della dispotia di Blade Runner  a catalizzare le attenzioni di tutti – pubblico, critica e scettici – e a chiamare Villeneuve alla prova definitiva. Della trama si sa pochissimo, ma si sa che ci sarà ancora una volta Harrison Ford. Uscita in sala: 19 gennaio e 5 ottobre.

 

• Dunkirk di Christopher Nolan

A proposito di Interstellar, il 2017 vedrà anche il ritorno in sala di Christopher Nolan, uno dei registi più amati del cinema contemporaneo. Dopo la trilogia di Batman e la fantascienza, Nolan ha deciso di misurarsi con la storia con Dunkirk, ricostruzione della drammatica Operazione Dynamo, l’evacuazione in massa delle truppe alleate dalle coste francesi nella primavera del 1940, durante la seconda guerra mondiale e sotto i bombardamenti nazisti. Uscita in sala: 31 agosto.

 

• Barriere di Denzel Washington

Sempre a proposito di premi e #OscarSoWhite. Denzel Washington passa dietro la macchina da presa per la terza volta in carriera per raccontare la storia di un giocatore di baseball degli anni Cinquanta respinto dalla Major League perché afroamericano. Finirà a raccogliere la spazzatura per poter mantenere la famiglia. Viola Davis ha già vinto il Golden Globe come migliore attrice non protagonista nei panni della moglie. Potrebbe arrivare anche l’Oscar. Uscita in sala: 28 febbraio.

 

 Manchester by the Sea di Kenneth Lonergan

Uno dei film più belli visti alla scorsa Festa del cinema di Roma, se non il più bello, ha due armi fondamentali: la sceneggiatura e gli attori che lo interpretano. Nel raccontare una serie di drammi piuttosto duri riesce a mantenere il realismo della vita quotidiana, che è una cosa molto difficile. Casey Affleck ha vinto giustamente il Golden Globe come miglior attore drammatico. Se tutto va bene vincerà anche l’Oscar. Uscita in sala: 16 febbraio.

 

• Smetto quando voglio – Masterclass di Sydney Sibilia

Dopo un 2016 a due facce, tocca alla banda di ricercatori specializzati in droghe sintetiche il compito di risollevare (ancora una volta) le sorti del cinema italiano in una stagione che non sembra offrire molto, a parte la solita gamma di commedie, il ritorno di Gianni Amelio con La tenerezza (e con Elio Germano e Micaela Ramazzotti) e il primo film internazionale di Paolo Virzì con grossi nomi come Helen Mirren e Donald Sutherland. Sibilia sta già lavorando al terzo capitolo della sua personalissima saga nel tentativo di lanciare un franchise all’italiana. Vedremo come andrà. Uscita in sala: 2 febbraio.

 

• T2: Trainspotting di Danny Boyle

In tema di droghe, il ritorno dei ragazzi di Irvin Welsh ha dell’incredibile, visto che dopo il primo film si erano lasciati tutti piuttosto male, soprattutto Danny Boyle e Ewan McGregor, che non aveva mai perdonato al regista di avergli preferito Leonardo DiCaprio per The Beach. Eppure, vent’anni dopo, sono di nuovo tutti lì per provare a far rinascere un mito che aveva cambiato il modo di mostrare la tossicodipendenza al cinema. C’è anche Irvin Welsh, che ha fatto da consulente per la sceneggiatura originale di John Hodge che prende solo vagamente spunto da Porno, il seguito a distanza di dieci anni con cui Welsh aveva riproposto i suoi protagonisti. Uscita in sala2 marzo.

 

Jackie di Pablo Larraín

Il cileno Pablo Larraín è da anni uno dei grandi protagonisti dei festival cinematografici di tutto il mondo. Dopo Neruda, a quarant’anni Larraín è arrivato a Hollywood per la prima volta per raccontare la vita di Jacqueline Kennedy con e senza il marito presidente degli Stati Uniti. Trascinato da una straordinaria Natalie Portman, Jackie potrebbe diventare il film con cui il grande pubblico conoscerà il talento di uno dei più grandi registi in attività. Uscita in sala: 14 febbraio

 

• Silence di Martin Scorsese

Quasi trent’anni di lavoro per uno dei progetti più sentiti e ambiziosi di Scorsese. Partendo del romanzo di Shusaku Endo del 1966, il regista di The Departed ha portato sullo schermo la storia in parte vera di due gesuiti partiti per il Giappone del 1633 alla ricerca del loro maestro accusato di apostasia. Scorsese lo ritiene il suo film più difficile per il modo in cui è raccontato il rapporto tra uomo e fede. Uscita in sala: 12 gennaio.

 

• Alien: Covenant di Ridley Scott

Gli appassionati hanno ancora ben presente l’immensa delusione di Prometheus con cui Ridley Scott era tornato a una delle saghe cinematografiche più amate di tutti i tempi. La macchina di Alien non si è comunque fermata e a maggio arriverà quello che dovrebbe essere il film di congiunzione tra il prequel venuto male e il capolavoro originale. Il trailer sembra promettere molto bene. Uscita in sala: 11 maggio.

