[RockNotes] Le uscite di novembre

Innocents, Moby
2013 (Little Idiot / Mute)

Dopo aver sfornato successi a raffica, nell’ultimo periodo il nostro Richard Melville Hall si era leggermente eclissato. Ora ritorna con Innocents, dalla copertina affascinante e leggermente inquietante. Dominato da tastiere e voci femminili, il disco è pervaso da un’atmosfera molto rilassata e soffusa. I vecchi ritmi ipnotici e i ritornelli radiofonici spariscono per lasciare spazio a brani lenti e dolci, spesso impreziositi da guest star di alto livello: vedi Wayne Coyne in “The Perfect Life” o Mark Lanegan in “The Lonely Night”. Non sarà il ritorno di Moby ai vertici delle classifiche, ma sicuramente il lavoro migliore con cui tornare alla luce.


Absolute Zero, Little Green Cars
(Island, 2013)

Little Green Cars. Piccole macchine verdi, un nome che suona buffo e al momento, in Italia, ci dice ancora poco. Fatto sta che questo quintetto irlandese, che alterna ritmi folk a melodie decisamente rock, si sta facendo notare nel vecchio continente grazie alle presenze nei grandi festival estivi di mezza Europa e al loro disco d’esordio, Absolute Zero. Nonostante il titolo, l’album è da otto. Ascoltate “The John Wayne” e la sua intro di 30 secondi, uno dei brani dell’anno, un video altrettanto ambizioso.


New, Paul McCartney
(Concord – Hear Music/ Universal, 2013)

Il lungo e prolifico patto di Sir Paul con gli Dei del Rock continua a mietere frutti pregiati. Settantatre anni e l’ex-Beatles sforna New: un disco con gli spunti e l’energia di un ventenne, con in più il mestiere del veterano e il “peso” della maturità. Quando McCartney si affida a dei produttori lucidi e talentuosi – qui sono ben quattro – il lavoro è impeccabile e trascinante, come fu nel caso del suo ultimo capolavoro, Chaos and Creation in the Backyard, con Nigel Godrich alla cabina di regia. Dodici canzoni che sono una sorta di antologia-campionario di un McCartney sempre più epico e inarrivabile.


Traditori di Tutti, Calibro 35
(Record Kicks, 2013)

Dalle colonne sonore dei film, alle colonne sonore dei libri. I Calibro 35 chiudono con il quarto disco il capitolo cinematografico e inaugurano quello letterario, omaggiando anche loro – dopo gli Afterhours – un romanzo di Giorgio Scerbanenco. Rimanendo sempre nell’habitat tanto amato: il poliziesco italiano anni ’70. Strumentale, cupo e psichedelico, Traditori di Tutti è ancora una volta molto di più di una semplice colonna sonora: è il grande disco di una band infaticabile quanto inesauribile per idee e talento.


Days Are Gone, Haim
(Polydor, 2013)

Tra gli esordi da segnalare, il disco delle tre sorelle Haim che in Gran Bretagna ha smosso una quantità notevole di isterismo, ipotesi e copertine. Sulle potenzialità del terzetto, che oltre a essere bravo è anche esteticamente molto gradevole, si è detto forse troppo. Ora che Days Are Gone è finalmente fruibile possiamo classificarlo concretamente: puro pop-rock sinuoso e orecchiabile. Un bel prodotto, ma estremamente bisognoso di un degno seguito per non diventare troppo presto una promessa spezzata.


Caramel, Connan Mockasin
(Mexican Summer, 2013)

Caramel di Connan Mockasin è un UFO musicale. Arrivato al secondo disco, l’artista neozelandese riprende ciò che aveva lasciato nel suo inno di amore per il delfino di Forever Dolphin Love e lo sviluppa verso gli estremi, lasciando lavorare l’istinto in pezzi maggiormente free e altri che virano verso una melodia calma e quasi zen. E sì, è proprio soul quello che si sente sotto sotto.


Il ritorno dei Neutral Milk Hotel

Molti amanti dell’indie rock più folle e autentico avranno versato una lacrima quando qualche tempo fa hanno letto del ritorno della band di Athens. No, non sono i R.E.M., ma il complesso geniale e unico di Jeff Mangum, pronto a ripartire con un tour. Due dischi alle spalle, di cui uno capolavoro assoluto nella storia della musica (parliamo ovviamente di In the Aeroplane over the Sea), e poi assoluto silenzio. Totale e brutale. Poi Mangum annuncia la disponibilità su internet di alcuni inediti e il lancio di un box in vinile con tutta la discografia del gruppo. Consigliati a chi vuole amare la musica pura e libera, i Neutral Milk Hotel sono una delle favole più belle del rock. Non conoscerli adesso sarebbe davvero un peccato. Anche perché non sappiamo quanto durerà l’intervallo tra un silenzio e l’altro.

“L’uso della vita. 1968” di Romano Luperini

Febbraio 1968 – Gennaio 1969. Alzi la mano chi della generazione post-Woodstock non ha mai sognato di vivere quell’anno, di respirare quell’aria e di partecipare alla vita di quel periodo dopo il quale tutto sarebbe stato sempre e comunque “meno”.

Romano Luperini con L’uso della vita. 1968 (Transeuropa, 2013) ci accompagna all’interno della sua esperienza permettendoci di osservare, da dietro il personaggio-schermo di Marcello, l’Italia delle grandi proteste.

Luperini era fra i militanti. Nel raccontare l’atmosfera di quel ’68, mescola personaggi storici come Sofri, D’Alema e Fortini, e fatti di cronaca, come gli scontri di Valle Giulia e la contestazione alla Bussola, con nomi ed eventi di fantasia e con le proprie vicende personali.

Le vicende narrate in questo breve romanzo, rapido, asciutto e scorrevole come un racconto, colano fuori dalla crepa che l’incipit apre nella storia personale di Marcello, giovane insegnante fra i ventitré e i ventiquattro anni, che viene espulso dal PCI per aver votato contro il partito e averne attaccato la linea culturale.

Le occupazioni, gli scontri con la polizia, le assemblee, le manifestazioni sono lo sfondo animato sul quale si innestano i problemi personali del protagonista che includono il rapporto con l’altro sesso, l’approccio timido e impacciato all’amore, spirituale e carnale, e il conflitto con il padre, contemporaneamente dovuto all’incomprensione che separa i figli dai genitori e al contrasto tra la generazione che ha fatto la guerra e quella cresciuta nel mondo che dalla guerra era uscito.

Nel romanzo, il 1968 è descritto come un momento intenso e leggero, un miracoloso ossimoro destinato a finire troppo in fretta, ma anche a lasciare un segno indelebile. In un’intervista l’autore afferma di essere convinto che oggi non è possibile riproporre le istanze di allora, ma che il mondo dovrebbe tornare a inseguire l’aspirazione al cambiamento e riscoprire che tra la vita e la politica non c’è la distanza che ci hanno convinto esista.

La sfida per ogni autore che attinga alla propria biografia è di saper selezionare i fatti, metterli il fila e raccontarli con la propria voce per far sì che la personale versione della verità risulti interessante per il lettore. Luperini riesce in questa impresa e, insieme, testimonia di non essere un pentito del 1968.

Fondatore di Nuovo impegno, intellettuale, politico, critico letterario, professore universitario a Siena, l’autore produce un romanzo storico di formazione che senza prescindere mai dal taglio documentaristico riesce a riportare alla luce le vicende di quegli anni senza cedere a un linguaggio «distanziante o sentenziante». Uno dei maggiori pregi di questo romanzo, infatti, sta nel poter godere della sensazione di ascoltare la voce di qualcuno che non ha bisogno di inventare, ed è la ragione per cui il lettore non riesce a disincagliarsi dalla nostalgia che il resoconto degli anni dell’adolescenza del mondo lascia sotto la pelle, una volta che il libro è giunto alla fine.


