copertina di gigaton su flaneri

Alla ricerca della luce

È il caso di dire che la surreale situazione nella quale ci troviamo, in certi casi, può – provocazione – aiutare.
Gigaton, ultimo disco dei Pearl Jam – l’undicesimo in studio – sembra fatto apposta per farci capire qualcosa di più a proposito di quello che sta succedendo.

Gigaton richiede tempo, probabilmente (anche) perché ne ha richiesto a sua volta: è il primo disco dei Pearl Jam in sei anni e mezzo, dai tempi di Lightning Bolt (2013).
Non solo: sei anni e mezzo di gestazione per un disco che, con 52 minuti di durata, è il più lungo della storia dei Pearl Jam. Fatto di per sé significativo, se si tiene conto della sempre più radicata mentalità d’ascolto “di brano in brano”, magari pure in shuffle.
I fan sono impazziti: Gigaton li ha messi di fronte al sempre più difficile compito di sedersi ad ascoltare un disco – consumandolo: vi ricordate quell’antico modo di dire, “quel disco l’ho consumato”? –, la quarantena e i social network hanno fatto il resto.
Così, Gigaton è all’improvviso un capolavoro assoluto, oppure un fiasco totale.

Qualcuno è arrivato a dire che Eddie Vedder canta male, tanto per rendere la portata delle autorevolissime critiche comparse in internet.
Per Gigaton ci vuole pazienza: questo non è il tempo della pazienza, abbiamo dimenticato da tempo come si fa ad essere pazienti, ed è per questo che la quarantena ci uccide a questo livello.

Gigaton non è una pietra d’angolo nella storia della musica: è bene chiarirlo subito, soprattutto dal momento che si sta parlando dei Pearl Jam, che di dischi fondamentali ne hanno sfornati almeno due o tre. Ma attenzione, qui viene la parte più importante: il disco è lontanissimo dall’essere un fiasco totale.
Si tratta di un disco denso, di non immediato accesso; un disco che, specialmente ai primi ascolti, costa fatica. Ma una cosa è certa: Gigaton ripaga chi sa aspettare, chi si dispone con umiltà a cercare di capire le architetture sonore e concettuali che lo sorreggono.

I Pearl Jam, innanzi tutto, si divertono: la prima impressione, ad un ascolto generale, è proprio che questi sopravvissuti (gli unici, o quasi…) del grunge siano riusciti a sopravvivere proprio facendo di testa loro, spesso anche contro il parere dei fan. Poi è arrivata l’inclusione nella Rock and Roll Hall of Fame: ora sono leggende, lo sanno, perciò fanno ancor più di testa loro. Questa è l’atmosfera che si respira. Ecco perché, per la prima volta, in Gigaton sentiamo influenze a cui non eravamo mai stati abituati.

La genialità, di solito, sta nel ripartire da un tono generale consolidato, per rimettersi in gioco: i Pearl Jam lo hanno sempre fatto – basti pensare a No Code, Yeld, Binaural, Riot Act – e Gigaton è una delle conferme migliori e più forti in tal senso. Solo dei giganti come loro potevano riuscirci: cinque – ormai – padri di famiglia che si divertono a suonare e non perdono l’amore, né la capacità, o il continuo desiderio, di sperimentare, di creare qualcosa di nuovo.

L’onestà di un’operazione del genere porta con sé sbavature, ed è per questo che Gigaton non è il forziere del tesoro con 12 riff a’ la Alive che molti fan desideravano. Ma “Alive” è un – fenomenale – pezzo del 1991, ed è questo che Vedder e soci non dimenticano: allora, da un certo punto di vista, Gigaton non è una macchina infallibile, ma qualcosa di più.

I singoli avevano anticipato qualcosa di nuovo, e di grosso: “Dance of the Clairvoyantsspariglia le carte, esplode il sound e lo ricompone, con una linea ritmica tutta da ballare e più di un’eco della new wave elettronica degli anni ‘80, quella fatta di Depeche Mode e di Cure. Eddie canta altissimo un testo anch’esso, come tutti quelli di Gigaton, altissimo – anzi, profetico in modo inquietante, ma d’altronde di chiaroveggenti si parla –, e l’esperimento funziona alla grande. Per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, esce “Superblood Wolfmoon”: un brano più riconducibile al repertorio degli ultimi anni, ma i Talking Heads sono lì dietro l’angolo, nel canto e nel ritmo. Poi arriva Gigaton, in tutte le sue sfaccettature.

È curioso notare come i momenti più prolissi del disco siano proprio quelli in cui si è di fronte al classico Pearl Jam Sound: la schitarrata iniziale di “Who Ever Said” è eccellente, ma il brano si perde un poco nella seconda parte. Sembra quasi che Eddie e i ragazzi stiano jammando in studio tutti insieme: a sentire Josh Evans – produttore di Gigaton e rinfrescante mente dietro a tutto il viaggio – è esattamente questo che è successo, quindi lasciamoli divertire.

La seconda accelerata del disco è affidata a “Never Destination” e “Take The Long Way” che, dal canto loro, sono gli unici pezzi davvero dimenticabili di Gigaton: la prima è un chiaro omaggio agli Who di Quadrophenia (si sa, sorta di testo sacro per Vedder), mentre nella seconda Matt Cameron sforna una composizione che sembra una b-side di Superunknown dei Soundgarden, altra sua anima musicale.

Il resto di Gigaton è una scoperta dietro l’altra: il primo blocco del disco è concluso dalla cavalcata epica di “Quick Escape“, pezzo che oscilla tra i Led Zeppelin di “Kashmir” e gli Who, specie nel ritornello, e si conclude con un immenso assolo di McCready, che riecheggia quello di “Hey Joe” di Jimi Hendrix.

Segue un dittico in cui il ritmo rallenta: “Alright” è una ballata ipnotica scritta da Jeff Ament, che ricorda le ricerche sonore di Binaural. Il suo suono elettronico ed avvolgente trascolora nella maestosaSeven O’ Clock“, senza dubbio il pezzo più ricercato di Gigaton, quello che ha richiesto al gruppo più lavoro. La fatica è ripagata: la canzone è uno dei migliori mid-tempo dei Pearl Jam, spaziando dai Pink Floyd di “Comfortably Numb”, evidenti nel ritornello, alla prima apparizione di un’influenza “nuova”, i R.E.M., in coda.

L’emozione vera e definitiva arriva con l’ultimo blocco di Gigaton, una sinfonia essenziale in quattro movimenti: si parte da “Buckle Up“, contributo personale del “chitarrista artigianale” Stone Gossard, una strana ninna nanna ipnotica e avvolgente, dal sapore beatlesiano, dove si stende, come la coperta di Linus, la voce di Eddie, che la farà da padrona da qui fino alla fine del disco.

Chi è stato a uno dei concerti solisti di Vedder in Italia non può non trovarsi con la pelle d’oca di fronte a “Comes Then Goes“: chitarra acustica, voce e poco altro, se non un arpeggio blues, il senso del tempo che passa, e la presenza del compianto Chris Cornell che aleggia su tutta la canzone.

La band rientra, ma sottovoce, con “Retrograde“: ballata corale e ispirata, in bilico tra la classica Just Breathe e le melodie dei migliori R.E.M., che fanno capolino di nuovo, tra inattesi inserti quasi prog.
Gigaton si conclude con un pezzo che i fortunati di Firenze Rocks 2019 hanno già ascoltato dal vivo, insieme a pochi altri nel mondo: “River Cross” è una poesia più che una canzone, la preghiera laica dei Pearl Jam, la loro messa universale officiata da Eddie e dal suo strabiliante pump organ del 1850.

Parole e musica dal sapore antico, per guardare al futuro: Gigaton parla di questo, dei possibili modi per reagire, per costruire un futuro, possibilmente alternativo a quello che vediamo sulla copertina, con un ghiacciaio in via di scioglimento. Possiamo arrabbiarci o chiuderci in noi stessi, anche con un po’ di sano egoismo, ma sarà sempre una presa di posizione individuale.
La verità, però, è che anche il peso della nostra energia si può misurare in gigatoni, se la usiamo nel modo giusto, se diamo vita a quella che Leopardi chiamava social catena.

Basta stare insieme, condividere la luce, e andremo avanti.
Share the light, won’t hold us down.

Copertina di Violette di marzo di Kerr

Giorni di fuoco

Con Violette di marzo (Fazi, 2020) ambientato a Berlino durante le Olimpiadi del 1936, Philip Kerr ci scaraventa dentro il viaggio nerissimo del detective privato Bernie Gunther. Un thriller politico attraverso il quale il protagonista ci svela la corruzione dell’apparato del potere nazionalsocialista.

