“Per poco non ci lascio le penne”:
a tu per tu con Céline Minard

Una serie di singolari personaggi, persi nell’enormità di una natura selvaggia e sempre diversa, viaggiano alla ricerca di una terra, intrecciando i loro destini con quelli di un uomo in fuga, di una guaritrice indiana, di un moribondo e di tanti altri, sullo sfondo della sconfinata prateria del selvaggio West. Il romanzo di Céline Minard, Per poco non ci lasco le penne (66thand2nd, 2014), ricrea in maniera magistrale l’atmosfera di un vero western, tessendo una trama ricca di colpi di scena e personaggi memorabili, e destreggiandosi fra tensione e senso dello humor con semplicità ed eleganza, riuscendo ad allontanarsi dai cliché in cui sarebbe stato, forse, molto facile cadere.

Durante Più libri più liberi Céline Minard ha presentato il suo romanzo, pubblicato in Italia da qualche mese, e noi abbiamo approfittato per farle alcune domande.

2014, una scrittrice di Rouen decide di scrivere un romanzo western: qual è il motivo alla base di questa scelta?

Il western è un genere conosciuto da molti, un genere che quasi tutti hanno ben presente, e come tutti i generi ampiamente condivisi permette una riappropriazione da parte dei lettori e degli spettatori. L’idea è appunto quella di ritrovare un grande spazio, un’area estesa nella quale poter far riemergere ciò che caratterizza questo genere e allo stesso tempo farne crollare i cliché.

La tua scrittura è più orientata verso il mito geografico, la documentazione storica oppure ancora verso l’immaginario romanzesco e la pura ispirazione?

Credo che nessun western consista in una mera ricostruzione storica: quando guardiamo un western siamo ben poco coinvolti all’interno dell’aspetto storico. Quello che conta è proprio il “mito” del western. La cosa importante non è solo il modo in cui viene raccontato quel periodo: si parla infatti quasi di una cosmogonia, ed è proprio questo concetto di epopea mitica che ho voluto “rimescolare”, in un certo senso, nella scrittura del mio romanzo.

Quali sono dunque le fonti di ispirazione alla base del romanzo? 

Naturalmente i grandi classici del cinema western, i vecchi film, ma anche i western thailandesi e naturalmente gli spaghetti western. Dal punto di vista letterario mi sono orientata verso alcune opere definibili come storiche ma che nel concreto non lo sono mai completamente, ma anche verso i romanzi di grandi autori come Clarke, McCarthy, May, o ancora il grande western Lonesome Dove di McMurtry. Ma ci sono anche alcune opere incentrate sulla natura, cito per esempio Thoreau, oppure ancora i gialli di Hillerman, che dipingono l’evocativo scenario delle riserve indiane.

I personaggi del tuo romanzo sono tutti a dir poco singolari, ma ci sono alcuni personaggi femminili che spiccano per la loro forza, come Acqua-che-scorre-nella-pianura o Sally. Puoi dirci qualcosa in più sulla tua scelta di inserire dei personaggi di questo tipo in un genere spesso caratterizzato da una presenza maschile dominante?

Certamente: questo è uno dei cliché che ho voluto far cadere all’interno del mio romanzo. Il western è sicuramente un genere prettamente maschile, ma questo è vero solo in parte: ci sono state diverse donne che hanno scritto alcune delle più belle storie del genere. Possiamo dunque dire che il western è stato in qualche modo “ripreso” dagli uomini: io ho semplicemente voluto tornare alle origini, e questo è stato per me un modo per muovere il personaggio femminile dalla sua posizione standard all’interno del western. Ed è così che in Per poco non ci lascio le penne troviamo delle donne che sono delle streghe, delle donne d’azione, donne che prendono in mano le situazioni ancora prima degli uomini.

Nonostante la differenza dei loro generi i tuoi libri sono sempre pieni di aventura (per esempio Bastard Battle e Le dernier monde). C’è un filo conduttore che lega le tue scelte letterarie?

Penso che a legare fra loro i miei romanzi sia principalmente l’idea dell’esplorazione, ma più che un’esplorazione in senso “fisico” si tratta di un’esplorazione che passa attraverso la scrittura. Ogni volta, infatti, l’elemento dello spazio assume una grande importanza: non parlo solo dello spazio geografico ma anche di quello “mentale”.

In secondo luogo, saranno l’epoca storica e l’intreccio a subentrare nella scelta linguistica e stilistica, ed è questo che fa sì che i miei libri siano così vari e diversi fra loro. Quello che mi interessa di più non è la semplice voce narrante, ma il percorso, il cammino che porta alla composizione delle mie storie.

(Céline Minard, Per poco non ci lascio le penne, trad. di Elena Sacchini, 66thand2nd, 2014, pp. 245, 18 euro)

“Big Hero 6” di Don Hall e Chris Williams

Potrebbe non essere facile tornare al cinema dopo un successo come quello di Frozen (oltre un miliardo di dollari di incasso, quinto maggior risultato della storia del cinema, due premi Oscar, tra cui quello per la canzone Let It Go che ha infestato le radio di tutto il mondo nella sua versione originale e in tutte le traduzioni). Alla Disney, però, non hanno paura di niente, e, dopo essersi riavvicinati alle fiabe per il Natale 2013, per il 2014 hanno deciso di puntare su una novità: il cinefumetto a cartoni animati, andando a recuperare una serie del 1998 ideata dalla controllata Marvel.

Hiro Hamada ha quattordici anni e un’intelligenza fuori dal comune. Ha progettato un robot dall’apparenza innocua con cui vince tutti gli incontri clandestini di bot fight, i combattimenti tra macchine che animano le notti di San Fransokyo, immaginaria città che fonde le due sponde – e le due anime – del Pacifico. Suo fratello Tadashi, che è più grande e studia all’università, vorrebbe che Hiro impegnasse il suo talento in qualcosa di più importante, quindi un giorno lo porta con sé al laboratorio di ingegneria per mostrargli il «covo di nerd» in cui lavora. Ovviamente Hiro perde la testa per tutte le possibilità che gli si potrebbero aprire, e incitato dal direttore del laboratorio decide di partecipare alle selezioni per le borse di studio. La sera della presentazione dei progetti per entrare nel prestigioso San Fransokyo Institute of Technology, il giovane genio si presenta con un rivoluzionario sistema di microrobotica. Solo che scoppia un incendio, e nel padiglione rimane prigioniero il direttore. Tadashi corre dentro a salvarlo, e in quel momento esplode tutto. Hiro si trova completamente solo, dopo aver già perso i genitori da bambino, con solo la zia Cass che prova a tirargli su il morale. È in quel momento che scopre l’eredità segreta del fratello: Baymax, un robot progettato per fornire assistenza medica che farà di tutto per fare stare bene il suo paziente, anche a costo di imparare le arti marziali e trasformarsi in un supereroe.

Don Hall e Chris Williams, registi di Big Hero 6, hanno deciso di sfidare un tabù classico del mondo Disney e di porsi in confronto diretto con classici dell’animazione come Bambi e Il re leone che già avevano osato tanto: la morte dei genitori in un film per bambini. Senza mostrare il momento della perdita, Hall e Williams hanno comunque spostato il confine un po’ più in là aggiungendo la scomparsa del fratello, ultimo elemento rimasto del nucleo famigliare. Come già per i precedenti, la scelta di osare vince ogni rischio. La condizione di isolamento affettivo di Hiro lo porta alla rivalutazione delle possibilità ulteriori: l’affetto della zia, la vicinanza degli amici di Tadashi. È attraverso il robot medico Baymax che Hiro capisce tante cose, che cresce.

