Copertina del libro Mr. President su Flanerí

“Mr. President”
di Fernando Masullo e Andrea Bozzo

Qui non troverete i contenuti di una riforma agraria, i piani di sostegno alle industrie o quelli militari della storia statunitense. Piuttosto scoprirete che l’unica guerra dichiarata da Eisenhower fu quella agli scoiattoli che devastavano il campo da golf della Casa Bianca, oppure che il presidente rimasto in carica per meno tempo è anche quello che ha fatto il discorso d’insediamento più lungo. In Mr. President (CasaSirio Editore) la storia americana resta sullo sfondo. I protagonisti sono proprio coloro che l’hanno fatta, raccontati con uno sguardo biografico, attraverso aneddoti e dettagli originali.

Fernando Masullo, cronista politico e corrispondente dagli Stati Uniti per la Rai dal 1988 al 1998, ha condensato in 180 pagine la vita dei 45 inquilini della Casa Bianca, da George Washington a Donald Trump, raccogliendone gli aspetti meno conosciuti e integrandoli con le illustrazioni di Andrea Bozzo. Un mix tra divulgazione, ironia e abilità grafica in cui ogni elemento è funzionale all’altro. Perché la vita di Theodore Roosvelt non sarebbe la solita senza l’illustrazione che lo ritrae con un orsacchiotto di pezza sulle ginocchia, e l’immagine che mostra John F. Kennedy con la camicia macchiata di rossetto parla più di cento descrizioni.

Il libro è uscito il 20 gennaio 2017, in concomitanza con la cerimonia di insediamento di Donald Trump, ma la storia di Mr. President nasce da lontano e prima di diventare un libro attraversa una lunga “campagna elettorale” che comincia nell’estate del 2015, come racconta l’autore, Fernando Masullo.

«Questo progetto nacque due anni fa in Sardegna, al festival “Sulla Terra Leggeri”, quando uno degli organizzatori, Flavio Soriga, mi chiese di inventare delle storie a tema. Così proposi diversi argomenti, come “la sfiga” o “la macchina del fango”, e il risultato fu imprevedibile positivo. Da lì mi venne l’idea di raccontare i presidenti americani in un modo divulgativo, ma capace di far sorridere. Ho scelto di creare una storia raccontata dalle storie, non dalla politica. Così sono nate le piccole biografie che raccontano il prima il durante e il dopo di ogni presidente,e vi assicuro che per alcuni di loro il “durante” (cioè la permanenza alla Casa Bianca) è stato il momento peggiore della propria vita».

Prima di diventare Mr. President, i racconti sui presidenti americani sono comparsi a puntate in una tappa di avvicinamento verso le elezioni presidenziali americane del 2016.

«Ho Iniziato a pubblicare i racconti sul Venerdì di Repubblica come un countdown verso le elezioni e ricavarne un libro è stata una naturale conclusione, sostenuta dal direttore Mario Calabresi, che ha scritto la prefazione. Ho avuto difficoltà nel trovare una casa editrice per la pubblicazione, perché Mr. President è un libro che esce dagli schemi e non è facile inserirlo all’interno di una collana. La giovane realtà di CasaSirio invece ha raccolto il progetto. Posso dire che quella con la casa editrice e con l’illustratore Andrea Bozzo è stata una serie di incontri fortunati, tra persone che hanno la stessa sensibilità».

Masullo racconta la storia dei presidenti statunitensi senza quello stile agiografico che probabilmente appesantirebbe la descrizione della vita di quarantcinque uomini. Grazie alla capacità di concentrarsi sul dettaglio e sfumare la storia è invece capace di incuriosire anche chi non è interessato alle cose della Casa Bianca. Un esempio? La vicenda di William Henry Harrison, presidente per un solo mese nel 1841.

«Fu candidato dai democratici contro il presidente uscente Van Buren, ma durante la campagna elettorale venne preso in giro. Harrison, che aveva già 67 anni, veniva dipinto come “un vecchietto che vuol fare il presidente e che dovrebbe tornare nella sua casetta nei boschi da pioniere a bere sidro”. In realtà lui non aveva una casetta nei boschi, ma una villa di 16 stanze, però un genio della comunicazione dell’epoca pensò bene di sfruttare a suo favore il fatto di essere considerato un uomo dalle origini umili e popolari. Perciò lo mandarono in giro a fare eventi elettorali con boccali di legno a forma di casetta, da dove tutti bevevano sidro, e gli raccomandavano di non parlare, perché era un pessimo oratore. Così Harrison viene eletto nel 1840, si prende la rivincita, si chiude nella sua villona e prepara quello che diventerà il più lungo discorso d’insediamento della storia, per la cerimonia del 4 marzo 1941. A questo punto però un altro genio della comunicazione gli consigliò di dimostrarsi forte, ed Harrison tenne il suo discorso di presentazione lungo due ore senza mantello e cappello, anche se nevicava e faceva un freddo terribile. Un mese dopo morirà di broncopolmonite».

(Fernando Masullo e Andrea Bozzo, Mr. President, CasaSirio Editore, 2017, pp. 192, euro 16)

“Relaxer” degli Alt-J

Fin dall’esordio con An Awsome Waves, attorno agli Alt-J si è sempre sviluppata un’attesa spasmodica, folle, esagerata. L’hype. Gli Alt-J – non pare un azzardo sbilanciarsi in questo modo – fino a quest’ultimo Relaxer sembravano essere la rappresentazione concreta del significato di hype. Il godere dell’attesa proprio in quanto attesa di un qualcosa, lasciando ai margini il cosa si aspetta – un atteggiamento che in un modo o in un altro sta modificando il rapporto artista-pubbico, rendendo di fatto logorato dal tempo anche un album uscito da pochi mesi, se non addirittura settimane. La forza del quartetto inglese è sempre stata in ciò che precedeva l’uscita dell’album, è sempre risieduta nel pre, nei mesi e giorni che separavano l’annuncio del nuovo lavoro e l’uscita del nuovo lavoro. Negli articoli, nei commenti, nelle discussioni, il cosa era sostituito dal quando . La data di uscita offuscava (e offusca tuttora) il lavoro in sé. Un fervore che aveva e ha le basi in un atteggiamento profondamente approssimativo.

La questione ruota attorno, infine, a ciò che poi gli Alt-J producevano. È vero che i social influiscono sulla percezione che si può avere di un gruppo, ma il punto fondamentale è stato che i primi due album avevano delle carenze lampanti. Con An Awsome Wave, del 2012, erano la Next Big Thing. Si parlava di nuovi Radiohead. Mischiando pop, hip hop, trip pop, soul, era nato il nuovo gruppo che avrebbe stravolto la musica pop negli anni Dieci. Quello che ne uscì fu un album con delle buone canzoni, piacevole – e chiaramente è difficile comporre un album piacevole -, ma claudicante, non all’altezza di ciò che si diceva. Ciò che girava attorno agli Alt-J viaggiava a un’altra velocità rispetto a ciò che gli Alt-J suonavano realmente. Un misto di facile fruizione e intuizioni sofisticate – in Man Alive dei sottovalutati Everything Everything può esserci quello che si dice ci sia negli Alt-J. An Awsome Wave era un insieme di cose che ne aveva fatto i paladini di un mondo indie filtrato da superficialità e leggerezza. Il successivo This is All Yours, poi, sembrava li avesse bollati come nuova moda del momento (esempio lampante degli ultimi anni, i Mumford & Sons). Il loro secondo album, infatti, mostrava un gruppo che auto citava sé stesso e, tristemente, si esibiva in un’auto parodia. Avevano trovato il trucchetto e lo perpetuavano nelle loro canzoni.

