“Perdersi è meraviglioso” di David Lynch

Se David Foster Wallace si domandava «cosa David Lynch sembra volere da te, esattamente», le interviste raccolte da Richard Barney in Perdersi è meraviglioso (minimum fax, 2012) mostrano senza dubbio cosa il pubblico sembra volere da Lynch, esattamente: una spiegazione.

Non c’è giornalista (e nel libro si hanno ben ventiquattro esempi) che non tenti di strappare al cineasta più: enigmatico? sfuggente? amato? discusso? ermetico? (difficile definirlo in modo originale), una frase rivelatrice. È interessante notare come l’entusiasmo dei giornalisti si riversi sui significati della trama e molto poco, o comunque molto meno, sugli aspetti tecnici dei film. C’è questa misteriosa (per usare la diffusione dell’aggettivo nel testo) tendenza ad allontanare il dato estetico dal dato tecnico. Ed è singolare che ciò avvenga proprio nei confronti di un regista che ammette di aver votato Reagan soprattutto per un “fattore estetico”. Vorrei domandare a Lynch se per caso l’abbia notato anche lui. Probabilmente la sua risposta sarebbe: «Be’, sì… ma forse in parte no», perché al di là della discussione sul carattere aperto o meno del regista, Perdersi è meraviglioso offre un ritratto dell’intervistato perfetto: ti lascia credere ciò che preferisci. E nel suo silenzio sembra così saggio che avresti voglia di dargli il tuo bancomat.

Le interviste proseguono ripercorrendo la carriera del “cineasta più…” per la gioia di ogni fan (tra cui io), illuminando la tensione artistica di Lynch che è alla base della sua percezione (sorprendentemente intuitiva e istintiva) della realtà.

Non so se sia un limite o un valore aggiunto, ma per seguire il libro in ogni sua parte è necessario conoscere l’opera omnia del regista: i giornalisti accennano di continuo a personaggi e situazioni correndo il rischio di rendere il testo incomprensibile per il fruitore meno esperto. Sembra scontato, ma non lo è. Per esempio quando Truffaut intervistò Hitchcock, ne venne fuori un libro dove questo non accade. Chiusa parentesi.

Il cinema di Lynch è un terreno fertile per la critica perché se i significati sono plurimi, i significanti sono molteplici. Questo probabilmente si lega all’interesse del regista per «la grana della parola letterale».

Durante o dopo la lettura, il libro spinge quindi a domandarsi, quasi in modo naturale, che rapporto intercorra tra il lessico di Lynch e la sintassi del suo testo filmico. Dalle interviste emerge una certa coerenza tra l’evasività e il significato in potenza e ciò implica che nel “finale” del libro tutto resti irrisolto o risolto in tante vie definitive.

I tipi di minimum fax dimostrano che un libro può essere non solo interessante, ma anche piacevole persino quando è privo di frasi a effetto. Un esempio tra i tanti: «L’unico artista che sento come mio fratello […] è Franz Kafka. Lo stimo davvero un sacco». E Lynch va avanti così, per pagine e pagine, tra frasi gergali e riflessioni sulla meditazione. Sta al lettore/spettatore fare la scelta e probabilmente è per questo che a volte risulta antipatico (socialmente, ma soprattutto criticamente, si traduce con “oscuro” o “incomprensibile” o “misterioso”): se pago per vedere un film o leggere un libro, forse mi aspetto che qualcuno abbia già scelto per me.

Infine. Che posizione occupa questo testo (che parla di cinema senza spettacolarizzazioni) rispetto ai mezzi “dell’epoca della riproducibilità” 2.0? Non so se sia possibile che provochi uno scontro o una frattura, ma di certo non avremo il pullulare di citazioni su Facebook. Finalmente.

Nota: l’aggettivo lynchiano è stato volutamente censurato in quanto si adotta in questa sede la definizione data da DFW e purtroppo non c’è nulla di lynchiano nelle mie poche righe, figurarsi se c’è qualcosa di davidfosterwallaceiano

 

(David Lynch, Perdersi è meraviglioso, trad. di Francesco Graziosi, minimum fax, 2012, pp. 433, euro 17).

“Soprattutto l’anguria”, regia di Massimiliano Civica

Massimiliano Civica si confronta, dopo il suo viaggio personale nei classici, con un testo contemporaneo di Armando Pirozzi, giovane drammaturgo napoletano, dai tratti surreali e grotteschi.

Un monologo/dialogo tra due fratelli, uno muto, riservato e assorto nel proprio mondo, e l’altro logorroico e invadente. Si ritrovano a causa di un evento familiare dal sapore tragicomico, che vede come protagonista il proprio padre caduto in una trance irreversibile durante una sua fase di meditazione in India. Il dialogo/monologo, condotto in maniera serrata da uno dei due e subito in silenzio dall’altro,  avviene in una casa immersa nella giungla e va a costruire un testo stratificato che si avvale della forte presenza scenica dei due attori. Da questo flusso incontrollato di parole, vengono fuori ricordi, racconti, aneddoti personali. Ma il lavoro di Civica e Pirozzi è contraddittorio, e ha il suo punto di forza e debolezza proprio nel testo che, se da un lato appare veloce, surreale e divertente, dall’altro finisce per perdersi proprio nei suoi meccanismi e nei suoi nodi lasciandosi sempre più alle spalle il vero intento dell’autore, cioè di raccontare il «complicato tentativo di un uomo di ristabilire un dialogo col proprio fratello».

La continua ricerca di tempi comici cadenzati, che per certi versi richiamano quelli di Zelig di Woody Allen, fa soffermare lo spettatore più sull’ingegneria del testo che sul resto.

La regia è precisa ed essenziale, Civica sa valorizzare i silenzi dell’uno e il flusso verbale dell’altro, detta tempi precisi ma il testo finisce per perdersi dietro riflessioni spinte troppo al limite del paradosso. C’è, quindi, una prevalenza dell’effetto comico sul dramma individuale e l’autore non dà strumenti per interpretare il senso di vuoto che affligge il fratello silenzioso. Il testo di Pirozzi osa ma non si sbilancia mai, sembra quasi beckettiano nella parte iniziale ma poi comincia a girare a vuoto, mostra gli ingranaggi e, pur divertendo, non si impone e non stupisce.

Ottima la prova dei due attori, Diego Sepe e Luca Zacchini, posti dal regista come ai due lati di una immaginaria corda tesa, ma Soprattutto l’anguria, pur essendo tecnicamente una buona prova di teatro, non riesce a essere altro.