Berlino, 1936. Grete e Paul Pfarr, una giovane coppia dell’alta società cittadina, sono morti nel proprio letto, nel rogo della loro casa incendiata. La Kriminalpolizei della capitale tedesca indaga, ma il padre della ragazza, il magnate Hermann Six, vuole che qualcuno arrivi a qualcosa prima degli inquirenti. Quel qualcuno si chiama Bernie Gunther e quello che cerca è una collana di enorme valore.

Non dev’essere facile la vita di un detective privato a Berlino durante il nazismo, specie se indaga sul duplice omicidio della figlia di un miliardario e di un rampante militare, entrato nelle grazie del capo delle Ss Himmler. È terribilmente complicato, anzi, se l’incendio risulta doloso e la collana sparita dovrebbe finire nelle grinfie del Nsdap, il partito nazionalsocialista, visto che la donna non ha lasciato testamento e le ultime volontà del marito sono quelle di dare tutto al Terzo Reich.

Una storia cupa e cattiva, che diventa affascinante se a indagare è un ex poliziotto dotato di una lingua al vetriolo, col quale ama castigare i pesci piccoli e grandi che sguazzano nel nutrito acquario nazista. Specie le Violette di marzo, cioè gli opportunisti saltati sul carro del regime dopo che nel marzo del 1933 Hitler ha preso il potere. La casa editrice Fazi ripubblica un classico del poliziesco politico firmato dallo scrittore britannico Philipp Kerr: il protagonista di questo romanzo, una figura difficile da dimenticare, si muove dentro una Berlino dipinta a tinte fosche, che di giorno però torna a brillare come la vetrina del regime, appositamente ripulita per gli imminenti Giochi olimpici, che deve mostrare al mondo l’efficienza organizzativa del Reich.

La scrittura di Kerr è affilata e precisa, i dialoghi serrati e impazienti, pieni di sarcasmo, le pennellate di realismo sono secche ed efficaci. L’autore di Violette di marzo è abilissimo nell’imbastire una trama fitta di intrighi e colpi di scena che utilizza la capitale tedesca come monumentale scenografia, lasciando muovere il suo protagonista lungo il celebre viale Unter den Linden, la scenografica Potsdamer Platz, i grandi palazzi di Berlino, per far vivere anche al lettore il folle sogno di grandezza, che si trasformerà in un incubo mortale, dei suoi nuovi padroni.

Violette di marzo è il primo libro della cosiddetta trilogia berlinese del romanziere, che tratteggia già così un degno erede della tradizione hardboiled, che si muove come il suo illustre predecessore, il Marlowe di Chandler, durante gli anni Trenta. Bernie Gunther è un donnaiolo, ama bere, è il classico antieroe troppo aderente alla realtà delle cose per opporsi apertamente al regime. Il detective sa perfettamente che deve stare al gioco se vuole continuare a essere libero, però non abbassa mai la cresta di fronte alle violenze dei suoi antagonisti in divisa: la sua sfida è quella di svelarne la corruzione profonda, l’ipocrisia abissale dei nuovi arrivati e la forma mentis psicotica di un gruppo di esaltati, capaci di plasmare un’intera nazione dentro il male assoluto.

(Philip Kerr, Violette di marzo, trad. Patrizia Bernardini, Fazi, 2020, pp. 318, euro 15, articolo di Domenico Ippolito)
Copertina di Atlante delle donne di Seager

Mappamondo femminile

Oltre 2 miliardi di persone non dispongono di servizi igienici di base come bagni o latrine; circa 1 miliardo deve defecare all’aria aperta. «Per le donne tutto ciò è particolarmente umiliante, soprattutto durante le mestruazioni, e le obbliga a cercare posti isolati dove però sono a rischio di stupri e violenze».

Le ragazze appartenenti alla fascia più povera della popolazione mondiale sono 2,5 volte più propense a sposarsi o ad essere date in sposa rispetto alla percentuale più ricca. In India l’età media del primo matrimonio è di 20 anni per le donne appartenenti al ceto più ricco, di 15 anni per il più povero. Nella Repubblica Dominicana metà delle donne più povere si sposa a 17 anni a fronte dei 21 delle più ricche.

In Brasile nel 2015 sono state uccise 4762 donne. In Francia ogni 3 giorni una donna viene uccisa dall’attuale o precedente partner. In Argentina ogni 30 ore viene commesso un femminicidio. Ogni anno circa 14.000 donne sono uccise in Russia.

Sono solo alcuni esempi delle centinaia di casi raccontati in L’atlante delle donne (ADD editore, 2020), un’analisi dettagliata e approfondita della situazione in cui vivono le donne in ogni angolo del mondo.

Joni Seager è una geografa femminista e un’esperta di politica globale, consulente delle Nazioni Unite e dell’Unesco su progetti di politica di genere e ambientale. Ha pubblicato per la prima volta L’atlante delle donne nel 1986, aggiornando da allora il lavoro di indagine alla luce dei miglioramenti e dei progressi raggiunti, testimoniando allo stesso tempo lo stagnamento di situazioni, luoghi e mentalità che impediscono ancora oggi il riconoscimento e soprattutto l’attuazione di una condizione di parità effettiva tra gli uomini e le donne.

Il libro è un contenitore di mappe che sono lo specchio di una società in lento divenire, spesso immobile nonostante le parole proclamate e le promesse sospese da mantenere. È un reportage di dati che sono il ritratto della vita quotidiana delle donne del mondo, delle cause e delle conseguenze che sono il frutto di scelte sociali e di consapevoli volontà maschiliste.

Seager spiega che uno dei motivi per cui il 51% delle persone sieropositive è composto da donne sta nella differenza di potere tra i generi nelle relazioni sessuali; che anche se le cure per il cancro sono progredite negli ultimi anni e negli Stati Uniti se ne ammalano maggiormente le donne bianche, quelle che ne muoiono di più sono le donne afroamericane.

I dati raccolti dall’autrice non si limitano a un report statistico ma forniscono una serie di spunti da approfondire per potersi avvicinare a capire cosa significhi essere oggi donna, ragazza, bambina in Mali piuttosto che in Pakistan o in Messico.

Apprendere che il 50% dei rifugiati mondiali sia costituto da donne vuol dire interrogarsi su cosa questo comporti, chiedersi che percentuale di queste rifugiate sia oggetto di sfruttamento sessuale lungo i chilometri che sono costrette a percorrere o nei campi profughi che da posto sicuro possono trasformarsi in luogo di sfruttamento e violenza.

Sapere che in alcuni paesi arabi e africani l’omosessualità è un crimine soggetto a pena di morte significa fermarsi a pensare come l’incombente criminalizzazione aleggi sulla vita quotidiana di ogni persona gay e lesbica che ogni giorno rischia di imbattersi in forme di abuso fisico e morale, in delitti d’onore e stupri cosiddetti correttivi come punizione della propria “non-conformità”.

È questo che fanno le ricerche svolte da Seager in L’atlante delle donne: conducono a un primo approccio alla scoperta, ai numeri, alle curiosità; e poi inducono ad alzare un velo, a voler scoprire di più, ad addentrarsi in ogni paese colorato di viola o di verde per poter capire come se la passano lì le ragazze.

 

(Joni Seager, L’atlante delle donne, ADD editore, 2020, trad. Florencia Di Stefano-Abichain, 208 pp., euro 19.50, articolo di Francesca Ceci)

 

Copertina di La ragazza nel portabagagli di John O'Hara

Quando l’opera è schiava del suo autore

Sono convinto che quando si affronta per la prima volta un autore sia bene leggere il libro senza informarsi sulla sua biografia, e che questa condizione dovrebbe valere ancor più se l’autore in questione è un tizio eccentrico come John O’Hara, un uomo non certo facile, come ci ricorda Stefano Friani nella sua postfazione a La ragazza nel portabagagli, edito da Racconti edizioni (2019) – primo volume della trilogia Prediche e acqua minerale di prossima pubblicazione.

«Il ricordo del suo temperamento del resto è tanto unanime quanto lapidario. Era un rissoso e aveva orari irregolari, beveva troppo e non le mandava certo a dire».

Ma John O’Hara è anche l’autore recordman di 247 racconti pubblicati su The New Yorker, lo scrittore di romanzi come Appuntamento a Samarra e Venere in visone molto apprezzati da Hemingway e di sceneggiature che sono diventate film con attori del calibro di Rita Hayworth, Elizabeth Taylor, Frank Sinatra e Gary Cooper; un autore tanto amato dal pubblico, quanto discusso dalla critica «senza riuscire però a scrollarsi mai del tutto di dosso l’etichetta snobistica di “scrittore di prima fascia tra quelli di seconda”», etichetta sulla quale ragioneremo in seguito. Il personaggio O’Hara, insomma, travalica, invade il campo della sua opera ed è arduo mantenere neutro il giudizio. E qui mi taccio, cosciente di aver già detto troppo.

