Camouflage, Ditonellapiaga, Sanremo

Ditonellapiaga Donatella Rettore arrivano sedicesime a Sanremo e la cosa suona un po’ strana. Giuria demoscopica, stampa, televoto: qual è il problema?.  Ok, non ha senso immaginare canzoni in una competizione, rientrare in certe logiche, ma Sanremo è Sanremo,  è Italia. È un grande gioco, un’enorme tombolata, è il fantacalcio e quindi è fantasanremo. Non è più una roba polverosa come poteva esserlo negli anni ’90, anzi: di fatto è ennesimo strumento con cui polarizzare, macchina da social.  Ed è ovvio che anche io in qualche modo rientro in questa logica, scrivendone così. Non se ne esce.

Tralasciando comunque che questa è stata un’edizione in cui c’era una canzone  al di sopra delle altre (nel senso che faceva parte proprio di un Altro-Sanremo che per sbaglio è stata catapultata nell’ Ama-Sanremo), “Tuo padre, mia madre, Lucia” di  Truppi, è realmente credibile che Noemi e la sua voce retorico-graffiante, Achille Lauro l’autocoverizzato, il ritornello da centro commerciale di Sangiovanni o l’eterno wannabe Ligabue Moro, siano meglio, o quantomeno, funzionino di più di “Chimica“? Pare di sì, a questo punto. Bel mistero l’intreccio di certe logiche.

Non importa comunque. Le classifiche non significano nulla. È andata, di Sanremo e della sua grande pantomima se ne riparla l’anno prossimo.  Quello che importa è che nel 2022 esce il primo album di ditonellapiaga, “Camouflage“. Un po’ già lo conoscevamo  perché diverse canzoni facevano parte del precedente Ep, Morsi. Quello che viene aggiunto riesce a dare sostanza, “Vogue” per esempio, non sembra roba buttata lì semplicemente per rimpolpare la cosa e giustificare un disco  – anche perché in un’epoca di non-dischi chissà che senso potrebbe avere.

Esce fuori un lavoro piuttosto interessante, che spazia dalla musica da club tipo quello che fa oggi Cosmo a certi rimandi da circuito MTV anni 2000, paradossalmente tra le TLC e alcuni sprazzi alla Moby; pare esserci Siria se avesse avuto un’idea più precisa su cosa fare della musica, o Giorgia se avesse deciso di sporcarsi un po’; ci sono più o meno sotterranee alcune tendenze di oggi, tra trap, post trap, reggaeton;  ci sono altre lingue e c’è il francese che rimanda al camouflage del titolo;  ci sono alcuni passi falsi, tra cui uno più evidente, “Repito” (non sembra una parodia, o che ci sia quantomeno un intento ironico, sembra una cosa inutile di per sé ); viaggi nel non-luogo della pandemia, il supermercato – chiedere anche a Coma Cose e Giorgio Poi -, in un brano, “Carrefour Express“, che chiude l’album e sembra esserne un po’ il manifesto.

La qualità più evidente che emerge da “Camouflage” è un’architettura melodica che rende l’ascolto estremamente facile, anche nei momenti che sembrano più ruvidi. I pezzi scivolano bene, senza intoppi. Forse troppo bene. È piuttosto naïf, volutamente non impegnato, coeso. Le tracce si incastrano bene tra di loro e alla fine danno la sensazione di essere state scritte per un motivo reale.

Sanremo o no, classifica o meno, è uscita un’artista interessante che può puntare più in alto. All’interno di “Camouflage” si nota un potenziale da esplorare (gancio per dire che non sia dunque quello spreco di potenziale a lei piuttosto caro), magari provando a strizzare meno l’occhio a certe universi, emancipandosi da certe logiche.

Copertina di Una di due di Sada

Fantastica menzogna o dura realtà

Vincere un premio letterario e morire allo stesso tempo: una contingenza che può essere considerata l’apoteosi di una carriera votata alle storie, di un’esistenza vissuta con i piedi per terra e la testa tra le nuvole della letteratura. È quella di Daniel Sada, lo scrittore e poeta messicano amato da autori del calibro di Roberto Bolaño, Álvaro Mutis e Juan Villoro che, grazie ad Alter Ego Edizioni, è tornato nelle librerie italiane con Una di due, dopo Quasi mai (2013) – premio Herralde de Novela nel 2008 – e Il linguaggio del gioco (2015), usciti entrambi per Del Vecchio Editore.

Al centro del romanzo ci sono Gloria e Constitución, le gemelle Gamal, così uguali da poterle distinguere solo per un neo sulla spalla, invisibile ai più. Sebbene siano identiche nell’aspetto, i caratteri delle sorelle non potrebbero essere più diversi: Gloria è silenziosa, introversa, «la più taciturna, la più osservatrice»; mentre Constitución è quella spigliata, audace, «logorroica». Ma le due non litigano, non discutono; complici in ogni cosa, all’occorrenza possono arrivare a scambiarsi i nomi: è sufficiente coprire il neo.

A quarant’anni sono ancora sole, talmente brutte che nessuno le sceglie neanche da sbronzo, e trascorrono le giornate nella loro sartoria di Ocampo, una cittadina dello stato di Cohauila, nel Messico settentrionale: rimaste orfane in seguito a un incidente dove hanno perso la vita entrambi i genitori, sono cresciute nella vicina Nadadores a casa della zia Soledad – il nome parla da sé –, una donna con un marito droghiere e undici figli, il cui unico desiderio è far sì che le nipoti riescano a sposarsi prima che sia troppo tardi: «Sposatevi, sciocche, orsù!, ma non sorridete al primo che passa; bisogna che vi atteggiate un po’, altrimenti ve ne pentirete». Il loro destino, ahinoi, le rende però restie ad accettare le proposte della zia – «Ma come sposarsi, se stavano sempre insieme!» –, e le sorelle si ritrovano di volta in volta a stracciare le lettere che questa, invano, spedisce.

Le due cambiano però idea quando ricevono un invito per la festa di matrimonio di uno dei figli di zia Soledad, Benigno. Consapevole della peculiarità delle nipoti, la zia riserva loro un’unica raccomandazione: «Vi consiglio di sistemarvi in modo diverso, non so: una potrebbe sciogliersi i capelli, mentre l’altra raccoglierli verso l’alto. Non dovrete indossare abiti uguali; e non state attaccate tutto il tempo. Datemi retta. Ci saranno tanti begli uomini e potrete accaparrarvene uno». Per un momento, le sorelle assaporano l’idea di poter essere, ciascuna, sinonimo di unicità. Ma davanti all’impotenza inesorabile di essere altro da quello che sono e all’eventualità di dover chiudere la sartoria qualora entrambe trovassero l’amore, decidono di comune accordo che solo una andrà alla festa: «Testa o croce? Vinse Constitución, e la povera Gloria: che tremendo castigo per lei! Le toccava lavorare il doppio».

E galeotto fu l’invito: il giorno del matrimonio entra in scena Oscar Segura, lo spasimante di Constitución. Per superare le gelosie di Gloria, l’altra presto acconsente a dividersi il damerino e a frequentarlo a giorni alterni come se invece di due fossero una, distorcendo in riflessi falsi un’unica realtà. In questo modo, Sada costruisce a poco a poco un labirintico schema di fraintendimenti e atmosfere surreali, con l’aggiunta di un pizzico di superstizione tutta messicana: secondo Consitución, la loro somiglianza è da imputare al demonio, che le avrebbe maledette per non aver reclamato i corpi dei genitori, sepolti in una fossa comune vicino al luogo dell’incidente. Siamo però lontani dal realismo magico cui molti altri narratori latinoamericani contemporanei si sono e si sarebbero rifatti; la critica ha parlato, piuttosto, di un realismo farsesco, poiché l’assurdo è dato sì da eventi o personaggi grotteschi, ma non per questo fantastici. La conquista dell’uomo non fa, infatti, che portare alle estreme conseguenze il rapporto morboso tra Gloria e Constitución, fino all’inevitabile: Oscar chiede alla sua amata – quale? – di sposarlo.

Con una scrittura barocca ma allo stesso tempo diretta, comica e irriverente, Sada trascina il lettore in una commedia degli equivoci fatta di maschere e gelosie, dualità e tensioni tra opposti, a cui partecipano personaggi che evocano quelli di autori latinoamericani già cari al pubblico italiano – prime fra tutti le sorelle Garmendia di Stella distante di Roberto Bolaño. Il risultato è un romanzo d’amore sui generis, dove il tradizionale spazio della coppia raggiunge una dimensione più ampia, totale, lasciando emergere ogni minima contraddizione dei legami affettivi. Ed è lo stesso Sada a darne una sottile anticipazione, citando in esergo una poesia di Alberto Caeiro, uno degli eteronimi dell’autore multiplo per eccellenza, Fernando Pessoa: «Perché chi ama / non sa mai ciò che ama / né sa perché ama / né cos’è amare».

Uno stile personalissimo, insomma, fatto di rapide immagini costruite attraverso l’uso smodato ma coerente dei due punti che, se da una parte spezzano – ad arte – la sintassi, dall’altra sono l’emblema stesso della dualità. Sada gioca con la lingua – e l’italiano di Carlo Alberto Montalto gli dà pieno risalto – piegandola al conflitto e valorizzando con precisione chirurgica le sfumature più recondite di due complesse personalità:

«Magari pesavano pure una sessantina di chili entrambe – spostiamoci nel presente –: se viste da lontano: chi è chi? L’una è l’altra, e l’altra talvolta lo nega, ovviamente in segreto, perché è davvero un gran bel grattacapo avere un sosia […]. Si stufano mai?… Può darsi, se si stufassero però le loro anime sarebbero nulle. Il fatto è che: l’unica cosa importante della loro vita consiste proprio nel somigliarsi, un doppio senso che forse è uno soltanto».