 

Soprattutto l’anguria
di
Armando Pirozzi
regia di Massimiliano Civica
con Diego Sepe e Luca Zacchini
 

“L’uomo che amava Dickens” di Evelyn Waugh

Scrittore non tra i più frequentati dalle nostre parti, Evelyn Waugh (Londra, 1903-1966) con L’uomo che amava Dickens, raccolta di racconti tradotti da Mario Fortunato per Bompiani, consente un’occasione per avvicinarlo. Ché in un libro di racconti, specie se diversi fra loro, un lettore potrebbe trovare quello che fa al caso suo. Artefice di una scrittura che ha i suoi punti di forza nella secchezza magistrale dei dialoghi, nell’ironia e in una certa musica delle parole, Waugh utilizza spesso materiale spurio della sua biografia. Tracce di mondo appaiono come riflesso dei suoi viaggi, dall’Europa alla Guyana. Anche una disavventura come conferenziere non adeguatamente rimborsato gli dà l’abbrivo per una storia, la prima e più lunga del volume, “Benvenuti nell’Europa moderna”, satira inesorabile del regime comunista – di ferocissima allegria e sicuro godimento del lettore. Nel protagonista, il triste professor Scott-King, Waugh disegna già tutta l’avvilente e patetica biografia del povero cultore di umane lettere; un uomo («quasi un poeta») che «aveva viaggiato in lungo e in largo nella vasta periferia della sua mente» ma naturalmente a digiuno di qualsiasi cosa, la cui sola passione è un’esistenza simile alla sua, quella di un tal Bellorius che molto tempo prima aveva dedicato un poema a Neutralia, fantasmatica isola del nuovo mondo. Quando i suoi dirigenti decidono di celebrare il terzo centenario del poeta e invitano il professore nell’isola, l’uomo, per quanto incredulo, non sa quanto farsesco sarà il viaggio che lo aspetta.

L’autore de Il caro estinto e Ritorno a Brideshead, per citare due dei romanzi più noti (e ricordare che alcuni dei personaggi presenti in questa raccolta sono destinati a traslocare nei romanzi), conosce le sfumature che passano dall’ironia al sarcasmo, alla compassione (giusto il titolo di un racconto) ma il suo timbro british ècosì dissonante rispetto all’emotività italiana (un’emotività direi ideologica) – pure a suo tempo culla di un ethos, la sprezzatura, irrimediabilmente compromesso dall’uggia di una pruderie cattolica onnipervasiva che invece allo scrittore inglese non ha mai impedito di scrivere con sfrontata verve satirica –, da mantenerlo in una posizione abbastanza laterale, né la sua ricezione è stata favorita dall’aver assunto l’uomo posizioni assai poco commendevoli (filo fascista e reazionario, sconsideratamente vicino a pregiudizi razzisti e antisemiti).

Lo scrittore invece merita di essere letto per quello che è. Waugh sa modulare i suoi accordi da un sentimento all’altro com’è di chi vede nel tragicomico l’impronta della vita umana. Ma mai come in questi casi ciò che deve riuscire convincente è il tono. I personaggi – anche se sottoposti a un umorismo crudele – devono restare vivi, autonomi, e non finire come meri accidenti nominalistici, pedine mandate in giro dall’autore tanto per smuovere una trama. Quando si dice che di un autore riconosciamo la voce, be’, non è detto che sia sempre un bene. Potrebbe voler dire che ci consoliamo con lo stesso, amichevole birignao: che i suoi non sono personaggi, ma macchiette. Con Waugh non succede. La differenza con i cattivi imitatori che non hanno niente da dire è tutta qui.


(Evelyn Waugh, L’uomo che amava Dickens, trad. di Mario Fortunato, Bompiani, 2012, pp.263, euro17)

“Un bravo ragazzo” di Javier Gutiérrez

Un bravo ragazzo di Javier Gutiérrez (Neri Pozza, 2012) è la storia di un gruppo di ragazzi della Madrid universitaria di fine anni Novanta, un gruppo distrutto da un evento misterioso e dai contorni foschi che li ha fatti dividere.

Il romanzo si apre su un pomeriggio invernale madrileno: un incontro fortuito con un fantasma del passato, la “pura” Blanca, in mezzo alla confusione di una strada trafficata. Il personaggio principale è Rubén Polo, trentenne, ex membro di un gruppo rock; insieme a lui Nacho e Blanca, fratelli, e Chino, ora marito di Blanca.

Il libro è diviso il cinque capitoli; ognuno porta il nome di un album miliare degli anni Novanta; da Maxinquaye di Tricky a Nevermind dei Nirvana. Sono i cinque album da portare su un’isola deserta secondo il protagonista.

La prima caratteristica notevole dell’opera di Gutiérrez è il punto di vista: il narratore è interno a Polo, ma in seconda persona. Tutto il terreno della narrazione è di conseguenza dissestato e confuso come la mente del protagonista; in una dialettica continua le linee temporali si sovrappongono e si scambiano senza tregua, i dialoghi si intrecciano ai pensieri, i fatti ai sogni, ai ricordi. Si procede tra le pagine scoprendo riferimenti perturbanti, collegamenti a un passato idealizzato dal protagonista ma che nasconde anfratti oscuri, macchie del periodo in cui il gruppo andava a gonfie vele; inoltre, il nome di un farmaco, insieme alle inquietanti figure dei gemelli Álvaro e Dani, torna spesso a disturbare la mente di Polo: il roipnol. Rubén si accorge dei suoi problemi anche nei rapporti con la sua ragazza, Gabi. Decide così di vedere uno psicologo – senza nome – che si accorge e afferma limpidamente ciò che succede nella mente del narratore: «Quel che sta facendo il tuo subconscio è sovrapporsi alla realtà, manipolandola».

Questo è ciò che avviene nel corso di tutto il romanzo: la mente di Polo scinde il Polo del passato da quello odierno e lo difende da tutto ciò che di oscuro c’è stato, da ogni colpa (senza consapevolezza non c’è colpa), nasconde tutto lasciandone però i segni nella vita di tutti i giorni del ragazzo, che non riesce più a emozionarsi né ad amare.

I bravi ragazzi del titolo, rampolli della borghesia madrilena, non sono poi così “bravi”. Il loro passato li perseguita, fino ad arrivare al confronto con loro stessi – nel caso di Nacho – o con gli altri – nel caso di Polo.

Gutiérrez divide e scambia spesso il narratore col punto di vista, rendendoci complici e vittime della mente del protagonista; questo ci costringe a continuare a leggere, ad entrare nella spirale soffocante del romanzo per uscirne solo all’ultima pagina. Con grande piacere.

(Javier Gutiérrez, Un bravo ragazzo, trad. di Silvia Sichel, Neri Pozza 2012, pp. 176, euro 15)

La collana Sirin Classica di Voland

Un po’ di Lev Tolstoj, un assaggino di Ivan Turgenev, Cĕchov, Gor’kij, il tutto innaffiato da una Marina Cvetaeva, da un Dostoevskij, un Bulgakov e un Puškin d’annata.

Voland, dall’attenzione costantemente rivolta al romanzo che viene da est, per il suo quindicesimo compleanno nel 2010 si è regalata e ci ha regalato una nuova collana, Sirin Classica.

La casa editrice romana di Daniela Di Sora da sempre si contraddistingue ed eccelle nella specialità della traduzione e nello scandaglio oltre il confine del mondo slavo. La nuova collana ha però l’ambizione di imbandire un buffet prelibato di assaggi di classici, invitando a cibarsene importanti autori italiani. Non si tratta infatti di testi inediti ritrovati o dimenticati, ma di racconti o romanzi brevi arcinoti, magari vittime di un oblio momentaneo, presentati in abiti nuovi ed eleganti, da gran gala, ossia nella versione data loro da scrittori come Paolo Nori, Serena Vitale, Alessandro Niero, Pia Pera, Daniele Morante, Andrea Tarabbia, etc.