Torniamo al libro, adesso. La ragazza nel portabagagli è un racconto lungo. La sua trama si sviluppa nell’arco di un trentennio e ci viene racconta come lucido ricordo dalla voce narrante del protagonista, Jim Malloy – vero e proprio alter ego di John O’Hara.

Jim è uno scrittore in erba della Pennsylvania che si arrabatta a New York tra lavori minori per riviste e per case di produzione cinematografica. È scaltro, ha la lingua veloce, sa leggere le situazioni in cui si trova e ha una viscerale passione per la mondanità. Per essere un irlandese di provincia che non ha potuto frequentare l’università si barcamena molto bene nell’alta società newyorkese, bazzicando sia i country club sia gli speakeasy, i bar clandestini dell’America proibizionista. Siamo all’inizio del “secolo breve”, sta per scoppiare il primo conflitto mondiale, il cinema è all’alba dell’avvento del sonoro, Wall Street e il “dollaro facile” vivono il loro sogno idilliaco: mai come allora si è avuta l’impressione che la ricchezza potesse essere alla portata di tutti.

Per una settimana Jim ha il compito di fare da accompagnatore e di soddisfare i bisogni di una diva di Hollywood, Charlotte Sears, arrivata nella Grande Mela per discutere degli sviluppi della sua carriera con l’agenzia per cui sono entrambi impiegati. In segreto, però, Charlotte è a New York anche per un altro motivo, incontrarsi con l’uomo che ama, Thomas Rodney Hunterden, un oscuro quanto discusso affarista di Wall Street, che ha in comune con Jim la città natale, Gibbsville.

Tra festa mondane, speakeasy, camere d’albergo e residenze lussuose di ricchi personaggi newyorkesi si dipanerà un intrigo tutto amore e affari che non potrà che coinvolgere il lettore fin dentro le sue conseguenze più fosche. Uno spaccato dell’America bene che richiama le tinte dorate del Grande Gatsby di Fitzgerald ma che al contempo trae alimento delle torbide contraddizioni di una società classista quanto puritana, liberalista quanto ipocrita.

Da un punto di vista stilistico, La ragazza nel portabagagli mostra aspetti abbastanza netti: la struttura è sottile, quasi invisibile, le descrizioni delle ambientazioni e dei personaggi sono pressoché assenti, le riflessioni sono ridotte all’osso, le scene sono affidate a dettagli scarni, tutto, dagli intrighi della trama all’interpretazione della vicenda, è affidato, concentrato nei dialoghi. Dialoghi talmente verosimili, dettagliati, carichi di impeccabili similitudini, che se tenessi un corso di scrittura creativa, di certo li farei studiare ai miei allievi.

Ed è proprio in questa tecnica magistrale che si esprime a parere della critica, come ricorda Friani, il grande potenziale di O’Hara, la sua capacità di rendere realistica una storia mondana e familiare un ambiente elitario, animati da personaggi dai modi formali, eccentrici, snob persino, che poco hanno a che spartire con il lettore medio.

«I personaggi di O’Hara sembrano essere più che realistici, più che veritieri; hanno bisogno di parlare, e nella schiettezza e ineluttabilità delle parole ormai pronunciate suscitano qualcosa che assomiglia forse alla pietà».

Si crea così una sorta di implicita complicità, molto simile a quella che si può provare per i protagonisti di una soap opera, ma carica anche di un’umanità straniante, per certi versi innocente.

In chiusura, quindi, torniamo sull’etichetta che grande parte della critica ha affibbiato a O’Hara: è uno scrittore di prima fascia da riscoprire o è uno «scrittore di prima fascia tra quelli di seconda»? Sbilanciandomi – conscio del limitato materiale sul quale esprimo il giudizio – propenderei per dare credito alla critica. Utilizzando una bassa metafora calcistica, direi che O’Hara è un top player da Serie B, uno di quelli dotati di tecnica sopraffina ma condizionati da un carattere difficile che nella serie cadetta garantirebbe trenta goal a stagione, ma in Seria A potrebbe offrire solo sporadici colpi di classe. Uno di quei calciatori, insomma, che si potrebbe amare solo prendendolo così com’è: tutto genio e sregolatezza.

La ragazza nel portabagagli è dunque un libro da studiare più che da leggere, un’opera dalla quale rubare i segreti del mestiere, la tecnica del dialogo, in attesa che si dipani del tutto la foschia che ancora aleggia intorno al suo autore; un autore ingombrante, forse non di prima categoria, ma senza dubbio magistrale quando gioca nel suo campo con le sue armi.

(John O’Hara, La ragazza nel portabagagli, trad. di Vincenzo Mantovani, Racconti edizioni, 2019, pp. 128, euro 13, articolo di Alessandro Chiappanuvoli)
poster di ultras su Flanerí

Storia di un’appartenenza tribale

È Ultras il primo film della collaborazione tra Netflix e Mediaset a sbarcare sulla piattaforma di streaming, passo iniziale di una possibile nuova via per il cinema italiano con spazio per nuovi talenti e generi meno battuti dalle produzioni tradizionali.

L’esordio è affidato a Francesco Lettieri, classe 1985 da Napoli, all’opera prima dopo essersi fatto un nome come il regista della musica italiana. Sono suoi, infatti, i videoclip di alcuni dei nuovi cantanti e gruppi più conosciuti e apprezzati: Calcutta, Carl Brave e Franco 126, Thegiornalisti quando ancora c’erano, e, soprattutto, Liberato.

È infatti il rapporto con il cantante misterioso il precedente che più si nota in Ultras, per stile e ambientazione. Liberato ha curato la colonna sonora del film, con anche un brano inedito, “We Come from Napoli”, prodotto da 3D dei Massive Attack, non nuovo alle colonne sonore per il cinema italiano. Un suo brano, “Herculaneum”, faceva parte della colonna sonora di Gomorra di Matteo Garrone (premiato tra l’altro con il David di Donatello in uno dei tanti momenti imbarazzanti nella storia della manifestazione).

Non è solo 3D a creare un legame tra Garrone e il primo film di Lettieri. Sono tanti gli elementi che Ultras sembra riprendere dal cinema del regista romano, nell’estetica della miseria, nel rigore formale. Sicuramente, la scelta di Aniello Arena come – ottimo – protagonista amplifica ulteriormente l’effetto déjà-vu con un altro dei film di Garrone, Reality.

Ultras racconta la storia di Sandro, cinquantenne a capo del gruppo di tifo organizzato Apache. Non può seguire la sua squadra allo stadio per il daspo e alcuni giovani membri approfittano della sua assenza, e di quella di altri componenti storici, per cambiare regole ed equilibri. Sandro, però, non sembra troppo turbato dall’ammutinamento. Sente che è arrivato il momento di cambiare vita, o almeno di provarci.

Chi pensa che Ultras sia un film sul calcio sbaglia. Lo sguardo di Lettieri (anche sceneggiatore insieme allo scrittore Peppe Fiore) si ferma sul tifo organizzato come fenomeno antropologico ancor più che sociologico. Senza dilungarsi in riflessioni, mostra la natura quasi animalesca di questi assembramenti maschili accomunati dal pretesto della passione calcistica. Non è un caso che non si veda neanche un fotogramma di calcio giocato. Non è un caso che i protagonisti vengano mostrati impegnati a fare altro quando ci sono le partite. Non è importante il campo o il risultato: per gli ultras conta solo l’appartenenza al gruppo.

Le ottime intenzioni del regista esordiente, però, si vanificano nella voglia eccessiva di mostrare senza raccontare. Tutto rimane fermo alla superficie, senza mai un’immersione alla ricerca di un qualche tipo di profondità. Così, anche il protagonista Sandro, che pure domina la scena anche quando è assente, rimane bidimensionale, senza una vera coerenza di azioni e intenzioni.

Lettieri ha una sua identità di regista già messa in chiaro nei videoclip, con alcuni passaggi diventati già dei marchi di fabbrica, soprattutto per l’uso di zoom e movimenti di camera avanti e indietro. La sensazione che suscita Ultras è però quello di una somma di suggestioni prese dal cinema italiano degli ultimi vent’anni. Sicuramente la scelta di personaggi e ambientazione non aiuta, perché una parte del pubblico è ormai saturo di storie più o meno criminali tra le classi disagiate del napoletano. Ultras alla fine è una specie di compendio di Gomorra film e serie e di tutti i savianismi che ne sono derivati fino a La paranza dei bambini.