Quindi Relaxer. Ecco, Relaxer è altro. Sono sempre gli Alt-J, ma sono altri Alt-J. Relaxer, finalmente, ci mostra un gruppo che può essere preso sul serio. Via tutti i discorsi su hype e attesa. Questa volta oltre all’attesa, c’è qualcosa. Riprendendo i Radiohead, nonostante non parliamo di un salto come quello da The Bends a Ok Computer, i quattro di Leeds compiono un passo importante verso un percorso che comunque li porterà a incidere sulla musica contemporanea, non solo per discorsi extra musicali.

Lo si capisce dall’intro del primo pezzo, “3ww”, dove i Massive Attack sembrano reinterpretare “The End” dei Doors, che da il via a una canzone in continuo mutamento, eclettica, dove voce e strumenti cambiano continuamente registro mantenendo un’invidiabile uniformità. “In Cold Blood”, dove i vecchi Alt-J suonano con la consapevolezza dei nuovi Alt-J, anticipa il momento più alto di Relaxer, “House of the Rising Sun”. Qui i quattro di Leeds prendono il testo dell’omonima canzone degli Animals, lo cambiano qua e là, e scrivono il loro miglior pezzo di sempre. Classe purissima in  uno di quei brani dove sembra che abbiano sintetizzato il mondo, dove la chitarra e i synth si muovono con l’intensità dolorosa della marea notturna che si infrange sugli scogli. La sporca “Hit Me Like That Snare” presa singolarmente ha una sua forte dignità, ma inserita in Relaxer ricorda – sempre con le dovute distanze – quella che “Electioneering” fu per Ok Computer: un brano che, quantomeno musicalmente, risulta completamente fuori contesto. “Deadcrush”, “Adeline” e “Last Year” sono il trittico che anticipa il finale: la prima, sorretta dalla cupezza dei bassi si apre in un ritornello fortemente alla Alt-J; la seconda, altro pezzo di classe purissima, mostra un crescendo che dall’arpeggio iniziale mischia un po’ alla volta batteria e archi – la grandezza sta nella capacità della voce di non alterare la dinamica, di rimanere neutrale, non facendosi trasportare dagli strumenti che piano piano raggiungono il climax; la terza è un brano diviso in due parti: nella prima, il canto funebre di Joe Newman si chiude con «December, you sang at my funeral», nella seconda sembra irrompere Vincent McMorrow con la sua acustica e il suo new folk. Chiude “Pleader”, dove si sente un tentativo degli Alt-J di rifare un qualcosa di corale stile The National (“Vanderlyle Cribaby Geeks”).

Relaxer, pur non riuscendo ad essere continuo, è il punto di svolta per la carriera degli Alt-J. Il nuovo punto di partenza. Con Relaxer, probabilmente, ci troviamo nell’anticamera della loro definitiva consacrazione.

(Relaxer, Alt-J, Alt-Pop)

“Nudi come siamo stati”
di Ivano Porpora

Con Nudi come siamo stati (Marsilio, 2017)  Ivano Porpora torna al romanzo dopo cinque anni dal precedente La conservazione metodica del dolore (Einaudi, 2012) e consegna ai suoi lettori una storia matura, che conferma alcune premesse rispetto al suo testo precedente.

Se infatti La conservazione pativa in alcuni tratti di una macchinosità e frammentarietà del testo, in questo caso il racconto di Porpora ha invece una sua forza espressiva e una sua unità di tono e di voce, che appunto ce lo fa sentire più maturo e disteso. Anche la lingua, che nel primo libro era molto ricca, ma certe volte non tenuta a controllo, è in questa prova più misurata.

La trama. Severo è un giovane pittore che vive con Anita, ha un rapporto difficile con il proprio padre, con cui non si vede e con il quale si scambia lettere pur vivendo nello stesso condominio. Severo viene contattato da Arsène, un grande pittore che dopo aver visionato i suoi quadri decide di impartigli delle lezioni. Il romanzo è la narrazione del rapporto tra Severo e Arsène, un rapporto che non è solo quello tra docente e alunno, ma tra maestro e discepolo, un rapporto che niente sembra scalfire. Arsène però nasconde un segreto, qualcosa che lo turba. Così, dopo essere entrato nella vita di Severo e della sua amata, dopo averla sconvolta e aver messo alla prova il loro amore, sparisce.

Nella seconda parte del romanzo a dominare la scena è Arsène: la sua vicenda di bambino e il suo rapporto con il padre, la madre e il fratello maggiore in un paesino della Francia, appena finita la seconda guerra mondiale. Lì in quei giorni noi verremo a scoprire perché egli è diventato pittore e perché spesso e volentieri i suoi quadri non siano finiti. Nella terza parte torneremo nel presente scopriremo che fine ha fatto Arsène e assisteremo al ritorno e al rafforzarti della sua amicizia con Severo.

Detta la trama viene da chiedersi: Qual è il tema centrale di questo romanzo?

La risposta più ovvia sembra risiedere nella descrizione del rapporto tra maestro e discepolo, il tema – infatti – è declinato in due modi diversi. Da una parte abbiamo Severo che vede in Arsène la persona che potrebbe aiutarlo a comprendere meglio se stesso e a renderlo consapevole della propria arte. Dall’altra abbiamo il pittore francese famoso e conosciuto che scorge in questo giovane barbuto e grosso qualcosa di più di un semplice alunno. A rendere il tutto ancora più interessante c’è la narrazione del rapporto padre /figlio attraverso le lettere, che altro non è che un modo per declinare il tema dell’eredità che è il nucleo fondante del rapporto tra maestro e discepolo.

Nei dialoghi tra maestro e discepolo aleggiano alcune domande: Cosa ti lascio del mio sapere? Come ti spiego ciò che ho imparato? In quale modo le mie conoscenze diventano le tue? A questi interrogativi si aggiunge l’ambiguità fisica, sessuale, umana che lega i due: un rapporto di questo tipo presuppone un dono totale di sé, una totale spoliazione; ecco perché Severo perde tutto, perché è necessario che perda ciò che crede sia suo; ecco il motivo per cui Arsène gli porta via ogni cosa, perché tutto gli ritorni come rinnovato.