Un grande autore del nostro tempo, dalla lingua e dalla prosa inconfondibili tanto quanto la somiglianza delle sue eccentriche protagoniste. Fatevi questo regalo, leggete Sada.

 

(Daniel Sada, Una di due, trad. di Carlo Alberto Montalto, Alter Ego Edizioni, 2021, 116 pp., euro 14, articolo di Giulia Di Filippo)
immagine per articolo Frisch-Sinisgalli-Gadda

L’aspirazione ordinatrice in Frisch, Sinisgalli e Gadda

L’universo appare come un caos informe, di cui si disconoscono cause e fini. È dunque quasi un istinto quello di ordinare l’informità dell’esistenza, ovvero cercare di trovare un ordine o, addirittura, la formula finale in cui tutto è contenuto e risolto. Ciò che accomuna scienza, religione e pseudoscienze, infatti, è il tentativo di trovare uno schema nel caos della realtà, scorgere il prevedibile nell’ignoto, trarre un filo dallo gnommero dell’esistenza con cui intessere una trama di senso. Gli strumenti utilizzati dall’umanità nel corso dei secoli sono svariati: dall’astrologia che cerca risposte tra gli astri e i movimenti planetari, alla fisica costantemente alla ricerca della teoria del tutto o, ancora, la geometria che tenta di contenere entro le linee severe delle sue figure la materia concreta della natura, così come l’essenza immateriale della vita.

Gli scrittori Max Frisch, Leonardo Sinisgalli e Carlo Emilio Gadda, accanto all’attività letteraria, hanno dedicato parte della loro vita a un’altra professione: architetto il primo, ingegneri gli altri due. Ciò che si scorge nell’opera di tutti e tre gli scrittori – elemento che li accomuna – è il tentativo, tramite l’atto creativo della scrittura, di ordinare la realtà, applicando gli strumenti della loro professione scientifica, per tentare di decodificare e risolvere il garbuglio dell’esistenza.

 

Il tentativo (impossibile) di dominare la vita con la tecnica

Il protagonista del romanzo Homo Faber (Feltrinelli, 1959) di Max Frisch è Walter Faber (il cognome non è casuale), un ingegnere meccanico, dalla visione razionale del mondo («Non credo al destino o alla Provvidenza. Sono un tecnico e perciò abituato a calcolare le probabilità. […] Per accettare l’improbabile come fatto d’esperienza non ho bisogno della mistica; mi basta la matematica») il cui eccesso di logica – paradossalmente – fa maturare in lui una fede irrazionale per la tecnica. Egli è fermamente convinto che la tecnica possa discernere la realtà e dominare la natura. Il narratore Faber afferma che «la macchina non ha emozioni, non ha paure o speranze, che non fanno altro che disturbare, nessun desiderio riguardo al risultato, lavora secondo la logica pura della probabilità, perciò affermo: il robot riconosce la realtà meglio dell’uomo».

Riducendolo a un mero sistema probabilistico e di causa-effetto, Faber non riesce a comprendere il mondo, che pure egli crede, erroneamente, di poter conoscere. Come gli si fa notare, «la vita non è materia, non può essere dominata con la tecnica» e se ne renderà conto quando rimarrà lui stesso vittima del caso e di quello stesso destino che, sin dal proprio nome – homo faber fortunae suae –, rifiutando la sua esistenza, credeva di poter governare.

Faber potrà pure essere artigiano della tecnica, ma non della vita. In quest’ultima, in particolare, entra in gioco un elemento che Faber nella sua visione non ha considerato perché non appartenente all’universo tecnico, ovvero la morte: «Il mio errore: che noi tecnici cerchiamo di vivere senza la morte». L’errore di calcolo nella visione di Faber è stato, appunto, non tenere in conto la morte e, di conseguenza, l’ignoto, l’irrazionale e la transitorietà della vita, confermando così, ancora una volta, di quest’ultima l’essenza sfuggente ed eversiva, che non si lascia schematizzare tanto meno ordinare.

 

Il «residuo incalcolabile» dalla logica umana

Nell’opera letteraria di Leonardo Sinisgalli si nota chiaramente l’influenza dei suoi studi di ingegneria: il tentativo di comprendere la realtà con gli strumenti propri delle scienze matematiche dà vita a connessioni di pensiero inedite e ricche visioni.

In un brano presente in Pneumatica (Edizioni 10/17, 2003) l’autore racconta di come prova riverenza e meraviglia di fronte al processo produttivo della fabbrica, che viene metaforicamente paragonato all’atto creativo della natura: «Si parte dalla confusione e si arriva all’ordine. Si parte dal bruco e si arriva alla farfalla».

Eppure, Sinisgalli, in Furor Mathematicus (Urbinati, 1944; Mondadori, 2019), – e diversamente dal narratore dell’opera di Frisch – sembra lasciare spazio alla consapevolezza che pure esistono l’irrazionale e l’ignoto: la sua non è una fiducia assoluta nella tecnica quale mezzo per comprendere la realtà. Traspare l’idea che esista un mondo invisibile, imperscrutabile, che sfugge alle nostre categorizzazioni e non si lascia indagare dagli strumenti della logica: «Ma è ormai pericoloso fissare dei metodi o imporre delle categorie. L’analisi filologica, o storica, o stilistica non basta, come non basta a spiegarci il mistero di un bel verso. C’è un residuo delle nostre misure incalcolabile». Di questo regno imperscrutabile fanno parte, oltre all’essenza della vita stessa, i sogni, onnipresenti nell’opera di Sinisgalli: «Noi fatichiamo a stringerlo nelle categorie che la logica ci ha suggerito per incatenare la materia: ma il sogno scappa via da ogni parte, ci sfugge, trabocca, ci confonde». Il sogno, analogamente a un fluido, è una sostanza invertebrata, priva dei sostegni del senso, e inafferrabile, sia concretamente con le mani sia astrattamente con il pensiero logico umano. Contenere la vita, con la sua inafferrabilità e la sua insondabilità, entro i confini della logica non sembra appannaggio dell’essere umano.

Infine, ricordando un gioco che si faceva da ragazzi con un cerchio di spago con il quale si creavano delle figure chiuse, Sinisgalli metaforicamente vede in esso il modo in cui noi analogamente tendiamo un filo con il quale cerchiamo di collegare gli eventi della vita, per dare loro una trama di senso, e afferma che questo gioco dei fili rivela «un’ansia incontenibile nel cuore dell’uomo: conoscere se veramente una Mano oppure il Caso tiene i capi di questo esile filo della nostra esistenza».

 

 

 

Il «pasticciaccio» del mondo

Proprio districare lo gnommero del reale per trovare il filo che collega totalmente il complesso sistema di cause ed effetti è quello che si prefigge di fare Carlo Emilio Gadda e, per farlo, si serve della scrittura. La scrittura per Gadda diviene lo strumento per indagare e risolvere la realtà.

Ed ecco che quella del dottor Ingravallo in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (Garzanti, 1957; Adelphi, 2018) non è semplicemente l’indagine poliziesca di un crimine, ma anche un tentativo conoscitivo della realtà. «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo».

Sul piano letterario questa indagine avviene tramite un’accurata riproduzione mimetica del mondo: la scrittura di Gadda si serve e si arricchisce di neologismi, mescolanze dialettali, onomatopee. Scrivendo, l’autore/narratore cerca di ordinare il caos informe della realtà, collegando le varie vicende in rapporto di cause e concause fino a risalire alla «causale principe». È un’indagine che però fallisce e non viene portata a termine, sia sul piano filosofico che artistico. L’incompiutezza dell’opera in Gadda non è intenzionale, ma assomiglia piuttosto a una resa di fronte al complesso pasticcio del mondo e dunque all’incapacità, o forse addirittura all’impossibilità, di trovare un ordine nel mondo. L’opera – complessa, divagante, frammentaria – diventa così specchio di quel medesimo complesso garbuglio del reale, che almeno negli intenti, in principio voleva ordinare: si potrebbe osare ad affermare che forse l’opera gaddiana è riuscita almeno nella realizzazione mimetica di questa informità del reale.

Ma perché si cerca ostinatamente e ossessivamente un ordine nel caos? Non è certamente una ricerca fine a sé stessa. Ricercando un ordine, si cerca anche un senso e questi devono rispondere a quell’innata tensione verso la perfezione e la verità. «Il mondo delle cosiddette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce». Verità può essere forse pretesa della favola, di certa letteratura e arte. Per Gadda, invece, il quale concepisce la letteratura quale «indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità», se, tramite la scrittura, non riesce a ordinare l’informità dell’esistenza, districare il groviglio della realtà e ivi a trovare la verità, abbandona ogni aspirazione all’ordine e il «pasticciaccio» del mondo è destinato a rimanere tale. E tale è tuttora.

Copertina di La promessa di Galgut

«Il tempo è un fiume che lava via il mondo»

In una sua conferenza del 1987 a Città del Capo dal titolo The Novel Today, pubblicata l’estate dell’anno successivo nel sesto numero del periodico Upstream, il Premio Nobel per la Letteratura J.M. Coetzee affrontò il tema del rapporto fra il romanzo e la storia dichiarando quanto segue:

«In un’epoca di intensa pressione ideologica come il presente, quando lo spazio in cui il romanzo e la storia normalmente coesistono come due mucche nello stesso pascolo, ognuno per conto proprio, è ridotto a nulla, il romanzo, secondo me, ha solo due possibilità: fare da comprimario o da rivale».*

Secondo l’autore sudafricano, il romanzo non deve sottostare alle categorie ideologiche della storia, ma nemmeno contrapporsi a essa per poi falsificarla. Essendo la storia e le sue categorie, prosegue Coetzee, «un certo tipo di struttura posta sulla realtà» in cui prevale sempre il punto di vista del vincitore, il romanzo deve semplicemente fornire gli strumenti per permettere di avere uno sguardo autonomo e indipendente sugli avvenimenti storici che osserva, presentando una moltitudine di sguardi e di categorie.