(Ultras, di Francesco Lettieri, 2020, drammatico, 106’)

immagine per La poetica di Shirley Jackson di Elisa Bisson flaneri

Anime e mura: la poetica di Shirley Jackson

Giornalista, saggista e soprattutto scrittrice: Shirley Jackson è stata autrice dei più iconici racconti horror del ventunesimo secolo, in grado di lasciare un segno nelle menti tormentate dei suoi lettori. Tra di esse spicca quella di Stephen King che non manca di annoverare la Jackson tra i suoi più mostruosi maestri. Eppure il suo contributo non è ancora stato pienamente riconosciuto o, quantomeno, non le è stato ancora accreditato il successo che ha tutt’oggi il suo allievo.

Opera di punta, rilanciata anche dall’omonima serie televisiva Netflix (IMDb 2018), è di certo L’Incubo di Hill House (Adelphi, 2004) edito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1959. Una perla meno riconosciuta è inoltre Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi 2009) romanzo dall’aura gotica del 1962. L’elemento comune delle due opere è il morboso legame tra i personaggi e le sinistre, spettrali, immobili case che li ospitano.

Il tema della vita domestica è il perno su cui fluttua Abbiamo sempre vissuto nel castello: due sorelle orfane e uno zio disabile abitano nella vecchia e maestosa residenza di famiglia, teatro di drammatici omicidi. Tutti i membri della famiglia dei personaggi sono stati infatti avvelenati nella stessa casa con dell’arsenico nello zucchero: l’omicidio sembra infine ricadere sulle spalle della figlia maggiore, Constance, che vive pertanto reclusa insieme alla sorella minore Mary Kathrine. Le mura domestiche sembrano, dalle descrizioni, rimaste cosparse del passato, curate maniacalmente dalle due protagoniste in modo da renderle immuni dal tempo: ogni oggetto viene preservato e ogni usanza familiare viene costantemente rivissuta, ripercorsa all’infinito in un tetro sipario giornaliero costellato da battute sempre uguali scambiate tra i tre abitanti.

«Dentro però il salotto era una meraviglia. […] Constance saliva su una scala per lavare i vetri fino in cima, insieme spolveravamo le statuine di porcellana Meissen sulla ciminiera […] lustravamo i pavimenti e rattoppavamo i piccoli strappi nel broccato rosa dei divani e delle poltrone. Non sopporto di vedere in disordine il nostro salotto diceva sempre mamma […] e adesso invece eravamo noi a mantenerlo lustro e scintillante».

Fa da sfondo la casa che, rimasta com’era dal tempo dell’assassinio, diventa la sacra reliquia del passato, venerabile e soffocante, ma allo stesso tempo garante della tiepida immobilità che rappresenta. Fornisce allo stesso tempo un rifugio contro un presente demonizzato che sembra averli rigettati e rifiutati. L’ossessione per le porcellane, il broccato, i letti, le stanze, i barattoli da conserva impilati in cantina, persiste anche dopo la distruzione della casa da parte di un incendio doloso: senza tetto e per metà divorata e annerita dalle fiamme, la magione Blackwood diventa il nido in cui ripararsi contro l’esterno, anche dopo le incursioni dei curiosi e odiosi paesani.

«Noi rimarremo qui insieme per sempre, vero Constance?».

«Tu vuoi restare qui per sempre Merricat?».

«Dove potremmo andare, se no?», le chiesi, «c’è un posto migliore per noi? Chi ci vuole, là fuori? Il mondo è pieno di persone orribili».

 

 

Con le sbarre alle finestre, le tende tirate e il cancello chiuso con il lucchetto, la recita interrotta dall’incendio riprende ancora più serrata e opprimente, le due sorelle continuano decise a portare avanti le tradizioni di famiglia a colpi di pranzi e cene, battute e silenzi, tra cocci e distruzione. La sacra routine diventa un ulteriore motivo di elaborazione del lutto, rivissuto dopo la vandalizzazione della loro dimora. Intanto, fuori dalla casa gli esterni continuano ad affacciarsi desiderosi di vedere le sorelle assassine, inventando storielle che diventano poi leggende per spaventare i bambini e degenerano poi in offerte rituali (per l’appunto cestini con vivande e manicaretti) per propiziarsi quei due invisibili spiriti abitanti del relitto.

In questo modo, senza alcun accenno di paranormale, Shirley Jackson ci descrive la genesi di una storia di fantasmi che nulla ha di realmente spaventoso se non l’ossessivo ripetersi del passato che avviene tra le mura della casa collassata.

Con lo stesso meccanismo agiscono i più tangibili spettri che vivono in Hill House: il male, il malsano è insito nelle pareti, nei soffitti, nelle stanze irregolari della casa solitaria e magnifica. I rumori, gli scricchiolii, i cani che abbaiano e i passi nel corridoio portano all’isteria gli occasionali ospiti della dimora, facendo emergere le paure più profonde e i loro traumi rendendoli così i veri mostri da temere: ci si trova infatti facilmente ad inorridire per le azioni della turbata protagonista piuttosto che per i topoi più scontati del genere, che qui diventano i rumori sinistri delle nostre menti cigolanti.

«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà.[…] Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola».

Altrettanto rumorosa doveva essere la mente della stessa autrice che più volte ha raccontato della deprimente vita casalinga che conduceva, prigioniera di un matrimonio infelice che l’aveva costretta a rinchiudersi e infestare le tristi pareti della sua casa: è naturale perciò domandarsi quanto gli incubi della Jackson siano stati alle origini di quelli di molti lettori (Esquire 2018)

Le mura finiscono dunque per far emergere irrimediabilmente fantasmi di traumi non elaborati che trovano il nome di paurose visioni o vecchi miti. Sono i personaggi stessi a creare i propri spettri e a lasciare che infettino queste mura silenti e immobili che diventano scenario di una ghost story, condannano e allo stesso tempo proteggono dall’esterno, unico vero teatro degli orrori rispetto al quale forse sono preferibili le case infestate.

 

 

copertina di corallo su flaneri

Splendido Colombre

Colombre è il mostro marino uscito dalla testa di Dino Buzzati nel 1961. Un mostro marino che perseguita i marinai fino alla morte in un racconto bellissimo e inquietante. Senza un finale altrettanto tragico, le canzoni dell’artista marchigiano, che oggi torna con Corallo, hanno la capacità di seguirti un po’ ovunque, di apparirti in testa da un momento all’altro. Già con Pulviscolo, il suo album d’esordio, ci trovavamo di fronte a qualcosa che era più di un semplice buon album d’esordio.

Un lavoro brevissimo che parlava di cose piccole. 25 soli minuti per descrivere i mondi perfetti-imperfetti che si porta appresso la memoria. Una scrittura secca e diretta, tra Belle and Sebastien e Baustelle. Un pop soffice, malinconico, intriso di turbamento e disagio esistenziale.

Corallo pare un’evoluzione del suo precedente: meno minimalista, cerca di andare a toccare ciò che prima non aveva bisogno di toccare. Gli universi di cui parlare, da ricordare, da tenere fissi nel presente, si sono espansi. Anche oggi i Baustelle sono presenti, quelli di Sussidiario illustrato della giovinezza, punti di contatto con certi ghirigori vocali alla Lucio Battisti, fino a un modo di fare simil Alan Sorrenti.  Ma anche richiami eterei al Moby di “Porcelain“.

I rimandi a un passato più o meno recente, sì, ma anche qualcosa di estremamente attuale. Più che Calcutta, Colombre pare specchiarsi in Giorgio Poi. Ma in un Giorgio Poi meno lisergico, più immerso nelle cose tangibili. Colombre è qui di fronte a noi, l’autore di Smog da qualche altra parte, fuori. Ma un comune denominatore li avvicina. Quello forse di trovare una nuova chiave interpretativa dell’itpop.

Colombre, allo stesso modo di Giorgio Poi, è passato per l’itpop. Si è immerso in quell’acqua torbida, ne è uscito, ha provato a scollarsi di dosso tutto, senza riuscirci completamente. Ma questa sorta di battesimo più o meno volontario, comunque, è stato importante per avere coscienza e per prendere le distanze dall’omologazione. Qualche residuo è rimasto: la parte migliore dell’itpop, che in Corallo si incastra alla perfezione in un universo sonoro e lirico che suona come un rendere attuale una certa nicchia di primi anni del duemila. Se non solo i già citati Baustelle, i Virginiana Miller (La verità sul tennis, per esempio).

Corallo è un lavoro che offre una seconda prova di quanto Colombre sia un artista estremamente valido. Chissà cosa sarebbe stato in epoche diverse, pre social e pre iper connettività. Perché è materiale la sensazione di avere a che fare con un album di un paio di decenni fa, paradossalmente vicinissimo a come dovrebbe essere interpretata, oggi, la musica pop. Perché basta ascoltare la combo “Mille e una notte” e “Arcobaleno” per capire quanto Corallo sia una piccolissima e gigantesca pietra preziosa.