(Romano Luperini, L’uso della vita. 1968, Transeuropa, 2013, pp. 138, euro 12,90)

[RomaFF8] Giorno 2: “Dallas Buyers Club” e “La luna su Torino”

La storia vera di Ron Woodroof è alla base di Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée, primo film statunitense in concorso ufficiale alla ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma che ha già riscosso premi e consensi tra Toronto e San Sebastian.

Ron è un elettricista bifolco texano degli anni Ottanta. Va a letto con chi gli capita, tira cocaina, beve e fuma molto, scommette sui rodeo, vive in una baracca. Negli ultimi tempi ha perso molto peso, ma non ci ha fatto caso. Vive in mezzo a zotici ignoranti come lui, che deridono Rock Hudson perché ha contratto l’Aids e se lo merita perché è omosessuale. Un giorno ha un incidente sul lavoro, perde i sensi, viene portato in ospedale. Gli fanno molte analisi e scoprono che ha l’Hiv e trenta giorni di vita che gli restano. Non ci crede, lui non è “frocio”, non si buca, si sbagliano. Non si rassegna, si infuria, poi si informa, realizza che è vero. Inizia a comprare illegalmente un farmaco che la Food & Drugs Administration sta testando, poi trova un nuovo metodo oltre la frontiera, in Messico e capisce che funziona. Vive ancora per sette anni e mette su, con l’aiuto del travestito Rayon, il Dallas Buyers Club per importare legalmente i farmaci e aiutare gli altri malati.

È la parabola di un uomo orribile, Dallas Buyers Club, perché Ron inizia come ignorante alcolizzato omofobo e finisce come paladino dei diritti dei malati di Aids, etero o gay che siano. Non lo fa per i soldi, all’inizio sì, poi lo fa solo perché è giusto. Intraprende una lotta impossibile contro il governo e l’FDA interessati a fare utili testando i farmaci senza preoccuparsi di migliorare le condizioni di vita dei pazienti. A Ron non interessa debellare il virus, sa che non c’è modo di farlo. La sua lotta si rivolge interamente alla cura dei malati, non della malattia, a garantire ai sieropositivi la possibilità di vivere nel modo migliore possibile il tempo che rimane.

Il regista Jean-Marc Valée rende il mondo dei tossici, degli omosessuali, dei malati, senza pietismo o impennate di lirismo. Sono sporchi, distrutti, stanchi, brutti e li mostra per quello che sono, con l’aiuto della fotografia di Yves Bélanger, con i loro volti cianotici e i corpi magri.

Matthew McConaughey si cala nei panni extrasmall di Woodroof trasformandosi nel fisico e tirando fuori la sua migliore interpretazione. Accanto a lui Jared Leto, nel corpo ibrido di Rayon, conferma, tredici anni dopo Requiem for a dream, di trovarsi perfettamente a proprio agio nei panni di personaggi devianti.

 

 

Torino è a cavallo del quarantecinquesimo parallelo, esattamente lungo la linea che taglia a metà l’emisfero boreale, a metà strada tra il Polo Nord e l’equatore. La linea del mondo taglia in due la città come il Po, la divide in due parti, la fa vivere in bilico. In bilico vivono anche i tre protagonisti di La luna su Torino, nuovo film di Davide Ferrario presentato fuori concorso al RomaFilm Fest.

Maria lavora in un’agenzia di viaggi dentro il centro commerciale “45° parallelo”. Organizza i viaggi per gli altri, ma sogna di partire lei. Sogna una vita diversa, magari come attrice, magari con un uomo che possa prendersi cura di lei, magari semplicemente lontano da lì. Dario è uno studente di lettere non interessato a quello che studia. Vuole scrivere, raccontare storie, e nel frattempo lavora al bioparco a stretto contatto con i pinguini, i lemuri e la tartaruga Ursus di centoquaranta anni. Ugo ha ereditato una fortuna quando i suoi genitori sono morti in un incidente aereo. Non ha mai lavorato un giorno nella sua vita, non ha mai dovuto fare niente, nemmeno prendere la patente. Cucina molto bene e va in giro in bicicletta. Vivono tutti e tre insieme in collina nella villa di Ugo . All’inizio Maria e Dario pagavano un affitto, poi Ugo ha smesso di chiederlo. Adesso però il loro equilibrio è messo a rischio dall’ipoteca che grava sulla casa. I soldi stanno finendo e presto dovranno lasciare tutto.

È un film delicato e bizzarro, La luna su Torino, come lo sono i suoi protagonisti. C’è molta poesia, con Leopardi citato sin dall’intestazione, forse troppa, e una leggerezza scollegata da ogni dimensione di reale: Ugo, Dario e Maria non vivono nel mondo, sono leggeri, sognatori. Come la loro città sono divisi in due tra la possibilità del cambiamento e la paura che li tiene sempre lì. Forse basterebbe riuscire a guardare più in là, oltre il muro o la siepe che da tanta parte eccetera, per rendersi conto che la Mongolia in fondo è sullo stesso parallelo o che senza andare così lontano basta cambiare casa.

A dieci anni da Dopo mezzanotte, e a quattro dall’ultimo lavoro di fiction, Tutta colpa di Giuda, Davide Ferrario torna a raccontare la propria città accarezzandola con la telecamera (la sequenza iniziale con immagini notturne riprese dall’alto). C’è sempre molta levità, nei suoi film, molto amore per il cinema coniugato con un linguaggio mai banale. La luna su Torino (il titolo internazionale, 45th Parallel, è più pertinente, oltre che più suggestivo) ne è un ulteriore conferma.

 

“Se domani si vive o si muore”: a tu per tu con Giuseppe Truini

Il romanzo di esordio di Giuseppe Truini, Se domani si vive o si muore (Edizioni Ensemble, 2012), narra una storia di formazione basata sul senso di impotenza e di riscatto civile vissuto dalla generazione dei trentenni precari. Il protagonista Lino si crogiola nella fortuna del padre, piccolo imprenditore di successo, fino al momento in cui a illuminare la sua ricerca di senso sarà proprio il legame con il padre in difficoltà economiche. Così Lino smette i dialoghi con i grandi pensatori francesi per accettare le proprie responsabilità in una realtà sociale più complessa della filosofia. Ne abbiamo parlato con l’autore:


I lati più oscuri del carattere del protagonista, svogliatezza e disillusione, piena comprensione della realtà, lo espongano a una posizione facilmente attaccabile, quasi ricalcando la memorabile equazione espressa a inizio 2012 dall’allora viceministro al Lavoro, non trovi?

La posizione del protagonista nel libro rappresenta un’icona. Lino è lo scoglio contro cui si infrangono le contraddizioni di un’intera epoca. La sua condizione non è stata deliberata da alcuna volontà ed è per questo che può prendersela con tutti senza la possibilità di puntare il dito. Credo che in una situazione come quella attuale, il ministero del Lavoro sia un ossimoro istituzionale, così come metaforiche sono alcuni fantasmi che girano vacui, nel mare della politica. Questa crisi produce milioni di Lino, persi davanti a una bacheca dell’università a chiedersi se ci sarà un domani. È vero anche che il ragionamento di Michel Martone, al di fuori della frase oggettivamente esecrabile per la quale è passato alla cronaca, non sarebbe del tutto insensato se ci trovassimo in un contesto sociale ed economico maturo, perché presupporrebbe un giusto orientamento nei momenti più critici della propria esistenza, quando cioè si opta per la scuola superiore oppure l’indirizzo universitario da seguire. Purtroppo – e parlo anche da insegnante – le cose non stanno così: spesso i ragazzi non sono in grado di scegliere in maniera acritica, non hanno ancora capito quali sono le proprie reali capacità o le proprie vere aspirazioni e perciò scelgono secondo istinto, a volte sbagliando. Ciò comporta una dilatazione dei tempi che si risolvono spesso in fallimenti senza però giustificare un giudizio così netto che grava non sulla carriera bensì sulla persona, spostando il piano del ragionamento dal professionale all’esistenziale.