Questa premessa è importante per comprendere al meglio la natura della letteratura sudafricana. Fra i tanti autori sudafricani che attraverso i propri romanzi intessono un dialogo con la storia del proprio paese vi è Damon Galgut, originario di Pretoria e vincitore dell’ultima edizione del Booker Prize con La promessa (Edizioni e/o, 2021) – è il terzo scrittore sudafricano a riuscirsi, dopo Coetzee e Nadine Gordimer. I giudici del premio hanno definito il romanzo di Galgut «una testimonianza potente e inequivocabile della storia del Sudafrica e dell’umanità stessa che può essere riassumibile nella domanda: esiste una vera giustizia in questo mondo?»

La promessa narra quasi quarant’anni di storia sudafricana attraverso il declino degli Swart, una famiglia di ricchi proprietari terrieri afrikaner originari di Pretoria, composta dai genitori Rachel e Manie e dai figli Anton, Astrid e Amor. La storia dei protagonisti ruota attorno a una promessa che Rachel fa a Salome, la governante africana, in punto di morte: donarle casa Lombard, l’abitazione accanto alla fattoria degli Swart dove la donna e suo figlio Lukas hanno avuto il permesso di restare in quanto lavoratori della proprietà, più il terreno attorno a essa. Questa promessa, però, è da intendersi anche in senso più ampio, poiché riferita alla promessa di pace e democrazia mai del tutto realizzata da parte di un’intera generazione di sudafricani, quella del postapartheid, che non si rivelerà tanto diversa da quella violenta, compromessa e corrotta del precedente regime segregazionista.

Il romanzo di Galgut procede di pari passo con la storia del Sudafrica e copre un arco temporale che va dal 1986 fino al 2018. È suddiviso in quattro parti, ciascuna scandita dalla morte di uno dei membri della famiglia Swart. Fra una parte e l’altra si passano in rassegna diversi avvenimenti storici che hanno attraversato il Paese arcobaleno: lo stato di emergenza dichiarato nel 1986 da P.W. Botha per contrastare i movimenti di rivolta delle township guidati dall’African National Congress e dal Pan-African Congress; Nelson Mandela e il primo governo democratico del postapartheid, con riferimento alla storica partita della finale della Coppa del mondo di rugby fra gli All Blacks neozelandesi e gli Springboks sudafricani; Thabo Mbeki e l’epidemia di HIV, verso cui l’allora presidente del Sudafrica tenne un atteggiamento negazionista; le dimissioni di Jacob Zuma, primo presidente di etnia zulu, a seguito di accuse di corruzione, fra cui lo scandalo Gupta, nota famiglia di imprenditori indiani residenti in Sudafrica accusati di influenzare le scelte del governo.

Damon Galgut osserva la Storia con sguardo distaccato e autonomo, assumendo un atteggiamento ironico verso ciò che racconta e adottando una narrazione che passa dalla prima alla seconda e alla terza persona, in uno stile di scrittura molto complesso di deriva modernista. Per questo motivo Galgut è stato accostato a scrittori come Virginia Woolf, James Joyce e William Faulkner. È proprio verso quest’ultimo che l’autore di Pretoria nutre un grande debito. Leggendo La promessa, infatti, non può non saltare all’occhio una somiglianza strutturale e tematica con L’urlo e il furore. Come Faulkner raccontava il decadimento della famiglia Compson per narrare quello del Sud degli Stati Uniti con una prosa pregna di monologhi interiori, così l’autore sudafricano raffigura, attraverso la storia della famiglia Swart, il disfacimento della vecchia società bianca sudafricana, e al contempo l’occasione persa dal paese nell’attuare un cambiamento autentico:

«Perché non c’è niente di insolito o straordinario nella famiglia Swart, eh no, assomigliano alla famiglia della fattoria accanto e di quella ancora dopo, sono solo un normale gruppo di sudafricani bianchi, e se non ci credi allora sentici parlare. Le nostre voci non sono diverse dalle altre, hanno lo stesso suono e raccontano le stesse storie, con un accento che sembra calpestato, tutte le consonanti decapitate e le vocali bruciate. C’è qualcosa di arrugginito, macchiato di pioggia e ammaccato nell’anima, e traspare dalla voce».

Non è un caso, dunque, che Galgut incentri tutto il discorso sulla proprietà della famiglia Swart. Raccontare il disfacimento di una famiglia e allo stesso tempo l’evoluzione sociale di un paese attraverso il decadimento della proprietà è un espediente che già Thomas Mann aveva usato nel suo romanzo I Buddenbrook. Se il Premio Nobel tedesco voleva ritrarre il fallimento della vecchia borghesia mercantile di Lubecca, Galgut vuole raffigurare quello degli afrikaner, presentando fin da subito il loro simbolo, ovvero la terra, in termini di inutilità:

«Eppure, pensa tannie Marina, è nostra. Non guardare la casa, pensa alla terra. Un terreno inutile, pieno di sassi, non ci puoi fare niente. Ma appartiene alla nostra famiglia, a nessun altro, ed è una cosa che dà potere».

La fattoria degli Swart situata nel veld rappresenta il vecchio dominio degli antenati dei voortrekker, pionieri di origine prevalentemente olandese e belga – quelli che fino all’arrivo degli inglesi saranno conosciuti come boeri – che presero possesso delle terre in quelle che oggi sono le province di Free State, Transvaal e Gauteng. La fattoria, che ci viene mostrata nella sua graduale rovina, rappresenta l’evoluzione storica del Sudafrica, che da paese razzista, segregazionista e corrotto si avvia verso la democrazia.

Come però gli Swart trovano difficile adempiere alla promessa di donare casa Lombard a Salome, anche il Paese arcobaleno non riesce a mantenere la promessa di un vero e proprio cambiamento pacifico prospettatosi con la fine dell’apartheid. Un esempio di ciò è la delusione di Desirée, la moglie di Anton, nei confronti del paese:

«A volte è il Sudafrica a deluderla. Chi avrebbe potuto prevedere che suo padre, che tutti rispettavano e temevano, sarebbe dovuto comparire davanti alla Commissione per la verità e la riconciliazione e ammettere di avere fatto quelle cose orribili ma necessarie? Il problema di questo paese, secondo lei, è che alcune persone non riescono proprio a liberarsi del passato».

La promessa fatta dalla famiglia Swart a Salome è lunga trent’anni, e si riduce a «tre stanze incasinate con il tetto rotto» – il problema della restituzione delle terre alla popolazione africana, d’altronde, resta ancora un’ingiustizia irrisolta; la promessa di riconciliazione fra la popolazione afrikaner e quella nera del Sudafrica, invece, si rivela essere «una di quelle fusioni strane e semplici che tengono insieme questo paese. A volte solo a stento», con cui si cerca di rimediare ai torti della Storia senza mai riuscirci veramente. Del resto, come afferma il narratore, «aspettare, resistere, una vecchia soluzione sudafricana»: resistere alla violenza aspettando la pace e il cambiamento per tornare, però, al punto di partenza. Tuttavia, Galgut crede nell’idea che «il tempo è un fiume che lava via il mondo», che «altri rami riempiranno lo spazio. Altre storie si scriveranno sulle tue, cancellando ogni parola»: sperando che, quando sarà il momento, qualcuno realizzi queste promesse.

 

* La traduzione del testo di J.M. Coetzee è a cura di Alberto Paolo Palumbo.

 

(Damon Galgut, La promessa, trad. di Tiziana Lo Porto, Edizioni e/o, 288 pp., euro 18,  articolo di Alberto Paolo Palumbo)

Accade di Francesco Bianconi

Francesco Bianconi dice che bisognerebbe trovare un’altra parola per descrivere quella cosa che chiamiamo cantautori. Forse ha ragione. È una parola impegnativa, che si porta porta appresso troppi significati, troppe implicazioni, troppi simboli. Politici ed estetici. Descrizione di un altro mondo. La musica è cambiata, con lei il mercato. Il mercato ha influenzato palesemente la proposta musicale e il cantautore che si contrapponeva alla musica leggera era antropologicamente altro. Ma se vogliamo ancora usare questa parola per qualcuno, oggi, non possiamo che farlo per lui, che il 28 gennaio ha fatto uscire un album di cover dal nome Accade.

Diamo per buono allora il fatto di poter usare la parola cantautore e diciamo Francesco Bianconi è un cantautore, quantomeno la cosa che gli si avvicina di più, secondo appunto i vecchi stilemi. Non semplicemente perché dagli esordi dandy alla Jarvis Cocker dei Pulp si è passati a un immagine più cupa ed introspettiva, quasi da cliché, con quella voce alla De Andrè: Bianconi è autore di livello altissimo, grande interprete delle sue canzoni, delle sue parole.  Cantautore dentro una band in un’epoca in cui, appunto, il cantautore non esiste più, che nella sua dimensione solista sta trovando una caratura complementare a quanto fatto in passato.

Dopo lo splendido Forever, quindi, il leader dei Baustelle incide un album in cui si spazia da Ornella Vanoni ai Diaframma, da Claudio Lolli a Baby K, fino a Guccini. E oltre a questi, ci sono brani che ha scritto per Paola Turci e Irene Grandi e che con Accade ha rifatto suoi.

Il taglio poetico resta in scia del suo predecessore: album da camera, pianoforte e archi, assenza della batteria, che sia elettronica o acustica, vuoto ritmico che è una precisa scelta stilistica, voce in iper evidenza.

Bianconi si manifesta come ottimo interprete di parole di altri e non  più solo sue, capace di regalare una una propria visione di mondo, con un  tocco oramai riconoscibile. Momento più evidente è la terza traccia: se per Claudio Lolli (“Michel“, dove duetta con Lucio Corsi) e Francesco Guccini (“Ti ricordi quei giorni“), fino alla rilettura di “L’odore delle rose” dei Diaframma il salto non è impensabile, ma naturale, il lavoro di rielaborazione di “La Playa” di Baby K (presente in questa versione) è eccezionale.