Baymax è un pupazzone con uno scheletro di titanio e un corpo di vinile espanso che lo fa apparire accogliente, rassicurante e goffo. È puntiglioso e attento nello svolgere al meglio il suo incarico di medico, monitorando i livelli di Hiro e facendo di tutto per contrastare la sua tristezza. Il rapporto che instaura con Hiro ricorda quello tra Terminator e John Connor in Il giorno del giudizio, con il ragazzo che riesce in una graduale umanizzazione di una macchina non progettata per l’empatia. È Baymax il vero centro del film, il mezzo attraverso cui Hiro riesce a superare il lutto e a ricercare la verità sulla perdita del fratello.

Perché Big Hero 6, fedele alle sue origini tra le pagine di un fumetto Marvel, è un comic movie di vendetta, di quelli che pongono nella ricerca sulla verità di una perdita la nascita di un supereroe. Dopo la parte iniziale che si concentra sul rapporto Hiro-Tadashi prima e Hiro-Baymax poi, Big Hero 6 cambia registro per avvicinarsi di più alla tradizione Marvel, con la costruzione della squadra di supereroi chiamata a combattere il super cattivo. Sembrano gli Avengers, i Big Hero 6, e Baymax, quando viene munito di armatura, sembra Iron Man in tutto, anche nelle prime difficoltà di volo. Infatti il film Disney non si tira indietro dai confronti con il mondo cinematografico Marvel, ma anzi ci gioca e lo espande, pretende il suo cameo di Stan Lee, come da tradizione, e lascia presagire la possibilità di un seguito. Questo senza perdere comunque l’anima Disney di film per bambini.

Si è parlato del peso che poteva avere un precedente di successo come Frozen. La verità è che la Disney sa fare il suo da sempre. Con Big Hero 6, che comunque era in fase di realizzazione da ben prima del successo della storia di Elsa e sorella, rinuncia a canzoni, magia e principesse e mira a colpire un altro tipo di immaginario infantile (e non solo) infilandosi in un filone che sta conoscendo il suo momento di maggior successo. Costruendo San Fransokyo trascura l’abituale architettura di castelli per avvicinarsi al moderno e a esperimenti di fusione di concreto fascino che rendono i monumenti delle due città di ispirazione riconoscibili e allo stesso tempo completamente nuovi.

Guardando sempre al suo pubblico di elezione, Big Hero 6 è in grado comunque di parlare a ogni età, accostando alle tematiche classiche dell’amicizia e della crescita argomenti ulteriori come il sacrificio, la vendetta e la pazzia. E trova in Baymax, in questa specie di incrocio tra il Totoro dello Studio Ghibli e il Terminator più umanizzato, il personaggio da consegnare al futuro.

(Big Hero 6, di Don Hall e Chris Williams, 2014, animazione, 102’)

“Terre rare”
di Sandro Veronesi

Con Terre rare (Bompiani, 2014), Sandro Veronesi torna in libreria dopo tre anni dalla raccolta di racconti Baci scagliati altrove, a quattro dall’ultimo romanzo XY, ma soprattutto a nove da Caos calmo, con cui ha vinto il Premio Strega nel 2006.

Sono passati nove anni anche nell’universo di Pietro Paladini. Sono passati nove anni dalle interminabili attese seduto su una panchina, dagli elenchi, dai personaggi che gli scorrono davanti, quasi fossero tanti pezzi di sé in una ricerca quasi pirandelliana di un luogo dove stare. Nove anni  per fuggire da rimorsi e sensi di colpa, per fuggire da un io troppo misero e con troppi sospesi.

Caos calmo e Terre rare sono due storie della stessa grande storia in cui è lampante un primo elemento: se Caos calmo è, paradossalmente, una narrazione extradiegetica, in quanto Paladini sembra raccontare qualcosa da fuori, una storia che a un certo punto è quasi chiaro che non gli appartiene (con il pianto disperato in macchina a sancire la presa di coscienza dell’Assurdo della vita), come se non fosse realmente lui il punto attorno a cui ruota l’intero universo – e in questa forma di rappresentazione dell’alienazione dal mondo Veronesi è stato ineccepibile –, in Terre rare ci troviamo invece in una rappresentazione marcatamente intradiegetica. Paladini, infatti, è quello che gli accade intorno, reagisce agli impulsi dell’esterno, e interagisce, prova a plasmarli, a farli diventare, nei limiti ovviamente delle capacità di un essere umano, ciò di cui ha bisogno. In Caos calmo c’è una tendenza alla rimozione, solo la cognata – che Paladini fa passare un po’ per una fuori di testa –, cerca di fargli capire, di scuoterlo. Qui, invece lotta. Lotta anche quando sta per svenire. Si rende conto di ciò che gli accade intorno. Se per il protagonista di Caos calmo, parafrasando Dylan Thomas, «La palla che lanciammo giocando nel parco è tornata giù da un pezzo. Dobbiamo smettere di aspettarla», negando l’esistenza stessa della palla stessa, qui la palla esiste ed è ancora in aria.

In Terre rare, Paladini ha cambiato città – non più Milano, ma Roma –, ha una nuova compagna, un nuovo lavoro. Lavora, infatti, in un concessionario e la vita sembra poter scorrere al meglio, ma in brevissimo tempo commette un grave errore a lavoro, si ritrova senza patente, senza cellulare e senza la possibilità di accedere a internet (in questo passaggio di denota l’aspetto uomo iper moderno di Veronesi: cosa può fare un individuo, oggi, di ceto medio-alto, senza internet? Cosa fa per sopravvivere? Come può sopravvivere? Costringendolo a fare qualcosa che, oggi, sembra appartenere a un’altra epoca: andare in un internet point. Cosa può fare, a questo punto, Veronesi senza tutto questo?), una figlia scappata di casa, la Guardia di Finanza che ha sigillato l’ufficio e sequestrato i computer, il collega, Lello, che non si sa che fine abbia fatto. Da qui  inizia la discesa verso l’inferno personale del protagonista. Tutto parte dalle scelte di Lello, dai suoi rapporti oscuri.  Anche qui, l’input che da via a tutto può essere catalogato nella dicotomia esterno/interno. Se in Caos calmo il motivo che fa scaturire il dramma proviene dall’interno, la morte della moglie, in una situazione dettata dal caos, in Terre rarel’avvenimento dipende dalla volontà del suo collega, da qualcosa che è completamente al di fuori di sé, da scelte esterne che sono altro da sé.

Da questo momento, Paladini si troverà ad avere a che fare con la comunicazione stile Al Qaeda – un account unico con cui interagire lasciando i messaggi nelle Bozze delle e-mail senza inviarli, per evitare di essere tracciati –, denaro falso, una banda di malavitosi rumeni, altri personaggi ambigui che vivono tra la legalità e l’illegalità, una fuga in Svizzera, un fratello rifugiato in Uruguay e la continua sensazione di avere la possibilità di mollare tutto e scappare.

Contemporaneamente, gli strascichi della morte della moglie che si manifestano prepotentemente nel rapporto con la figlia, che si fa depositaria della memoria e del passato di Paladini. E il caos calmo che continua a vibrare dentro di lei.