Questa identificazione inoltre scarica il problema della disoccupazione sulle aspettative di poter entrare grazie al solo merito nel mercato del lavoro, quando ciò invece non si verifica in maniera così lineare.

L’equazione più pericolosa e che ormai sembra essere pacificamente assodata è quella che identifica le persone con il lavoro che svolgono, secondo un’ottica importata dal modello americano che mal si concilia con quello italiano, basato su logiche ben diverse e quasi mai realmente meritocratiche. Lino a 28 anni non si è ancora laureato semplicemente perché non gli interessa, non perché è un fallito o, per dirla con Martone, uno “sfigato”. Vive sospeso in una dimensione adolescenziale perché non vuole diventare adulto, anche perché i modelli proposti gli sembrano insoddisfacenti. Se letto in maniera convenzionale, quindi, risulta più che attaccabile. Però lui rifugge tali logiche. Anzi, è proprio per non sottostarvi che ha scelto una facoltà diversa da quella che avrebbe voluto frequentare. E l’episodio dell’esame di maturità, in questo senso, è indicativo.


Tutta via la soluzione positiva risolve l’apatia di Lino, le sue brillanti capacità analitiche che fanno sì che l’immobilità si evolva verso la decisione di entrare nelle dinamiche prima solo criticate.

Nel romanzo ci sono una serie di esplosioni, ognuna preceduta da una chiamata alla responsabilità. Lino sente la necessità di restituire qualcosa al padre quando questi ne ha bisogno e quindi, dalla dimensione di immobilità in cui si era autorecluso, deve uscire per affrontare una serie di difficoltà reali che, per la prima volta, lo portano a pensare non solo a sé ma anche all’altro da sé – i dipendenti dell’azienda – sui quali si riverberano le sue azioni. In un passo Lino conclude che si esiste veramente quando vengono compiute azioni che ricadono – in positivo – sugli altri. Scrivendo quelle pagine ho riflettuto molto sulla dimensione-lavoro messo in crisi dal cambiamento delle dinamiche capitalistiche a livello europeo e mondiale. In questo senso Lino è un simbolo non di un una generazione quanto di una coscienza collettiva che, sebbene sia consapevole della gravità della situazione, ancora non è in grado di comprenderla del tutto. Avrebbe certamente potuto rifiutarsi, rimanendo nel suo limbo dorato e fuori corso, però non se l’è sentita. È quello il momento in cui rinasce ed è quello il momento in cui trova una serie di risposte a domande che neppure si era mai posto. Questo si traduce in una serie di spostamenti non solo fisici ma soprattutto esistenziali e sentimentali. I modelli di Lino sono personaggi che con questi temi hanno poco a che fare. Ho immaginato Lino come l’ideale nipote di personaggi come Lazzaro Sant’Andrea di Pinketts o Vincenzo Malinconico di Da Silva. Ho avuto però l’arroganza – se così si può dire – di far evolvere quel tipo di carattere dimesso e riflessivo fino ad uno scontro, vero fulcro intorno al quale ho costruito il romanzo.


I temi della precarietà e dalla perdita del lavoro si legano anche alla perdita potenziale di civiltà e senso etico, e allo scarto fra alte speranze e caduta delle promesse che un benessere più alto dispensava. Così la prospettiva del futuro, condizionata da naturali bisogni di realizzazione professionale, si scontra con aspettative gonfiate: in questa morsa sono intrappolati i cinque amici protagonisti del romanzo. Da parte tua, nel romanzo non manca la consapevolezza del pericolo di una deriva distruttiva, dettata più dalla rabbia che da reali rivendicazioni politiche.

La mia è la prima generazione dopo la seconda guerra mondiale che non ha prodotto alcuna manifestazione di protesta collettiva e costruttiva. Il ’68, con i suoi strascichi durati fino al ’77, proponeva una visione del mondo che si è risolta in due modi diversi: un folcloristico rifiuto della modernità e un terrorista tentativo di rivoluzionarla. Da allora c’è stato un appiattimento consumistico che ha inibito qualsiasi forma di obiezione che il capitalismo non sia stata in grado di fagocitare. Un singulto sembrava essersi levato con le manifestazioni no-global, che però non hanno saputo trasformare gli eventi in processi e proposte reali di cambiamento e di conseguenza sono state assorbite dalla violenza anarchica dei black block e poi annichilite dall’attentato dell’11 settembre negli USA. Ma si trattava in ogni caso di problematiche percepite come lontane, non in grado di modificare veramente la visione del mondo dei giovani. Lino, probabilmente, non conosce neppure la causa dei contadini del Chiapas o degli zapatisti del subcomandante Marcos di cui si faceva un gran parlare appena dieci anni or sono. Semplicemente perché a lui, e a gran parte dei suoi coetanei, la quotidianità porta altri problemi, che esistono ma non sono razionalizzati. Solo attraverso una crescita individuale – culturale, civile – si può affrontare un processo di miglioramento perché esso nasce dal ragionamento e non dall’azione distruttiva nichilista. Non si tratta di una provocazione futurista quanto di una spontanea reazione individuale e generazionale ad uno spazio promesso ma non mantenuto, un’esigenza naturale che non può essere silenziata e di cui bisogna prevenire la deflagrazione.


Passando allo stile del romanzo, chiaro e incisivo: è stato il personaggio a richiedere uno stile così preciso? Come ci sei arrivato?

La voce di Lino è arrivata dopo diversi tentativi. Narratore in prima persona al passato remoto, terza persona e infine prima persona al presente, ma quando è arrivata, si è stesa spontanea e naturale fino alla fine, sebbene frutto di un controllo costante sulla frase. Una narrazione ossessivamente orientata verso la descrizione del disagio avrebbe allontanato il lettore e reso di conseguenza inutile l’evoluzione stessa della storia; così un appiattimento sull’ironico lo avrebbe reso poco serio e quindi non degno di considerazione. Ho voluto costruire delle pagine il cui tono virasse su registri lirici ed elevati, così come, a seconda dell’esigenza, sul grottesco e perturbante.


Quale sarà il tuo prossimo lavoro?

Ho iniziato la prima stesura di un nuovo romanzo. Sono circa ad un terzo del lavoro e sto raccogliendo il materiale per le pagine successive. I temi che tocco sono molto differenti da Se domani si vive o si muore anche se i due libri saranno collegati tra loro. In questo testo mi concentro su aspetti più esistenziali che politici. L’idea di partenza è che ognuno nasca due volte. La prima volta è quella biologica, la seconda quando a livello inconscio si capisce cosa si vuole diventare, e si parla della guerra combattuta per riuscire a realizzarsi.


Grazie per la tua disponibilità.