Severo è un viziato, vive da artista nella casa che presumibilmente paga il padre, non si pone problemi di soldi, non si lava, non si fa la barba, disegna e prepara il caffè. Arsène vede in lui, qualcosa che Severo stesso non vede, accecato com’è dal suo essere perfettamente quello che tutti si aspettano, ovvero un fallito che fa arte.

Arsène gli prospetta qualcos’altro e questo gli costerà fatica e soprattutto un cambio radicale. E qui veniamo al vero tema del romanzo ovvero il tema della vocazione. Nudi come siamo stati si interroga in maniera radicale rispetto alla domanda: Chi sono io? La domanda a dire il vero aleggia nella prima parte un po’ confusamente, ma trova compimento, quando Porpora passa a raccontarci non tanto la storia di Severo, quanto quella di Arsène. Il vero protagonista del libro infatti è, almeno nella mia lettura, proprio il pittore famoso, il maestro, e questo rende particolare il romanzo perché racconta la storia da un punto di vista inaspettato: non tanto il discepolo che cresce, e diventa adulto, quando la prospettiva del maestro e di quali siano i passi per cui uno lo diventa. Con il suo viaggio a ritroso, che anche noi compiano prima con un lungo flashback (tutta la seconda parte) e poi materialmente spostandoci fino a raggiungere il suo borgo natio, Arsène ci racconta non solo come è nata in lui la chiamata della pittura, ma anche come uno diventa ciò che è.

Arsène ha un segreto, una colpa profonda che cova dentro di sé; la pittura per lui è uno strumento di espiazione. Il problema che questa espiazione lo ha portato a essere ricco famoso e venerato, ma l’origine di tutto questo non è benigna, nasconde qualcosa di terribile, che per quanto casuale nulla toglie al dolore, alla vergogna e alla sofferenza. Arsène è un sopravvissuto, vive letteralmente in vece di un’altra persona; in un certo senso ne prende il posto, ne usurpa anche il talento. Accettare tutto questo, accettare che la vita vada come deve andare e nessuna altra soluzione è possibile, è la grazia che Arsène cerca e che trova nelle ultime scene del libro.

Dal punto di vista linguistico Nudi come siamo stati, è un testo complesso; appesantito nella prima parte da una tendenza al catalogo e alla descrizione, che però infine Porpora modera, riuscendo così a trovare il suo passo. Non a caso quell’opulenza descrittiva nella seconda e nella terza parte è assente e il libro ne acquista in potenza e maturità. L’impressione è che lentamente il baricentro si sia spostato da Severo ad Arsène e questo abbia giovato non poco al risultato finale.

Nudi come siamo stati è un romanzo importante, che segna una continuità di intenti con una serie di testi, di cui in questi mesi abbiamo dato notizia su queste pagine (penso in particolar modo a quelli di Macioci e di Campani). Il testo di Porpora è appunto il segno che qualcosa di nuovo, e di buono, nella narrativa italiana sta nascendo. Forse perché molti autori stufi di sentirsi discepoli hanno pensato che fosse ora di provare a diventare maestri?

 

(Ivano Porpora, Nudi come siamo stati, Marsilio, 2017, pp. 333, euro 18)

“Absolutely Nothing”
di Giorgio Vasta e Ramak Fazel

Se cerchi una recensione, vai altrove. Qui ci sono io con la mia inessenza: cioè il me stesso privato di ogni artificio retorico, il me stesso denuclearizzato dal vezzo valutativo, il me stesso non più scrittore e non più lettore critico. Qui c’è solo ciò che è scaturito dalla lettura di Absolutely Nothing di Giorgio Vasta (Quodlibet/Humboldt 2016) e dalla sua essenza, che è inessanza anch’essa: ossia si tratta di qualcosa che, almeno in partenza, non era nelle intenzioni del suo stesso autore. Qui siamo oltre lo spoiler. Siamo al tentativo di scrivere del significato di questo libro. E se proprio vuoi continuare a leggere, te lo dico subito, non c’è bisogno di perdere altro tempo, Absolutely Nothing parla del senso dell’esistenza umana e di nient’altro.

Non ti sarà difficile reperire su internet notizie formali su Absolutely Nothing, qui invece non ne troverai se non funzionali al suddetto tentativo.

Il genere ricalca quello consolidato del reportage di viaggio e al contempo ne tradisce immediatamente i canoni. Il tempo di viaggio distorto in modo funzionale al tempo del racconto. Le persone che diventano in modo dichiarato personaggi (Ramak Fazel e Giovanna Silva). Il viaggio materiale che si piega all’esigenza del viaggio interiore. Lo spazio che da luogo penetrato immedesima il ruolo di presenza penetrante. Certo siamo nei deserti americani e vi accediamo attraverso la tipica rete antropizzata fatta di aeroporti, metropoli, autostrade, cittadine, strade, luoghi abbandonati o sulla via dell’abbandono, ma in ogni momento si ha la percezione che questo libro sarebbe potuto nascere anche se l’autore fosse rimasto fermo dentro casa davanti al computer. Il reportage desertico dai luoghi di sparizione è, in definitiva, solo la superficie. La prima chiave di lettura. Una scusa. Un artificio.

E il viaggio è una scusa, è un artificio, per certi versi è la chiave di lettura ideale per osservare e per mettere in discussione la propria esistenza.

Per Vasta il viaggio diventa l’innesco di un cammino introspettivo che con ogni probabilità l’uomo Vasta già stava compiendo. Il viaggio è ricerca, di qualcosa o di qualcuno, il viaggio è creazione, e nella tradizione letteraria spesso ciò si è tradotto nella ricerca di se stessi.

L’impressione, però, che ho avuto leggendo le prime pagine è che Vasta non sia partito alla ricerca di se stesso, ma che sia stato invece il viaggio, o meglio, il vagabondaggio tra città e deserti a imporsi alla sua anima “in cerca” e alla sua scrittura (non a caso unanimemente riconosciuta) “di ricerca”. Il viaggio ha divorato Vasta. Vasta si è reso disponibile a essere divorato dal viaggio.

Il deserto e i luoghi abbandonati e l’artificiosità cinematografica degli Stati Uniti sono i ponti che permettono all’autore il cammino per il suo viaggio. Sono luoghi limite, estremi che già di loro costringono il visitatore alla riflessione sul rapporto tra l’essere umano e lo spazio che vive, che ha vissuto, che ha provato a vivere fintantoché sono permaste le condizioni per farlo. Il deserto, come scoprirà Vasta, è un luogo che ha bisogno di essere riempito di senso. Ce lo ordina. E Vasta, semplicemente, obbedisce.