Per quanto Veronesi possa essere definito un bestellerista, dove l’italianizzazione di un termine inglese come bestseller ne definisce un’accezione negativa – la mente porta a esempi meno nobili dell’ultima produzione di massa italiana –, la capacità di riuscire a vendere non è ontologicamente un male, anzi: abbiamo di fronte un altro romanzo in cui sviluppo e ritmo narrativo sono soppesati con il contagocce; in cui, a sorreggere e a dare linfa al tempo e dramma interiore di un uomo si sviluppa una trama che ha le caratteristiche vorticose velatamente ammanitiane.

E in cui la capacità di essere trasversale, e di trovare un punto di incontro tra l’autorialità e la distribuzione massiccia, sono un enorme punto a favore.

(Sandro Veronesi, Terre rare, Bompiani, 2014, pp. 407, euro 19)

“L’isola che scompare”
di Fabrizio Pasanisi

Guida turistica, quête sull’immaginario irlandese, divagazioni sui suoi grandi scrittori, persino un dialogo immaginario fra l’autore e James Joyce: non semplice e in fondo inutile definire il libro di Fabrizio Pasanisi, L’isola che scompare. Viaggio nell’Irlando di Joyce e Yeats da poco in libreria per Nutrimenti (nella collana Tusitala diretta da Filippo Tuena). Pasanisi parte da Cork (dal sud), risale verso le  scogliere (Cliffs of Moher), giunge nella Galway di Nora Barnacle, moglie di un certo James Joyce, scrittore dispettoso e un po’ disertore dell’anima irlandese e per questo meno amato del monumento istituzionale W.B. Yeats, a meno di non arrivare a Dublino, cosa che ovviamente l’autore fa, ove la diade conflittuale città-campagna, terra-spirito, tradizione-innovazione si ricompone in una cifra tonda che si direbbe il magnete irresistibile al quale Pasanisi non sa resistere.

Difatti, a dispetto delle parole del padre di Joyce («Nessuno che abbia un minimo rispetto per se stesso rimane in Irlanda»), Pasanisi racconta invece una vera e propria fascinazione che passa dalle campagne immancabilmente verdi, l’incombenza di un oceano cupamente romantico, laghi sparsi ovunque e fiumi (l’acqua onnipresente trova nel riverrun del Finnegans Wake «la migliore metafora per introdurre il discorso»), impervi attraversamenti stradali, il cibo («qui le uova sono il sale»), un certo carattere del popolo irlandese, testardo e caloroso, e – si direbbe – ignaro del cinismo (l’eccezione Oscar Wilde, «irlandese fino al midollo, scanzonato fino allo scandalo» conferma la regola o segna soltanto una peculiare genialità che il popolo non conosce…?).

L’atto d’amore di Pasanisi abbraccia una terra nella sua totalità di natura e cultura, ben salda su ancestrali mitologie colte e popolari insieme ma rivista nel confronto con la modernità di Heaney o Beckett e soprattutto Joyce. Che parrebbe costituire il polo antitetico a Yeats: l’élite aristocratica di quest’ultimo, un certo sentore mistico e una simbiosi «idilliaca con la natura» (che a giudicare da certi passaggi della scrittura di Pasanisi, un po’ enfatici e “poeticistici”, sembra sedurlo non poco), di contro al cosmopolita autore dell’Ulisse, «pronto a chiamare le cose con il loro nome», a intrecciare tragico e comico in un’esplorazione estrema del linguaggio che è anche una sfida verso la conoscenza umana senza tabù. Proprio con Joyce, Pasanisi si cimenta e bene nel genere del dialogo immaginario, facendogli dire cose molto divertenti, evidenziandone il lucido disincanto, il rapporto con Beckett, l’amore per una moglie che pure non capiva un’acca della sua opera. Così come diverte il ritratto che Pasanisi fa dello stesso Joyce che aveva una gran fifa dell’acqua e giunse alle isole Aran tremebondo. Se teniamo presente che, inclusi o meno nell’itinerario del libro, l’Irlanda è anche la terra di Swift, di Bram Stoker (l’autore del Dracula), degli O’ Brien, di G.B. Shaw, di William Trevor, per non dire dei recenti O’Connor e Roddy Doyle e di un giovane scrittore talentuoso di cui abbiamo parlato recentemente qui, Kevin Barry, autore della raccolta di racconti Il fiordo di Killary tradotta da Adelphi, ci sono motivi cospicui, dal semplice turista al lettore interessato alle cose irlandesi per non farsi mancare questo libro, indubbiamente ricco di suggestioni (nonché, abbiamo detto, di utilissime “dritte”) e corredato di decine di fotografie in bianco e nero.

(Fabrizio Pasanisi, L’isola che scompare. Viaggio nell’Irlanda di Joyce e Yeats, Nutrimenti, 2014, pp. 240, euro 18)

“Zama”
di Antonio Di Benedetto

Zama di Antonio di Benedetto (SUR, 2014) è un libro potente, monumentale e non facile: un andamento apparentemente lineare, una scrittura accurata, immagini forti.

Zama è un personaggio affascinante, che difficilmente si lascia amare; il suo destino, raccontato in prima persona, snodato in diversi archi temporali, è un cammino simbolico e umano.

Solitudine, attesa e sospetti di follia prorompono sin dalle prime righe di questo romanzo, impregnato di diversi influssi letterari tra cui Buzzati e Camus, e allo stesso tempo originale e impossibile da paragonare ad altri testi.

Diego de Zama, trentacinquenne funzionario della corona spagnola, consigliere del governatore, è un uomo bloccato (in)felicemente in un luogo dove non vuole stare. Irrequieto e sensibile, irascibile e violento, serve in una parte del regno dove «le cariche non levano alle stelle», lontano dalla moglie Marta, dai figli e dalla madre, in attesa di un trasferimento che deve arrivare. Ma non arriva.

Metafora della sua esistenza, un’immagine cruda e indimenticabile che troviamo nelle prime righe del romanzo: una scimmia morta impigliata tra i pali di un molo, indecisa tra l’andarsene e il rimanere, in attesa di un destino.

Ed è proprio l’attesa a diventare il motore di questa storia. L’attesa che rappresenta un ostacolo ma che è anche un continuo stimolo. Che induce Zama ad abbandonarsi ai propri demoni e impulsi, al pensiero instancabile di trovare una donna che ponga fine almeno momentanea alla solitudine, alla rassegnazione davanti alla morte, alle ambizioni, ma anche alle continue battaglie, alla violenza e, infine, alla passività. Che fa pensare che si può alla fine morire senza che nessuno se ne accorga e gridare per l’orrore senza che nessuno ci senta.

C’è in questo libro un andamento lento, con finte accelerazioni, come nel personaggio di Zama finte sono le ambizioni e passioni, perché prevale sempre la rassegnazione, quel piacevole stare tra l’andarsene e il rimanere, un ritmo stabile e costante, rassicurante.

Zama è un personaggio in finta evoluzione: dopo il primo capitolo e dopo un arco temporale di quattro anni, in cui per il protagonista «il passato era un quadernetto di appunti che mi s’era perduto», leggiamo di un Zama padre noncurante, impoverito, ma ugualmente irrequieto e fluttuante. È tormentato dalle scene oniriche dei labirinti di cortili, corridoi, apparizioni femminili della casa di Ignacio Soledo, dove trova fuga dai pensieri ai travagli quotidiani: la povertà, il trasferimento sempre più lontano e improbabile, la responsabilità di essere padre.