Sono dunque chiamati a dialogare due mondi letterari. Il risultato è la continua scoperta di legami inattesi, pur ognuno mantenendo le proprie idiosincrasie. L’operazione non è nuova ma ne vale la pena. Già Einaudi inaugurò nel 1983 una collana destinata a protrarsi con grande successo fino al 2000. Si chiamava significativamente Scrittori tradotti da scrittori. Vi collaborarono autori del calibro di Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg, Gianni Celati, etc.

Per la casa editrice romana che ha fatto del personaggio folle e stravagante de Il Maestro e Margherita un simbolo nonché il proprio marchio, disegnato da Silvano Fascina, di evidente ispirazione chagalliana (un diavoletto infila volando l’occhiello della elle di un calligrafico Voland e saluta i lettori togliendosi il cappello), la prima uscita nel maggio 2010 porta la firma di Paolo Nori che traduce Chadži Murat di Lev N. Tolstoj, la storia tragica e sublime del capo caucasico Murat, di cui vi abbiamo parlato qui.

Immediata è la sensazione di avere un piccolo capolavoro fra le mani. Non può non mettere di buon umore e far prevalere l’ottimismo ogni volta che in libreria scopriamo opere irreperibili o trascurate di un autore prediletto. D’altronde, un classico ha la caratteristica di rappresentare a ogni rilettura una scoperta, è di default fonte di nuove suggestioni a seconda del periodo che stiamo attraversando, del grado di maturazione raggiunto e di una serie di altre variabili. 

A livello di progetto grafico, l’art director Alberto Lecaldano ha strutturato la collana adottando lo stesso formato della mitica Bur del dopoguerra, 10,5×15,5 cm. In copertina nome dell’autore e titolo hanno lo stesso corpo e lo stesso carattere (il Voland, disegnato da Luciano Perondi basato su un Baskerville, si distingue per un capriccioso taglietto orizzontale della “v”) del nome del traduttore, accordando così a quest’ultimo sin da principio pari dignità e autorevolezza. Sempre per la copertina è ancora alla vecchia Bur che Lecaldano si è ispirato con un cartoncino leggermente groffato. I colori utilizzati sono quelli della Voland grande formato con la tipica fascia che partendo dalla prima di copertina arriva in quarta lasciano una striscia bianca sul taglio dove è collocato il marchio.

All’interno il testo è a bandiera, viene evitato il salto pagina e nonostante le esigue dimensioni troviamo le classiche testatine che oltre al numero della pagina riportano autore e titolo.

Insomma, si tratta di veri e propri capolavori da tasca. Finora la collana ha avuto nove uscite. A Chadži Murat ha fatto seguito i Tre racconti di Čechov, tradotti da Pia Pera, un affresco allegorico della realtà russa di fine ’800. Pubblicati su rivista nel 1887, furono poi inclusi nella raccolta Crepuscolo, primo libro di successo del giovane autore.

Diario di un uomo superfluo, racconto breve scritto da Turgenev nel 1850, è stato invece tradotto da Alessandro Niero, professore di letteratura russa all’università di Bologna e grande esperto di prosa e poesia russa del XX secolo. Attraverso le pagine di un diario un uomo prossimo alla morte, Culkaturin, decide di riempire gli ultimi giorni narrando la proprio vita. La “superfluità” del titolo, come ben spiega il traduttore, è da intendersi come estrema sensibilità di un uomo invecchiato, in conflitto con il suo ambiente sociale, che si sente inutile.

Le notti fiorentine è invece una piccola raccolta epistolare, tradotta da Serena Vitale, il cui titolo è un omaggio a Heine, di Marina Cvetaeva, una delle più alte voci della letteratura russa del ’900. Le lettere testimoniano la torrenziale passione d’amore della scrittrice per l’editore Abram Visnjak.

Per la quinta uscita, Varen’ka Olesova di Gor’kij, breve romanzo tradotto da Daniele Morante, rimando alla recensione della nostra Elisa Cianca, mentre per quella successiva, le bellissime prose di Gogol’ delle Due storie pietroburghesi, rese in italiano da Cesare De Michelis, a quella della sottoscritta.

Di qualità pari ai suoi libri maggiori e più voluminosi è quel vero e proprio viaggio nell’animo umano quale sono le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij nella versione modernizzata nel linguaggio da Paolo Nori.

Non poteva poi mancare Bulgakov con Diavoleide, chiassoso romanzo ambientato a Mosca negli anni Venti della NEP, nuova politica economica: barbe e baffi posticci che vanno e vengono, fughe e inseguimenti da far impallidire. Diavoleide è soprattutto un accurato esercizio di riscrittura sovietica del racconto fantastico ottocentesco alla Hoffmann virato in parodia, con squarci allucinati che sembrano uscire direttamente dalla Prospettiva Nevskij di Gogol’, con segretari che sbucano dai cassetti come cucù mentre l’acre odore di zolfo, che solitamente accompagna le apparizioni diaboliche, diventa qui all’inizio solo l’effetto di un privato test di efficienza sui fiammiferi che lascia orbii suoi sperimentatori. Insomma, Bulgakov prepara lo sfondo per Il Maestro e Margherita.

Infine, l’ultima prelibatezza sfornata ce la porge Bruno Osimo con la sua versione dei Racconti di Odessa di Babel’.

Attendiamo ingolositi le prossime uscite e sposiamo in pieno le parole di Andrea Tarabbia, traduttore di Diavoleide: «Fin dalla sua nascita, ho considerato la collana Sirin Classica una sorta di gioiello: da una parte rinvendiva i fasti degli Scrittori tradotti da scrittori, con tutto quel che ne consegue; dall’altra, aveva rimesso sul mercato una serie di titoli, da Chadži Murat di Tolstoj alla Varen’ka Olesova di Gor’kij, che erano da tempo irrecuperabili: aveva dato loro una nuova vita e una nuova voce grazie, se si può dire, agli eredi contemporanei di Manganelli, Landolfi, Pavese».

  

“Misfits” di Howard Overman

Prendete cinque ragazzi inglesi colpevoli di reati minori e costretti ai lavori sociali. Lasciateli all’aria aperta durante una tempesta imprevedibile donatrice di poteri sovrannaturali (a loro come a molti altri). Credete adesso di avere davanti agli occhi un team di supereroi?

Con queste premesse Howard Overman ha portato sul piccolo schermo Misfits, un sorprendente successo degli ultimi anni. L’idea di fondo è tanto semplice quanto interessante: come sfrutta ognuno di noi un dono dal cielo in grado di rendere speciali senza neanche volerlo? Troppo facile schierarsi tra supereroi e supercattivi come quelli visti al cinema o letti sui fumetti. Nel mezzo c’è un’infinita serie di sfumature; ragazzi ingenui che si dilettano a vincere scommesse o stupire gli amici, emarginati a caccia di una vendetta nei confronti di qualcuno o della società, impiegati convinti di poter dare una svolta alla propria carriera. La realtà spazia ben oltre il bianco e il nero.