L’arma per costruire senso è il linguaggio. L’ossessione di Vasta è il linguaggio. L’ossessione del senso è l’arma di Vasta. E questo potrebbe bastare, ma c’è dell’altro. In Absolutely Nothing la lingua, seppure espressa nelle note corde ricercate, precise, essenziali, stimolanti dello scrittore palermitano, finisce a lungo andare col provocare l’effetto inverso. È come se il linguaggio non bastasse mai a riempire il deserto. È come se il deserto fagocitasse tutto il senso e, anzi, ne chiedesse sempre più. È come se Vasta si fosse reso conto che la costruzione del senso tramite il linguaggio alla fine non servisse ad altro che a dire, che a dimostrare, che la costruzione del senso è mero artificio retorico, bastante a se stesso per un tempo ben determinato e in continuo mutamento. È come se, fuori di ogni metafora, Vasta si sia reso conto e ci porti a renderci conto del limitato e al contempo assolutamente necessario bisogno di senso culturale che l’animale essere umano, per suo involontario allontanamento dalla condizione naturale, ha. Il linguaggio si rivela adeguato e inadeguato, necessario e superfluo, limitato e illimitato, potente e impotente, assoluto e relativo.

Vasta è l’essere umano che, utilizzando la cultura, l’arma umana per eccellenza, risponde alla primordiale, fondamentale chiamata della propria esistenza. Della propria condizione. In questo gioco a perdere e a vincere che è la vita, presa com’è tra l’ineludibile morsa del tutto e del niente. E Vasta non è Omero, non è Ulisse, non è Kerouac, non è Thoreau, non Goethe, non Hesse. Vasta è Vasta, e mette in gioco tutto se stesso, tutte le sue paure, tutte le sue speranze, tutte le sue parole.

«Il cerchio non è rotondo», dice un vecchio monaco ortodosso nel film Before the Rain di Milcho Manchevski, manca sempre qualcosa. Per compiere il senso. Per realizzare il tempo. Per trovare la risposta. Una risposta. Manca sempre qualcosa. Niente mai è sufficiente. Il deserto ne è la prova. Vasta ne è testimone. Eppure, moderno profeta messo alla prova dalla tentazione del demonio, del male, della paura, del nulla, Vasta riesce a tornare dai suoi personalissimi “quaranta giorni” con la sua, la nostra verità. Non cede alla tentazione di tramutare i sassi in pane, ma torna a noi, e a se stesso, con le tasche assolutamente vuote e, insieme, piene soltanto di sassi. Sassi veri.

«Giocare agli Stati Uniti. Perché sono il luogo ma anche il gioco. Qui la finzione non ha opposti, non prevede un contrario: è la realtà più autentica, l’unica possibile», aggiunge lui. È tutto possibile altrimenti, è come se dicesse Vasta. E noi, gli esseri umani, siamo soltanto, e ancora per il momento, “carne immatura” per capirlo. Ancora troppo immatura.

 

(Giorgio Vasta, Ramak Fazel, Absolutely Nothing, Quodlibet/Humboldt, 2016, pp. 296, euro 22)

“La ricetta del dottor Wasser”
di Lars Gustafsson

Sembra essere l’imperativo degli ultimi anni, queste fette già scomposte di millennio. Trovare la ricetta. Dimagrire, innamorare, coltivare. Ammobiliarsi l’esistenza con successo. Trasmigrare da se stessi e riprogettarsi al meglio. O almeno escogitare la favola che convinca quasi tutti di esserci riusciti. La ricetta del dottor Wasser (Iperborea, 2017) di Lars Gustafsson, pubblicato poco prima della sua scomparsa, ci offre una brillante materia ispirativa.

Kurth Wolfgang Wasser, per sua stessa ottuagenaria ammissione, è un vincente. Medico tedesco in pensione, acquartierato nel velluto della sua vita levigata, fatta di concorsi a premi (ovviamente aggiudicati) e sciami di memorie. Dalla finestra rimira gli altri affannarsi alla fermata, perché forse aspettano qualcuno che li aspetti. Rimira gli altri, lui che ora non è atteso. E rammenta, in una continua ventata di episodi, ciò che è stato delle sue stazioni, dei suoi treni e dei suoi incontri. Può permetterselo, adesso che ha deposto le corse ai piedi del letto e impiega il suo tempo a scappottare cassetti. Peccato che in quello centrale sgambetti un dettaglio imprescindibile.

Peccato che Kurth Wasser non sia Kurth Wasser. Anzi, non è affatto un peccato. Il vero peccato sarebbe sopprimere questo degno “E invece”. Perché quell’etichetta, all’albeggiare dei suoi giorni, non esisteva incollata alla sua faccia.

Il nostro eroe aveva un altro destino inciso nel sangue. Il nostro eroe non è medico e neanche tedesco. Quanto meno non nelle premesse. Si chiamava, molto svedesemente, Kent Anderson. Per il semplice inalienabile fatto di essere svedese. Nato e fiorito nel regno di Västmanland, tra dicasteri di poderi e casolari, figlio di un uomo concreto e presto immolato alle fatiche d’officina. Nessuno spera qualcosa da lui, da quella bacca sgusciata dai «sobborghi del bosco», se non il copione meccanico di un campagnolo collaudato. Eppure Kent sa di essere altro, di meritare altri luoghi. Di dover fuoriuscire dal suo acquaio selvatico. E l’occasione gliela porge una curva, quella che non ha fallito; e un burrone, quello in cui non è piombato. Kent trova un corpo sprofondato, appartenete a un dottore tedesco che non respira più, con ancora i documenti addosso. E, in quel bivio piovuto d’incanto, Kent decide di virare, di abbandonare il suo sentiero come un giaccone svilito.

Kent all’improvviso si eclissa dalla scena. Kent si fa Kurth, addomestica il suo accento, accede grazie e quelle carte a un mondo di studi quasi impensabile. Quella vita acquisita gli calza a meraviglia. Il nuovo Kurth è un medico specializzato in disturbi del sonno. Un uomo che dopo aver scelto l’azzardo lo incarna fino in fondo. Come il migliore degli attori, si ritrova liquefatto nel suo ruolo, sciolto, indistinguibile.

Premiato dagli eventi con un’esistenza totalmente imprevista e per ciascuno dei suoi spettatori perfettamente credibile. Kent/Kurth, il truffatore che nessuno ha controllato, assurge a controllore. Da dirigente sanitario verifica e smaschera le condotte altrui. Perché sa come si gioca. Perché conosce la ricetta. E il romanzo, quello della sua storia sciorinata a ritroso per folate di flashback, ne consacra il trionfo.

Certo, qualcosa di normale è scivolato via. Come egli stesso ammette: «Delle stranezze della mia vita fa parte la bizzarria di essermi perso per ben due volte il mio funerale. Una battuta che riservo unicamente a scopo privato. Kent scomparve. Si può dire forse che morì». E lo stesso è stato per quel giovane medico. Così, al nuovo Wasser resta addosso un trastullo spinoso, «il rimpianto di un buio che sarebbe potuto essere», di quel ragazzo selvatico accantonato appena prima della curva.