Le immagini si fanno più visionarie, mistiche e deliranti e il nostro personaggio diventa sempre più solitario e preda di visioni e rimpianti.

Ancora un salto nel tempo e il libro si chiude con un capitolo ambientato nel 1799 dove leggiamo di un Zama rinvigorito, in procinto di un viaggio a nord a caccia di un bandito; impresa che, se andata a buon fine, questa volta gli avrebbe procurato finalmente il trasferimento. Dai tormenti dell’animo di un uomo solitario si passa dunque a un testo quasi di avventura, con combattimenti con gli indigeni, banditi, tribù cieche, morti violente. Dagli spazi intimi, quasi sempre interni, si passa alle foreste, campi di battaglia, luoghi reali ma non meno infestati da presenze oniriche.

Zama, comunque, resta quasi gloriosamente vittima delle proprie ossessioni, finché di fronte al rischio della morte guarda in faccia la beffa del proprio destino e davanti ai propri boia pronuncia: «avevo fatto per loro quel che nessuno aveva volute fare per me: dire, alle loro speranze, di no».

Un romanzo «strano e inclassificabile, sprezzante e crudele», scrive Maria Nicola nella prefazione, un Kafka d’oltreoceano, fuori dal tempo, che è diventato uno dei maggiori romanzi argentini del Novecento.

(Antonio Di Benedetto, Zama, trad. di Francesco Tentori Montalto, SUR, 2014, pp. 256, euro 15)

“Storie pazzesche” di Damián Szifron

Sei racconti selvaggi (per rimanere fedeli al titolo originale, Relatos Selvajes, cambiato per qualche motivo oscuro), sei episodi assolutamente non collegati tra loro ma uniti dalla imprevedibilità e follia umana, formano le Storie pazzesche con cui l’argentino Damián Szifron si è presentato in concorso all’ultimo Festival de Cannes e che in questi giorni sono di passaggio al Courmayeur Noir in Festival.

Su un aereo, tutti i passeggeri scoprono di conoscere la stessa persona, e quella persona è il pilota. Durante una notte di pioggia, in un ristorante isolato, una cameriera vede entrare l’uomo che ha rovinato la vita di suo padre. Su una strada in mezzo al nulla, un semplice litigio tra due automobilisti diventa una primordiale resa dei conti. Un ingegnere civile vede la sua vita andare a pezzi per colpa di una multa. Una famiglia benestante è alle prese con un incidente stradale che coinvolge il figlio. Durante un grande matrimonio viene fuori la verità sullo sposo e la vendetta della moglie.

Definire Storie pazzesche non è semplice. Il regista e sceneggiatore Szifron (che è soprattutto autore e regista televisivo. Il suo Hermanos y detectives era stato acquistato da Mediaset che ne aveva fatto prima un film e poi una serie con Enrico Brignano) ha raccontato che le sei storie sono nate in un momento di frustrazione personale per altri progetti che non riuscivano a decollare. Ha lasciato volare la fantasia per conto proprio e ha buttato giù dei racconti su cui poi ha deciso di costruire il film. Non c’è un filo conduttore evidente, se non il tono grottesco e a tratti paradossale. Sembrano quasi episodi di Ai confini della realtà incrociati con le Storie incredibili ideate da Steven Spielberg per la tv negli anni Ottanta. Eppure, guardando appena al di sotto della superficie a metà tra barzelletta e apologo morale, si può vedere tanto sulla condizione dell’Argentina d’oggi e sulla sua borghesia.

I due episodi finali, ad esempio – quelli dell’incidente e del matrimonio –, mostrano un’abitudine al compromesso che è sintomo della vocazione alla finzione che caratterizza la classe media non solo argentina. In particolare nel quinto, l’idea che un incidente grave, se succede al figlio di un magnate abituato a risolvere i problemi con il denaro, possa diventare tranquillamente una trattativa di affari anziché una questione giuridica, dimostra la vocazione all’irresponsabilità di quanti sono allenati a pensare di poter scaricare le proprie colpe su altri, in cambio di denaro. Allo stesso modo, il matrimonio sfarzoso e cafone che fa da cornice all’ultimo episodio diventa messa in scena per rappresentare la sintesi dei ricatti e dei segreti di una intera vita di coppia.

C’è altro, perché la storia dell’ingegnere vessato dalle contravvenzioni, interpretato da Ricardo Darín già protagonista di gran parte del miglior cinema argentino contemporaneo, fino al premio Oscar del 2009 Il segreto dei suoi occhi, chiama in causa la burocrazia assurda e il suo riflesso sulla vita dei cittadini.

Sotto l’apparenza di intrattenimento nero, quindi, si può osservare in Storie pazzesche (prodotto anche da Pedro Almodóvar) una riflessione amara e ulteriore su un intero paese che si trova ancora una volta a doversi confrontare con difficoltà economiche immense e un nuovo default dopo il crollo delle borse del 2001.

Szifron riesce a muoversi tra generi completamente diversi, guardando a modelli che vanno dal Duel di Steven Spielberg (di nuovo), nell’episodio della lotta tra automobilisti, al pulp di Tarantino, fino ad arrivare a una sintesi tra Reality di Matteo Garrone e L’ultimo capodanno di Marco Risi nell’episodio conclusivo, con piena consapevolezza dei propri mezzi registici. Senza la pretesa di essere preso come autore impegnato, Szifron riesce comunque a testimoniare, ancora una volta, l’ottimo stato di salute del cinema argentino anche in una confezione inedita e lontana dall’idea di autorialità. E senza rinunciare all’obiettivo di divertire il pubblico.

(Storie pazzesche, di Damián Szifron, 2014, commedia, 122’)

“Missing. New York”
di Don Winslow

«Preparati, che venerdì vai a cena con Don Winslow». Senza risveglio incollato alla frase.

Tutto vero. Peccato che io prima dell’annuncio non avessi letto nulla di sgorgato da quel nome.

Si potrebbe bollinare banalmente come “pregiudizio di genere”, o “criterio economico di consultazione”.

In pratica, non vantando grandinate di tempo a disposizione per leggere a dovere, si sceglie quello che ci chiama più forte. E il poliziesco non mi ha mai stregata abbastanza. Però c’era in ballo una cena.

In americano fluente. E calarmi addosso un casco di silenzio non si addiceva alla mia smania.

Quindi ho imbracciato quel libro. L’ultimo e il primo. L’ultimo in ordine di pubblicazione e il primo di quella che si profetizza un’altra serie pedinata dal suo pubblico. Missing. New York (Einaudi, 2014).

Basta masticare qualche briciola d’inglese per inferire che tutto orbita intorno a un’assenza. La presenza invadente di una scomparsa. Quella di Haley e dei suoi occhi troppo verdi, che in un pomeriggio d’afa svaporano dal suo giardino mentre la mamma è distratta. Una bambina di colpo si nebulizza. L’angoscia di madre si mette in scena. E fin qui, un tragico caso spesso comune, soprattutto nelle trame di un noir.