E allora quando Nathan (Robert Sheehan), Kelly, Simon, Curtis e Alisha si trovano ad affrontare la sconvolgente realtà del loro cambiamento durante i servizi sociali le conseguenze saranno sicuramente fuori dal comune. A cominciare da quelle subite dal loro assistente sociale, impazzito a causa della tempesta e ucciso brutalmente prima di poter fare del male ai poveri malcapitati. Da qui in poi la serie prenderà una piega quasi grottesca, tra numerosi momenti di humour (anche e soprattutto nero), violenza più o meno gratuita, omicidi all’ordine del giorno, le scene di sesso più disparate e un immenso alone di irriverenza sullo sfondo che non abbandona mai i protagonisti.

Non aspettatevi banalità anche quando vengono a galla i poteri dei ragazzi e di tutti coloro con cui si incontreranno (o scontreranno): si passa da poteri “canonici” come quelli di Curtis, capace di tornare indietro nel tempo, ad altri come quelli di Alisha, una vera e propria calamita per gli uomini, in grado di generare in tutti una irrefrenabile attrazione sessuale al solo contatto (e rendendole quasi impossibile la vita sociale), per arrivare perfino a manipolatori di latte. Insomma, qualsiasi cosa possiate immaginare, Misfits potrebbe averla portata in televisione. Tutti questi poteri però saranno latenti in qualsiasi uomo o donna colpito dalla tempesta, e non sarà sempre facile scoprire il proprio. Sarà lo stesso Nathan a fare i conti con questo problema, e nei modi peggiori.

Proprio Robert Sheehan, uno dei cardini del gruppo, l’elemento più dissacrante e faro dell’umorismo di cui è impregnata la serie, ha sconvolto un grandissimo numero di fan al termine della seconda stagione, annunciando il suo addio a Misfits per concentrarsi su altri progetti. Molti sono rimasti convinti che sarebbe stato praticamente impossibile ripetere il successo passato senza l’attore a cui forse ci si era più affezionati.

A spazzare (almeno relativamente) via queste convinzioni ci ha pensato Joseph Gilgun (Rudy in Misfits), già protagonista di This Is England e giunto proprio come “sostituto” di Sheehan come ruolo all’interno del gruppo. L’esperimento si può dire relativamente riuscito, data la buonissima interpretazione di Gilgun, che però non ha potuto evitare un relativo calo fisiologico della serie giunta al capolinea del primo arco narrativo dopo tre stagioni. Ora che siamo giunti alla quarta, infatti (iniziata giusto una settimana fa su Fox), il cast è stato quasi completamente rimodernato; per capirci meglio, dei cinque ragazzi presentati nell’episodio pilota soltanto uno sarà presente anche in questa nuova stagione, mentre alcuni saranno personaggi subentrati (come Rudy) o addirittura completamente sconosciuti.

Nonostante qualche dubbio, perlopiù fugato, espresso in questi ultimi anni, Misfits rimane una gradevolissima voce fuori dal coro sul mondo del sovrannaturale, con la sua vena dissacrante e la sua atmosfera prettamente british, che non mancherà di farvi appassionare e di farvi ridere. Ma sia chiaro, non aspettatevi eroi!
 

[AutoFocus] Il 2013 al cinema

Il 2012 cinematografico si è chiuso con la delusione – sul piano della critica – de Lo hobbit, atteso primo capitolo della trilogia prequel de Il Signore degli anelli. Al 2013 spetta quindi il compito di risollevare il morale degli spettatori. E sembra averne pienamente l’intenzione.

Basta dare un’occhiata alle uscite in programma per gennaio. Si è iniziato sin dal primo giorno, con il cast internazionale de La migliore offerta di Giuseppe Tornatore che si è imposto tra il pubblico (superato per incassi nella prima settimana solo da Mai stati uniti dei fratelli Vanzina) e ha convinto ampiamente la critica, per proseguire nel primo fine settimana con The Master, il film di Paul Thomas Anderson che, ispirandosi alle origini di Scientology, ha visto i due protagonisti Phillip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix premiati a Venezia con la Coppa Volpi.

Le uscite del mese della Befana sono ricche di titoli di grande fascino, dal ritorno dei creatori di Matrix, Andy e Lana Wachowski, con il fantasy diacronico Cloud Atlas, all’attesissimo Django Unchained di Tarantino (nomination Oscar per il miglior film), in sala dal 17 gennaio e destinato a far parlare a lungo di sé, per arrivare a Lincoln di Steven Spielberg (12 nomination tra cui miglior film), con un incredibile Daniel Day Lewis nei panni del 16° presidente Usa, e a Les Misérables (8 nomination tra cui miglior film), musical tratto da Hugo che vede Hugh Jackman e Anne Hathaway duettare sotto la guida di Tom Hooper, già premio Oscar per la regia de Il discorso del re. In mezzo c’è tempo per rivivere il dramma dello tsunami che sconvolse l’Oceano Indiano nel 2004, con Ewan McGregor e Naomi Watts in The Impossible, e per riflettere sul maggio francese con Qualcosa nell’aria di Olivier Assays, già premiato a Venezia per la miglior scenggiatura.

Se non bastasse, c’è anche il nuovo stop-motion di Tim Burton, Frankeweenie, tratto da un suo corto del 1984, per il ritorno al live movie del regista di Forrest Gump Robert Zemeckis con The Flight, dopo 12 anni di sperimentazioni in motion capture, e per la fantascienza di Looper, già inserito tra i nostri migliori film del 2012 (qui la classifica completa).

Si preannuncia come un anno di ritorni il 2013, perché dopo un gennaio dedicato ai grandi nomi dietro la macchina da presa, febbraio parte con l’atteso Zero dark thirty di Kathryn Bigelow, che con Il re della Terra Selvaggia e Il lato positivo, in uscita tra febbraio e marzo, e ai già distribuiti Amour, Argo e Vita di Pi, completa il pacchetto di candidati all’Oscar come miglior film per il 2013. Dopo The Hurt Locker del 2008 la regista statunitense torna a raccontare la lotta al terrorismo nella caccia all’uomo che è stato il nemico pubblico numero uno degli interi Stati Uniti dall’11 settembre 2001, Osama Bin Laden.

Poi via al ritorno dei supereroi, con il reboot di Superman, Man of Steel, prodotto da Christopher Nolan, che tenta il rilancio in chiave introspettiva di un altro personaggio DC dopo la saga di Batman, e diretto dal regista di 300 Zack Snyder, che lascia quindi la regia del secondo capitolo della saga degli spartani, Rise of an Empire, a Noam Murro, i nuovi capitoli delle saghe Marvel, con Iron Man 3, Thor 2 e The Wolverine, sempre con il mutante artigliato impegnato in Giappone partendo da un fumetto di Frank Miller. Sempre dalle opere del fumettista americano, torna la saga di Sin City, con A Dame to Kill For, con Miller che torna ad affiancare alla regia Robert Rodriguez.