Ma il carnevale dei suoi amori intermittenti (gli altri d’altronde sono solo comparse), i riconoscimenti di una carriera illuminata sanno quasi stemperare la solitudine piallata delle sue ultime giornate. Difficile con Gustafsson non pensare a Adriano Meis, seconda nascita del defunto Mattia Pascal. Ai nomi che muoiono prima di chi li porta. Che spalancano tempeste e nuove cose. Come accade alla protagonista di Geometrie di un panorama sconosciuto di Vendela Vida. O a uno dei sette profughi di Questi sono i nomi di Tommy Wieringa, a cui viene assegnato un altro nome per scampare alla rovina. In quel suono di battesimo c’è molto più di una parola. C’è condensa di futuro, incastri e cromosomi. C’è la chiamata a recitarsi i giorni. Perciò grattare via quella crosta significa rischiare, uccidere la parte, tuffarsi nel fosso dove invecchia un cadavere e riattivargli il fiato. A costo massimo.

E Gustafsson scoperchia un tema così nodale come l’identità con lo spasso supremo di chi gioca con estrema serietà. Mantenendo sempre un linguaggio pulito, puntuale, di estremo nitore. Ironico, essenziale, senza avanzi di retorica.

Sarà questa La ricetta del dottor Wasser, nuovo Prometeo che rifiuta la sua sorte? Tentare il tutto per tutto. Sfidare il caso come un rebus. Perché anche la realtà, a volte più della letteratura, è una terra del possibile.

 

(Lars Gustafsson, La ricetta del dottor Wasser, trad. di Carmen Cima Giorgetti, Iperborea, 2017, pp. 188, euro 16)

“KIDS IN THE STREET”
DI JUSTIN TOWNES EARLE

Un errore molto comune è pensare che autenticità e fruibilità non possano andare di pari passo. È quasi automatico credere che l’autenticità musicale non sia qualcosa malleabile, che debba rimanere fedele a regole date per buone ormai quasi un centinaio di anni fa. Kids in the Street di Justin Townes Earle è, invece, la dimostrazione della falla: l’autenticità si muove insieme agli anni che passano, cambia e si ritratta così tanto che persino l’Americana, con tutto il suo “scomodo” bagaglio di attrezzi country e folk, può parlarci ( e di fatto lo fa) del qui e dell’ora. Ebbene, Kids in the Street è la prova che si può essere i figli di Steve Earle, suonare il roots e avere gli occhialetti hipster, svariati tatuaggi e i risvoltini alla camicia.

Poche cose sono importanti nella critica musicale come lo sguardo storico sulla maniera in cui la musica viene trasmessa da una generazione a quella successiva, in che modo viene recepita, cosa sopravvive e cosa deve morire. E sta proprio qui, in questo processo di diluizione del seme di partenza all’interno di categorie contemporanee, l’eleganza e il talento del cantautore di Nashville, un artista che è riuscito a tenere insieme i nomi di Steve Earle e di Townes Van Zandt con quello di Justin, classe 1982.

Kids in the Street, meno tormentato dei precedenti Absent Fathers (2015) e Single Mothers (2014), ha una consapevolezza e un’originalità tali da renderlo praticamente impeccabile. Ha quello sguardo d’insieme e quel collante tra passato e presente che lo presenta sì meno puro del bellissimo Harlem River Blues (2010) registrato a Nashville, ma sicuramente più complesso e maturo, più adatto.

L’album, stavolta lavorato a Omaha, nel Nebraska, è uscito il 26 maggio scorso senza eccessivo clamore internazionale – conseguenza di un giro di marketing che troppo spesso disprezza tutto ciò che non si confà a un suono neutrale e impersonale, ripudiando qualsiasi espressione folkloristica nel senso più letterale del termine. Ma, così come è stato per il recente Freedom Highways di Rhiannon Ghiddens (ex Carolina Chocholate Drops), sarebbe un peccato se molte tracce del disco non arrivassero oltre i confini americani.

Basti citare, su tutte, “Maybe a Moment”, che ricorda un universo springsteeniano trasferito dal New Jersey a Memphis, l’acustica “Kids in the Street” e la splendida “There Go a Fool” in coda all’album.

È vero, Justin Townes Earle è un musicista artigianale, poco incline a espedienti tecnici troppo distanti da quell’eredità che si porta dietro in quanto del Sud e in quanto Earle. Pezzi come “What She’s Crying For”, con i suoi giri da rodeo raffinato à la Sweetheart of the Rodeo dei The Byrds, e come “15-25”, puro garage-blues, rimandano facilmente ad un mondo quasi acronico per orecchie disabituate a un certo tipo di sound. Ma l’intero lavoro, ascoltato dall’inizio alla fine, crea un’atmosfera ben diversa dalla ruvidità standard di un certo tipo di musica. È molto più autentico, vicino e realistico di quanto non si possa pensare.

 

“La storia dei miei denti”
di Valeria Luiselli

Fin dal titolo, La storia dei miei denti di Valeria Luiselli (laNuovafrontiera, 2016) promette, senza deludere, di essere un libro originale nella trama, innovativo nella struttura, allegro nei toni.

È la storia di Gustavo Sánchez Sánchez, detto Autostrada, nato con quattro denti prematuri e con un padre nullafacente che passa il tempo sul divano a strapparsi a morsi le unghie delle mani, lanciate con noncuranza sui quaderni del figlio, abitudine da cui nasce la passione di quest’ultimo per le collezioni e l’ossessione per i denti. Autostrada cresce come un tipo discreto ma dalle inusitate e indispensabili capacità: saper interpretare i biscotti della fortuna cinesi, imitare Janis Joplin dopo aver bevuto rum e cola, far stare dritto sul tavolo un uovo di gallina. Lavora come semplice guardiano di fabbrica e poi come responsabile del benessere degli impiegati, colleziona corsi di formazione; finché si imbatte inaspettatamente in un articolo di giornale che cambierà il suo futuro rendendolo un banditore d’asta. Il migliore del mondo.

Grazie alla nuova carriera Gustavo arriva a risolvere il problema che lo accompagna fin dalla nascita: a un’improbabile asta durante un karaoke notturno riesce ad aggiudicarsi la dentatura appartenuta a Marylin Monroe per sostituirla felicemente alla sua: «Finita l’operazione, per molti mesi non riuscii a smettere di sorridere. Mostravo a tutti quanti la mezzaluna del mio nuovo sorriso e, quando passavo davanti a uno specchio o a una vetrina che rifletteva la mia immagine, mi levavo il cappello facendo un inchino galante e mi sorridevo da solo. Il mio corpo magro e sgraziato, così come la mia vita un po’ vuota, ci aveva guadagnato in disinvoltura grazie a quei nuovi denti. La mia fortuna non aveva eguali, la mia vita era una poesia, ed ero sicuro che un giorno qualcuno avrebbe scritto il bellissimo racconto della mia autobiografia dentale».