Non tiriamo in ballo analogie del tipo Vittorio Gassman che legge gli ingredienti dei Frollini o le analisi cliniche: concentrandoci sul fatto che Bianconi sia riuscito a captare che all’interno di un brano da hit estiva ci fosse qualcosa che fosse riconoscibile nella sua grammatica, facendone in tutto e per tutto un pezzo alla Bianconi, facendone un pezzo di spessore, abbiamo la dimensione di ciò con cui abbiamo a che fare.

Ci sono poi i momenti riappropriazione dei brani dati a Paola Turci  e di Irene Grandi: se  “Io sono” e “Bruci la città” sono due belle canzoni che vivono di propria luce nelle versioni delle loro due interpreti, arrangiate oggi in linea con l’estetica alla Bianconi, è con “La cometa di Halley” che le cose sono diverse. Si capiva dodici anni fa, si capiva durante la performance di Sanremo, che fosse una canzone che avesse intrinsecamente in sé qualcosa di speciale. Una pazzia artistica (sicuramente non economica, anzi) immaginare che qualcosa di simile,  di questa profondità e di questa portata emotiva sia stata data ad altri.

Nonostante fosse interessante e straniante l’elettropop proposto dalla cantante toscana in un contesto come quello di Sanremo (ancora di più Sanremo di dodici anni fa), la vera “Cometa di Halley” è quella che esce da quest’album.  Clamorosa e struggente. Uno dei suoi migliori brani di sempre – ed è forse un peccato non averlo visto in qualche album dei Baustelle.

Bianconi è senza dubbio tra le cose migliori che la musica italiana ha tirato fuori negli ultimi vent’anni. Ogni sua produzione merita attenzione. Merita riflessione. In un momento come questo, poi, in cui le cose si piegano sempre più facilmente verso un’omologazione deprimente, l’ascolto delle sue canzoni ha anche la forma della resistenza.

In questo aprile uscirà, poi, un Ep insieme a Clio per il mercato francese, fatto di inediti e cover. Il cielo parla davvero lingue straniere, allora. Vediamo cosa succederà, come si svilupperà il discorso. Chi sarà Francesco Bianconi, un cantautore o un alternativo. O altro.

Copertina di Bravissima di Moretti

L’arte di essere bravissimi

Ricerca della perfezione, sacrificio costante, competitività esasperata. Nel manuale del buon atleta – laddove l’aggettivo si riferisce esclusivamente al grado di eccellenza e al numero di vittorie all’attivo – perseveranza e una buona dose di ossessività imperano e vengono accettate come parte del processo, un passaggio ineluttabile per essere i migliori.

Nulla di diverso sembrerebbe esserci in Bravissima (66thand2nd, 2021), romanzo d’esordio di Paola Moretti (vincitrice del contest per l’antologia di racconti sportivi Per rabbia o per amore, a cura di effe – Periodico di Altre Narratività e 66thand2nd). Antonella, con suo marito Claudio e la loro figlia di nove anni Teodora (detta Teo), si trasferisce da Milano in una cittadina costiera del centro Italia per ragioni lavorative. Un grande cambiamento che ridisegna gli equilibri familiari e, in quanto tale, necessita di una fase di rodaggio, di inserimento nel nuovo contesto.

Guidata dal tentativo di facilitare la vita a una preadolescente calata in un’altra città e superare l’inserimento senza grossi drammi, Antonella decide di supportare il desiderio espresso da Teo di iniziare ginnastica ritmica: potrebbe rivelarsi l’occasione per socializzare con le altre bambine, per sentirsi parte di un gruppo e non l’ultima arrivata.

Ci sono tutti i presupposti per la costruzione di un nuovo assetto: una “scalata” lavorativa per Claudio, un nuovo impiego per Antonella, una nuova passione per Teo. Ma la narrazione sportiva trova qui nuove forme e prospettive: Moretti rovescia il cliché che vuole genitori apprensivi e sempre presenti, madri e padri instancabili coach e tifosi scatenati dei propri figli.

Nata come hobby, la ginnastica si trasforma presto in un’attività totalizzante per la bambina, che sopperisce all’irrisolutezza tipica della sua età con un’estenuante ricerca della perfezione per diventare bravissima, appunto. Antonella assiste a tratti incredula alla mutazione in atto, alle privazioni cui Teo si sottopone autonomamente, agli allenamenti sempre più frequenti, alle nuove geometrie degli spazi di sua figlia. E a una nuova geometria deve adeguarsi lei stessa.

Deve ridiscutere il suo ruolo di madre e imparare a muoversi su un campo minato da cui non può scappare. Ma cosa fare? Assecondare quello che tra qualche anno sarà solo il ricordo di un’esperienza sportiva, o intervenire prima che la ginnastica non lasci più spazio per l’infanzia, compromettendo in maniera definitiva il suo futuro?

«Era il mio turno di andarle a prendere, ma la lezione proseguì un po’ oltre l’orario stabilito. Continuava a stupirmi vedere la fluidità dei movimenti, la grazia dei passaggi, la leggerezza nei salti, l’impressione di facilità che riuscivano a trasmettere nonostante fossi perfettamente a conoscenza di tutta la fatica, del dolore fisico e delle rinunce che c’erano dietro, e mi domandavo cosa fosse rimasto di infantile in queste bambine».

Ma Moretti non vuole e non può esaurire il ruolo di Antonella a quello di madre. Pur raccontandone i dubbi, le perplessità, gli errori in riferimento a Teo, è in grado di restituirle ulteriore spessore: sebbene la si trovi rare volte da sola o in relazione ad altri oltre a sua figlia, si tratta di un personaggio compiuto, sul quale il lettore sosterebbe volentieri anche oltre l’ultima pagina. I silenzi al telefono con sua madre, che compare saltuariamente e che è capace di avvicinarsi a Teo senza turbarla, la maturità professionale che può sfoggiare senza essere giudicata, i momenti di solitudine che riesce a ritagliarsi nonostante tutto, sono elementi che ricorrono nel romanzo come graduali fasi di affermazione dell’io.

Bravissima è il racconto di un legame accidentato che deve fare i conti con l’imprevedibile che entra nelle mura domestiche, che deve comprendere forme di fragilità non previste.

 

(Paola Moretti, Bravissima, 66thand2nd, 2021, 224 pp., euro 16, articolo di Giovanna Nappi)

 

Poster America Latina

Latina, Louisiana

La scena madre di America Latina, terzo lungometraggio dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, presentato in concorso alla 78a Mostra del Cinema di Venezia, è un crescendo rosso di pianoforte e paranoia che si conclude in una spirale di parossismo metaforica e non, con tanto di camera a spalla ribaltata. Il dialogo alla scena successiva, la quiete dopo la tempesta, è una delle possibili chiavi di lettura del film e ha come oggetto la violenza, o meglio, per gli spettatori, il discorso sulla violenza. È necessaria una vita votata alla prevaricazione 24 ore su 24 per definire una persona violenta? È possibile fare i conti con eventi irreversibili e intraprendere un percorso di presa di coscienza? Le parole escono delicate dalle bocche dei personaggi, ma le riflessioni penetrano a fondo.

Protagonista di queste scene, come d’altronde di sostanzialmente tutti i 90 minuti di runtime, è Elio Germano, già al lavoro con i fratelli D’Innocenzo in Favolacce. Germano è Massimo Sisti, dentista affermato e titolare di un suo studio che vive in una villa fuori Latina con la moglie (interpretata da Astrid Casali) e le figlie (Carlotta Gamba e Federica Pala). La sinossi ufficiale lo descrive “professionale, gentile, pacato”. C’è una volontà evidente di dare risalto a queste caratteristiche, proprie di un sentire maschile più contemporaneo, e di marcare la differenza con il personaggio interpretato da Germano nel secondo film dei D’Innocenzo, un altro padre di famiglia che però non si faceva troppi problemi a lasciar tracimare la propria ferinità, seppur in un contesto più corale rispetto all’intimità di America Latina. Dissentiamo dall’impostazione. È di fatto presentato come un piagnone, ma Massimo Sisti è una persona normale (e scusate il termine): ama le persone con cui ha deciso di condividere la vita, si sforza di rispettare il prossimo, ha interazioni sincere con gli amici (se ne vede solo uno in realtà, interpretato da Maurizio Lastrico: un genovese che vende auto usate nell’Agro Pontino? Strano, ma è perfetto), soffre per un rapporto complicato con il padre.

A un certo punto scorre l’elenco di chiamate sul cellulare per cercare di ricostruire le sue ultime giornate. Sul display leggiamo 2021 e abbiamo un piccolo sussulto. Questa è la realtà oggi, non quella degli anni ’70 dei colori degli arredamenti, dell’architettura banalmente eccentrica della villetta, dei bar prefabbricati in mezzo alla campagna, della grana ruvida dei titoli di testa che scorrono in orizzontale quando ancora siamo ignari di quello che accade sotto la superficie.

La nuca rasata di Germano sulla locandina ufficiale del film che si rompe come un guscio d’uovo sotto la pressione sociale e psicologica dell’essere maschi oggi ci lascia intravedere un abisso nero. Prendiamola come un’utile provocazione. Il film si impegna a ricordarci che la realtà è ancora questa. Pensiamo di essere emancipati, di avere tutto sotto controllo, ma ci sono ancora migliaia, milioni di Massimo Sisti che non sono certi di ricordare quello che hanno fatto dopo la birretta del martedì, che nonostante una vita invidiabile hanno bisogno degli psicofarmaci per starci dentro. L’insicurezza tossica che prospera all’interno di Massimo Sisti è una versione di quella che corrode gli involucri di tanti di noi.