 

 

(Giuseppe Truini, Se domani si vive o si muore, Edizioni Ensemble, 2012, pp. 212, euro 15)

[RomaFF8] Giorno 1: “L’ultima ruota del carro” di Giovanni Veronesi

Lultima ruota del carro di Giovanni Veronesi è il film selezionato quest’anno per aprire l’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Una prova in più della vocazione popolare di questo Roma Film Fest, con la scelta di una commedia nettamente all’opposto rispetto al film di apertura della scorsa edizione, il kolossal tajiko Aspettando il mare.

Ernesto Marchetti è un perdente. Lo sa da quando era un ragazzino. Suo padre ci teneva a ricordarglielo: «In questa casa conti meno di tua madre, e lei non conta un cazzo. Tu sei l’ultima ruota del carro». Scarso a scuola, scarso a calcio, inizia a lavorare presto, Ernesto, col padre tappezziere, così almeno impara un mestiere. Si sposa giovane con Angela, il suo amore di sempre, si emancipa dal padre e si spacca letteralmente la schiena facendo il traslocatore per avere una vita dignitosa. Ma ha un difetto, Ernesto, e non è quello di essere, tutto sommato, scemo. È che è onesto, come è giusto che sia, non come il suo amico d’infanzia, Giacinto, forse scemo pure lui, però pronto a credere alle persone disoneste e a seguirle senza fare domande al punto da finire pure in carcere. Eppure sembra sempre che Giacinto stia un passo avanti: il lavoro, la macchina, la moto, i vestiti eleganti, le feste, le amicizie, la politica con i socialisti e poi con Berlusconi. Casca sempre in piedi. Ernesto non è invidioso, a lui sta bene così, con la sua vita semplice, la sua famiglia, il suo lavoro.

È il film più ambizioso di Giovanni Veronesi, L’ultima ruota del carro, e senza troppi dubbi il più riuscito. Partendo dai racconti personali della vita vera di Ernesto Fioretti, autista di cinema conosciuto attraverso Carlo Verdone, Veronesi e i suoi co-sceneggiatori Ugo Chiti e Filippo Bologna hanno tirato fuori una storia di eccezionale normalità. Non c’è niente di incredibile nella vita di Fioretti, comparsa inconsapevole nella storia del Paese come tutti quanti, e proprio per questo in L’ultima ruota del carro c’è tutta l’onestà di un lavoro che vuole e riesce ad essere semplice e popolare, a guardare senza pretese storiche o sociologiche agli ultimi quarantacinque anni di vita italiana.

La storia di Ernesto non è la storia d’Italia, ma più semplicemente la storia di un italiano che si trova a parcheggiare la macchina in via Caetani il nove maggio del 1978, proprio dietro a una Renault rossa, che conosce per caso un grande artista (Mario Schifano, un ottimo Haber) e ne diventa amico senza capire niente d’arte, che vede nascere, crescere ed esplodere la corruzione in Italia senza preoccuparsi di capire, continuando a fare il suo lavoro.

È un po’ Forrest Gump, un po’ Ugo Fantozzi, Ernesto Marchetti, e non è un caso che proprio il personaggio di Villaggio sia uno dei suoi miti. È un vessato, uno che viene sfruttato dagli altri che si sentono più furbi di lui, ma che nonostante tutto si conserva onesto e continua a rivendicare con orgoglio la sua dignità. Il suo tempo non è scandito dalla storia o dalla politica, ma dalle vittorie della Nazionale di calcio e dalle formazioni della Roma, «la Bibbia» da tramandare al figlio, dalle chiacchiere a letto con la moglie prima di dormire illuminate dai programmi tv di Costanzo e di Vespa.

Retto da un Elio Germano monumentale nel rendere anche solo con il fisico la natura essenziale del personaggio, e supportato da un cast che, seppur di matrice spiccatamente televisiva (Alessandra Mastronardi come Angela, Ricky Memphis come Giacinto, Maurizio Battista, Virginia Raffaele, Ubaldo Pantani, a cui si aggiungono Sergio Rubini e Massimo Wertmüller nella parte del padre), incarna alla perfezione il mondo degli ultimi, L’ultima ruota del carro è un romanzo umano ancora più che popolare, il racconto di una vita e della sua epica semplicità.

È chiaro che Veronesi e i suoi hanno guardato a certo cinema di un tempo, in particolare a C’eravamo tanto amati, ma la volontà che gli ha mossi non è quella di imitare, quanto quasi quella di aggiornare quello sguardo su chi rimane in fondo. Mancano alcuni elementi di completezza nella trama, su tutti il rapporto con il padre, e il finale è pervaso di un buonismo eccessivo, ma è innegabile che uscire dalla routine delle produzioni Filmauro e affidarsi al tandem Fandango-Warner abbia giovato a infondere una linfa nuova al cinema di Giovanni Veronesi.

 

(L’ultima ruota del carro, di Giovanni Veronesi, 2013, commedia, 114’)

 

“Herzog” di Saul Bellow

Insignito nel 1976 del Premio Nobel per la letteratura, «per la comprensione umana e la sottile analisi della cultura contemporanea che sono combinate nel suo lavoro», Saul Bellow solo qualche anno prima dava alla luce Herzog, sesto romanzo della sua certamente felice produzione.

Protagonista dellʼopera è appunto Moses Elkanah Herzog, intellettuale ebreo della prima ora e soprattutto uomo a dir poco singolare, sempre orbitante intorno allʼossessivo ed epistolare tentativo di trovare un senso tra le cose del mondo che, senza soluzione di continuità, gli scorrono davanti quasi a scandire lo stato di impasse della sua vita: due volte sposatosi, e altrettante separatosi, padre poco presente di due figli, tra un flashback e lʼaltro, dovunque si trovi, costantemente roso dalla propria indomabile exacerbatio cerebri, Herzog ricorda, ragiona, si arrovella; e scrive lettere che non spedirà mai; le scrive a chiunque, vivo o morto, per un motivo o per lʼaltro sente a sé vicino, cercando forse di chiudere chissà quale cerchio, di fare infine chissà quale tipo di conti. È pur lecito pensare che prima o poi i bilanci della propria esistenza dovranno quadrare: il lavoro accademico non vede però progressi da tempi che ormai sanno solo di polvere, lʼombra malevola di Madeleine, lʼultima moglie, torna con intervalli più o meno regolari a fargli presente che anche la loro piccola June ha bisogno di lui, checché ne dica la stessa madre o il di lei attuale compagno, Valentino, già amico di Herzog. E non basta nemmeno la raffinata arte amatoria della fascinosa Ramona a placare del nostro lʼansia centrifuga: in continuo movimento, Herzog non trova pace, e non nella carne, non nello spirito; tutto ciò che lo circonda quindi sfuma, si perde, a volte torna, di nuovo svanisce; è dunque messo al bando, Moses Elkanah Herzog, o desidera più semplicemente il vuoto intorno?

Né lʼuno né lʼaltro, vien da dire: Saul Bellow, attraverso un personaggio per certi versi monumentale – almeno nella misura in cui dimostra una capacità a tratti esasperante, e forse inconsciamente autocompiacente, di problematizzare ogni affanno e di scandagliare di riflesso le stanze della propria interiorità, e venirne o meno a capo ha ben poca importanza, siamo del resto agli albori della frammentata e frammentante era postmoderna… Sembra suggerire tra le pagine di questo straordinario romanzo che ciò di cui in verità si ha bisogno, oltre ogni amore e sopra alle idee – riecheggiando lʼacquisizione dostoevskiana che vede la vita signoreggiare sul senso della stessa vita – è infine lʼaccettazione di sé, primo abbacinante luccichio della propria, più intima e ineffabile, bellezza. Può capitare allora di stendersi su un divano, in una diroccata casa di campagna, a Ludeyville, Massachussetts, e sentire per la prima volta senza tensioni la vita fluire, leggera, la propria vita, con tutti i suoi suoni. E magari così addormentarsi, prima di cena.