In Italia più che sui ritorni sembra che si punti sugli esordi. Accanto infatti alle nuove pellicole di registi già affermati, come Educazione siberiana di Salvatores tratto dal romanzo di Nicolai Lilin, con John Malkovich protagonista, il nuovo film di Giorgio Diritti, dopo gli ottimi Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà, che con Un giorno devi andare allarga il suo orizzonte portando Jasmine Trinca in Amazzonia, e l’atteso La grande bellezza di Paolo Sorrentino, di cui si sa poco o nulla ma per il quale già si sprecano i paragoni con Fellini e La dolce vita, ci sarà spazio in sala per l’esordio alla regia, prodotto da Riccardo Scamarcio, di Valeria Golino con Miele che, partendo dal libro di Marco Covacich, torna sul tema dell’eutanasia dopo Bella addormentata di Bellocchio, per il primo film dell’attore Rolando Ravello, Tutti contro tutti, per Razzabastarda di e con Alessandro Gassmann, sulla difficile adolescenza di un italiano di seconda generazione oppresso dal padre rumeno troppo affettuoso, e per Il principe abusivo di Alessandro Siani, già protagonista di tante (discutibili) commedie di successo.

Si può parlare di debutto anche per Stoker, con Nicole Kidman alle prese con le conseguenze della morte del marito, primo film in lingua inglese per Park Chan-Wook, balzato all’attenzione mondiale con la trilogia della vendetta. A fare da contraltare allo sbarco negli USA del regista coreano è Spike Lee, impegnato con il remake a stelle e strisce del suo film più celebre, Old Boy.

Ancora dagli Stati Uniti si segnala Il grande Gatsby, a quasi quarant’anni dalla versione del romanzo di Scott Fitzgerald che aveva visto Robert Redford protagonista, affidato a Buz Luhrmann che torna a dirigere Leonardo di Caprio diciassette anni dopo Romeo+Giulietta, l’Anna Karenina interpretata da Keira Knightley e diretta da Joe Wright, il ritorno del mago di Oz, con Il grande e potente Oz in cui Sam Raimi dirige James Franco nella nascita del Mago già apparso sul grande schermo nel classico di Victor Fleming del 1939, e il nuovo film della coppia Gus Van Sant-Matt Damon, regista e sceneggiatore/interprete che tornano a lavorare insieme, dopo Will Hunting e Gerry, in Promised Land.

Altra coppia di ritorno è quella formata da Nicolas Winding Refn e Ryan Gosling, regista e protagonista dell’ottimo Drive, di nuovo insieme per Only God Forgive. Gosling sarà nelle sale anche a febbraio con Gangster Squad, poliziesco con Sean Penn nel ruolo del boss della mafia ebraica nella Los Angeles del 1949. Il film doveva essere distribuito a settembre ma si è deciso di rinviarne l’uscita dopo la strage di Aurora avvenuta durante la proiezione di Il cavaliere oscuro – Il ritorno per poter eliminare la sequenza di una sparatoria in una sala cinematografica, di disturbante aderenza alla cronaca.

Ancora incerta l’uscita di The Nymphomaniac, nuova opera di Lars Von Trier che affronta il tema della sessualità senza filtri né censure, al punto che si parla di scene di sesso reale tra i protagonisti e di una distribuzione in due versioni differenti, una ai limiti della etichettatura come pornografia e una ripulita per il grande pubblico.

Questi sono solo alcuni dei titoli di una stagione che si chiuderà a dicembre con la nuova regia di George Clooney, Saving Mr. Banks, e l’uscita in sala del secondo capitolo de Lo hobbit – La desolazione di Smog, ideale elemento di chiusura di un anello lungo un intero anno.

“Non sta al porco dire che l’ovile è sporco” di Florent Couao-Zotti

Uno stile asciutto, e al contempo estremamente colorito, contraddistingue questo giallo tutto africano che ruota attorno alle divinità di oggi: il sesso, la droga, i soldi. Couao-Zotti, scrittore di racconti, ma anche di opere teatrali e fumetti, ci presenta un universo per molti aspetti non così nuovo, seppur ambientato in uno scenario per noi occidentali pressoché sconosciuto: l’Africa. Non sta al porco dire che l’ovile è sporco (66thand2nd, 2012) si svolge infatti a Cotonou, capitale del Benin; se non fosse per i titoli dei capitoli, ognuno dei quali richiama, proprio come il titolo del romanzo stesso, un particolarissimo proverbio locale, nulla ci vieterebbe di ambientare le immagini mentali che via via creiamo durante la nostra lettura in una città europea, americana forse, dove la malavita la fa da padrona e dove la prostituzione è un crimine e un’arma. Più di una volta i meno attenti di noi si figureranno infatti dei gangster italo-americani, dai capelli lucidi e i baffetti curati mentre sparano alla testa dei propri nemici o dei collaboratori che, ahi loro, non servono proprio più. Forse è proprio questo il grande pregio del libro: ci porta avanti e indietro con la mente da e verso luoghi che si intrecciano nelle nostre teste con la nostra visione del mondo, che li altera e ci aiuta ad assimilarli, e che viene richiamata al presente da qualche termine in corsivo, dei più improbabili per i profani della cultura africana; ci obbliga a sfogliare il libro, a cercarle nel glossario, a renderci conto ancora una volta che siamo in Africa.

La storia è semplice: c’è della droga, c’è un boss violento che la vuole, c’è una prostituta, c’è una sua collega e compare, a tratti nemica, c’è un’ex reginetta di bellezza caduta in disgrazia e portata quasi di peso all’interno del mondo della malavita e c’è, infine, la polizia. Il boss vuole la droga, la prostituta vuole la droga, la sua collega anche. Tutti vogliono poi i soldi. Cosa c’entra la reginetta? Be’, lei muore, nemmeno troppo bene a dirla tutta, scatenando le ricerche della polizia, che non chiede di meglio che un nuovo pretesto per dare la caccia al boss, detto l’Arabo (ebbene sì, lui è arabo, non è africano, lui è il diverso della storia), nonché scatenando l’ira delle due prostitute che la conoscevano e sapevano della droga. Senza entrare oltre nei dettagli della trama – si tratta pur sempre di un thriller – si può dire che l’intreccio fila, si fa leggere, ci tiene incollati alle pagine e ci regala un po’ di suspense; cosa più importante, però, ci porta a una riflessione interessante: nessuno dei personaggi al suo interno può essere identificato come “buono” o “cattivo” della storia, quelle macrocategorie che ci rassicurano ma che non sempre si possono applicare, creando situazioni quantomeno spiazzanti. La polizia è un nido di serpi, affossata dalla corruzione e afflitta dall’invidia, è sicuramente l’ultima spiaggia tanto dei criminali quanto degli onesti; le prostitute non sono sempre e solo vittime, sono delle macchine da soldi, delle manipolatrici pronte a distruggersi le une con le altre pur di ottenere ciò che vogliono; lo stesso Arabo, che ci sembrerebbe un cattivo per eccellenza, misogino, stupratore, assassino e spacciatore, a un tratto si mostra per quello che è, il frutto di una vita grama, distrutta dalla povertà. Nessun personaggio è incasellabile, nessuno può essere definito in un modo univoco, bidimensionale.