I registi hanno uno sguardo raffinato, studiano ogni inquadratura e giocano con l’estetica. Se serve ci depistano, ci ingannano, ma soprattutto ci ricordano che per loro la forma film è un’espressione prettamente artistica, il cui messaggio è essa stessa (e se siamo interessati lo assorbiamo più per osmosi che per maieutica) e non è custodito nella linea narrativa, in questo caso fin troppo scarna e povera di guizzi creativi.

Che poi stiamo facendo i conti senza considerare l’elefante nella stanza, l’Evento Irreversibile #1, subito dopo pochi minuti, nascosto nel più classico dei basement da film horror americano, una cantina che si sporca al posto della casa, mondata invece in continuazione da un limpido sole primaverile. Ciò che è racchiuso lì sotto squarcia la routine del protagonista e lo scaraventa giù per un piano inclinatissimo, dal quale non fa nulla per tentare di risalire. La mancante presa di coscienza. Qui America Latina mette alla prova il pubblico: lo inchioda alla poltrona e lo costringe a vivere l’inquietudine crescente di Massimo Sisti; a empatizzare con un’angoscia che va ben oltre la tensione cinematografica per diventare malessere diffuso; a seguirlo in macchina per le lande spoglie e nei parcheggi della Louisiana, o della Florida, con tappa occasionale al liquor store.

Le atmosfere sono spesso eteree, il pianoforte sottolinea i passaggi più onirici. Altre volte ci ritroviamo alle porte dell’inferno; o dentro il videoclip di Karma Police. Rarefatti sono anche i dialoghi, precisi ma ridotti all’osso. Le musiche originali strumentali dei Verdena descrivono ambienti in cui è rimasto poco spazio per la collettività.

Un tempo qui l’impero aveva portato il cuore della sua propaganda, ma ora il centro è lontano. La periferia si svuota, si stacca e va alla deriva. E intanto sotto, anche se non lo vediamo, anche se chiudiamo la porta della cantina a chiave, l’acquitrino piano piano risale.

(America Latina, di Damiano e Fabio D’Innocenzo, drammatico/thriller, 2021, 90’)

Copertina di Come finirà il capitalismo di Streeck

Dalla crisi economica all’entropia sociale

Finalmente in italiano, Come finirà il capitalismo? (Meltemi, 2021) raccoglie in volume alcuni saggi di Wolfgang Streeck, sociologo ed economista tedesco, erede della Scuola di Francoforte e direttore del Max Planck Institut di Colonia, ma anche uno dei più autorevoli critici del neoliberismo, soprattutto nella sua versione europea. Non una monografia sistematica, ma un insieme di riflessioni autonome che ruotano tutte intorno allo stesso tema: l’attuale crisi del sistema capitalista, le sue origini e il suo decorso.

C’è ancora qualcosa da dire su un modello economico che sembra sempre più malato e al tempo stesso incomprensibile? Molto, a quanto pare. Il libro di Streeck affronta con originalità i problemi più scottanti dell’economia contemporanea: il rapporto (sempre più contraddittorio) tra capitalismo e democrazia, le ragioni economiche della fine dei Trenta gloriosi (gli anni 1945-1975, caratterizzati da crescita e forti politiche sociali), le croniche difficoltà dell’euro. E ancora: la funzione politica della moneta, gli strumenti sociologici per indagare l’economia, l’intreccio perverso tra consumo, cultura e società.

Grazie a una prosa cristallina, Streeck trova un equilibrio perfetto tra conio scientifico del ragionamento e accessibilità del linguaggio, senza rinunciare a note, grafici, tabelle, date ed excursus accademici. Molti degli articoli, d’altronde, sono stati pubblicati su riviste universitarie di grande prestigio, ma l’autore rifiuta la scrittura attorcigliata di molti colleghi, una linearità che garantisce la fruizione del volume anche ai meno esperti di economia e politica. Come finirà il capitalismo? è un libro che si presta a formare militanti (e perché no, quadri di partito) al passo con i tempi, in particolare per chi desidera capire meglio il presente e andare oltre il marxismo liturgico e confuso della sinistra superstite.

L’analisi di Streeck parte dal presupposto che il capitalismo sia fondamentalmente un sistema instabile. Tutto il contrario della vulgata contemporanea, che lo vede tendere invece verso un fantomatico equilibrio di lungo periodo (ma «nel lungo periodo saremo tutti morti», sappiamo da Keynes). Evidente l’ispirazione di Karl Marx, che l’autore conferma senza timore. «Scartare l’eredità marxiana» scrive quasi in coda al volume «potrebbe tagliarci fuori da importanti fonti di ispirazione» (ma anche dalla comprensione della storia economica). E non si può ignorare l’eco marxista nell’analisi di classe, nell’élite economica vista come «la più rivoluzionaria delle classi», nel concetto ricorrente di mercificazione.

Ma sarebbe limitante e forse ingeneroso derubricare Streeck a marxista eterodosso. Il suo pensiero si sviluppa in orizzonti ampi, nei quali hanno un ruolo decisivo la bussola triangolare delle analisi di Karl Polanyi, cioè le merci fittizie (denaro, natura, lavoro), la ricostruzione storica del pensiero ordoliberale (e in particolare la transizione da Schmitt, a Heller, a von Hayek), il peso politico e scientifico ancora attuale di John Maynard Keynes e di Max Weber. Ne emerge un quadro ricco e solido che tocca con mano la complessità dei problemi, e scopre nuove chiavi di lettura per i tempi moderni.

Chi conosce Marx sa già bene che il capitalismo è instabile; leggendo Streeck emerge anche la sua profonda vocazione all’autodistruzione. Ma il sistema non corre verso il baratro, solo verso il buio: non dobbiamo attenderci un collasso definitivo, al quale seguirà la nascita di un ordine nuovo e giusto: «nessun nuovo equilibrio di sistema […] ma un lungo periodo di entropia sociale o disordine». Uno scenario inquietante, ma connaturato alla tensione permanente tra capitalismo e democrazia. Il tema è ricorrente e recupera l’idea (polanyiana) secondo la quale il sistema capitalista erode le basi sociali del vivere civile, e la democrazia svolge una funzione di salvaguardia della società, e insieme anche della stessa economia capitalista. Un concetto – salvare il capitalismo da se stesso – che ormai accomuna molti autori, da Colin Crouch a Luigi Zingales, a Robert Reich. Contro il salvataggio, però, cospira lo stesso salvato: il capitalismo negli ultimi trent’anni approfitta di una strutturale debolezza della classe lavoratrice e di tutti i suoi strumenti di lotta. Lo spostamento di potere politico dallo Stato-nazione alle organizzazioni sovranazionali non facilita l’inversione di tendenza, e semmai esaspera il processo.

A questo proposito è illuminante la traiettoria che l’autore traccia nella prima parte del libro. Streeck illustra la transizione dallo Stato fiscale (caratterizzato da una spesa pubblica sostenuta dall’alta crescita) allo Stato di debito (nel quale il debito pubblico cresce per far fronte alla disoccupazione crescente, innescata dal blocco dell’inflazione) e poi allo Stato di consolidamento (in pericoloso bilico tra l’austerity chiesta per ridurre il debito pubblico e la spesa necessaria a far fronte alle inevitabili crisi del debito privato). E nel volume si trovano anche una critica dell’euro basata sul concetto weberiano di denaro, una spiegazione economica della personalizzazione del prodotto che chiarisce l’origine delle derive individualiste della società, un’analisi (davvero eretica, seppure non maschilista) che scova nell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro una delle cause (involontarie) della sua precarizzazione e della sconfitta delle sinistre.

Ma nonostante la pluralità dei temi, Come finirà il capitalismo? non sconta nemmeno il dazio più comune delle raccolte di saggi: l’eterogeneità. Forse si colgono ripetizioni tra i diversi articoli, ma il volume trasmette sempre un senso di coerenza complessiva, che non disorienta mai il lettore. Ciò che disorienta, invece, è la possibile risposta alla domanda posta dal titolo: all’orizzonte non si profila alcuna cura a mali come stagnazione, disuguaglianza, instabilità, oligarchia, corruzione istituzionale e anarchia internazionale, generati dalla crisi senza fine del capitalismo. Le riflessioni di Streeck aiutano a porsi le domande giuste e ad affinare la qualità dell’indagine, per non arrendersi – almeno intellettualmente – al disastro.

 

(Wolfgang Streeck, Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi, traduzione di Donatella Caristina, Meltemi, 2021, pp. 334, euro 22. Articolo di Marco Di Geronimo)

Copertina di Mai e poi mail il fuoco di Eltit

Decadenza rivoluzionaria

«Mai, uomini umani, / ho provato tanto dolore nel petto, / […] mai e poi mai il fuoco / giocò meglio il suo ruolo di freddo morto!»

A leggere I nove mostri di César Vallejo, poesia scritta nel 1937, si capisce bene perché Diamela Eltit abbia voluto utilizzare questi versi come spunto per il titolo del suo libro, Mai e poi mai il fuoco, pubblicato dalla casa editrice gran vía nella traduzione di Raul Schenardi (traduttore alacre di molti nomi della letteratura sudamericana tra cui Roberto Arlt, José E. Pacheco e lo stesso César Vallejo). La riflessione sul dolore non si limita a colpire l’aspetto più materiale, ma investe anche una dimensione più profonda, metaforica, dove l’elemento che più di tutti è associato al calore vivificante – e quindi nel caso di questo romanzo all’ardore politico e rivoluzionario – non può far altro che nascondersi, mero fuoco pallido, prendendo in prestito la citazione da un libro di Nabokov.