(Saul Bellow, Herzog, trad. di Letizia Ciotti Miller, Feltrinelli, 1965)

“Giovane e bella” di François Ozon

L’adolescenza oggi fa scandalo, più che mai. Lo sappiamo bene, basta guardarsi intorno. Aprire un quotidiano e leggere fatti di cronaca sempre più pesanti e perversi, oltre il limite del buon costume. Essere giovani spesso brucia, tra incomprensione e solitudine. Giovane e bella (BIM Distribuzione, 2013) di François Ozon, proponendosi di indagare cosa passa nella mente di un’adolescente di oggi alla scoperta del corpo, potrebbe essere un buon film. Potrebbe riuscire a mettere in luce una realtà che ormai tanto nascosta non è più, o forse non lo è mai stata. A ciascuno il suo, di tempo.

Potrebbe essere brillante, Giovane e bella, nella sua dolcezza e nella sua tossicità. Le carte in tavola ci sono tutte, sin dalle premesse: una trama allettante da cui ci si aspetta molto, tra attualità e scandalo, un autore cult del cinema d’Oltralpe di questa generazione, una protagonista giovane e attraente. Eppure rimane un senso di incompiutezza, di un lavoro lasciato a metà. Con il suo film, presentato in concorso all’ultima edizione del Festival del Cinema di Cannes, Ozon cerca di intrufolarsi, cinepresa alla mano, nelle stanze chiuse a doppia mandata del mondo di una giovane della Parigi di oggi. Adolescenza, provocazione, prostituzione: una specie di climax destabilizzante in crudezza e facilità di costumi, nel nome di una morale che non riusciamo più a scovare in nessun angolo buio. Il sesso ormai non fa più scalpore.

La trama, pertanto, è alquanto semplice, una ragazza giovane e molto bella, Isabelle (Marine Vacth), decide di vendere il proprio corpo appena le capita l’occasione. Alla mattina è una timida studentessa, di pomeriggio una vera e propria donna, tra stanze d’albergo e appuntamenti al buio. La sera, tornata nei panni della brava figlia, diligente negli studi, sta a casa, il ruolo della diciassettenne che deve essere rispettato. Si prostituisce perché ci gode, le piace. Ne vuole dell’altro. Vuole provare e sperimentare, non abbandonare l’adolescenza che Rimbaud tanto decanta: «Nessuno è serio a 17 anni». I soldi si accumulano, niente viene speso. Isabelle non lo fa per dare sostanza a bisogni inappagati, né per sopravvivere. Le motivazioni sono ben altre, anche perché la famiglia di Isa è il classico nucleo borghese agiato e formalmente equilibrato. I Bo-bo (bourgeois) parigini. Qui, certe cose non possono succedere. È inimmaginabile.

Isa, o meglio Léa, come i suoi clienti sono soliti conoscerla, è il personaggio a cui François Ozon affida l’arduo compito di definire un’intera generazione. L’intenzione c’è, la sostanza però lascia a desiderare. Ozon tenta di reinterpretare un malessere sociale che non è da tener presente in modo superficiale e scontato. Il sesso messo in scena da Ozon nasconde una faccia della nostra società troppo ben mascherata, una omertà conoscitiva e visiva più vicina di quanto possiamo immaginare.

Diventare adulti, oggi, non è assolutamente cosa facile. Certezze e punti di riferimento tendono a sparire.

L’intento di un film come Giovane e bella è buono, manca però di sviluppo. Ozon non ci dà alcuna chiave di lettura, né di giudizio. Mostra tout court. Un film che ha radici ben salde incapaci, però, di trovare una continuità. Il rischio maggiore è quello di apparire scontato, e non è un rischio di poco conto né tanto meno un rischio evitato.

(Giovane e bella, di François Ozon, 2013, drammatico, 94’)

 

 

“Come la penso” di Andrea Camilleri

Come la penso di Andrea Camilleri, edito da Chiarelettere, non è un testo ascrivibile a un unico genere letterario. Lo si dichiara fin dal titolo, o ancor meglio, dal sottotitolo, Alcune cose che ho dentro la testa, che ci introduce a una dimensione personale e soggettiva. Si tratta infatti di una raccolta di saggi che spaziano per argomenti e stile narrativo, ma non solo: c’è spazio anche per spunti autobiografici, aneddoti personali dell’autore e, come evitarlo, narrativa.

L’autore stesso attribuisce il merito di questo libro al suo editore, artefice della straordinaria raccolta che tocca spaccati di storia, come la seconda guerra mondiale e il dopoguerra, ma anche molta attualità, per esempio nel saggio «Cos’è un italiano», in cui l’autore si fa interprete del suo tempo ed esprime riflessioni riguardo la situazione politica del nostro paese.

C’è un alternarsi di vari argomenti, molti dei quali sono stati oggetto di sue lectio doctoralis e magistralis in diverse università italiane. Filo conduttore è la sua Sicilia, bella e dannata, tanto criticata in passato quanto oggi.

L’autore racconta con schiettezza delle sue lacune nelle scienze, e sostiene tuttavia che le due culture, quella letteraria e quella scientifica, siano in fondo inscindibili.

Sono presenti poi stralci di vita privata, racconti delle sue amicizie più care, come per esempio quella con lo scrittore Leonardo Sciascia, al quale si deve la pubblicazione del romanzo storico La strage dimenticata (Sellerio, 1984).

In Come la penso Camilleri mostra la sua ecletticità, approfondisce problemi sociali non scevri da riflessioni personali e si mette a nudo, svelando momenti di crisi che hanno colpito il suo personaggio più celebre, Il commissario Montalbano.

Emerge inoltre l’amore per il cinema, la regia, la scenografia, maturato nel periodo in cui frequenta l’Accademia Silvio D’Amico dapprima come alunno poi come insegnante.

Infine, nemmeno in questo caso Camilleri rinuncia alla narrativa: in un lungo scritto incluso nel libro ci racconta infatti la storia del separatista siciliano Antonio Canepa, mettendosi nei panni di chi racconta una storiella a un bambino.

Lo stile di Camilleri è ormai chiaro ai più, ricco di sicilianismi che donano ai suoi testi una tipica genuinità. Essendo questa una raccolta di saggi, non presenta il ritmo incalzante tipico dei gialli tanto amati. Tuttavia, è un libro che appassiona il lettore per gli interessanti temi trattati, e che mostra le molteplici sfaccettature di uno degli autori italiani più conosciuti al mondo.

Per questo, e molto altro, Come la penso non è solo una piacevole lettura, ma anche un ottimo manuale da tenere sulla scrivania e consultare all’occorrenza.