Arrivati alle ultime pagine, scoperto il destino dei protagonisti e il doppio volto della legge, e visto il popolino che si vuol far giustizia da sé, ci rendiamo conto che Florent Couao-Zotti ha fatto ben di più che scrivere un giallo: non ci si presenta come una copia degli autori di gialli o thriller da best-seller, lui prende il suo paese, ce lo mette davanti, e lo analizza con la cura di un anatomopatologo. Lo sviscera, ci fa vedere che cosa c’è sotto la superficie, ci mostra che in Benin non ci sono tanti vincitori, ma tanti sconfitti, che a quanto pare non esiste un punto di riferimento cui appellarsi, ma la necessità di tirare avanti, ricorrendo alle peggiori efferatezze, se necessario. Ci mostra anche delle donne utilizzate come oggetti, ma che sono in realtà degli oggetti acuminati, che sanno ferire, tagliare, che vanno utilizzati con la dovuta cautela prima di finire riversi in una pozza di sangue senza nemmeno accorgersene: un simbolo di riscossa, non del tutto riuscita ma piuttosto d’effetto.

Tutto a un tratto, la nostra mente, che traspone i vari eventi in un’Europa moderna o in un’America ferita dal traffico della droga o delle donne, viene sopraffatta da un pensiero: se riusciamo a immaginare tutto questo alla perfezione in un ambito occidentale, se pensiamo a prostitute bianche, dai vestiti corti e dalle forme seducenti e a un boss della mala non così distante da un Padrino da cliché, non è forse possibile che Couao-Zotti stia descrivendo un mondo che supera i confini del Benin e dell’Africa intera? Forse se ci sforziamo di grattare la superficie di questo romanzo, all’apparenza semplice, una lettura da tempo libero, possiamo avere di più, probabilmente rischiando anche di farci un po’ male.

(Florent Couao-Zotti, Non sta al porco dire che l’ovile è sporco, trad. di Claudia Ortenzi, 66thand2nd, 2012, pp. 176, euro 15,00)

“Costantino 313 d.C.” al Palazzo Reale di Milano

Il Palazzo Reale di Milano ospita, fino al 17 Marzo, la mostra Costantino 313 d.C. – L’Editto di Milano e il Tempo della Tolleranza, una mostra ideata dalla Fondazione Sant’Ambrogio – Museo Diocesano per celebrare il diciassettesimo centenario dell’Editto di Milano, che sarà visibile anche a Roma dal 27 Marzo al 15 settembre negli spazi espositivi del Colosseo e della Curia Iulia.

La scelta dei curatori, Paolo Biscottini e Gemma Sena Chiesa, è stata quella di organizzare la mostra per tematiche: Milano città imperiale, la diffusione del segno del Chrismon (la X sovrapposta a P), le testimonianze dei culti pagani nell’impero, la Tetrarchia, l’esercito, l’immagine dell’imperatore, la vittoria su Massenzio, la corte, la chiesa e la figura di Elena.

L’aspetto che maggiormente cattura l’occhio dello spettatore in questa mostra è il largo uso che si fece durante l’impero dell’arte come strumento di comunicazione: l’immagine venne infatti messa totalmente al servizio del messaggio che si voleva comunicare, fosse esso religioso o politico. L’arte divenne elemento del potere con il risultato che nella dimensione pubblica venne coscientemente abbandonata l’armonia di forme del periodo classico – la proporzione o la sezione aurea –, per lasciare posto a immagini meno realistiche, ma sicuramente più funzionali a rappresentare il potere imperiale. L’immagine dell’imperatore si fa sempre più imponente e sempre più onnipresente in statue, monumenti celebrativi e monete. Esempio chiaro di questo nuovo linguaggio sono i bassorilievi dell’arco di Costantino a Roma, di cui in mostra sono esposti dei calchi. Il linguaggio artistico adottato è chiaramente celebrativo e funzionale a far risaltare, su tutti gli altri, la figura dell’imperatore; i suoi gesti sono enfatizzati a discapito dell’armonia e della proporzione della figura e anche le scene nel complesso sono chiaramente influenzate da questo intento politico-didascalico che si prefiggeva l’obiettivo di raggiungere il più ampio pubblico possibile tra tutte le popolazioni dell’impero, anche quelle più “barbariche”.

Anche il simbolismo religioso diviene via via sempre più diffuso e presente tanto da comparire in oggetti di uso quotidiano, come gioielli, lampade o tendaggi, ma anche su oggetti del potere pubblico, come le monete, dove il simbolo del Chrismon compare al fianco dell’immagine dell’imperatore Costantino. Un cambiamento di linguaggi che deriva innanzitutto dall’esigenza dell’imperatore di mantenere il territorio controllato, coeso e pacifico, una necessità che è all’origine dell’Editto di Milano stesso e della politica di tolleranza che inaugurò.

Accanto a questo nuovo modo di concepire l’arte come comunicazione si mantiene vivo ancora il gusto classico per la figura armonica in cui le immagini sono raffigurate in modo più mimetico. Questo genere di linguaggio nell’impero costantiniano è soprattutto utilizzato nella sfera privata, in sarcofaghi o ritratti dell’alta borghesia, ma a volte viene impiegato anche per opere destinate al pubblico, come la Capsella reliquiario di San Nazaro, una cassetta ricoperta di una lamina d’argento, decorata a sbalzo e raffigurante temi religiosi quali Cristo con gli Apostoli, la Natività, il Giudizio di Salomone e Giuseppe in Egitto. Nella decorazione di questo reliquiario i due tipi di linguaggi coesistono: se da una parte le figure prese singolarmente rispecchiano visibilmente una certa attenzione verso il canone classico, le scene, nel complesso, risultano sempre influenzate da questo nuovo concetto di “prospettiva-narrativa” in cui il protagonista della scena è al centro e più grande rispetto agli altri attori tanto che lo spazio prospettico è totalmente annullato.

 

 

La mostra nel complesso è sicuramente interessante ed è spunto di varie considerazioni di merito. La prima è quella di aver dato la possibilità al grande pubblico di poter apprezzare diversi pezzi notevoli ma sconosciuti, se non altro per i luoghi provenienza ancora scarsamente frequentati, come la splendida collezione di elmi di IV secolo provenienti dal museo Vojvodine in Serbia.

 

 

La seconda è quella di aver “ampliato” lo spazio espositivo, includendo riferimenti a luoghi della città di Milano funzionali al percorso, come gli scavi del palazzo imperiale tra via Borromei e via Morigi. Speriamo che la stessa logica di “mostra oltre la mostra” venga mantenuta anche a Roma. La location scelta per questa esposizione, così vicina all’arco di Costantino, fa ben sperare. Mi permetterei inoltre di aggiungere al percorso espositivo, per chi volesse vedere la mostra a Milano, il museo archeologico poco distante dove è esposta la Patena di Parabiago, un oggetto certamente chiave per la comprensione di questo momento storico.