In Mai e poi mai il fuoco non sappiamo dove siamo, in realtà non conosciamo neanche i nomi dei due protagonisti – sappiamo soltanto che sono una donna e un uomo. A dirla tutta per intuire qualche informazione concreta dobbiamo stare attenti, muovendoci adagio e centellinando le sparute tracce che ogni tanto, con discrezione, l’autrice si premura di lasciare sparse sul terreno. E così scopriamo che quelle due persone, immerse in uno strascinato torpore che assume spesso i contorni di un’abulia patologica, sono due ex rivoluzionari, militanti appartenuti nel tempo a diverse cellule ribelli contro il regime di Pinochet, che dal 1973 a seguito di un colpo di stato prese il potere in Cile, mantenendolo fino al 1990.

«Mi bruciano gli occhi per un sonno che sembra un mero sintomo»: intrappolati in una stanza dai contorni indefiniti i due passano i loro giorni sdraiati su un letto, assiepati in una scomodità che non è semplicemente corporea. Non possono uscire – la temperie politica ancora non lo permette –, e il periodo speso a casa si trasforma in un’occasione per fare i conti col passato, per cercare di ricordare e mettere assieme i pezzi di quella che è stata la loro militanza comune, sofferta e costellata di insuccessi. Ma il fallimento non è solo accidente, è condizione esistenziale che ammala qualunque cosa, anche il tempo, anche la memoria: «È trascorso più di un secolo, ti rendi conto?, ti dico un secolo intero e spezzato, mille anni, un’epoca che si conclude senza echi, come se non fosse successo, ti rendi conto?». Non possiamo fidarci di niente, qualunque ricordo nasconde una potenziale trappola da cui è meglio tenersi lontani il più possibile. Sul patibolo in questo caso c’è l’ideologia rivoluzionaria, un credo utopico che si è sfaldato lasciando dietro di sé soltanto i cocci e i rimpianti per un passato che è stato e non si può più cambiare. Ogni cellula è stata disintegrata, annientata assieme ai suoi componenti che come fantasmi riempiono la stanza, clandestini, con gli occhi spenti e gli sguardi in attesa di una spiegazione, i morti che tornano a riscuotere gli anni trascorsi nella militanza, che portano a spasso la loro terribile contaminazione: il matto Jiménez, Pedro Cevallos e Lucho che con la sua sobrietà da minatore si è impiccato pur di non farsi prendere. Ma ogni cosa in questo libro non è mai quello che sembra, tutto è metafora, contrassegno di un decadimento diverso, biologico: e così il fallimento delle numerose cellule che si sono susseguite nel tempo non si limita ai soli ideali rivoluzionari, ma pervade tutto il corpo, diffondendosi come un morbo che intacca i tendini i muscoli le ossa. L’unica soluzione rimane quindi rinchiudersi in un guscio dalle pareti impermeabili, rannicchiati in posizione fetale, il ripiegamento solipsistico di chi fondamentalmente ha abbandonato la lotta, la guerrilla, e si è arreso, il fuoco che ha smesso di ardere e che non brilla più. Mai e poi mai il fuoco. Mai più, verrebbe da aggiungere.

Diamela Eltit non scrive un romanzo per tutti. La sua lingua è cruda, un’assenza di connettivi linguistici che nell’economia della sua prosa è cifra sperimentale, avanguardistica: «Ho vissuto, sì, in mezzo a una sottilissima alterazione percettiva». E non è un caso, dato che la scrittrice cilena ha fatto parte del Colectivo Acciones de Arte (CADA) insieme al poeta Raúl Zurita, suo marito (che subì la detenzione e la tortura proprio del regime di Pinochet) e agli artisti visuali Lotty Rosenfeld e Juan Castillo. Nato nel 1979 per far fronte alle forti inibizioni che avevano colpito le nuove manifestazioni artistiche, il collettivo concentrava i suoi sforzi attorno a un’idea centrale: la necessità di un rinnovamento teorico e pratico dello sforzo artistico nazionale, con l’intento di vincolarlo alle correnti neoavanguardistiche mondiali. Il carattere politico di CADA era evidente nella doppia negazione di molti dei suoi interventi, che cercavano contemporaneamente di operare come dissenso all’interno dei discorsi artistici e come espressione di opposizione nel campo politico nazionale, rifiutando il quadro istituzionale sistemico del regime militare e, più profondamente, le basi economiche e sociali che lo sostenevano.

Ma il regime militare è spietato, non lascia adito a dubbi né sembra apparentemente mostrare debolezze. In questo naufragio collettivo non c’è spazio per la speranza, neanche per una lontana parvenza di futuro: il bambino avuto dalla coppia – anche qui metafora decadente del nascenti puero virgiliano che in questo caso non rispetta le sue promesse di rinnovamento ma fallisce ancor prima di cominciare – muore dopo solo due anni in circostanze non del tutto chiare, e ogni volta che la donna tenta di parlarne, di richiamarne la testimonianza, ottiene in risposta soltanto un sordo rifiuto. «Abbiamo schivato la realtà […], abbiamo potuto solo far parte del suo perimetro come infimi roditori perennemente in fuga». A essersi arreso non è solo il corpo, lo spirito o l’ideologia rivoluzionaria, è la stessa memoria che tradisce, che si confonde a rievocare i ricordi di una vita ormai disillusa. Questo senso di spaesamento è ben evidente ad esempio quando leggiamo delle visite che la protagonista fa a una coppia di anziani, che lei per guadagnare qualche soldo lava e pulisce ogni settimana; la descrizione delle singole operazioni e dei piccoli gesti che compongono questo rituale è minuziosa fino a divenire spasmodica nella sua ossessione per i dettagli più nauseanti, l’odore di orina, le feci rimaste attaccate ai genitali, le escrescenze nere sulla pelle partecipano di un quadro dalle tinte marcescenti. È ancora una volta il corpo a essere indagato – lo sarà costantemente nel corso delle pagine –, con un’attenzione anatomica da bollettino medico, una poetica del dolore che ha tra i suoi prodromi sempre la penna di César Vallejo. Eppure più di una volta siamo portati a chiederci chi siano queste persone, se esistano davvero o siano solo dei personaggi fittizi, domande a cui l’autrice non si sforza nemmeno di dare una risposta, ma di cui anzi contribuisce con la sua prosa ad alimentare l’ambiguità, instillando il dubbio che questa coppia di anziani non sia in realtà nient’altro che il riflesso della stessa identità dei protagonisti, reietti abbandonati a un destino spopolato di ogni pulsione vitale ma abitato dai fantasmi della loro coscienza.

«Il dolore ci afferra, fratelli, / da dietro, di lato».

I nove mostri di Vallejo non lascia alcun orizzonte a cui guardare speranzosi. E cosa resta quindi dell’amore e della resistenza, degli ideali e del sangue versato per la causa? Di fronte all’orrore della risposta i due ex militanti preferiscono voltare la faccia, rannicchiarsi e dormire, come se il mondo fosse già finito e non avessero più nessun obbligo nei suoi confronti, le braci del loro ardore ormai completamente spente, mai e poi mai (più) il fuoco.

 

(Diamela Eltit, Mai e poi mai il fuoco, trad. di Raul Schenardi, gran vía, 2021,  160 pp., euro 16, articolo di Davide Tamburrini)

Il capolavoro imperfetto dei Bloc Party, A Weekend In The City

Con tutti i limiti del caso, è impossibile dire che i Bloc Party abbiano tentato di riprodurre all’infinito Silent Alarm. Il loro esordio non avrà avuto attorno a sé  lo stesso clamore avuto in quegli anni da Strokes e Franz Ferdinand, ma era chiaro che avessero scritto uno degli album fondamentali dell’indie rock. “Helicopter”, “Like Eating Glass” e soprattutto “Banquet“, sono al cento per cento un momento fondamentale dei primi anni 2000.

Forse sarebbe stato più facile percorrere la stessa strada, magari con qualche accorgimento, rimanendo sugli stessi binari e rimanendo sempre gli stessi. Pigrizia creativa come autoconservazione. I Franz Ferdinand e gli Strokes hanno fatto bene o male questo e il declino è evidente da tempo: terminata quell’epoca, si sono ritrovati in un mondo dove non erano più riconosciuti e dove non si riconoscevano più.

Non che le cose per gli inglesi siano andate molto meglio: i Bloc Party  si sono mossi in un’ altra direzione, sarebbe meglio dire in più direzioni, non riuscendo però a chiudere il cerchio. Figli anche di una confusione derivata dalla messa in proprio del leader Kere Okereke (The Boxer, no?), Four e Hyms sono stati sinonimo di autodistruzione: se da un punto puramente teorico il tutto avrebbe potuto avere un suo significato, il primo era un ritorno completamente fuori fuoco alle chitarrone (dopo il più elegante Intimacy) che si sono impantanate in un innocuo hardrock, mentre Hyms andava a occupare il punto più basso della loro produzione: elettro-dance-pop vuoto e insignificante.

È prima, con il secondo album, che possiamo osservare il punto di svolta del quartetto inglese: pur riconoscendo la potenza germinale di Silent Alarm, è con A Weekend in the City che i Bloc Party sono riusciti a raggiungere, quantomeno sulla carta, il picco della loro poetica e maturità.

Sono passati solo due anni dal loro esordio, ma già dalla prima traccia si capisce che le cose sono cambiate. Intendiamoci: non è una stravolgimento epocale, i Bloc Party rimangono i Bloc Party,  ma quella spinta istintiva di Silent Alarm ora viene bilanciata da una lettura artistica più sofisticata, meno grezza e post-adolescenziale.

Song For Clay (Disappear Here)” ha un respiro diverso, che non è possibile incasellare in maniera sbrigativa in quello dell’indie. Lo sguardo non è verso New York, ma verso l’Inghilterra, precisamente Oxford (ma bastava anche solo vedere Russell Lissack che prima o poi si sarebbe andati a finire da quelle parti): i Radiohead quattro anni prima scrivevano Hail To The Thief e, in A Weekend In The City, la traccia iniziale funziona da detonatore come per la band di Thom Yorke fece “2+2=5“.