Copertina di Namamiko

L’inganno delle sciamane

Per un lettore occidentale, leggere Namamiko (Safarà, 2019) di Fumiko Enchi significa affacciarsi verso un mondo altro, lontanissimo nel tempo e nello spazio: la corte imperiale giapponese del periodo Heian, con le sue innumerevoli norme e la sua estrema raffinatezza – quella descritta in opere come La storia di Genji di Murasaki Shikibu e Le note del guanciale di Sei Shōnagon.

Con Namamiko, pubblicato per la prima volta nel 1965, ultimo tassello della sua cosiddetta trilogia informale legata proprio a La storia di Genji, di cui fanno parte anche Onnazaka (Safarà, 2017) e Maschere di donna (Marsilio, 2001), Enchi racconta di personaggi realmente esistiti: l’imperatore Ichijō, la splendida Consorte Imperiale Teishi, «versata nella poesia, nella calligrafia, nel koto e nel biwa […] talmente dotata che anche fra i gentiluomini più talentuosi non c’era nessuno che le fosse superiore» e l’immenso mondo della corte che li circonda, e più di tutto gli avvicendamenti e trame di potere tra le famiglie più in vista, che finiscono per segnare la parabola discendente proprio della consorte imperiale e della sua famiglia.

Lo fa ricostruendo un testo fittizio, il Namamiko Monogatari, che la voce narrante dichiara di aver visto da bambina nella biblioteca del padre, importante critico letterario dell’epoca – come in effetti lo era il padre di Enchi; e confrontandolo con testi reali, come l’Eiga monogatari, che racconta gli stessi anni da una prospettiva opposta, scritto per esaltare la gloria di Michinaga, zio della Consorte Imperiale e membro influente della corte.

Attraverso questo intreccio di racconti ufficiali e per così dire apocrifi, Enchi costruisce una narrazione su più livelli, con un obiettivo evidente: riscrivere una parte della tradizione storica e letteraria giapponese dal punto di vista dei perdenti. Non solo la famiglia di Teishi, che nel corso del racconto perde la sua influenza e viene praticamente distrutta da quella di Michinaga, ma soprattutto le donne, il vero nucleo di interesse di Namamiko.

Le donne delle famiglie più influenti, usate come merce di scambio, colte e raffinate solo perché necessario a irretire imperatori e altri uomini di potere dell’ambiente rarefatto della corte, in cui la comunicazione passa per il tramite della poesia e della letteratura. Ma anche le donne più svantaggiate, ingannate e sfruttate anche a loro insaputa per compiere piani che rinforzino posizioni di potere e indeboliscano gli avversari.

Proprio una donna di questo genere è il centro della narrazione di Enchi: Kureha, la figlia di una medium – una miko, una sciamana: il titolo, tradotto con “false sciamane”, si riferisce proprio a questo – che viene introdotta a corte da Michinaga e diviene la dama di compagnia preferita della Consorte imperiale Teishi.

Monaci, riti e preghiere serpeggiano in tutto il romanzo, in un mondo raffinatissimo ma anche intriso di magia e superstizione: un paesaggio in cui le miko, «pallide come spettri, gli occhi che si contorcevano, i capelli scarmigliati», hanno il potere, almeno per il tempo della possessione da parte di divinità e di anime di uomini, di dettare le sorti dei potenti e, cosa forse più importante, di esprimere appieno la propria energia vitale.

È la stessa Enchi a spiegarlo, scivolando con la sua voce autorevole nel racconto storico: le sciamane godevano di una maggiore libertà emotiva, perché «la possessione in sé della medium da parte della divinità segue un percorso che da una tensione estrema fra mente e corpo attraverso la trance arriva alla saturazione, e nel corso di questo percorso anche il desiderio sessuale viene naturalmente soddisfatto».

Non per questo le scelte di vita delle miko sono esenti dal giogo maschile: «era uso che per la durata del loro servizio alla divinità rimanessero vergini». E nel riportare presunti precetti religiosi li reinterpreta, seppure con sottigliezza, alla luce di quel controllo: «Probabilmente è logico vedere l’esigenza della purezza del corpo nel rito come frutto della presunta preferenza della divinità per le donne che fossero nella condizione di accogliere le richieste di un uomo, piuttosto che dell’ostilità verso l’impurità femminile».

La storia di Kureha dimostra come lo spazio lasciato alle miko non sia infinito, e soprattutto privo di pericoli: prima quasi invaghita di Teishi, di cui diviene la dama prediletta, poi innamorata di un capitano delle guardie che però la rifiuterà dopo aver incontrato la splendida Consorte Imperiale, per desiderio di vendetta finisce per prestarsi a fingere una possessione che scatena le maldicenze della corte e segna la fine di Teishi oltre che la propria. Il suo orgoglio, la possibilità di una forma di espressione e il potere che ne deriva diventa infine la causa della sua distruzione.

Come per le Sibille dell’antichità, come per le streghe di ogni luogo e tempo, il contatto con il soprannaturale pone le miko a un livello superiore a quello degli uomini e le affranca dalle loro regole. Attraverso una comunicazione privilegiata con gli dei e con il regno delle anime e dei morti, le sciamane creano uno spazio privato precluso a tutte le altre donne: non solo alle donne comuni o alle dame della corte, ma persino alle Imperatrici, come la giovane Teishi, vera e propria personificazione dell’ideale femminile dell’epoca.

Ma, sembra dire Enchi, neanche gli dei possono salvarle dalla sottomissione. Il loro contatto inaccessibile con la divinità è accettabile solo se si piega ai fini dei potenti: se così non è, se è puro e la voce degli spiriti segue una direzione diversa da quella prestabilita, colei che se ne fa portavoce viene accusata di aver mentito, viene persino incarcerata per questo. “Sono innumerevoli i crimini possibili in questo mondo, ma non renderti responsabile di provocare il rancore di una donna: se succede lei non lo mostrerà apertamente, e tu la scaccerai dai tuoi pensieri, senza un minimo di tatto. Ma anche se insistessi a spiegarti quali sono le spaventose conseguenze di quel rancore inespresso, alla tua età non comprenderesti”, dice Michinaga al figlio, ben cosciente del male che fa per estendere il proprio potere sulla corte. Nonostante questo, però, lui come molti altri uomini non rinuncia ad alimentare la spirale senza fine del rancore delle donne – più che altro perché è l’intera società in cui vivono a spingerli a farlo.

È amaro, Namamiko. L’interpretazione che Enchi dà del Giappone classico, del suo splendore ma anche della brutalità delle sue relazioni oltre le apparenze elegantissime, ha un riflesso anche sul presente: attraverso un romanzo stratificato, di cui sarebbe difficile nella pur bella traduzione di Paola Scrolavezza cogliere la complessità senza le ricche note e i brevi saggi inseriti a corollario del testo, Enchi utilizza l’epoca Heian per mettere in luce le contraddizioni e la sudditanza femminile nella società in cui si trova a vivere. E per quanto distante possa essere per un lettore occidentale tutto ciò a cui l’autrice fa riferimento, il fascino della sua voce colta e schiva e l’eleganza di un’ambientazione quasi di sogno, con personaggi che sembrano volare più che camminare per le sale profumate delle residenze imperiali di Heian, non può che ammaliare e lasciare il desiderio di immergersi ancora nel suo mondo.

(Fumiko Enchi, Namamiko, Safarà, 2019, trad. di Paola Scrolavezza, pp. 240, euro 18.50, articolo di Daria De Pascale)
Copertina di Un altro tamburo di Kelley

Quando il cattivo viene a mancare

Una volta lessi un libro intitolato Tra me e il mondo, di Ta-Nehisi Coates, e di tutto quello che ho impattato dentro quel libro, questo passaggio ancora non mi abbandona. Esiste un Paese in cui un padre è costretto a indicare a suo figlio il modo opportuno di agire quando alla guida è fermato da una volante. Come inclinare il busto esibendo sempre le mani e preannunciando cautamente ogni suo gesto, quali formule selezionare per rivolgersi all’autorità, come scendere correttamente dall’auto senza lasciar trapelare qualche avanzo di disappunto.

Tutto un algoritmo di azioni consigliabili tramandate come un cimelio, perché quello che un padre sa quando suo figlio in quel Paese osa circolare come tanti altri figli è che nel suo caso, e in quello di chi come lui ha la pelle di suo figlio, la vita vale meno. Vale un tocco inconsulto, una smorfia non autorizzata, una risposta starnutita in fretta e quel figlio, che è suo ma che sembra giudicato meno figlio di molti ragazzi altrettanto figli, potrebbe non tornare a casa.