La terza opera della scrittrice messicana – quest’anno finalista al Premio Gregor von Rezzori-Città di Firenze – nasce su commissione dei curatori di una mostra che si sarebbe tenuta nella Galleria Jumex di Ecatepec, che custodisce un’importante collezione d’arte contemporanea grazie al finanziamento della omonima fabbrica di succhi di frutta. Al posto del tradizionale catalogo artistico, Luiselli inizia a scrivere una sorta di romanzo a puntate per gli operai della fabbrica, che organizzano un gruppo di lettura per discuterne e raccontarsi. Il risultato di quelle riunioni settimanali diventa materiale che consente all’autrice di costruire le puntate successive della storia fino a giungere al romanzo completo traendo ispirazione dagli aneddoti e dai commenti degli operai, senza mai perdere di vista l’idea alla base della mostra: la presenza – o l’assenza – di ponti tra la vita della galleria e il contesto popolare in cui è incastrata.

La storia dei miei denti corre in bilico sul doppio filo della sfrontatezza e della malinconia, alterna invenzioni esilaranti a citazioni sagge e surreali a bruschi risvegli nella realtà che ne fanno sospettare la distorsione e l’esagerazione compiuta, semplicemente vissuta, dal grande banditore.

L’insignificante quotidianità di Autostrada è popolata di grandi nomi – inconsapevoli antagonisti scagliati anonimamente in una vita che non gli appartiene (suo vicino di casa di infanzia è Julio Cortázar; il primo lavoretto glielo affida l’edicolante Rubén Darío) – e di precetti e aforismi provenienti da illustri ascendenti come gli zii Euripides López Sánchez e Marcello Sánchez-Proust, utilissimi e consolatori in ogni situazione.

In un continuo alternarsi di realistico e fantastico, Autostrada arriva a tenere la sua vendita più importante, basata sul metodo da lui stesso elaborato: l’asta iperbolica. Ogni lotto è costituito da un dente e ogni dente è appartenuto a qualcuno: entrambi hanno una storia dietro ed è la storia che rende l’oggetto, in sé privo di valore, importante, pregiato, desiderato, irresistibile.

Il dente piatto di Platone ci fa sospettare che il filosofo parlasse e mangiasse senza sosta; la lunghezza del canino del Petrarca ce lo fa apparire come un tipo collerico, brillante, dedito al piacere; il dente tormentato della signora Virginia Woolf ci ricorda il sorriso illuminante elargito solo dopo la morte e quello malinconico ci Borges ci restituisce l’immagine del poeta che «parlava adagio, come se cercasse aggettivi nell’oscurità».

In un crescendo di stordimento «causato dall’atmosfera quasi tossica di un’asta di tale successo», si susseguono gli omaggi sorridenti ai grandi maestri della letteratura sudamericana e non solo, fino ad arrivare alla paradossale offerta di se stesso e della propria dentatura, alla consapevolezza della perfetta coincidenza tra le storie dei due elementi.

 

(Valeria Luiselli, La storia dei miei denti, trad. Elisa Tramontin, LaNuovafrontiera, pp. 185, euro 16,50)

“This Old Dog” di Mac DeMarco

23 giugno del 2012. Montreal, The Playhouse.
Mac DeMarco è sul palco e sta cantando “Beautiful Day” degli U2. Lo sta facendo completamente nudo. A un certo punto prende una bacchetta e prova a infilarsela nel sedere (su YouTube c’è il video).
Certi atteggiamenti di Mac DeMarco potrebbero far pensare a una macchietta, una banalizzazione dell’idea di rock star, un personaggio sopra le righe che non ha niente da dare al pubblico se non i propri atteggiamenti sopra le righe – questi modi di fare, ovviamente, hanno creato una schiera di fan incalliti, da una parte, e di hater che pensano che sia solo un pagliaccio, dall’altra. Mac DeMarco, invece, ha molto e nel tempo ha prodotto una serie di lavori che meritano attenzione. La scrittura dell’artista canadese infatti, da 2, passando per lo snodo Salad Days e al successivo mini Lp Another One, fino al nuovo This Old Dog ne fa uno dei compositori di canzoni pop più interessanti degli ultimi anni.

This Old Dog ha una specie di tempo interiore che appartiene a chi è artista, a chi ha una certa capacità di saper gestire il tempo. Di saper aspettare. Accelerare e rallentare. Non si parla di bpm. Si parla di coscienza, di sicurezza di quello che si fa. Saper indirizzare le cose dove si vuole. Saper fare quello che si vuole fare. Non c’è frenesia, non c’è la voglia di arrivare immediatamente a un punto, non si vuole sconvolgere immediatamente. L’ascolto sembra girare costantemente attorno a quel punto, e nel controllo di quella distanza c’è tutta la classe di DeMarco.

Questo, nonostante tutto ciò che è il DeMarco personaggio (per esempio il DeMarco presentatore di Weird Wibes su Mtv, con le sue interviste completamente sconclusionate), è stato da sempre una sua qualità. Perché negli anni ci sono stati dei cambiamenti a livello prettamente musicale – dal rock’n’roll fino al pop psichedelico -, ma l’atteggiamento che sta dietro e che muove i suoi lavori è stato sempre lo stesso.
Aspetto che sembrerebbe quasi cozzare con i suoi modi di fare poco ortodossi. Specialmente oggi dove le rock star, quei personaggi che hanno lo statuto per ergersi al di sopra tutti gli altri, hanno modi di fare estremamente ortodossi, sicuramente borghesi (immaginare Bon Iver, Matt Berninger o Thom Yorke, per esempio, in situazioni di quel tipo è irreale . L’ultimo è stato Pete Doherty, ma non aveva un briciolo del talento di DeMarco). Non che per essere una rock star sia necessario fare certe cose. Appunto perché oggi la figura della rock star è mutata rispetto al passato, De Marco ci ricorda semplicemente che le rock star sono anche questo. Per comprenderlo appieno, quindi, si deve accettare sia il DeMarco cantautore, sia il DeMarco personaggio.

This Old Dog suona come una delle possibili declinazioni che potrà avere il pop dei prossimi anni, andando ad attingere da un passato più o meno recente (i Midlake di The Trials of Van Occupanther in “This Old Dog”), dal Demon Albarn di Think Tank (soprattutto in “Sister”, ma anche nella samba di “Dreams of Yesterday”, dove il synth sembra la sirena che preannuncia il bombardamento durante una guerra hipster), riuscendo a inserire brani che possono ricordare vagamente le note gracchianti del Dylan anni Novanta (“A Wolf Who Wears Sheeps Clothes”), esibendosi nella coda floydiana di “Moonlight on the River”, andando a giocare senza paura con i synth in stile Radiohead di “Staircase” (“On The Level”).
This Old Dog è la conferma di Mac DeMarco.

(Mac DeMarco, This Old Dog, Alternative / Synth Pop)

Partire da una fotocopiatrice usata e tante utopie

Roma – A nord del parco della Caffarella c’è una libreria. È una libreria a strisce, e chi la conosce lo sa bene. E forse lo sa anche chi non la conosce ma ha incontrato sul proprio cammino Maurizio Ceccato, che con Lina Monaco gestisce questo spazio. Si chiama Scripta Manent, forse perché per essere davvero manent la scrittura deve essere data su carta, e la carta c’entra molto con questa storia.