 

Costantino 313 d.C. – L’Editto di Milano e il Tempo della Tolleranza
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
25 ottobre 2012 – 17 marzo 2013
Per ulteriori informazioni visitate il sito http://www.mostracostantino.it

“Siamosolonoi” di Marco Andreoli

C’è una grande cucina con un grande frigorifero e un grande forno; e in mezzo un grande tavolo, e sedie grandi, e scaffali che, per essere aperti, bisogna raggiungerli in punta di piedi sperando almeno di sfiorarne le maniglie con le dita. Ed è buio. Un buio profondo, che scava l’anima e rende inquieto chi lo respira: come certe storie di bambini raccontate a bassa voce, sotto le coperte, per non farsi sentire dai grandi. La luce intermittente di un albero di Natale illumina due sagome, una in piedi, l’altra adagiata, in una posa da bambola, sopra il grande frigorifero. Le due figure discontinue sussurrano misteriose storie di crociate e cavalieri, di combattimenti e stragi, di sangue e vendette, sciorinando immagini antiche che riempiono l’atmosfera di un’attesa spettrale. Si fa luce, di colpo, e le due sagome diventano materia e si mostrano nei loro panni di bambini, infrangendo così l’illusione di una cucina troppo grande, che diventa solo proporzionata alla loro età. Savino e Ada, Ada e Savino, un ragazzino e una ragazzina. Ma sono davvero due bambini? O sono degli adulti vestiti da bambini? E sono entrambi reali? Eppure, prima al buio si aveva come l’impressione che Ada fosse una bambola. Ma ora gioca e parla e si muove come un essere in carne e ossa, anche se a volte si blocca in una strana immobilità che di nuovo innesca il sospetto che, in fondo, non sia “reale”…

Ogni qualvolta Savino sembra distaccarsi dallo spazio protetto della cucina, lontano da tutto e tutti, Ada lo riattira a sé, cattura la sua attenzione raccontando storie magnifiche, magnetiche. E ogni volta che Savino è sul punto di perdersi nei meandri della sua mente, della sua anima oscura, Ada s’impossessa di quell’oscurità e la proietta sul volto cupo del cavaliere dei suoi racconti.

Il rapporto tra i due è incomprensibile: non si riesce mai a decifrarne fino in fondo la natura, e non appena si sta andando in una direzione, di colpo ci si arresta, per andare altrove. Ada vuole “trattenere” Savino per sempre, chiuso in quella cucina, e la sola idea che lui possa mettere il piede fuori dalla porta di quell’hortus conclusus la terrorizza a morte, la fa diventare rigida e quasi aggressiva, ironicamente spietata. Ada sa che Savino sarà suo e non la abbandonerà solo fino a quando lui non valicherà quella porta, che è simbolicamente passaggio all’età adulta, fine di un’adolescenza di giochi e spensieratezza. Al di là della cucina Savino s’interesserà ad altro e non ci sarà più spazio per Ada, che cesserà di “essere” e tornerà alla sua condizione reale di bambola.

Siamosolonoi, scritto da Marco Andreoli e frutto di una regia collettiva (Circo Bordeaux), è definito dall’autore stesso un «piccolo romanzo di formazione», che racconta come Savino trascorra gli anni della sua adolescenza insieme alla sua bambola, in un incessante ripetersi di eventi e circostanze a volte laceranti. Ma è soprattutto l’esperienza fondamentale dell’amore, che qui è sublimata nel rapporto di un bambino e della sua bambola che si fa carne – topos prettamente hoffmaniano e caro a tanta letteratura e cinematografia –, a fare da guida verso l’età adulta. Savino e Ada si amano di un amore ossessivo, che toglie il fiato e non lascia spazio al pensiero; un amore incomprensibile a loro stessi che è più forza primordiale, e che non sanno agire se non attraverso gli stilemi dell’amore coniugale, come a emulare una mamma e un papà di cui si avverte costantemente la feroce “mancanza”.

Magistralmente accompagnato dalle musiche originali di Teho Teardo (La ragazza del lago, L’amico di famiglia, Il Divo), e corredato dalle bellissime scene di Fabrizio D’Arpino, Siamosolonoi poteva davvero essere un piccolo gioiellino nel panorama desolante del teatro italiano, anche grazie alle belle interpretazioni di Michele Riondino e Mariasole Mansutti. Peccato che la scrittura, a tratti decisamente macchinosa, non sia ben calibrata nelle parti (i racconti risultano troppo lunghi e distraenti); e ancor di più che la storia sia infarcita di un’eccessiva quantità di temi e immagini che purtroppo restituiscono la sensazione che non fosse ben chiaro cosa si volesse davvero raccontare.

 

Siamosolonoi
di Marco Andreoli
regia di Circo Bordeaux
con Michele Riondino e Mariasole Mansutti

In scena a Roma, presso il Piccolo Eliseo Patroni Griffi, fino al 20 gennaio 2013.

Ulteriori date dello spettacolo:
Todi, Teatro Comunale, 26 Gennaio 2013
Bologna, Arena del Sole, 21-22 Marzo 2013
Milano, Teatro Franco Parenti, 3-7 Aprile 2013

 

“Odisseo e i maiali” di Lion Fuechtwanger

Lion Fuechtwanger è uno scrittore ebreo. Lo è al presente, anche se è morto nel ’58. Tanto scrittore quanto ebreo. In parti uguali e compenetrate. Scrive perché è il suo modo di filtrare le cose, di pensare uno specchio e raccontarne i riflessi, le giunture e i battiti di ogni rifrazione. Impugna la scrittura come una lente sullo spazio abitato, un orizzonte in cui la notte è solo il giorno visto di schiena. Scrive perché la penna è il suo bisturi, quello con cui disseziona fatti e moti umani. E il fatto di essere ebreo, oltre a riempire il suo sangue, procura a se stesso e alla sua storia un moto continuo. Ondulatorio difforme. Il senso di un viaggio che trova ragioni soltanto per strada. E che dimora nel suo libro Odisseo e i maiali (Nottetempo).

Un romanzo tripartito, un trittico di volti esemplari. La prima vicenda è quella di Ulisse, che riabbraccia casa dopo aver solcato mari e paure, ma si rende conto di voler ancora partire, di non voler considerare quelle coste il suo ultimo approdo. Certo c’è Penelope, che ha scomposto la tela e le sue angosce nel corridoio di un’attesa senza finestre. Certo c’è Telemaco, che è cresciuto, ma non abbastanza da fare a meno del padre. Certo c’è il suo popolo che lo acclama, che riconosce in lui l’uomo più scaltro di tutta l’isola. Ma non basta, non può bastare. Perché ciò che gli ha permesso di tornare, quel fuoco straziato che ammala le vene, è la stessa indomita spinta che lo porta a oscillare, come il pendolo di Schopenhauer, tra il dolore e la noia. Vorrebbe essere altrove, rivedere i Feaci e le loro virtù. S’imbarca di nuovo, li ritrova sempre più evoluti e scopre di essere il più furbo solo intorno al suo perimetro, perché è sufficiente vivere con le porte aperte per accorgersi di quanto manchi alle proprie stanze. I Feaci posseggono ferro e navi sicure e lui vorrebbe padroneggiare quelle armi e quelle arti, vorrebbe apprendere, camminare, non fermarsi. Malgrado i capelli si diradino come gli anni futuri addosso alla fronte. L’unica consolazione resta il canto, la parola di Demodoco, l’Omero che eterna le sue gesta anche se non sono completamente vere, perché vera è comunque la passione che le ha mosse. Perché in ogni storia c’è sempre un’entropia.Qualcosa si disperde per lasciare che l’avventura sopravviva. Che si faccia mito.
Segue la fine di Nerone, imper-attore noncurante, troppo impegnato a recitare per preoccuparsi delle rivolte militari, di una morte che inizia a strisciare, a cercarlo mentre si distrae. Nerone paga il dazio del suo destino, di una vita sospesa due spanne sopra lo stomaco della realtà. L’uomo che si reputa divino, che sperimenta il potere dell’idolatria, per poi guardarsi attorno e capire d’un tratto di essere solo davanti alla bocca del buio. E poi il cerchio si chiude, o forse si riavvia, con l’Ebreo errante, uno spirito onnipresente, la nemesi dell’uomo nomade, che resiste in virtù dell’odio, dell’orrore del diverso capace di perpetuare il suo sentiero. L’ebreo è tale in quanto essere in fuga, maschera del perfetto colpevole; la sua patria è la somma dei passi che compie. Il razzismo, la persecuzione, l’ottuso orgoglio pangermanista, gli conferiscono in ciascun momento della Storia, il suo prezioso statuto ontologico.L’ebreo-vittima ha bisogno del suo carnefice. Probabilmente ne è solo un altro profilo. Che fonda un giornale antisemita solo per sentirsi vivo.