Perché è negro. Con una gutturalissima g impunturata nel petto. E questo è sufficiente per essere pattugliato anche negli occhi, reputato un pericolo da chi ti mette in pericolo per amministrare l’ordine e calpestato come si fa con gli scarti d’asfalto. Questo Paese lo conosciamo bene, almeno indirettamente, per come da secoli ha provato a raccontarsi proponendo convinto l’agiografia di se stesso sotto forma di telefilm e operazioni belliche (da dover distinguere con attenzione) e per come fortunatamente altre voci hanno saputo riequilibrare il carico, bilanciando la polveriera sempre incinta di stereotipi da eterni yankee.

Frammenti di cinema e di letteratura di importanza vitale, per narrare una degenerazione che travalica di molto il termine razzismo. Anche se ci sembra che pronunciarlo possa bastare. Il corpo di un Sistema perfettamente truccato, ma in putrefazione accelerata.

Accostarsi a Toni Morrison, a Richard Wright o a Percival Everett squassa ferite che non sappiamo di avere o che preserviamo sottovuoto per sguainarle nelle giuste occasioni, in cui sentire quel dolore che non ha scelto noi. Abbordare Alice Walker, Colson Whitehead o Angie Thomas ci permette di sbranare cinquant’anni in poche pagine, approdare a oggi e comprendere quanto ancora un nero possa essere negro e quanto poco ci sia di incisivamente nuovo sul fronte del rapporto col diverso, declinato qui in senso cromatico.

E ovviamente non solo in quel Paese. Per questo forse Un altro tamburo (NN Editore, 2019, traduzione di Martina Testa), scritto da William Melvin Kelley e pubblicato nel 1962, plana tra queste scarne certezze come l’abbraccio che le cementa. Romanzo complesso, plurivoco e comunque diretto nella sua delicata architettura, decide di afferrarci schierando in campo un’ipotesi attraente, almeno per parecchi.

In una cittadina immaginaria di uno Stato immaginario del Sud di questo Paese democratico e vincente, un giorno, sulla spinta di un singolo atto di coraggio di un certo Tucker Caliban, per anni alle dipendenze di una sana famiglia bianca, ecco appunto quel giorno, in una processione non pianificata, tutta la popolazione del suo stesso colore comincia ad accodarsi, segue una scia immateriale, come fosse una ferrovia sotterranea.

Semplicemente quella gente se ne va, raccatta bambini come bagagli e si incammina verso un altrove spesso imprecisato. Perché andare è più essenziale di sapere esattamente dove giungere. Marciano sentendo un altro tamburo, un ritmo che non si può spiegare, come quello a cui allude Thoreau nel suo Walden.

Ma chi è Tucker Caliban, l’iniziatore involontario di questo osceno innesco? La sua storia si avvia tante nascite prima, rampolla dalle vene di una leggenda che i vecchi di New Marsails ancora dispensano come sciroppo per la gola ai ragazzi dell’emporio. Il primo della stirpe fu l’Africano: uomo titanico prima comprato e poi catturato e ucciso da Dewitt Willson, che però non ne fu mai padrone. Indomito nella sua forza, capace di sradicare catene e cristiani con la leggerezza di chi si sbottona, protagonista di un inseguimento epico, con la sua vastità e un neonato incavato nel braccio.

Fu proprio Willson a chiamarlo Caliban, quella minuzia già orfana, in omaggio a Shakespeare e alla sua Tempesta. E così fiorisce la genealogia di Tucker. Con un sangue turbolento da ritrovarsi dentro. Piccolo, ostinato, ruvido e brillante. Sposa una donna bellissima, che lo asseconda perché innamorata. Riesce ad acquistare la fattoria che vuole nel punto in cui la vuole, si sgancia da un destino di asservimento lungo molte vite e molte perdite e poi un giorno, quel giorno scoperchiante come una detonazione, decide di appiccare fuoco a quella terra conquistata «come se stesse solo piantando dei semi».

Perché è talmente sua che può anche bruciarla. Significa questo possedere qualcosa, permettersi anche di decretarne la fine? Significa questo liberare il futuro? Ma Kelley non ci interroga solo su di lui, segue il suo percorso in parallelo a quello della famiglia Willson, tra le generazioni di servi e proprietari che si sono avvicendate. Da un lato i bianchi e dall’altro i neri? Ovviamente no, perché spartire una casa e viversi attorno traccia legami. Succede, succede nonostante tutto e incasellarsi non impedisce mai di annusarsi e voler valicare quel limite.

David Willson conosce Bennett Bradshaw, attivista affascinante, determinato ma troppo scuro per essere un ideale compagno di college secondo i suoi genitori, eppure quest’amicizia lo scaverà per sempre. Dympha, figlia adolescente di David, incontra Bethrah che si propone come donna di servizio e ne resta incantata. Perché è colta, bella, sensibile, molto più di quanto il suo ruolo di ragazza nera le chiederebbe di essere.

Ognuno di loro, ogni punta di vista privilegiato è stregato da un “eppure”. E l’autore è bravissimo ad ispezionarlo. Quasi tutti i paragrafi sono intitolati con i nomi dei personaggi bianchi e in ciascuno ci si addentra per carpire come osservano l’altro, come provano a circumnavigare quell’universo che pensano minore, come vorrebbero sconfiggerlo restandovi impigliati, o come spiazzano se stessi facendo un passo avanti.

Come ci conferma la sua nota biografica, Kelley conosceva bianchi ricchi (prevalentemente ebrei) e bianchi poveri (operai italiani), e riesce a restituire anche linguisticamente la diversità di ciascuno, la condizione marginale o centripeta, ma soprattutto delinea l’incontro con l’altro come un perenne rischio. I negri restano odiati. Perché ci sono, perché se ne vanno. Perché lasciano un vuoto che la paura farcisce di altro rancore. Perché sono necessari alla sopravvivenza della quiete. Perché sapere chi additare rassicura tutti i giorni mentre li avvelena. E quando il nemico scompare non rimane che impazzire.

Inutile aggiungere che i quasi sessant’anni di Un altro tamburo potrebbero essere anche pochi mesi, potrebbero essere le settimane che verranno e che leggere autori come James Baldwin, Paul Beatty o William Melvin Kelley ci tiene ancorati alle urgenze irrisolte. Agli sbarchi imprevisti. E alle nostre derive.

 

(William Melvin Kelley, Un altro tamburo, NNEditore, 2019, trad. di Martina Testa, 256 pp., euro 19, articolo di Cristiana Saporito)

 

Copertina di Le affacciate di Perali

Di cinque donne e del loro raccontarsi

L’epigrafe che Caterina Perali sceglie per Le affacciate (Neo Edizioni, 2020) è una citazione di Annie Ernaux sulla scomparsa della profondità del tempo, assorbita dal web. La condizione di questo «presente infinito» è quello stato liquido in cui precipita Nina, colta e sarcastica organizzatrice di eventi, appena licenziata immotivatamente per un taglio del personale.

Sceglie come suo principale passatempo la conta dei chiodi delle travi del suo appartamento di Milano e, più che un bilancio esistenziale, questo limbo diventa una resa dei conti con le presunte aspettative della società. Facendo con se stessa (e con i social) un patto di totale rimozione del problema, si abbandona a una quotidianità senza ritmo, in cui la sua ironia trova spazio nelle uniche relazioni che le sono rimaste: i messaggi di testo scambiati con l’amica Anna attraverso lo smartphone e la compagnia di tre mature vicine di casa, riunite in una cena amarcord dal sapore harmony.

Ci si vorrebbe soffermare di più sui personaggi della vita di Nina, che appaiono tra i bagliori di autocoscienza e gli sms con l’amica. Ma il mood dolceamaro proposto dall’autrice si fonda su una narrazione ben salda, condotta attraverso una serie di stereotipi della vita della protagonista. Straordinari di lavoro, appuntamenti mancati, solitudine, movida di quartiere, bevute con le amiche, supermercati bio: in alcune di queste figure esistenziali ogni donna tra i venticinque e i quarant’anni può facilmente riconoscersi. Questo gioco dell’identificazione di genere è molto divertente grazie all’acutezza della scrittura, che pure rimane molto leggera e scorrevole grazie alla brevità dei capitoli e al dispositivo narrativo dell’epistolario istantaneo tra le amiche.

Nina vive infatti a tutte le ore con il telefono in mano e i messaggi che si scambia con Anna sono riportati rendendo palpabile quella dimensione parallela di comunicazione in cui siamo tutti immersi. I dialoghi nichilisti tra le due sono sfasati nei tempi della domanda e della risposta, accogliendo i più svariati argomenti senza approfondirne mai uno. Attacchi terroristici, previsioni meteo, corteggiamenti su Tinder, lavoro, tagli di capelli, personaggi famosi.