Facciamo ordine: Maurizio Ceccato mi riceve un martedì sera, quando la libreria sta per chiudere ma le saracinesche restano alzate. Mi accomodo sul divano che avevo intravisto dalla vetrina e, diversamente dalle mie abitudini, non tiro fuori dalla borsa il quaderno per gli appunti, perché so che questa non sarà un’intervista come le altre, sarà il denso racconto di una storia. E voglio proprio godermi il piacere di starla ad ascoltare.


Alcune delle tue attività sono note a molti: Scripta Manent, che è il luogo dove ci troviamo; La trilogia B comics • Fucilate a strisce, ovvero una «utopia a fumetti tutta italiana» (che segue un’altra nota trilogia: WATT • Senza alternativa); Scanner, il festival dedicato alle autoproduzioni; lo studio grafico e casa editrice Ifix. Ma questo, dicevo, è ciò che tutti possono conoscere cercando un po’ su Internet. Raccontaci qualcosa della tua formazione, non so, potremmo partire addirittura dalle scuole superiori.

Al liceo facevamo tante cose, anche inutili: molta sperimentazione che trovava poco riscontro. È all’Accademia di Belle Arti che ho cominciato a mettermi alla prova con cose – sempre sperimentali, sempre per mettersi alla prova – ma forse più interessanti. Assieme a un piccolo gruppo di impavidi amici (Stefano Latini e Veronica Valeri) dividemmo una fotocopiatrice usata e tante utopie. Tentavamo di fare quello che ci sembrava mancasse: creare una specie di trait d’union tra quello che era l’arte contemporanea (ossia quello che respiravamo tutti i giorni) e una forma di comunicazione più alla portata di tutti. È una cosa che ti può essere data attraverso un magazine, per esempio, o una rivista. Qualcosa da sfogliare, ossia qualcosa che rimandi a un gesto quotidiano, che sembrava distante da quello che si respirava nelle gallerie d’arte e all’Accademia dei primissimi anni Novanta.


Ma non era solo romano, il tuo orizzonte.

No, frequentavo molto Bologna. E lì si respirava ancora un’altra aria: Roma era più salottiera, borghese, piena di feste frequentate da gente che non si guardava attorno e non sapeva niente di quello che succedeva al di fuori del proprio ambito. Si viveva più di passato che di quello che sarebbe venuto dopo, di futuro. Mentre invece a Bologna era tutto proiettato in avanti, quindi io una, due, tre volte al mese andavo lì a vedere cosa succedeva. E con quelle ispirazioni sono nate le prime esperienze: scrivevamo, disegnavamo, fotocopiavamo, rilegavamo tutto a mano. Eravamo assolutamente non contemporanei a tutto ciò che stava succedendo in quel periodo: tutti andavano verso la digitalizzazione, mentre le nostre fanzine erano tutte fatte a mano. Le cose che facevamo all’epoca sarebbero ora ordinarietà, tra le autoproduzioni, ma allora eravamo dei reietti.
Ma faccio un passo indietro. Prima di cominciare l’Accademia mi sono preso un anno sabbatico; in quel periodo andavo a lavorare in uno studio dove si faceva di tutto: grafica, fumetto, illustrazione, animazione con gli acetati colorati a mano. A Garbatella fui preso da uno studio grafico che aveva bisogno di molta manovalanza – e ho cominciato magicamente a lavorare. Era un lavoro del tipo dai la cera, togli la cera. Io arrivavo là tutto tronfio, perché avevo la mia cartellina e pensavo di spaccare il mondo, ma nella cartellina c’era tutta roba copiata, ovviamente, come si deve giustamente fare quando si sta imparando: bisogna copiare, riprodurre tutto con varie tecniche. Insomma, arrivo lì e la prima lezione è stata una lezione di umiltà. Io sapevo disegnare, ma disegnare è una cosa che sanno fare tutti, non mi rendevo conto che il lavoro è più stratificato e ha bisogno di una consapevolezza diversa. E il bagno di umiltà è consistito nel capire che quando uno lavora ci sono delle regole e soprattutto ci sono dei ruoli. Il titolare dello studio mi diede una sedia e una scrivania, mi mise lì una gomma da cancellare, un fazzoletto e una pila altissima di fogli. E io: «Ah, ma tutte queste tavole devo fare?» E lui: «Vedi questa gomma? Ecco, prendi la gomma. Quello è il fazzoletto. Mi raccomando, non sporcare: metti il fazzoletto sotto la mano. Questa è la tavola inchiostrata: quando cancelli assicurati che sia asciutta altrimenti sbaffi». Insomma: un mese a cancellare la matita dalle tavole. E il mese dopo pure. Però sono stato lì qualche anno a fare esperienza con tutte persone più grandi di me. Lì ci passava di tutto, ci passavano i disegnatori della Bonelli, lavoravamo per molte agenzie, facevamo una valanga di colorazioni, acetati e non acetati.

 

E poi?

Ho provato a fare quello che pensavo fosse il mio vero lavoro, cioè l’illustratore. E il mio primo colloquio fruttuoso fu quello a “il manifesto”. C’è una differenza sostanziale col mondo dei colloqui di oggi, ed è quella di bussare alle porte senza essere stato invitato, senza aver mandato mail e, alcune volte, senza neppure aver chiamato al telefono. Mi ricordo quando nel ’94 andai a via Tomacelli con la mia cartellina sotto braccio; arrivo al secondo piano, dove c’era la segreteria, e dico di essere un illustratore e di avere appuntamento con il grafico (art director era un’espressione che non usavamo). Riesco a salire al quarto piano dove trovo Vincenzo Scarpellini, che io non sapevo nemmeno chi fosse, l’ho scoperto dopo. Lui appena mi vede capisce tutto, capisce che ho superato il filtro della segreteria con un trucco, ma mi chiede di fargli vedere la cartellina. La prende, guarda, sfoglia: «Questo no, questo non è adatto, questo invece sì». Poi su un foglio di carta comincia a segnare una serie di argomenti: «Guarda, questi sono più o meno i temi che si trattano nel giornale. Tu fammi un po’ di proposte e poi vediamo». Be’ tornai a casa che non mi sembrava vero e per una settimana mi sono rinchiuso a disegnare come un pazzo. Andai di nuovo a via Tomacelli, questa volta con un appuntamento. Vincenzo prese alcuni disegni che secondo lui andavano bene e la settimana successiva già collaboravo con “il manifesto”. Questo è stato un po’ il mio ingresso nel mondo dei giornali e dei periodici. Dopo di ciò è stato tutto più facile, perché “il manifesto” godeva di un grande rispetto.

 

Qual è il passaggio dall’editoria di informazione a quella libraria?