(Andrea Camilleri, Come la penso, Chiarelettere, 2013, pp. 340, euro 13,90)

La rivolta e l’assurdo: Camus e Sartre

Parigi, 2 giugno 1943, Thèâtre de la Cité. È la sera della prima di Le mosche. Nel foyer, durante l’intervallo, Simone de Beauvoir e l’autore Jean-Paul Sartre sono in un angolo a fumare e chiacchierare in attesa del secondo atto. Un giovane straniero di bell’aspetto e dalla pelle scura si avvicina. Porge la mano a Sartre. «Sono Albert Camus», si presenta. Sartre gli stringe la mano. Sa già chi è. È la prima volta che si incontrano di persona ma si conoscono da tempo. Dal 1938, per la precisione dal 20 ottobre, da quando, cioè, un Camus venticinquenne recensisce, per Alger républicainLa nausea

È una specie di conforto quello che prova Camus leggendo Sartre, la rassicurante sensazione di aver trovato qualcuno con cui condividere il senso dell’assurdo, un modello o piuttosto una conferma per il suo pensiero. «Un romanzo non è mai altro che una filosofia messa in immagini», scrive Camus all’inizio dell’articolo, intuendo e inquadrando subito il senso della scrittura sartriana. Perché letteratura, teatro, critica e filosofia concorrono tutti nell’opera di Sartre a sviluppare un sistema di pensiero, una ricerca ontologica sull’uomo e sul suo senso nel mondo. La nausea non fa eccezione. Più che un romanzo, Camus lo legge come un monologo, un unico flusso in cui Sartre espone la propria teoria sulla contemplazione dell’assurdo della vita umana. L’assurdo non come termine della ricerca, ma come suo inizio. Non è la scoperta a essere rilevante, ma le conseguenze del suo manifestarsi. Secondo Camus, Sartre trova nella Nausea una possibilità di reazione nella scrittura, in un cartesianesimo rivisitato all’insegna dello «Scrivo, dunque sono».

Camus non era un filosofo, nonostante la laurea all’università d’Algeri. Era uno scrittore, un giornalista, un teorico dell’essere umano, ma era sprovvisto di quel rigore accademico proprio di chi fa dello studio e della ricerca il proprio mestiere. Non poté, comunque, fare a meno per tutta la vita di interrogarsi sul senso della vita stessa, sul perché andare avanti dopo aver scoperto l’assurdo del mondo. Non poté fare a meno, in questo, di guardare a Sartre.

«Esiste soltanto un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio. Giudicare se la vita vale o meno la pena di essere vissuta significa rispondere alla fondamentale questione della filosofia», inizia così Il mito di Sisifo, il saggio del 1942 in cui Camus formula compiutamente la sua teoria dell’assurdo. È dalla constatazione dell’assenza di razionalità nel mondo, dal silenzio che esso offre come risposta alla domanda continua dell’essere umano, che deriva il sentimento dell’assurdo. L’uomo lucido, che vede con chiarezza tutto ciò che lo circonda, può rendersene conto anche osservando attraverso il vetro di una cabina un altro uomo che parla al telefono, osservando i suoi gesti senza sentirne le parole. «Ti domandi perché sia vivo», scrive Camus. E anche questo sconforto di fronte all’uomo, questa «nausea», come scrive ancora chiamando direttamente in causa Sartre, è l’assurdo.
 


La scoperta del vuoto di senso dell’umanità rende insopportabile la vita e apre le porte al suicidio. «Perdere la vita è cosa da poco; e quando sarà necessario non me ne mancherà il coraggio; ma che vada sperperato il senso di questa vita stessa e sparisca la nostra ragione di esistere, non si deve tollerare. Non si può vivere senza una ragione di vita», dice Cherea in Caligula che, con Il mito di Sisifo e Lo straniero, completa la trilogia dell’assurdo di Camus (scriveva a cicli: un romanzo, un dramma un saggio, sullo stesso tema. Seguirà la trilogia della rivolta: La peste, L’uomo in rivolta, I giusti). «Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l’avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch’esse di troppo: io ero di troppo per l’eternità», scrive invece Sartre nella Nausea, ricollegando la dimensione dell’assurdo anche alla carnalità dell’uomo, alla sua stessa natura biologica, rifiutando il suicidio, quindi, perché anch’esso finirebbe per alimentare l’assurdo del mondo.

Per Camus, al contrario, il suicidio è resa all’assurdo, di cui si deve invece prendere coscienza per impegnarsi a vivere nella maniera più piena possibile. Se ci si arrende all’assurdo, allora tutto diventa possibile ed egualmente valido: «Se Dio non esiste, allora tutto è possibile», scrive Dostoevskij nei Fratelli Karamazov. Il crollo di ogni dimensione di valori ultraterreni, di ogni riferimento morale per la condotta umana lascia l’uomo solo in un mondo abitato esclusivamente da altri uomini, dai loro bisogni, dalle loro paure. Ogni forma di trascendenza viene meno. Il sentimento dell’assurdo in sé può essere usato per giustificare anche l’assassinio. «Se non si crede a nulla […] si è liberi di attizzare i forni crematori o di dedicarsi per tutta la vita alla cura dei lebbrosi», scriverà dieci anni più tardi nell’Uomo in rivolta. L’omicidio, individuale o collettivo, diventa un’opzione lecita come ogni altra, come lo è per Meursault uccidere l’Arabo nello Straniero; un normale gesto dell’uomo. Di fronte all’assurdo deve prevalere la nostalgia dell’unità tra uomo e mondo, rifiutando il suicidio proprio come sconfitta e facendo prevalere la dignità di fronte alla vertigine di vuoto che il senso dell’assurdo comporta.

Nel 1942 sarà Sartre a recensire Lo straniero di Camus in un’analisi basata sulle categorie filosofiche delineate nel Mito di Sisifo, evidenziando la continuità tra le due opere come sviluppo unico di un sistema di pensiero. È un riconoscimento importante, da parte di Sartre, la certificazione di una teoria unica che Camus sviluppa in forme differenti di scrittura.

Sembrano muoversi dagli stessi presupposti, Camus e Sartre, in un mondo privo di valori di riferimento, senza un dio a guidare gli uomini. Eppure pochi anni dopo la fine della guerra si ritroveranno a percorrere strade diverse, finendo sempre più lontano l’uno dall’altro.

Quando Albert Camus si trasferisce definitivamente a Parigi nel 1944 partecipa attivamente alla resistenza con il gruppo clandestino di Combat, scrivendo editoriali politici e prendendo parte ad azioni armate. È «l’ammirevole congiunzione di una persona, di un’azione e di un’opera», come lo definisce Sartre che è invece ancora poco coinvolto nella dimensione politica. Aveva provato, qualche anno prima, a radunare un gruppo di intellettuali nel movimento di resistenza Socialisme et liberté ma il tentativo aveva avuto vita breve. La sua partecipazione alla resistenza si concretizza principalmente nei contenuti simbolici dei suoi lavori teatrali.
 


È Camus a dargli una nuova occasione per partecipare. Nei giorni in cui gli scontri per la liberazione di Parigi si stanno intensificando, Sartre e De Beauvoir si recano nella redazione/quartier generale di Combat. Ad accoglierli c’è Camus. Sulla scrivania, accanto alla macchina da scrivere, una pistola carica è pronta nel caso in cui i tedeschi dovessero fare irruzione. È entusiasta, nonostante il senso di pericolo costante, e proprio spinto dall’entusiasmo fa una proposta a Sartre: scrivere un reportage per raccontare la città in lotta. Titolo: Un promeneur dans Paris insurgé. E Sartre accetta, entrando nel gruppo.

Camus parlerà poi di Sartre come di «uno scrittore che resisteva e non un resistente che scriveva», per evidenziare come la sua partecipazione sia stata, comunque, marginale. Ma l’esperienza nel gruppo di Combat rappresenta uno dei primi momenti di quella conversione all’impegno che caratterizzerà il Sartre del dopoguerra. Un Sartre che rivede il proprio tessuto filosofico, l’esistenzialismo di L’essere e il nulla, reinterpretandolo nel corso dell’affollatissima conferenza L’esistenzialismo è un umanismo per aprirlo come teoria dell’azione. Il suo pensiero non è un quietismo, come era stato definito da qualcuno, ma una filosofia positiva pronta a trasformarsi in quella teoria dell’engagement che pochi mesi dopo svilupperà nell’articolo di presentazione della rivista Les Temps Modernes che fonderà e dirigerà fino alla morte.