Tutto si mischia e si sovrappone, in un rilancio continuo di propositi di incontri e di confronti che non avvengono mai. Anna resta una sorta di sparring partner complice e onnipresente, ma in verità sfuggente. Infatti non aiuta a sciogliere i nodi di Nina, che dopo due settimane dal licenziamento continua a pubblicare finti post con le scene esilaranti di un lavoro che non ha più, rimestando tra foto di archivio e clichés.

La «fragilità empatica» dell’amica a un certo punto fa dire a Nina che «siamo capaci solo di mostrarci» e questa esasperazione finalmente la spingerà a partecipare alla cena organizzata a casa della sua sfuggente dirimpettaia Adele, che insieme alla cartomante del palazzo Teresita, accoglie una misteriosa visitatrice serba, Svetlana. Le «tre grazie», che ormai hanno una certa età ma sono in grande spolvero per l’occasione, sono spazientite dalla dipendenza della giovane dal suo telefonino ma non si fanno distrarre dai loro fitti racconti e dall’abbuffata di paste al forno, piatti tipici e vino, che consumano attorno alla tavola imbandita nel condominio milanese.

Sono forse un po’ lunghi e poco avvincenti i racconti di Adele, sul suo passato di ragazza madre mantenuta da un ricco medico veneziano. E le peripezie di Svetlana, nonostante l’irruzione di Obama nell’intreccio, non valgono la suspense con cui Nina si avvicina a quel «gineceo spettinato». Ma queste tre donne grottesche, affacciate ai ballatoi del palazzo, hanno la capacità di riportare vita e calore nel lettore e nella protagonista, che di affacciarsi alla vita non ha più voglia.

«Vorrei tornare a quando i miei pensieri erano puliti», dichiara a se stessa Nina, sopraffatta dalle notizie dal mondo che inondano il suo telefono. Lasciando intendere che forse il trauma del licenziamento potrebbe essere un gorgo nel quale possono finalmente ricominciare a scorrere di nuovo energie dimenticate e, forse, il desiderio di qualche vecchia o nuova storia d’amore. O il fervore delle manifestazioni degli anni Novanta. Vorrà cambiare la sua vita, questa brillante giovane? Ma, soprattutto, mangerà la zuppa di pesce preparata da Svetlana? Si concluderà con un incontro reale la «rassegna stampa emotiva, rassicurante, e mai deludente» con l’amica Anna? Chi vincerà il confronto sentimentale tra i messaggi frammentati delle due giovani, che durano il tempo di un singhiozzo, e le epopee amorose delle tre donne, che durano una vita?

Al suo secondo romanzo, la cifra del femminile che Caterina Perali dipinge con più vigore è la forza del raccontarsi. Queste donne di diverse generazioni si riconoscono un’eccezionalità grazie alla dote di rendere epica un’esistenza normale agli occhi delle altre. Attraverso la capacità di ascolto e la voglia di trasformarsi insieme alle altre, forse Nina riuscirà a riafferrare il valore del ritmo quotidiano, riconquistando una presenza nel mondo

 

(Caterina Perali, Le affacciate, Neo Edizioni, 2020, pp. 168, euro 11.90, articolo di Martina Pietropaoli)
Piero Chiara copertina Il piatto piange su Flanerí

«Per me che nella provincia navigo in silenzio»

«Nei paesi la vita è sotto la cenere. Per vivere come si vorrebbe da giovani ci vuole danaro; e di danaro ne corre poco. Allora si gioca per moltiplicarlo e si finisce col fare del gioco un fine, una mania nella quale si stempera la noia dei pomeriggi e delle sere. Non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre, c’è il lago e la campagna. Si sta legati ai tavoli a denti stretti e neppure si pensa che lo studio, o un mestiere qualsiasi, potrebbero rompere quell’inceppo che si maledice e si adora, e aprire una strada nel mondo a chi nascendo si è trovato davanti l’acqua del lago e dietro le montagne, quasi a indicare che per uscire dal paese bisogna compiere una traversata o una salita, fare uno sforzo insomma senza sapere se ne valga la pena».

In queste righe iniziali di Il piatto piange (Mondadori, 1962) Piero Chiara tratteggia il mondo della piccola Luino, cittadina della provincia varesina dove è nato e ha trascorso gran parte della sua vita, e dove ha ambientato quasi tutti i suoi romanzi. L’autore ci immette immediatamente nella realtà degli sfaccendati giocatori di carte che saranno i protagonisti della sua storia. Ma proprio come un giocatore incallito finge di mostrarci la sua mano, senza trucchi, come se tutto quello che intende raccontare non è altro che la vita di quei giocatori che neppure si accorgono di quello che gli è intorno; personaggi che occupano il loro tempo al tavolo verde bloccati nell’incanto negromantico di un posto dal quale uscire non rappresenta necessariamente una salvezza. Ma è in quel «nei paesi la vita è sotto la cenere» che nasconde il suo asso nella manica, ed esplicita in modo icastico quanto in realtà c’è da raccontare nelle storie della sua piccola cittadina di frontiera, di come ribolle la vita in provincia, nascosta sotto una quotidianità apparentemente immota. 

«Qualcuno che si ribella o che viene scosso dalla necessità, se ne va a lavorare o a far ribalderie all’estero, o almeno fuori da quei limiti. Gli altri continuano a giocare, a studiarsi, a guardarsi vivere l’un l’altro. Di tempo in tempo trovano qualche nuova forzatura del dialetto o inventano un soprannome che affliggerà una famiglia per due generazioni. Passano una stagione dopo l’altra e aspettano il ritorno di quelli che sono partiti per poterli ascoltare quando raccontano in cerchio al Metropole o al Caffè Clerici».

E ancora proseguendo in quest’analisi dell’incipit del primo fortunato romanzo dell’autore luinese, si palesa la malinconica e allo stesso tempo ironica giostra delle relazioni sempre uguali e dei posti che la ospitano, dei bar come piazze dove ci si ritrova in attesa di notizie provenienti dal mondo esterno. Chiara narra di una quotidianità che ripete i suoi schemi, un immobilismo sempre diverso nel quale si agitano figurine più vere di quelle reali che animano la commedia umana, tanto reali che non pochi luinesi si riconobbero nei personaggi di quei romanzi che li videro loro malgrado protagonisti.

Si deve al poeta Vittorio Sereni, concittadino e amico di Chiara, il merito di averlo convinto a scrivere il primo romanzo. Durante una cena avvenuta verso la fine del 1957 Sereni ebbe modo di ascoltare i racconti dell’amico, che da grande affabulatore qual era, teneva banco con le rievocazioni della Luino degli anni ’30. Sereni, allora direttore della collana Il Tornasole di Mondadori, pregò Chiara di mettere su carta quanto aveva raccontato quella sera e ben presto da quel nucleo primigenio, si venne formando Il piatto piange che uscì nel 1962 e trovò la sua collocazione proprio nella collana diretta da Sereni (della vicenda editoriale ne parla ampiamente Gabriele Sabatini in Visto si stampi, ItaloSvevo, 2018). Chiara non era nuovo alla scrittura, infatti, si dedicava a recensioni ed elzeviri per diverse riviste, ma prima di approdare alla scrittura aveva avuto una vita piuttosto concitata. 

Dopo una burrascosa carriera scolastica fatta di bocciature e scuole private, prese la licenza complementare da privatista nel ’29, poi emigrò in Francia, e di nuovo a Milano. Nel 1940 ricevette la chiamata alle armi, ma presto fu congedato. Successivamente, con l’accusa di essere un “mormoratore”, venne espulso dal partito nazionale fascista. Nel ’43, alla caduta del fascismo, mise il busto di Mussolini nella gabbia degli imputati del tribunale in cui lavorava e di lì a poco fu costretto a passare il confine. Finì in un campo disciplinare nel Vallese. Rimesso in libertà nel Canton Ticino collaborò con lo spionaggio americano. Nell’immediato dopoguerra provò numerosi lavori in giro per l’Italia, anche come mercante d’arte, e grazie alle sue doti innate di conferenziere, lavorò nella Radio svizzera italiana. Al primo romanzo arrivò quando era già in pensione. 