Quello che esce fuori è coerente in tutto e per tutto con il suo incipit: da “Hunting For Witches” a “On“, da “Where Is Home?” a “The Prayer” , il suono è compatto, i pezzi cambiano forma in continuazione, susseguendosi con armonia e eleganza. L’indie rock prova a fare spazio a un alt-rock sofisticato, ci sono incursioni elettroniche, c’è la voce di Okereke che dà la sensazione di accelerare e decelerare con maggiore padronanza  rispetto al passato.

Lasciando in sospeso il pezzo più radiofonico e meno interessante di tutto l’album, “I Still Remember” (che sembra uscito da un universo parallelo in cui i Bloc Party tentano di riprodurre all’infinito Silent Alarm, peggiorando), “Uniform” e “Kreuzberg” sono delle perle che avrebbero meritato molto più spazio nel discorso sugli anni ’00, indice della sensibilità compositiva di Okereke, dell’intelligenza alla batteria di Matto Tong, dalle chitarre riconoscibili di Lissack fino al basso ragionato di Gordon Moakes.

C’è un però: ascolto dopo ascolto, anno dopo anno, ancora oggi,  quest’album lascia delle sensazioni di qualcosa che sarebbe potuto essere, ma per qualche motivo non è stato. A Weekend in he City sarebbe potuto essere molto di più. È vero: è un lavoro che funziona, anzi, funziona tremendamente: è bello.  Ma c’è un’ambiguità di fondo, un punto iniziale che suona quasi come una strana condanna: non ci si poteva esporre più di così.

Possiamo tirare delle coordinate che pongono i Bloc Party al centro di un triangolo piuttosto impegnativo: Radiohead, appunto,  Sigur Ros (“Srxt” esiste perché esiste la band islandese: il finale è uno dei punti più alti dell’album) e National (ci si ritrova una disperazione esistenziale alla Alligator).

Non è una bestemmia: lo è solo se li poniamo su quel livello. I Bloc Party non possono sedersi allo stesso tavolo di quei tre. A Weekend in the City non ha  il coraggio di abbandonarsi a qualcosa di completamente nuovo, trascinandosi appresso qualcosa di ineluttabile e irrimediabile. Le premesse c’erano, la tensione generata da Silent Alarm era palese, ma allo stesso tempo castrante.

È un lavoro che si trova su per giù a metà tra qualcosa di genere (non essendo però allo stesso tempo chiaro e deciso come per esempio Room on Fire, ma neanche come il pluricitato Silent Alarm) e qualcosa di profondamente alternativo, che potesse andare a scardinare le cose, a rivoluzionare certi stilemi, a incidere realmente: per come suona aveva le possibilità di ambire a certe categorie  (Arcade Fire, Funeral), affondando le radici in qualcosa di ben preciso, ma gli è mancata la forza e la lungimiranza per poterlo fare.

A Weekend In The City ne esce fuori come un capolavoro mancato dei Bloc Party, un grande album incompiuto: un capolavoro imperfetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copertina di Cronache dalle terre di Scarciafratta

I nomi e le pietre

La notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969, mentre Neil Armstrong e Buzz Aldrin, per la prima volta nella storia, sono in procinto di mettere piede sulla luna, in una casa di riposo di Villa Adriatica, l’ottantaduenne Ruscitti Domenico, per tutti Mengo, sta per spirare, assistito da Cippella Oreste, neoassunto operatore per le pulizie.

La luna, alla quale Mengo era solito rivolgersi dalla Rocca del Castello di Scarciafratta, villaggio disabitato e sperduto tra le montagne abruzzesi, quella luna, che Mengo aveva smesso di ammirare, dal giorno del ricovero nella clinica, non sarebbe stata più soltanto sua. Eppure, in punto di morte, essa costituiva il desiderio finale di Mengo: uno sguardo, un solo sguardo estremo oltre la finestra della sua stanza bianca per coglierne la luce che illuminava il mare e l’orizzonte, per cullarsi nell’illusione di non danzare l’ultimo valzer in solitudine.

È proprio la solitudine esistenziale il leitmotiv di Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimum fax, 2021), nuovo romanzo di Remo Rapino, già vincitore del Premio Campiello 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio. Come Liborio, anche Mengo appartiene a quella fetta di umanità emarginata che non ha voce, ma che porta con sé il grandioso potere di comprendere le cose invisibili, quelle che sfuggono, perché divorate dalla dimenticanza di un materialismo cinico e moderno. Gente «abbandonata dalla vita», l’ha definita Michele Fina in una recente intervista all’autore, accostando il romanzo all’Antologia di Spoon River, ove ogni poesia introduce il personaggio successivo.

Ed è così che si muovono le cronache, secondo una struttura narrativa complessa, sostanziata nel cambio continuo del punto di vista, nell’intervento di innumerevoli anime dai nomi stravaganti (gli ex abitanti di Scarciafratta) che si incrociano, parlando l’uno dell’altro e creando una frammentazione e relativizzazione della realtà. Tra essi abbiamo D’Annunzio Uberto, il nobile e il più colto del paese, Forchetta don Visidoro, maestro della banda musicale, Ramaglia Giuseppe, detto Iseppe di Scrocche per la sua tendenza a non pagare il conto, Policorvo Nicolino, detto Culì, lo scimunito, Trovato Grinuccio, lo storpio con il sogno di diventare campanaro, Della Torre Cafiero, detto Asino del Bellamore, venuto alla luce il giorno della disfatta di Caporetto, Capezza Malvina, la santocchia, Bonaluce Artemisio, poeta e cantiniere, e Mingone Pietro, maestro ramaio e comunista. Nella propria presentazione, ognuno dedica una riga a Mengo, che rappresenta il baricentro sentimentale a cui il lettore può continuamente riferirsi, e ciò conferisce circolarità al romanzo.

Apprendiamo che Mengo, che tutti considerano lo scemo del villaggio, trascorre le giornate sulla Rocca, il punto più alto e isolato di Scarciafratta, insieme a un vecchio cane dagli occhi azzurri a cui ha dato il nome di Sciambricò e, seduto sull’uscio, assiste al progressivo spopolamento del paese e all’abbandono delle case che si riducono in pietre e si sfarinano. Le ripetute catastrofi naturali, le disgrazie umane e il terremoto (la Cosa Brutta) hanno infatti indotto gli abitanti a emigrare verso Lörrach, Zurigo, Francoforte, Marcinelle alla ricerca di fortuna e di una nuova vita. E una grossa quercia che si trova a valle di questa Macondo d’Abruzzo indica il confine tra chi va e chi torna per le feste. Ogni persona che parte corrisponde a una pietra che muore, ogni casa che chiude significa macerie, edera che si arrampica sui muri, morte lontana. Le pietre sono racconti, memorie, ciò che è stato e che non esiste più.

Tra le macerie di una scuola, Mengo rinviene alcuni quaderni di bambini e un registro dell’ufficio anagrafe pieno di nomi, nascite, decessi, date e matrimoni e di storie degli abitanti, e procederà a trascriverle una per una. A differenza degli altri, Mengo non intende lasciare Scarciafratta e resiste, aggrappandosi proprio a quel registro, nel disperato e illusorio tentativo di ribellarsi alla dimenticanza e quasi di convincere gli emigranti a un immaginario ritorno.

Come Bonfiglio Liborio, anche Mengo vivrà un amore inespresso e non ricambiato per la bella Ninetta Incantalupo che alla fine sposerà un ricco commerciante di zafferano ed emigrerà verso il Veneto. Le vicende si svolgono in un periodo storico costellato di tragedie: Rosina piange il figlio soldato nella campagna di Russia che non tornerà più, Spadafora Corradino e Nocella Peppe rievocano gli episodi della guerra civile spagnola, il disastro nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle verrà citato diverse volte nel corso della narrazione, quale evento simbolico e disperante della disillusione. Come dice lo stesso Nocella, poi partito per gli Stati Uniti: «Non ci sta nessuna America. Pane nero e letto di gramigna pure dentro a questo nuovo mondo». All’esito drammatico dei fatti, la decisa resistenza di Mengo nel non lasciare Scarciafratta appare la migliore scelta. E l’uomo, da tutti considerato pazzo, si rivela invece portatore di una consapevolezza premonitrice e pacata a dispetto della perenne irrequietezza dei suoi concittadini: «Io non l’ho mai visto il mare e sono stato bene lo stesso, mica mi è mancato qualcosa, e poi uno, in un posto può stare, siamo mica uccelli che vanno e vengono, e non sanno mai cosa vogliono, di qua di là, non stanno mai quieti, che so, sui fili della luce, tra i rami, sui tetti, in mezzo alle nuvole. Sempre a cercare terre nuove e cieli nuovi e non trovano niente alla fine».

Per merito di Mengo, Scarciafratta diventa il vero protagonista della storia, perché rappresenta tutte le comunità morenti del mondo, che rifiutano la dimenticanza in nome di una morte memorabile e gloriosa.

Con questa nuova opera, Rapino sancisce la sua letteratura degli ultimi, esibendo una scrittura inconfondibile, dal ritmo musicale quanto poetico. La trasposizione linguistica del parlato, caratterizzata da espressioni dialettali, avvicina il cuore e l’orecchio del lettore all’anima e alla bocca dei personaggi. Infine, l’universalità dei temi e la cura del dettaglio restituiscono una storia epica.