Nella Parigi liberata Sartre e Camus si frequentano nei caffè e nella casa editrice Gallimard. I due più importanti scrittori di Francia, accomunati da tutti sotto l’etichetta dell’esistenzialismo, sembrano più vicini che mai. Ma per Camus c’è qualcosa da capire. Rifiuta il titolo di esistenzialista, non contribuisce a Les Temps Modernes se non con pochi articoli di critica letteraria. Qualcosa nel progetto sartriano non lo convince. Litiga pubblicamente con Maurice Merlau-Ponty, responsabile della redazione politica della rivista, durante una cena a casa di Boris Vian per gli articoli raccolti in Umanesimo e terrore che giustificavano le purghe staliniane, e capisce il motivo della suo allontanarsi da Sartre: il rapporto con il marxismo e la politica comunista.
 


In gioventù, Camus aveva aderito al partito comunista algerino per poi uscirne. Era di sinistra, ma rifiutava il modello comunista e il blocco sovietico. Sartre, invece, non aderì mai al PCF, ma nel dopoguerra iniziò un confronto tra esistenzialismo e marxismo, vedendo nel comunismo l’unica politica possibile per condurre l’uomo alla salvezza. Il fine è quello dell’assoluta libertà dell’uomo e nei primi anni Cinquanta Sartre arriva ad affermare nei Comunisti e la pace che solo la rivoluzione marxista-leninista guidata dal Partito può garantire all’uomo la piena libertà.

Per Camus è una posizione inaccettabile. Il marxismo, per lui, non è altro che un cristianesimo che ha messo la storia al posto di dio. La libertà non si realizza nella rivoluzione, ma muore con essa. Nell’Uomo in rivolta, Camus rifiuta ogni idea di rivoluzione che tenti di stabilire un ordine basato su valori che non possono essere che illusori, eventuali. Ogni rivoluzione che chieda di sacrificare l’uomo per uno scopo possibile è errata. Il sacrificio di vite in nome di un fine ideale è errato. La storia come ideale astratto è un errore. Il marxismo è un errore. Sulla rivoluzione deve prevalere la rivolta contro valori negativi – oppressione, ingiustizia – per affermarne l’opposto positivo.

È il momento di una rottura insanabile. Francis Jeanson recensisce su Les Temps Modernes, demolendolo, il saggio di Camus, definito «âme révolté». Camus risponde con una lettera pubblica rivolta direttamente a Sartre, chiamato freddamente «directeur», in cui lo critica per le sue posizioni politiche. Si sente attaccato, sa che la recensione di Jeanson è anche un attacco da parte dell’ormai ex amico. Sa che la distanza politica li sta allontanando sempre di più. Sartre risponde con un’altra lettera. Lo chiama per nome, lo indica come responsabile della fine della loro amicizia e procede a una dettagliata critica del suo pensiero e della sua attività politica. È l’ultimo scambio tra i due, la crepa che li allontanerà per sempre.

«Probabilmente Camus è stato l’ultimo caro amico che ho avuto», ricorderà Sartre molti anni dopo. Non si parleranno mai più, dopo quelle lettere. Camus non replicò, non ne aveva bisogno. Vive a Parigi come in trappola, isolato dopo la rottura con Sartre e il suo gruppo. Nel ’57 arriva il Nobel e forse un po’ di serenità. Si trasferisce in Provenza, al sole, più vicino al Mediterraneo che lo fa sentire a casa, in Algeria.

Passano due anni, poi lo schianto, il vuoto, lui e Michel Gallimard costretti tra le lamiere. E una cartellina nera con un’idea, Il primo uomo.




“Inutile Tentare Imprigionare Sogni” di Cristiano Cavina

Gradito ritorno quello di Cristiano Cavina che, con il suo Inutile tentare imprigionare sogni (Marcos y Marcos, 2013), ci regala un maturo e leggero sguardo sul mondo della tarda adolescenza.

Qualsiasi cosa decide di raccontarci, l’autore emiliano riesce a dosare alla perfezione parole e pensieri, alternando su più piani momenti di riflessione e di sorriso.

Questioni individuali – amore, amicizia, sogni, scontri generazionali, alternanza di ruoli, crescita personale – e questioni collettive – guerra, politica (quella vera e quella idealizzata), lavoro, educazione – sono le tematiche che si intrecciano continuamente in tutta la narrazione.

C’è molta eleganza e c’è molta dolcezza nella scrittura di Cavina. In un linguaggio spesso intriso di quotidiano, c’è una sottotraccia poetica: una poesia che viene dalla naturalezza e dalla gentilezza che si riesce a esprimere.

Ancora una volta l’epicentro di tutto è il microcosmo di Casola (paese a cui è lasciato il tributo della “epigrafe” finale), come se la vita di una cittadina emiliana di provincia possa racchiudere il senso del mondo, il senso della vita. Le case popolari in cui giocavano gli alter ego di Cavina bambino si trasformano in istituti tecnici (popolarissimi anch’essi); il dolore per una perdita o l’attenzione per la memoria (quella del suo libro più bello, I frutti dimenticati) e i viaggi infernali dell’ultimo Scavare una buca (opera intensa, la sua più sofferta sicuramente) lasciano il posto al racconto della stagione più difficile del nostro essere giovani, gli anni delle scuole superiori.

Ora il centro di tutto è la scuola, luogo di incontro di vite solo apparentemente subordinate (professori vs alunni, genitori vs istituzioni, mondo interno vs mondo esterno). Scuola come individuale e universale geografia umana, campo d’azione dei nostri slanci, delle nostre delusioni (e castrazioni), del nostro imparare teorico e del nostro imparare pratico.

La forza dei simboli (kefia rossa, feste dell’Unità, cortei, discorsi altisonanti e vuoti nella sostanza) che si sgretolano e si consumano davanti ai nostri occhi, l’ingenuità di chi segue senza capire, la rabbia di non saper mostrare il proprio disappunto, diventano peculiarità di una certa politica vissuta negli anni scolastici (ancor più se ci troviamo a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, in piena distruzione dei valori che avevano caratterizzato il dopoguerra italiano.

Studenti e professori diventano tutt’altro, qualcun altro: esempi da seguire e da cui fuggire. Ciò che succede ai ragazzi del libro sono storie che abbiamo già sentito, che forse sono capitate anche a noi.

È proprio questo il punto: Cavina sa farsi ascoltare perché conosce la materia che tratta e conosce soprattutto il linguaggio con cui raccontarla.

Cavina, ancora una volta, capisce pregi e difetti del nostro paese, anche se non lo osserva da Roma o da Milano. Come se fosse tuttouna grande provincia: forse neanche ha poi così torto.


(Cristiano Cavina, Inutile Tentare Imprigionare Sogni, Marcos y Marcos, 2013, pp. 224, euro 16)

Nutrimenti: libri come generi di prima necessità

Mettere in piedi un progetto quando un intero sistema si sbriciola sulle ginocchia può sembrare difficile, oltre che inopportuno. Magari anche di pessimo auspicio. Eppure a volte procedere è l’azzardo migliore.

Ai fondatori dell’avventura editoriale su cui ci piace restare impigliati per il mese di novembre è capitato di interrogarsi. Di chiedersi se fosse il caso, a un pugno di giorni dall’11 settembre 2001, quando nessun paio d’occhi si salvò dalla polvere anche al di qua dello schermo, di lanciare il loro primo libro.