Piccolo e limato, attento, acuto, brillante, il testo di appena un centinaio di pagine è un trattatello raffinato sulla condizione umana, laddove la dimensione ebraica amplifica quella universale, di una creatura mortale che non può tornare dov’era, neanche facendolo. Che è chiamata a muoversi, a essere inseguita da spettri d’ombra o di carne. A vibrare nelle labbra di qualcun altro, sotto forma di ricordo. O magari di un romanzo.

(Lion Fuechtwanger, Odisseo e i maiali, trad. di Enrico Parenti, Nottetempo, 2012, pp. 112, euro 12,50)

“Novecento rom” di Sergio Pretto

Gli zingari fecero la loro comparsa nell’Europa del Cinquecento. La loro origine si pensa fosse indiana. La loro storia ha oggi quasi tremila anni. La leggenda vuole che il popolo rom, dapprima contadino, fosse stato indotto al nomadismo in seguito all’invasione della propria terra da parte di un popolo ostile che cercò di sterminarlo. Venne in loro soccorso una dea benevola che gli donò per scappare dei formidabili cavalli con l’unica condizione di continuare a correre: «I rom si allontanarono dalla valle insanguinata e non si fermarono più. La fuga divenne un esodo perpetuo: diventarono domatori di destrieri e figli del vento.».
“La tribù profetica dalle pupille ardenti” di cui scrisse Baudelaire divenne presto il simbolo dell’Altro e dell’Altrove, esotico o minaccioso: nell’arte pittorica, ad esempio, Georges de la Tour li ritrasse nell’atto di depredare un ignaro malcapitato mentre quattro incisioni di Callot colgono il carattere segreto, comunitario, arcaico di questa popolazione restia a ogni forma di integrazione.

Novecento rom del giornalista RAI Sergio Pretto ha il grande merito di fugare, grazie all’espediente narrativo di una vicenda familiare avvincente, una serie di pregiudizi e luoghi comuni di stampo razzista verso il pacifico popolo rom visto troppo spesso solo come un popolo sporco di ladri e mendicanti. In realtà si tratta di un popolo talmente consapevole e fissato nella propria identità da essere tacciato per questo come “diverso” e oppresso da tante e tali tare ideologiche da non potersi né confondere né amalgamare, un’ideosincrasia, una sorta di autodifesa quasi maniacale e alla fine dannosa per chi stesso la coltiva.
Sergio Pretto, introdotto al mondo letterario da Pier Paolo Pasolini, ha ereditato dal suo maestro di vita sicuramente l’attenzione appassionata per i dimenticati dalla Storia, i marginali, gli ultimi, gli umiliati e offesi, gli sradicati, le piaghe nel cuore dell’Europa. Si è recato in Romania e ha passato alcuni mesi in un campo rom a Craiova, vivendo, parlando, confrontandosi e a volte scontrandosi con loro. Ha così raccolto la testimonianza, trasformata in romanzo popolare, di una famiglia rom seguita per quattro generazioni attraverso quasi un secolo, dal 1930 al 2011.
Si tratta di racconti antichi e recenti profondamente intrecciati fra loro, pieni di rimandi, di risonanze, flashback e flashforward. Si parte dal dicembre 1989 quando il protagonista Decebal ha 18 anni. In Romania si stanno accendendo i primi fuochi della rivolta contro il regime di Nicolae Ceauşescu. Decebal fa parte di una famiglia profondamente legata alla tradizione del suo popolo ma scossa dal vento di novità auspicato dalla giovane sinti che odia le gonne lunghe colorate e ama vestirsi con i jeans, Jonela: «Decebal crebbe con loro. Visse l’antico e il moderno. Assorbì il vecchio e accettò il nuovo. Nutrì l’adolescenza nella realtà, ma anche nell’immaginazione di chi aveva vissuto la grande fuga del popolo rom». Con il precipitare degli eventi, il consiglio degli anziani decide di obbligare Decebal e altri giovani a fuggire verso l’Occidente: «Quello che avvenne nel 1989 con la caduta e la morte del presidente del consiglio di stato romeno Nicolae Ceauşescu e di sua moglie Elena segnò nel cuore di Decebal il limite tra un passato che non poteva rinnegare e un futuro che non sapeva ancora inventare». Decebal partì con la certezza che avrebbe raggiunto Roma, città vagheggiata ne La dolce vita di Federico Fellini, troppo diversa dalla cruda realtà del Casilino 900. Prima della partenza però, suo padre Simplon decise di narrargli la storia della loro famiglia a partire dal terribile parrajamos, il genocidio subito dai rom nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra mondiale, così come gli era stato riferito dai genitori Ofiter e Limpiana. Seicentomila furono i rom uccisi dalla follia nazista. La liberazione fu un attimo di bonaccia in un mare in tempesta. Con l’avvento di Ceauşescu al potere si profilò ben presto l’inizio di un nuovo difficile periodo: «Il passato dei rom poteva essere cancellato. Abitudini secolari potevano essere spogliate dei rituali e tutta una cultura sepolta dall’ondata proletaria e modernizzatrice». Per i rom significò la migrazione dalle campagne alle estreme periferie cittadine attirati dal miraggio di un posto di lavoro fisso.

Con un andatura meditativa, divagante e spezzata da scene commoventi e di cupa mestizia (Grifina, il Violinista, il pugile danzante, etc), Pretto si incammina fra le rovine di questi figli del vento la cui casa è il mondo e l’unico tetto da loro conosciuto è il cielo stellato che le loro donne interrogano nel tentativo di leggere il destino di un popolo, la cui natura pacifica non li ha fatti mai macchiare del sangue di una guerra semplicemente inutile per chi non ha una patria da difendere e dei confini da proteggere, condannati a vivere per sempre in «un limbo senza più radici» con la loro ferita profondamente patita per esperienza di uomini e cose.

(Sergio Pretto, Novecento rom, CartaCanta Editore, 2012, pp. 420, euro 18)