 

(Remo Rapino, Cronache dalle terre di Scarciafratta, minimum fax, 2021, 208 pp., euro 17, articolo di Carmine Madeo)

 

ritratto di Michel de Ghelderode

Michel de Ghelderode, essere fuori dal secolo

A distanza di quasi cinquant’anni dal Teatro di Michel de Ghelderode edito da Einaudi, vengono proposti per la prima volta in Italia tre testi drammaturgici di uno dei più grandi e influenti autori belgi del Novecento. Nel novembre del 2021, infatti, Lamantica Edizioni di Brescia decide di pubblicare Pièces, un corposo volume contenente tre opere dello scrittore fiammingo: La figlia di Giairo, Il sonno della ragione e Il sole tramonta…. La traduzione è a cura di Federica Cremaschi, laureatasi proprio con una tesi su Ghelderode, e il libro è arricchito dai preziosi contributi critici di Anna Paola Soncini Fratta e Riccardo Benedettini.

Dopo gli “assaggi” nella Collezione di teatro Einaudi, a cura dei coniugi Rossini e Nicoletti (Escuriale e La scuola dei buffoni, 1963 e Magia rossa e La ballata del gran macabro, 1965), nel 1972 la stessa casa editrice aveva deciso di pubblicare un’imponente raccolta dei testi maggiormente rappresentativi di Ghelderode: il volume contiene undici testi teatrali, fra cui si ricordano Il Cavalier Bizzarro, I Ciechi e Maria la Miserabile. Nei decenni, tuttavia, la fortuna editoriale italiana del drammaturgo belga sembrava essersi esaurita, eccetto che per qualche pregevole incursione. Nel 2001 la Panozzo Editore pubblica Sortilegi, la raccolta di racconti più matura, rappresentativa e suggestiva dell’autore. Segue, poi, il libricino L’innamorata delle Edizioni Via del Vento, contenente due racconti giovanili: l’omonimo racconto e La brava ragazza. Nonostante queste sporadiche apparizioni, è servita la coraggiosa impresa editoriale della casa editrice bresciana per proporre questi tre testi inediti in una veste originale e affasciante, caratterizzata dalle emblematiche pagine azzurre. Fra le pièces emerge, senz’altro, La figlia di Giairo, considerato uno dei capolavori drammaturgici di Ghelderode. Lo stesso Nicoletti, nel primo volume Einaudi degli anni Settanta, gli riserva parole entusiaste, lasciando emergere fra le righe una certa delusione per non essere riuscito a inserirlo.

 

Ghelderode: un fuoriclasse non catalogabile

«Signore, signori, adotterò per parlarvi lo stile dell’imbonitore da fiera. Avete di fronte a voi l’uomo più annoiato, più desolato del mondo. Cantate pure che la vita è sorprendente, io la trovo inetta, incomprensibile, insopportabile, o la sopporto solo quando diventa stravagante. Amo la natura quando commette idiozie, amo l’uomo quando è mostruoso» [Il sonno della ragione, p. 140].

Ghelderode è un autore difficilmente catalogabile che – per usare le parole di Soncini Fratta – «unisce la banalità della vita alla sua essenza più profonda, che ti infastidisce e ti prende; lo senti estraneo e al contempo intimo». Nonostante nella sua opera vi siano elementi tipici del teatro dell’assurdo, sarebbe riduttivo e superficiale ricondurvi la sua intera produzione artistica. Consapevole della tradizione del secolo, Ghelderode recepisce anche la lezione del teatro della crudeltà teorizzato da Artaud, oltre a saper cogliere e rivisitare i modelli letterari seicenteschi, soprattutto inglesi e spagnoli. Tuttavia, come ben si può percepire nella lettura, l’Autore ha un gusto particolare e unico per le tradizioni natie e si fa interprete inimitabile della cultura fiamminga.

Nato a Bruxelles, intraprende gli studi presso l’Institut Saint-Louis, dove entra in contatto con le materie filosofiche e con la religione. Probabilmente è qui che per la prima volta approfondisce la conoscenza e lo studio della pittura, fra tutti di Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. Coerentemente, avrà modo di apprezzare anche i capolavori di Goya che influenzeranno notevolmente la sua opera. Basti solo pensare al titolo della seconda pièce proposta da Lamantica Edizioni: Il sonno della ragione.

 

La solitudine, le Fiandre e il grottesco

Riformato per problemi di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale e si dedica sempre più allo studio letterario, in particolare a quello teatrale. In quegli anni matura in lui il concetto di solitudine, fondante per la sua intera produzione. Dallo stesso autore viene considerata tanto un dono quanto una disgrazia o piuttosto – per citare Manuela Raccanello – «ambigua più della morte. [Infatti,] la solitudine è il segno della predestinazione, il marchio di una vita che si erge al di sopra della mediocrità – condizione temuta e disprezzata –, non importa se nel bene o nel male». Emblematico, in tal senso, il passo nel racconto Nuestra Señora de la Soledad, in cui alla domanda della Vergine «Cosa desideri?», il protagonista/narratore risponde: «Ma poiché siete tanto misericordiosa, vi chiedo di preservarmi in solitudine».

Sono gli anni della giovinezza, perciò, che predestinano Ghelderode al suo futuro di drammaturgo. Fin dalle prime pubblicazioni riscuote un eccellente successo di critica e nonostante scriva in francese, le sue opere sono colme di riferimenti al dialetto e ai costumi delle Fiandre. In questo senso scenari ideali delle sue rappresentazioni, se non fisici almeno metaforici, sono Gand e Bruges. Se in quest’ultima è ambientata La figlia di Giairo, ne Il sole tramonta… la città di Gand viene spesso richiamata nei pensieri di Carlo V, che proprio in «questo luogo fuori dal tempo» è nato, e che nel 1556 si ritira, dopo aver abdicato, nel monastero spagnolo di Yuste. Nel dialogo col suo alter-ego Messer Ignotus viene detto: «Quelli della nostra razza, del nostro sangue – e il sangue rosso scorre in ogni uomo – non temono la Morte né l’Inferno», come se la sola provenienza conferisse al monarca una natura eccezionale. Il memento mori è una delle tematiche più presenti nell’intera opera di Ghelderode, trattato con un’originalità tale che è difficile trovare corrispettivi nella letteratura. Il senso della vita non viene ricercato tanto nell’assurdo quanto nel grottesco. Non è un caso, perciò, che Kayser nel suo saggio Das Groteske scriva come le opere di Bosch e Bruegel il Vecchio anticipino le visioni di Goya. Ed è così che il drammaturgo belga fa tesoro di queste grandiose esperienze passate e riuscendo a rielaborarle in una cifra stilistica altamente riconoscibile. La sua attenzione di filologo e viaggiatore da fermo, lo portano ad approfondire le tradizioni popolari della gente delle Fiandre, che viene restituita in tutto il suo fascino nelle opere teatrali. Se, quindi, alcuni ritengano che grazie ai testi di Joyce si possa ricostruire Dublino in vista di un’ipotetica catastrofe, lo stesso vale per Ghelderode e le Fiandre. Uno studioso che decida di studiare la cultura fiamminga non può sicuramente prescindere dall’apporto storico e artistico di questo Autore. Tuttavia, come precisa Stefan Fischer, mentre un autore come Bosch «fece del grottesco moralistico […] la sua caratteristica distintiva», Ghelderode non può definirsi un autore morale.

 

Il fascino dei riti religiosi per Ghelderode

Lo stesso Benedettini, nella sua postfazione, ritiene come l’Autore non possa essere definito moralistico, in quanto non cristiano. Deve essere riconosciuto, però, come sempre «vicino a certe forme esteriori, cattoliche, che continueranno ad esercitare su di lui una estrema seduzione: i riti, le sacre rappresentazioni degli uffici liturgici, il prestigio delle processioni e i funerali». Tutto ciò è particolarmente evidente nella sua opera, e queste Pièces non fanno eccezione. Ne La figlia di Giairo si parla di una resurrezione, ne Il sonno della ragione primeggia la rappresentazione fisica dei sette peccati capitali, mente ne Il sole tramonta… c’è una riflessione sulla morte imminente e, di conseguenza, sulla caducità dell’uomo. Il tutto popolato da personaggi grotteschi, surreali e pateticamente comici. Nei suoi testi campeggiano spesso marionette, fantocci, semoventi, come pure comparse stereotipate degne delle migliori satire. Ma anche il personaggio apparentemente meno importante o più bizzarro acquisisce ai fini della trama una sua tridimensionalità. Il suo è un teatro coinvolgente, strabordante, che rifugge ogni proposito naturalistico; il suo obiettivo è quello di sconvolgere il pubblico con un’esperienza irripetibile. Le note di regia sono descrizioni minuziose e conferiscono al décor una tale vividezza da sembrare un vero e proprio dipinto fiammingo, tanto dettagliato quanto grandioso – anche nei suoi momenti più quotidiani, intimi.

 

I giudizi universali

La poetica e la visione estetica di Ghelderode sono impregnate di suggestioni letterarie, pittoriche, musicali, che nella sua reinvenzione rendendo l’opera teatrale un esempio di avanguardia non di certo fine a sé stessa. Si pensi solo alle impressioni di Blandina, la risorta, in La figlia di Giairo: proprio in quest’opera, forse la più rappresentativa dell’intera raccolta, Ghelderode ci restituisce una delle più suggestive citazioni dell’Ascesa all’Empireo di Bosch. All’inizio della settima scena del secondo atto Blandina descrive il suo sogno – in realtà si tratta della sua morte, prima di essere resuscitata dal Fulvo, sorta di anti-Cristo dai tratti nordici. Blandina recita: «Perché mi svegliate? (con voce che non è sua e come se parlasse da un’altra stanza, le mascelle ancora serrate) Fluttuavo felice al centro di una sfera bluastra; ero sconosciuta. Hanno gridato il mio nome. La sfera, il sogno infranti, ed io cadevo. Perché?».

Per prendere in prestito le parole di Gianni Nicoletti: «[Ghelderode] non indaga ma agisce, nel contesto del proprio stile, per tagli e contrapposizioni, per raffronti che racchiudono estensioni storiche indefinibili onde trasumanare in ispecie di giudizi universali».