Ci fu esitazione, forse in pancia bolliva un po’ di paura e la voglia pulsante di procrastinare, ma poi si è deciso di non fermarsi, perché «anche in anni difficili e duri i libri restano una guida preziosa, uno strumento per conoscere e capire». Perché il nuovo va somministrato, come la sola medicina possibile.

E a distanza di dodici anni, a Roma, nella sede di via Marco Aurelio, vive la conferma che avevano ragione. Una conferma chiamata Nutrimenti.

Nome che non piove immotivato, poiché la cultura non è un dono superfluo, un accessorio luminoso, ma appunto, un ele/alimento irrinunciabile. Un cibo di alta qualità, per tutti i lettori che vogliano affidarsi a un marchio attento, creativo e raffinato.

A capo della “brigata”, Ada Carpi de Resmini, amministratore unico e art director, con un brillante passato nella divisione pubblicità Mondadori e nelle maggiori agenzie internazionali, e Andrea Palombi, direttore editoriale.

Il catalogo è tripartito in un ramo di narrativa, uno di saggistica e un terzo dedicato al mare e alla vela, per ricordarsi sempre di navigare controcorrente. Le collane fondamentali sono:

Greenwich, prima incentrata solo sulla letteratura angloamericanae poi divenuta «il meridiano della nuova letteratura con voci emergenti e innovative della narrativa italiana e internazionale». Una scuderia di autori tra cui spiccano Gordon Lish, Julia Glass, Andre Dubus III, Mathias Enard,  Jean Teulé e Filippo Tuena, impegnato anche come curatore di un’altra collana, Tusitala.

Tusitala (dal samoano “scrittore di storie”, attribuito dalla popolazione a Robert Louis Stevenson), «Esplorazioni, misteri, resoconti di viaggi, biografie, narrativa di avventura», tra cui campeggiano

Frank Hurley e Lesley Hartley.

Igloo, grande bacino di saggistica, raccolta di «storie appassionanti, casi emblematici, vite e vicende che hanno contrassegnato stagioni politiche e culturali. Approfondimenti sull’attualità, dalle grandi inchieste alla politica, dall'economia all’informazione». Da segnalare Pier Vittorio Buffa e Gianni Flamini.

Documenti, collana imperniata sul «dovere della memoria», squarci di sguardi su dittature, guerre e stragi che possono guarire solo conoscendole.

Grandi navigatori grandi navigazioni, perché il mare è un luogo e un soggetto, scrigno e voce del racconto. La collana inanella «diari di bordo, storie ed esperienze dei migliori velisti italiani, vicende e protagonisti della storia della vela», come la biografia di Moitessier per mano di Jean Michel Barrault.

Tecnica, sezione manualistica approfondita.

Narrativa di mare, in cui spiccano le rotte di Henry Thompson, Pierre Loti ed Ernest Shackleton.

Il sito web consente d’imbarcarsi in un oceano di informazioni e curiosità, fiutando l’umore dei lettori con la classifica dei più venduti e intercettando anche il canale dell’editoria digitale.

A questo punto il momento dei nostri suggerimenti è un pasto altrettanto goloso e necessario.

Queste le nostre scelte:

Non sono Sidney Poitier, di Percival Everett, conflitto identitario di un uomo costretto a combattere anche contro il proprio nome. Autore di straordinaria forza narrativa.

I pugni nella testa, di Andre Dubus III, una città di provincia spaccata da un fiume. E da tutti i suoi contrasti, tra borghesia e perdizione.

I vivi e i morti, di Joy Williams, rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Limbo narrativo sarcastico e deflagrante della finalista Pulitzer apprezzata da Don De Lillo.

E un plauso in più è da tributare a I sogni di mio padre, autobiografia di Barack Obama di cui la casa editrice acquistò i diritti quando ancora quel volto non ci era affatto familiare.

I principi nutritivi sono quindi al completo. Per un’ottima dieta culturale.

“Hannibal” di Bryan Fuller

Non c’è bisogno di presentazioni: Hannibal è entrato da tempo nell’immaginario collettivo con la magistrale interpretazione di Anthony Hopkins, grazie al quale tutti conoscono il cannibale più famoso del cinema e della letteratura, anche chi non ha avuto occasione di vedere Red Dragon o il Silenzio degli innocenti.

La serie ideata da Bryan Fuller per la NBC è interpretata da Mads Mikkelsen, attore danese dal fascino tenebroso e dalla voce suadente, e racconta la storia del famoso assassino quando era ancora uno psichiatra.

Hannibal Lecter nasconde la sua indole sotto una maschera di buone maniere quasi estremizzate, un gusto spiccato per il vestire e per l’arte, un amore viscerale – letteralmente parlando – per la buona cucina.  Inoltre è dedito ai suoi pazienti, Will Graham su tutti.

Wll è un brillante membro dell’FBI dotato di una straordinaria dote empatica che gli permette di immedesimarsi nei comportamenti criminali, soprattutto quelli dalle dinamiche più violente. Questo dono è al contempo una maledizione che lo spinge sull’orlo della follia, così Hannibal viene scelto per affiancare il giovane in un percorso psichiatrico. Tra i due si instaura un rapporto di fiducia e stima che rasenta l’amicizia se non fosse che, tenendolo sotto scacco, Hannibal continua a perpetuare i suoi efferati omicidi sotto gli occhi ignari dello stesso FBI.

Ad affiancare l’interpretazione impeccabile di Mikkelesen ci sono Hugh Dancy, attore britannico già conosciuto in ambito cinematografico, Laurence Fishburne (Morpheus di Matrix) e la superba Gillian Anderson, che con la sua eterea bellezza interpreta la dottoressa Du Maurier.

Ciò che colpisce di questo telefilm è la ricercatezza della messa in scena nonché della fotografia, curata ed elegante in ogni situazione, che sia l’arredamento di un interno o una tavola imbandita con vivande elaborate e di alta classe.

La formula della serie è particolare inoltre dal punto di vista strettamente narrativo in quanto gioca continuamente sulle visioni di Will, a metà tra il reale e l’onirico: guardare una puntata senza concentrarsi vuol dire per lo spettatore trovarsi disorientato e perdere il filo narrativo.

A tratti non è facile stare al passo con la narrazione e distinguere in maniera chiara le visioni dagli eventi realmente accaduti, ma con un minimo di attenzione e coinvolgimento i tasselli vanno in ordine da soli e creano un quadro preciso puntata dopo puntata, senza che mai nulla venga affidato al caso ma risulti perfettamente coerente con la trama.

Il successo ottenuto con la prima stagione è meritatissimo, dunque, perché un buon prodotto deve rendere conto alla storia che racconta ma anche al modo in cui viene raccontata, deve dare un’anima ai personaggi e farli interagire in contesti che li valorizzano.

La forza della sceneggiatura sta nel disseminare metafore qua e là, senza mai rivelare apertamente gli intenti dell’assassino e azzerando il suo coinvolgimento emotivo negli eventi. Il coinvolgimento che conta davvero, e questa è una carta sapientemente giocata da Fuller, è quello dello spettatore, che è onnisciente e a differenza degli altri protagonisti sa, nonostante non veda mai Hannibal intento a uccidere.

Se avete visto i film o letto i libri di Thomas Harris non potete assolutamente perdervi Hannibal: in attesa della seconda stagione che partirà nel 2014 potete seguire la prima su Italia 1 e farvi un’idea. Per come si presenta è innegabile che la confezione sia ottima, ma è assicurato che il contenuto non delude nessun tipo di aspettativa. E gli ascolti ottenuti non possono che confermare.