Ho pensato ai pochi casi maneggiati negli sporadici appetiti di thriller. Sparita è la piccola cercata da Jackson Brodie nell’efficacissimo I casi dimenticati di Kate Atkinson, così come si dissolve la bimba che spalanca l’ingresso a Un piccolo gesto crudele di Elisabeth George. Ma la pioggia di esempi si abbatterebbe anche altrove e per parecchi altri titoli.

Qui siamo in Nebraska, torrido e sfiancato da un’estate imperdonabile. Haley è di sangue misto, figlia di una ragazza bianca e di un afro-americano. E di solito non sono quelle le predestinate a calamitare troppe premure. Ci si affanna di più per ritrovare altre bambine. Più pallide e più ricche. Ma tra lei e un finale con pochi spiragli s’interpone Frank Decker. E questo, come sempre, fa la differenza.

Il poliziotto in questione non è nel suo momento migliore. Un matrimonio che annaspa senza lottare, un caldo che inzacchera anche le ipotesi e quel viso sfumato davanti casa con un giocattolo in mano. Le indagini onorano a dovere il rituale degli allarmi, dei sospetti più vicini, ma Haley non torna. E di solito, si sa, dopo ventiquattro ore molte vittime non respirano più.

A Decker perciò non resta che pensarci da solo. Lascia la polizia. E lì s’innesca il viaggio dell’eroe. Fuori dal mestiere, fuori da sua moglie. Nei gangli di una New York annoiata dalla sua ricchezza, tra fotografi, modelle e crepacci più profondi delle loro piscine. A ridosso d’innumerevoli inferni dov’è la miseria a ingrossare le tasche.

Don Winslow, ex detective consegnato alla scrittura e padre di successi come Il potere del cane L’inverno di Frankie Machine, sforna un altro personaggio vincente. Sporco ma buono, rude e idealista.

E, rispetto ai casi già sfogliati, è un attimo perché zampilli l’empatia.

Maschio come se ne avvistano pochi tra sciami di donne fascinose, capace di elargire montanti e comprensione con la stessa muscolare scioltezza. Umile e autoironico, cocciuto ai limiti dell’ossessione, responsabile dei figli che non ha.

Già troppo disilluso per i suoi trentaquattro anni, tanto da farsi immaginare molto più avvizzito. Bisognoso di una causa impossibile per sentirsi vivo.

Il resto è da appurare in corso d’opera, altrimenti il giallo rischierebbe di smacchiarsi.

La cena? Un filetto più che onesto, masticato davanti a un signore delizioso, al pascolo in Europa per promuovere il romanzo. Grande amante della pasta e del cinema italiano ancora in bianco e nero. Un buon sugo di battute (alcune afferrate, altre solo intuite), classifiche di film piovute dal cuore e l’improvviso desiderio di complimentarmi con Frank Decker se fosse stato lì, di fronte al mio bicchiere. Ma, impigliato com’era negli umori della prossima missione, dovrò aspettare che sgusci da una pagina.

Non c’ero abituata, ma cercate di capire, è il primo detective a cui mi sia mai affezionata.

(Don Winslow, Missing. New York, trad. di Alfredo Colitto, Einaudi, 2014, pp. 312, euro 18)

“Il comandante del fiume”
di Ubah Cristina Ali Farah

Nel mondo di Yabar la musica è importante: zia Rosa la ascolta, Sissi la studia e la canta, il Sibarita la suona e mamma ha una voce davvero bella, e quand’è felice intona canzoni somale. A lui, però, la musica non piace proprio, perché «ti cambia le cose dentro la testa, il modo in cui le vedi e le senti», mentre per concentrarsi bisogna stare in silenzio. E a dirla tutta, troppe volte quand’era piccolo mamma Zahra alzava il volume della radio per impedire a suo figlio di origliare conversazioni telefoniche che un bambino non dovrebbe stare a sentire.

Per non parlare poi dello studio: «il problema della scuola è che a volte ti fa odiare persino gli argomenti che prima ti interessavano», spiega Yabar per giustificare la sua insofferenza a qualsiasi forma di istruzione istituzionalizzata. Alla notizia della seconda bocciatura, perciò, la volontà materna si impone sul ragazzo con un provvedimento che si spera dia una scossa al suo ciondolare indeciso e irrequieto: un mese di punizione a Londra dai parenti somali, impacchettato e spedito lontano da Roma e dai suoi punti di riferimento affinché maturi un po’ di sano giudizio.

Nel portafoglio di Yabar c’è una fotografia del padre, un collage grottesco ottenuto dalla ricomposizione di alcune fototessere nelle quali il suo viso non era mai intero. L’uomo picassiano guarda inespressivo quel figlio adolescente che pescando nei ricordi non arriva più a dare consistenza all’aspetto paterno, e persiste nella memoria come un alone confuso, senza volto. Tanti anni prima, di fronte alla scelta tra patria e famiglia, il padre scelse la prima, partendo alla volta della Somalia per combattere nella guerra civile in nome di testarde ideologie.

Ubah Cristina Ali Farah ne Il comandante del fiume dà voce a un personaggio vibrante di spavalderia e ingenuità, che si scherma dietro una finta baldanza per compensare le insicurezze che accompagnano il suo percorso di crescita. Yabar è un Holden Caulfield postcoloniale, italiano figlio di quella diaspora somala che ha sparpagliato un intero popolo nel mondo, fuggito in massa da una guerra tra clan che ha rotto tutti gli equilibri, riducendo a brandelli una nazione che sopravvive nei ricordi degli esuli, nella memoria collettiva.

La geografia dei luoghi nel romanzo è tracciata secondo l’esperienza che ne fa il protagonista stesso: la scrittura infatti fotografa impressioni sparse, che tuttavia danno solidità agli spazi della vicenda con più concretezza di descrizioni minuziose. C’è la Roma quotidiana di Yabar, tra bighellonate nel quartiere Ostiense e passeggiate lungo il Tevere, la Londra dei parenti materni, dove il ragazzo viene catapultato in un microcosmo somalo incastrato in una vita autoreferenziale da sobborgo, e c’è la Mogadiscio dell’infanzia, che riemerge in frammenti da ricordi aggrovigliati, custodita nella sua mente di adolescente come una cartina sgualcita e lacerata in alcuni punti.

Il comandante del fiume è un romanzo di formazione, un percorso di ricerca della propria identità, il ritratto di un’individualità complicata, sgretolata e scomposta dall’esperienza diasporica. Nell’estate della sua seconda bocciatura a Yabar tocca fare i conti con i retroscena della sparizione del padre lontano, maturare per diventare un po’ più uomo, e scontrarsi con molte paure, superandone pure qualcuna. E alla fine, a questo ragazzo, non si può non voler bene.