 

• Star Wars: Episodio VIII di Rian Johnson

Dell’ottavo film della saga cinematografica più amata di tutti i tempi non si sa ancora nulla, in pratica. Non sono stati rilasciati trailer né immagini ufficiali. Si sa che sarà l’ultimo film interpretato da Carrie Fisher, che aveva già terminato le riprese prima della prematura scomparsa, e che forse saranno necessarie delle modifiche proprio per il suo personaggio, in vista del nono episodio. Adam Driver, che nel film interpreta il cattivo Kylo Ren, ha espresso il desiderio che la Disney non pubblichi nulla, neanche un piccolo teaser, prima dell’uscita in sala per mantenere l’attesa del pubblico al massimo. Sarebbe una bella mossa di marketing. Uscita in sala: dicembre 2017.

• I cinecomic

Ormai i grandi successi cinematografici passano per i fumetti, è un fatto risaputo. La Marvel è pronta a consolidare la propria supremazia lanciando al cinema nel 2017 il nuovo Spider Man, il seguito di Guardiani della galassia (uno dei migliori film che abbiano realizzato negli anni) e il ritorno di Thor e Hulk in Thor Ragnarök, che prepara la strada al nuovo capitolo degli Avengers in arrivo nel 2018. La DC prova a stare al passo, nonostante i risultati ben più modesti ottenuti con l’attesissimo Batman V Superman, e lancerà in sala Wonder Woman e il film collettivo Justice League.

[Best 2016] I libri

Dal punto di vista editoriale, il 2016 è stato un anno molto interessante. Nel mondo quanto in Italia. Ci sono stati i ritorni di Don DeLillo con Zero K (Einaudi), di Jonathan Safran Foer con Eccomi (Guanda), di Jonathan Franzen con Purity (Einaudi), di Elizabeth Strout con Mi chiamo Lucy Barton (Einaudi), di Jay McInerney con La luce dei giorni (Bompiani).

Mostri sacri a cui si aggiungono Garth Risk Hallberg con Città in fiamme (Rizzoli), Mathias Enard con Bussola (Edizioni e/o), Antoine Volodine con Angeli minori (L’orma) e Terminus radioso (66thand2nd), William Finnegan con Giorni selvaggi (66thand2nd), Han Kang con La vegetariana (Adelphi), Paul Beatty con Lo schiavista (Fazi) e gli esordi sorprendenti di Emma Cline con Le ragazze (Einaudi Stile Libero) e di Harry Parker con Anatomia di un soldato (Sur). E sempre per rimanere sugli scrittori “nel mondo”, il 2016 ha consacrato definitivamente Kent Haruf con la sua Trilogia di Holt (NNEditore) e Mircea Cărtărescu con la sua trilogia Abbacinante (Voland).

Anche in Italia non siamo andati affatto male: Eraldo Affinati con L’uomo del futuro (Mondadori), Edoardo Albinati con La scuola cattolica (Rizzoli) e Vittorio Sermonti con Se avessero (Garzanti) sono stati tre degni rivali per la vittoria dello Strega 2016, assegnato poi ad Albinati. A questi si vanno ad aggiungere Franco Cordelli con Una sostanza sottile (Einaudi) e i ritorni attesi di Mario Desiati con Candore (Einaudi), di Giorgio Vasta con Absolutely Nothing (con Ramak Fazel, Quodlibet Humboldt), di Paolo Cognetti con Le otto montagne (Einaudi). Altri ritorni di spessore sono quelli di Vitaliano Trevisan con Works (Einaudi Stile Libero), di Paolo Di Paolo con Una storia quasi d’amore (Feltrinelli), di Claudia Durastanti con Cleopatra va in prigione (minimum fax), di Elena Varvello con La vita felice (Einaudi), di Tommaso Giagni con Prima di perderti (Einaudi Stile Libero) e di Fabio Bartolomei con La grazia del demolitore (Edizioni e/o). Da segnalare gli esordi di Gabriele Di Fronzo con Il grande animale (Nottetempo) e di Lorenza Pieri con Isole minori (Edizioni e/o).

Abbiamo pensato inoltre di suggerirvi un titolo di due piccole case editrici che proprio nel 2016 si sono affacciate al panorama editoriale, distinguendosi per le proprie scelte: stiamo parlando di Atlantide edizioni e Racconti edizioni. Nel 2017 avremo modo di approfondire la loro conoscenza, intanto vi consigliamo L’outsider di Colin Wilson (Atlantide) e Sono il guardiano del faro di Éric Faye (Racconti edizioni).

 

Ecco infine la nostra lista personale, da leggere in ordine assolutamente casuale:

Istanbul Istanbul di Burham Sönmez (Nottetempo)

Sylvia di Leonard Michaels (Adelphi)

Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates (Codice edizioni)

La storia dei miei denti di Valeria Luiselli (laNuovafrontiera)

Kobane Calling di Zerocalcare (Bao Publishing)