La prima edizione di Il piatto piange ebbe un discreto successo, ma fu approdando agli Oscar nel 1968 che ebbe inizio la vera fortuna commerciale di Chiara che aumentò con le sue opere successive. «Nei primi anni Ottanta, oltre quattro milioni di suoi libri circolavano per il mondo, ma al contempo, quella critica che nel 1962 lo salutava come il narratore ironico e indagatore dei vizi dell’uomo, gli si allontanò sempre più». A Il piatto piange seguì il romanzo La spartizione ambientato sempre nella Luino dell’anteguerra, che uscì nel marzo del 1964 e fu ristampato quattro volte nel giro di un anno. Le imprese di Mansueto Tettamanzi e di Emerenziano Paronzini ruotano intorno al pretesto della caccia e non più del gioco delle carte, e sono circondate dal coro di voci di Luino, dalla quinta del lago, dei caffè e dei biliardi. Ma, come accennato, la lista dei romanzi (e dei successi di pubblico) ambientati sulle sponde del Verbano è lunga: Il balordo (1967), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), La spina nel cuore (1979), tanto che Cesare Zavattini lo battezzò “il mago del lago”. Quando Luino non è la quinta delle vicende, l’autore, infatti, prende in prestito qualche paese limitrofo, spostandosi di qualche chilometro fino alla sponda piemontese del lago. Chiara è stato anche un saggista prolifico e si è occupato soprattutto della figura di Giacomo Casanova, ma il romanzo resta di sicuro la forma letteraria che più gli si addice. Riguardo questo, scrive: «Il racconto, la novella, il fatto isolato riferito perché vi si rinvenga una morale o comunque un esito è il genere narrativo più antico, essenziale, immutabile e ineliminabile, che segue la storia dell’uomo, e dei suoi comportamenti. È narrativa pura, e come tale ritratto fedele e immediato di un momento di vita, di un personaggio, di un episodio significativo ed esemplare eretto a simbolo e figura». E Piero Chiara riesce quasi sempre ad arrivare «all’essenziale», alla «narrativa pura», perché ha il grande pregio di far in modo che la struttura narratologica e linguistica su cui reggono i suoi romanzi non appaia preponderante, riuscendo quasi sempre a mettere il racconto al centro. Ad oggi i libri dello scrittore luinese non hanno più il successo di pubblico di cui avevano goduto tra gli anni ’60 e ’70 e i favori della critica, che l’avevano abbandonato dopo le prime prove, oggi lasciano spazio a una più serena analisi dei pregi e difetti della sua scrittura e della sua poetica.

Durante la redazione di quest’articolo, mentre ero alla ricerca di libri di Piero Chiara nella biblioteca di famiglia mi sono imbattuto in un’edizione cartonata di Sale e tabacchi (Mondadori, 1989), una sorta di zibaldone di ricordi, pensieri e aneddoti raccolti negli ultimi mesi di vita dall’autore, pubblicato postumo e recuperato tra le carte identificate con il titolo Appunti di varia umanità e di fortuita amenità scritti nottetempo. Il testo in sé non ha un gran valore letterario, ma sull’ultima pagina del mio libro, come spesso capita nei volumi passati per le mani di mio nonno, ho trovato dei suoi appunti. Un foglio attaccato con una striscia di scotch ingiallito e datato 5 settembre 1989 riporta, a seguito di alcune riflessioni, una storiella che i racconti di Chiara dovevano aver fatto riaffiorare alla sua memoria.

manoscritto piero chiara Flanerí

«Ad Ailano [il paese dei miei nonni n.d.r.] si racconta che un tale chiamato Cammisola si allontanò dal paese per un bel pezzo di tempo, tanto quanto lui ritenne opportuno che la gente si accorgesse della sua assenza e si meravigliasse che non si vedeva in circolazione. E quindi un giorno si avvicinò al paese. Al primo che incontrò chiese: “Neh, che si dice di Cammisola? L’interrogato a sua volta chiese: “ma chi è Cammisola?” Il povero Cammisola chinò la testa e amareggiato dovette riflettere: “allora Cammisola c’è o non c’è a nessuno importa!”».

Le storie di Chiara sono i racconti di tutti i paesi, i racconti attraverso i quali si ricerca il senso della vita, magari con un po’ di umorismo e di leggerezza, per questo mio nonno ha riportato un racconto della sua di terra, che è uguale ai racconti delle tante Luino d’Italia. Infatti, è proprio nella conclusione de Il piatto piange che Chiara scrive: «Luino non deve essere cercata sulle carte geografiche o nell’elenco dei Comuni d’Italia, ma in quell’altra ideale geografia dove si trovano tutti i luoghi immaginari nei quali si svolge la favola della vita». In ultima analisi, se pure provenienza di un autore innegabilmente ne modifica lo stile e spesso anche i temi, per alcuni è il territorio a essere guida della scrittura stessa, punto di partenza, a volte, o punto di arrivo. Riflettendo sulla propria produzione Chiara affermava: «il mio paese divenne lo sfondo di molte mie storie. Tutto è accaduto in quel paese, perché tutto è accaduto in me».

copertina di urlo gigante su flaneri

Pop radiofonico d’autore di Giovanni Gulino

I Marta sui Tubi erano incredibili. A ripensare ai loro esordi, è impossibile credere che il tempo li abbia inghiottiti in questo modo. E noi ci siamo abitati a questa cosa. Parlare di Giovanni Gulino, che da poco è uscito con il suo primo disco Urlo Gigante, senza parlare dei Marta sui Tubi è praticamente impossibile.

Quando li ascoltavi, a inizio 2000, avevi la sensazione di essere di fronte a qualcosa di nuovo e di vivo. Li sentivi vibrare sottopelle. Ti facevano uscire fuori di testa. Che roba era “Post“? La voce di Gulino che a volte correva sui bordi dello spoken e quando serviva esplodeva in aperture vocali, quelle armonizzazioni che sbucavano fuori dopo fiumi di parole, e che si intrecciavano con la chitarra di Carmelo di Pipitone sono state un momento difficilmente replicabile nella musica italiana.

I Marta sui Tubi erano underground, quando essere underground significava qualcosa. Discorso fatto e rifatto sulla crepa che si è aperta in questi anni tra indie e mainstream, coadiuvato dall’iper realtà dei social. Avevano un peso notevole in quella bolla, i Marta sui Tubi, avevano trovato un modo di comunicare e di comunicarsi. La loro era una dimensione vera, vivida, struggente. Avevano un’identità che non doveva cercare consolazione nei numeri di un pubblico più ampio. Non c’era bisogno. I Marta sui Tubi erano i Marta sui Tubi.

I primi due lavori, Muscoli e Dei e C’è gente che deve dormire sono tra i migliori album prodotti in Italia negli ultimi vent’anni. Non c’è molto margine per dire che non sia così. Fa male ripensarci, tornare indietro e trovare qualcosa del genere che si è dissolto in un decennio che non ha saputo accoglierli.

Un lento declino. Lento e velocissimo. Nonostante Lucio Dalla avesse capito cosa fossero i Marta sui Tubi. Nel 2013, poi, la partecipazione con “Dispari” a Sanremo, una sorta di quindici minuti di celebrità.  Ma Dalla ci ha lasciati, il mercato musicale si è stravolta completamente. I Marta sui Tubi sono diventati vecchi, come una bellissima opera d’arte che di colpo perde tutto il suo valore perché i canoni sono stati stravolti.

Gulino, quindi, perché non doveva mettersi in proprio?  I Marta sui Tubi hanno smesso di essere qualcosa di speciale. In più, fare un disco solista in questo momento è una strategia artistico/economica che ha preso piede. Pensiamo a Matt Berninger dei The National, ma senza arrivare fino a Cincinnati possiamo pensare a Tommaso Paradiso oppure a Francesco Bianconi  dei Baustelle che tra poco uscirà con il suo primo album solista. La maggiore spendibilità del solista rispetto al gruppo. A pensarci bene, la storia della musica italiana.

Urlo Gigante è un bell’album che probabilmente a un certo punto cala di intensità, sì, ma che riesce comunque a mantenere una buona tensione lungo le undici tracce, dosata con quella eleganza ruvida tipica di Gulino. Perché Gulino ha una capacità innata nel saper entrare nei sui pezzi, nel saperli raccontare. Ogni pezzo che canta è l’unico obiettivo che ha in testa, l’unico universo che deve descrivere, di cui deve parlare.

La tattica generale sembra esser stata quella di oscillare in maniera bilanciata tra quello che Gulino ha dato ai Marta Sui Tubi e una radiofonicità che va a riprendere, neanche troppo paradossalmente, oggi, una certa estetica alla Mengoni. È un esercizio interessante, in cui vieni catapultato continuamente in mondi e sempre in altri mondi musicali, da “Albergo a ore” – forse il miglior pezzo dell’album – e “Bambi”, sofisticate, alla spigolosità quasi 90’s di un bizzarro italofono Jonahtan Davis di “Sto”, a momenti più soft come “Un grammo di cielo”, “Fammi ridere” o “Tra le dita”.

Nonostante sia impossibile duplicare i Marta Sui Tubi, ci godiamo Gulino. Urlo Gigante può essere il buon inizio di una nuova vita, di qualcosa che si porta addosso un po’ di sana nostalgia, ma che un po’ alla volta si staccherà, lasciando spazio a qualcosa che saprà di ora: ci sono spiragli per un pop radiofonico d’autore che è meglio non tralasciare.