(Ubah Cristina Ali Farah, Il comandante del fiume, 66thand2nd, 2014, pp. 208, euro 16)

“Mommy” di Xavier Dolan

Nel Canada di un futuro immediato (il 2015), il governo ha varato una riforma del sistema sanitario che permette ai genitori di scaricare i figli problematici in ospedali psichiatrici senza la sentenza di un tribunale o il parere di un medico. Steve è uno di questi ragazzi. È rinchiuso in un istituto giovanile, ma è talmente indisciplinato da venire espulso dopo aver dato fuoco alla mensa. La madre, Diane detta “Die”, è costretta a riprenderlo a casa. Sono soli, perché il padre è morto anni prima e li ha lasciati con problemi economici che Die affronta accettando ogni lavoro. È vitale e feroce nella sua bellezza aggressiva, Die, sboccata e sfacciata quel tanto che basta per risultare odiosa o irresistibile. Steve è peggio. È iperattivo, pronto a scatti d’ira che non rispettano niente e nessuno, ma è «pieno di carisma», come ripete sempre la madre. Il rapporto tra i due è difficile e teso, si insultano, si urlano contro. Si amano in un modo malato, con Steve che vorrebbe le attenzioni della madre solo per sé e Die che non sa gestire l’incontenibile smania del figlio. Tra di loro si inserisce Kyla, una vicina rimasta muta a seguito di un trauma (la morte di un figlio, ma non è specificato) e che lentamente sta riniziando a parlare.

Il canadese Xavier Dolan è probabilmente il più grande talento del cinema mondiale. Dal 2009 dell’esordio come regista e sceneggiatore con J’ai tué ma mère a oggi ha diretto e scritto cinque film. Ha recitato in una quindicina di progetti, tra televisione e cinema, è il doppiatore di Stan nella versione franco-canadese di South Park, e ha ottenuto trentasei premi internazionali, l’ultimo, e il più prestigioso, a Cannes, il Premio della giuria per Mommy. Sembra il curriculum di un cineasta navigato, eppure Dolan ha solo venticinque anni. È emblematico che il premio a Cannes sia arrivato in ex aequo con Addio al linguaggio di Jean-Luc Godard. Sembra quasi un passaggio di testimone, tra la vecchia e la nuova generazione. Non che Dolan abbia molto in comune con il cinema di Godard, se non nella voglia di sperimentare.

In Mommy, infatti, Dolan prosegue una ricerca sul formato che aveva iniziato con Laurence Anyways, filmato interamente in 4:3, e portato avanti con i momenti in cinemascope di Tom à la ferme. La scelta per l’ultimo lavoro è quasi estrema: il rapporto 1:1, che mostra sullo schermo una porzione minima di video, come le riprese fatte con il cellulare orientato nel verso sbagliato. Quello che si vede è grosso modo un rettangolo. Il resto, tutto il resto, è nero.

Dolan aveva sperimentato il formato nel video clip realizzato per la band canadese Indochine, “College Boy” (lo potete vedere qui, ma è piuttosto crudo), e se ne era innamorato. Costringe lo spettatore a concentrarsi solo sui personaggi e le loro azioni, senza disperderli nel contesto del paesaggio. È questo che voleva Dolan, è questo che ha ottenuto. Perché in Mommy non si ha modo di volgere lo sguardo altrove da Die, Steve e Kyla. Sono loro il centro di uno schermo nero, unico punto di luce, a volte in due, pochissime volte in tre, molto spesso da soli. Chiudendo lo sguardo della telecamera, Dolan riesce a mostrare tutto quanto quello che i suoi personaggi si portano dentro.

C’è della claustrofobia, nella visione di Mommy. L’occhio sente il bisogno di respirare, di aprirsi. Anche Steve, Die e Kyla hanno questo bisogno, ma sono schiacciati, oppressi dalla vita. Perché Die lotta ogni giorno tra l’amore estremo per il figlio e la paura, l’incomprensione, che non le permette di avvicinarsi del tutto. Steve ribolle di rabbia per ogni cosa, mentre vorrebbe solo il consenso della madre, o in alternativa la sua punizione, e Kyla combatte il suo silenzio, la sua inadeguatezza, cercando di aiutare per sfuggire dalla sua condizione familiare, da un marito che appare distante, da una bambina che non sa amare. Sono loro, i prigionieri del rettangolo di schermo che mostra il mondo. Sono loro che possono aprirlo. C’è un momento, molto riuscito, in cui Steve allarga con le mani i bordi e l’immagine esplode in pieno formato mentre lui corre con il suo skateboard sulle note di “Wonderwall” degli Oasis. Si sente tutta la libertà che il ragazzo invoca, per sé e per la madre e per Kyla. Quell’apertura, però, è solo un’illusione. È la dimensione del sogno, l’unica in cui l’occhio può davvero spalancarsi. Il mondo che questo Quebec appena futuribile mostra non va oltre un rettangolo che chiude via tutto quello che è intorno, e lascia soli.

Accantonando la centralità delle tematiche omosessuali che fino a questo momento avevano caratterizzato i suoi film, Xavier Dolan sembra tornare all’origine del suo cinema, soffermandosi sul rapporto madre-figlio come già nel semi autobiografico J’ai tué ma mère. Lì, a muovere il protagonista Hubert era il desiderio di liberarsi dalla madre troppo oppressiva (che era interpretata dalla stessa attrice che fa Die, Anne Dorval). In Mommy, invece, è una madre che sente il legame come opprimente e impossibile. Tra Steve e Die c’è Kyla, che funziona come fulcro di equilibrio tra i due, amica per Diane, educatrice per Steve. Quello che si delinea è una specie di triangolo di tensione sentimentale. È il supporto silenzioso di un rapporto impossibile e allo stesso tempo la rappresentazione di una fuga possibile, e di una realtà nuova.

(Mommy, di Xavier Dolan, 2014, drammatico, 138’)

“Scemo e più scemo 2” di Bobby e Peter Farrelly

Sono passati vent’anni dall’ultima volta che abbiamo visto i due scemi originali Harry e Lloyd in Scemo e più scemo. Le cose non sembrano andare bene, per loro, oggi. Lloyd vive in una clinica ridotto come un vegetale dopo la fine della storia d’amore (in realtà mai iniziata) con Mary Swanson. Harry si prende cura di lui, ma ha i suoi problemi, piuttosto importanti. Uno dei suoi reni ha smesso di funzionare, e ha bisogno di un trapianto per stare meglio. Con l’amico di sempre decide di partire alla ricerca di una figlia di cui ha appena scoperto l’esistenza per provare a convincerla ad aiutarlo con una donazione. Ovviamente, durante il viaggio succederà di tutto, tra equivoci e avventure impossibili.

Nel 1994 Scemo e più scemo esplose nei botteghini di tutto il mondo imponendo due nuove realtà del cinema comico internazionale: i fratelli Farrelly, registi e sceneggiatori, e Jim Carrey, protagonista nello stesso anno di altri due campioni di incassi come Ace Ventura The Mask. Provenivano entrambi dalla televisione, come autori, i fratelli, come comico Carrey. A completare la squadra, a sorpresa, arrivò Jeff Daniels, già visto in film come Voglia di tenerezza e nominato già due volte ai Golden Globes per i suoi ruoli in La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen e Qualcosa di travolgente di Jonathan Demme. Si dice che fu Carrey a volerlo a tutti i costi come sua spalla, nonostante l’opposizione dei Farrelly. Si dice anche che gli vennero offerti solo cinquantamila dollari per la parte, per scoraggiarlo, e che lui li accettò senza battere ciglio.

Comunque siano andate le cose, i due scemi hanno lasciato un’impronta nella comicità cinematografica. I fratelli Farrelly sono diventati i dominatori assoluti delle commedie statunitensi fino al 2000 (hanno fatto, tra gli altri, Tutti pazzi per Mary e Io, me & Irene), Carrey ha continuato a sfondare i botteghini con i suoi film e si è mostrato anche capace, eccome, in ruoli drammatici e complessi, Daniels è tornato a lavorare in progetti più ricercati, dedicandosi anche alla sua fondazione di teatro no-profit fondata con la moglie in un garage. Di Scemo e più scemo non se ne fece nulla con la stessa squadra, nonostante le insistenze degli studios che volevano cavalcare subito il successo con un sequel. Nove anni più tardi si decise di tentare la strada del prequel, affidando a Troy Miller il disastroso Scemo e più scemo – Iniziò così, sulla nascita dell’amicizia tra i due scemi al liceo (ovviamente con altri attori a interpretare Harry e Lloyd).

Arrivati nel 2014 si è deciso di tentare l’operazione nostalgia e rispolverare Scemo e più scemo per un seguito. Negli ultimi anni, i fratelli Farrelly hanno perso molto della loro brillantezza e del loro potere sugli incassi. Anche Jim Carrey è lontano dalla gloria del passato. Soltanto Jeff Daniels, con il suo profilo dimesso, continua a farsi apprezzare in tutto quello che fa, in ultimo la serie The Newsroom. Eppure, tra gli appassionati e i nostalgici c’era una certa attesa per il ritorno di Henry e Lloyd e delle loro improbabili avventure.

Per poco, nei minuti iniziali, tutto sembra funzionare. Ci sono gag, tante, e funzionano tutte. Il comico che scaturisce dall’idiozia conclamata di Harry e Lloyd sembra trovare in Daniels e Carrey la stessa complicità del primo film. La new entry Kathleen Turner dimostra tutta la sua autoironia accettando di farsi prendere in giro – e di farlo da sola – per il disfacimento fisico. Poi basta, però.

A corto di idee e di brillantezza, i Farrelly si limitano a replicare il modello del primo film lanciando i due protagonisti di nuovo sulla strada. Di nuovo, vengono scambiati per quello che non sono, di nuovo si ritrovano coinvolti in qualcosa di molto più grande di loro senza rendersene affatto conto. Il problema, di questo Scemo e più scemo 2, è la debolezza assoluta della trama, sfilacciata e incoerente come è capitato sempre più spesso ai Farrelly negli ultimi anni.

Finché, nella prima parte, Jim Carrey e Jeff Daniels sono lasciati liberi di cazzeggiare, l’obiettivo della risata semplice è raggiunto. L’equilibrio, rischiosissimo, tra gli estremi della volgarità eccessiva e del demenziale puro del primo film sembra tornare ancora una volta. È quando si affacciano le sottotrame e le complicazioni a tutti i costi che il film crolla. Harry e Lloyd perdono l’intesa, tutto si ingolfa, si appesantisce, si stanca, e Scemo e più scemo 2 finisce per replicare, malamente, il modello originale. Comunque, sono già arrivati più di settanta milioni di dollari di incasso. È lecito immaginare che non passeranno vent’anni prima di uno Scemo e più scemo 3.

(Scemo e più scemo 2, di Bobby e Peter Farrelly, 2014, comico, 110’)

Il profumo della neve

Quando un treno passava sopra la mia testa il rumore era così forte che tutto sembrava tremare, ma col tempo ci avevo fatto l’abitudine.
Arrivai a Milano dopo un viaggio infinito. Mi era stato raccontato che in Italia si poteva guadagnare bene e mantenere una famiglia senza problemi. Conoscevo un amico che faceva il venditore ambulante e alloggiai da lui in un monolocale alla periferia sud della città. Troppo piccolo per le quattro persone che eravamo, tutti nigeriani e tutti senza permesso di soggiorno. C’era il bagno in casa e per me quello era già un lusso, perché io non avevo mai avuto un bagno.
Con fatica imparai a parlare l’italiano e a fare l’ambulante. Ogni giorno riuscivo a racimolare qualche soldo. C’era chi finiva per lasciarmi solo una moneta senza comprare nulla, e chi mi allontanava in malo modo, ma io non mi scoraggiavo. Vendevo di tutto: oggetti in legno, borse, bigiotteria, libri di scrittori africani.
Le giornate trascorrevano tutte uguali. Ci alzavamo all’alba e cercavamo un luogo dove vendere. L’estate lavoravamo fino a tardi, mentre l’inverno rientravamo non appena faceva buio. Nei momenti liberi indossare gli abiti sgargianti del nostro paese ci faceva sentire come a casa, quando intorno a un fuoco si scherzava e si parlava della vita.
La nostalgia per miei era insopportabile, mi mancava tanto la nonna materna. Sono cresciuto con lei, mentre mia madre portava gli animali al pascolo. Da piccolo mi raccontava tante storie sugli antenati e mi insegnava le tradizioni. Eravamo una bella famiglia, ma eravamo molto poveri. Lasciai tutti là, compresi un fratello e due sorelle più piccoli, con la certezza che un giorno sarei tornato.
A Milano vivevo di poco e all’inizio cercavo di mandare tutto quello che riuscivo a farmi avanzare in Nigeria. Non era facile sapere se il denaro arrivasse o meno a destinazione e alla fine ho lasciato perdere.
Mi abituai presto a vivere in quella città, soffrivo solo le temperature rigide dell’inverno. La prima volta che vidi la neve rimasi meravigliato e superato il primo momento di smarrimento, trovai la cosa piacevole e divertente. Me ne aveva già parlato la nonna: diceva che era una sorta di magia e aveva ragione.
Un giorno fui costretto a lasciare l’appartamento. Arrivò il fratello del mio amico e io decisi di cedergli il letto. Non sapevo dove andare, mi arrangiai dove capitava. Arrivai a dormire in provincia in una fabbrica abbandonata e fatiscente. Provai a cercare un appartamento o una stanza in affitto, senza risultato.
Un pomeriggio di una domenica di giugno, mentre stavo raggiungendo il mercato, si scatenò un forte temporale. A breve distanza da dove mi trovavo c’era un ponte della ferrovia. Un piccolo ponte, largo pochi metri, che permetteva il passaggio di una linea ferroviaria secondaria. Tagliava una strada a doppia corsia e con due arcate riparava i marciapiedi sottostanti.
Cercai riparo proprio in uno di quegli spazi. Il temporale continuava a imperversare con violenza, mi sedetti a terra per risposare e a un certo punto mi addormentai.
Quel posto mi piaceva. Era molto sporco, ma allo stesso tempo sicuro. Non rischiavo aggressioni poiché si trovava in una zona di passaggio. Per lo stesso motivo, mi sembrò subito un punto strategico per esporre la merce. In seguito mi accorsi che appoggiandosi al muro si avvertiva un flebile tepore. In superficie passavano delle tubature di acqua calda che portavano il riscaldamento da qualche parte.
Cominciai a stare sempre più spesso sotto il ponte, giorno e notte, soprattutto quando il clima era gradevole, anche se mi capitava di dormire da amici. Mi attrezzai con una specie di tenda, che usavo nelle notti più fredde e mi procurai un materassino in spugna per non stare a contatto con l’asfalto. Comprai del colore rosso argilla per dipingere le pareti, ormai lerce di nero fumo e imbrattate da tanti graffiti, e in quel modo sognavo di trovarmi tra le case del mio villaggio. Dovetti rinunciare nuovamente al bagno.
Gli anni scorrevano, il tempo passava. Non tutto andava come avevo sperato, non guadagnavo molto ed era impossibile trovare un lavoro: non avevo il permesso di soggiorno. A volte, fui costretto a chiedere l’elemosina e non ne andavo fiero.
Se avvistavo qualcuno in divisa, mi davo alla fuga. Avevo imparato a evitare i controlli, anche se mi è capitato di essere portato in commissariato per essere poi espulso in quanto clandestino. Riuscivo a restare, cambiando semplicemente le generalità. Ho trascorso addirittura tre notti in cella, accusato di non so quale reato, ma poi mi hanno rilasciato perché non avevo fatto niente. Per fortuna si abituarono alla mia presenza tanto che iniziarono a non chiedermi più i documenti. Un poliziotto che amava l’Africa mi prese persino in simpatia chiedendomi sempre di raccontargli del mio paese.
C’era un gran via vai di persone davanti a me, alcune neanche mi vedevano, altre mi sorridevano soltanto. Qualcuno si fermava a comprare o a scambiare quattro chiacchiere e c’era addirittura chi mi portava da mangiare; ma c’erano pure quelli che, con la bocca socchiusa, masticavano oscenità che a malapena capivo verso di me.
Non so come sono riuscito a trascorre tanti anni in quelle condizioni, sta di fatto che sono passati dei decenni. Nel frattempo avevo saputo che al villaggio erano rimasti solo i miei fratelli e i cugini: i più anziani non c’erano più. Un dolore immenso che aumentava al pensiero di avere solo un ricordo sbiadito dei loro volti, non avevo nemmeno una foto sulla quale piangere.
I progetti di famiglia erano falliti: non potevo offrire nulla a una moglie, non avevo una casa, né un lavoro. Ero diventato un senzatetto, mi ritrovavo in una situazione che non avrei mai pensato di vivere.
Solo grazie ad alcune amiche nigeriane che lavoravano sulla strada, avevo potuto ritrovare il calore e il conforto di una donna, quando la solitudine si era fatta sentire più forte. Invecchiando non le cercavo più, con gli anni iniziai a rimanere sempre più solo.
Una fredda sera d’inverno il cielo era pieno di nuvole che sembravano di panna, c’era aria di neve. Ne avvertivo il profumo. Avevo imparato che la neve aveva un proprio profumo che si poteva sentire già prima che cominciasse a cadere. I giorni precedenti non ero stato granché bene, avevo preso l’influenza. Mi aveva visitato un medico, uno di quei volontari che girano di notte per aiutare i derelitti come me e mi aveva lasciato dei farmaci da prendere. Non ebbi la forza di cercare un luogo per dormire al caldo e decisi di restare sotto il ponte.
Non mi sdraiai avvolto dalle coperte mi appoggiai al muro appena tiepido e rimasi diritto e immobile fino al momento in cui chiusi gli occhi. La neve sospinta dal vento arrivò a spolverarmi il viso; io non la sentii.
Mentre uscivo dal mio corpo, nessuno si accorgeva di niente.
Quei pochi che passarono da lì quella notte, avevano fretta di tornare alle loro case e sicuramente pensavano che dormissi.
Mi trovarono il mattino seguente, assiderato e imbiancato dalla neve. Ne era venuta giù tanta in poche ore. Sui giornali e al telegiornale accennarono all’accaduto per parlare di quella forte nevicata: ero stato una vittima del freddo che nessuno conosceva.
Me ne sono andato senza disturbare, nello stesso modo in cui ho vissuto. Ho provato a cambiare la mia esistenza, ho fatto del mio meglio. E non posso rimproverare niente a nessuno. Forse non mi hanno aiutato abbastanza, ma non ha più importanza. Non ho potuto e non ho voluto pretendere niente dagli altri. Sono stato abituato a non farlo. In fondo, la vita è difficile per moltissimi uomini donne e bambini e raramente ti regala qualcosa.
Sono stato uno dei tanti invisibili che attraversa la storia dell’umanità. Mi spiace solo di non aver avuto dei figli per trasmettergli qualcosa di me. Mi conforta sapere che qualche diseredato del pianeta ce l’ha fatta nel passato e che qualcun altro ce la farà nel futuro. Ecco perché vale sempre la pena provarci.
Ora ho raggiunto i mei cari. In un primo momento ho faticato a riconoscerli. Troppi anni erano trascorsi dall’ultima volta che li avevo visti. E anche loro hanno faticato a riconoscermi, invecchiato. Mia nonna era contenta di vedermi ed era orgogliosa di me. Abbiamo iniziato a parlare e le ho raccontato di quanto fosse bella la neve e il suo profumo. E mentre lo facevo, lei sorrideva.
Il mio nome era Ikechukwa Emenike uno dei tanti figli del grande popolo degli Igbo, ma si sa, è un dettaglio di poco conto quando si è un emigrato clandestino.

 

 

 

Questo racconto si è classificato terzo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare (terza edizione), organizzato da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

“Quanto necessaria mi sei”
di Italo Svevo

«Ettore promette di non fumare. Livia promette di non più civettare […] di fare buoni pranzi con maggior quantità di patate fritte».

Questi, tre punti del contratto nuziale stipulato il 10 luglio del 1900, alle 4 di pomeriggio, da Ettore Schmitz e Livia Veneziani, la donna che gli rimarrà accanto per tutta una vita. Quanto necessaria mi sei. Lettere alla moglie (L’orma, 2014) raccoglie al suo interno le lettere dei due amanti; lo spaccato epistolare di un rapporto totalizzante e, talvolta, travagliato e sofferto che fu vita per Ettore Schmitz e ispirazione per il suo doppio, Italo.

Tra le pagine del volumetto, che sembra tra l’altro ispirarsi graficamente alle tendenze liberty di quel primo Novecento in cui vengono scritte le lettere, leggiamo un uomo geloso, apprensivo nei confronti di una moglie bella e molto più giovane. Uno scambio amoroso intenso e moderno quello tra Ettore e Livia, ma nel fitto del loro “botta e risposta” rimane comunque spazio per il lettore che riesca a scorgere il romanziere, tra i più rappresentativi del secolo scorso, che si annida nei sentimenti privati dell’uomo. Vi si possono trovare, infatti, i nuclei embrionali che costituiscono la poetica di Italo Svevo; il vizio del fumo, la dicotomia personale tra la routine da industriale padre di famiglia e le ambizioni letterarie, gli insuccessi relativi a queste velleità e l’ironia.

È forse questo l’intento della casa editrice che, nella collana I Pacchetti, propone le lettere di autori e personaggi illustri che hanno fatto la storia della letteratura e non solo. I Pacchetti si presentano colorati e moderni, dalla grafica affascinante, corredati da un packaging che ne permette, affrancandoli, la spedizione. L’idea è quindi, almeno idealmente, quella di re-immettere le lettere in un nuovo circuito epistolare, oppure di immedesimarsi nelle parole private di chi – finora – abbiamo conosciuto sui banchi di scuola o trovato sugli scaffali della libreria di famiglia, ma sempre attraverso rime e o pubblicazioni mainstream.

Che si spediscano, oppure no, questi Pacchetti concedono comunque l’opportunità di gettare uno sguardo inedito su quelle intime porzioni che hanno scandito la vita, più che la “carriera”, dei “grandi”.

(Italo Svevo, Quanto necessaria mi sei. Lettere alla moglie, a cura di Carlo Serafini, L’orma, 2014, pp. 64, euro 5)