Andando a bussare alle porte degli editori milanesi cominciai a collaborare con Frassinelli. Ma non per la grafica, solo per le illustrazioni. A Milano trascorrevo due o tre settimane da una signora che mi affittava una stamberga a via Buonarroti, col tetto spiovente. La signora mi portava la colazione in camera perché s’era affezionata. Tra i 24 e i 26 anni questa è stata la mia vita. Certe volte mi capitava di fare le illustrazioni lì, usando la cartellina grossa come tavolo tra un mobiletto e l’altro, perché non c’era la scrivania. Era tutta roba fatta con i ritagli – ripitturati, in collage – usavo di tutto. Le spacciavo per cose fatte al computer, perché a Milano se non sapevi usare il computer eri un alieno. All’epoca era così, perché se era fatta al computer allora voleva dire che eri pronto per il lavoro; se era fatta a mano voleva dire che non potevi lavorare. Non con la velocità richiesta. Io telefonavo e andavo nelle sedi delle case editrici anche se non mi accordavano l’appuntamento. Tanto non avevo niente da perdere, e poi eravamo in pochi. Di illustratori ce n’erano pochi che lavoravano per i periodici. Insomma, da Baldini&Castoldi, che era la sede di Linus, salgo, e una tizia della segreteria mi dice: «Io ho capito chi è lei! È quello a cui avevo detto che non potevamo riceverla, ma lei si è presentato lo stesso!» Dico: «Guardi io voglio soltanto far vedere i disegni, se sono in linea con quello che fate mi piacerebbe collaborare con voi». «Lei forse non ha capito, qua noi non abbiamo tempo da perdere!» E lì faccio una delle mie sfuriate. Ora non ne faccio più, ma quello mi sembrava il posto perfetto. La segretaria dice che se voglio posso lasciare le fotocopie. Io urlo: «Ma voi siete quelli che si vantano di ricevere gli illustratori, di aver scoperto Andrea Pazienza, e quando uno viene a portare i disegni perché è un illustratore voi lo buttate fuori?» E tutti che si affacciano dalle porte per vedere cosa fosse quel casino perché gli strilli si sentivano dalla strada, esce anche la testa di Oreste del Buono, fuori da una delle porte di quel corridoio kafkiano, con il suo punto interrogativo stampato sulla faccia. Io lì a lottare con questa segretaria che mi voleva far lasciare le fotocopie: «No, non ve le lascio le fotocopie, non ve le voglio lasciare!» Prendo e me ne vado sbattendo la porta dietro di me. E questo è stato uno degli episodi milanesi di cui sono più fiero.


Rido, e Maurizio mi racconta altri aneddoti. Poi riprendiamo: quand’è che cominci a fare grafica?

Fu per grazia o per colpa della Frassinelli, che ho ricominciato a prendere per le mani la grafica. Non è che io non la facessi del tutto, è che la grafica aveva fatto un salto avanti per via dei mezzi tecnologici. La grafica che si faceva sui tavoli non era quella che si faceva nelle case editrici, che si erano già evolute. Fu proprio una copertina di Frassinelli – in cui la mia illustrazione era stata disintegrata dalla grafica, buttata lì sopra a coprirla – che decisi di prendere in mano tutto. La cosa per me fondamentale non era che bisognasse rispettare la gabbia grafica dell’editore, ma che si rispettasse l’illustrazione, ossia la cosa che va a rappresentare l’oggetto libro. Passò circa un anno, e incontrai Coniglio, che frequentavo sempre come illustratore, il quale mi fece conoscere Alberto Castelvecchi, con cui dividevano gli stessi spazi e gli stessi grafici. Con Castelvecchi iniziai a fare le prime copertine. E da lì è partito tutto. Non pensavo che a Roma ci fosse molto lavoro editoriale. Almeno in quel periodo.

 

Erano gli anni in cui sono nate molte delle case editrici romane che abitualmente incontriamo oggi in libreria.

Sì, negli anni Novanta, Fazi, minimum fax, Castelvecchi, Theoria e altre, sì. E mi ricordo che mi sembrava strano, anche perché pensavo che il lavoro con le case editrici fosse solo a Milano. Castelvecchi all’inizio non prediligeva l’illustrazione e quindi io facevo un po’ fatica. Preferiva più che facessi cose con delle fotografie, magari ritagliate, ma l’illustrazione non la voleva. Ovviamente a me premeva più quell’aspetto, ma si lavorava, quindi facevo anche uso di  fotografie o foto ritagli. Poi continuavo con il mio lavoro di illustratore; non ero legato solo a una realtà. Ma ho sempre cercato di mantenere salda una cosa, negli anni: non fare mai una sola parte del lavoro, ma fare tutto. Voglio dire, non sono il tipo che prende e butta dentro delle figurine. Per me, il fatto di bilanciare il tutto, grafica e illustrazione, è stato sempre l’obiettivo primario: disegnare l’illustrazione e lavorarla in maniera organica al resto della copertina, non appoggiarmi a un illustratore o prendere immagini stock. Ho sempre cercato di unire tutto. E in questa ottica una cosa che m’è sempre dispiaciuta è questa specie di divorzio tra la parola e le immagini.


Che genere di divorzio?

Da una parte scorrono i testi e dall’altra le immagini. Nettamente separate. Questo accade per moltissimi editori, ed è nato anche un po’ per certi progetti grafici einaudiani, come per esempio quello dei Coralli. Caratteri bastone che dialogano con immagini dalla fisionomia più variegata: una quadrata, una orizzontale, una en plein air; non c’è un’interazione tra testo e immagine. Invece, la domanda di base è: come li appoggio questi caratteri sull’immagine e viceversa? O per fare un discorso vecchio e andare indietro nel tempo: com’erano le locandine del cinema negli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta? Qual era l’organizzazione grafica? Testo e immagini si mescolavano, non esisteva una grafica precostituita a cui aggiungere di volta in volta una foto o un’immagine.


Abbiamo ripercorso la tua storia fino all’ingresso nell’editoria, vorrei fare un salto in avanti e parlare del presente: Ifix e Scripta Manent.

Ifix nasce dall’idea di avviare uno studio editoriale e dare un’identità che andasse fuori dal mio nome. È anche un omaggio agli anni più ingenui, quegli anni dell’Accademia di Belle Arti in cui al profitto si pensava davvero poco. Ifix include lo studio di design e la casa editrice; il bookshop è venuto dopo, grazie anche all’incontro con Lina Monaco. Andavamo in giro per molte città e incontravamo posti che si avvicinavano a un’idea che sentivamo appartenerci. E abbiamo detto, ma perché non lo facciamo anche nel nostro studio? Noi rimaniamo sempre qua, non è che ci trasformiamo, ma abbiamo uno spazio che può essere aperto. Spesso abbiamo incontrato luoghi in cui la gente lavorava e al contempo esponeva delle cose – non necessariamente prodotte da loro – che a loro piacevano, quindi davano la possibilità alle persone di vederle. La libreria è nata con questo spirito, offrire un posto in cui si potesse ritrovare la nostra idea di casa editrice e di studio.


B comics
è arrivato al terzo volume e chiude, perché?

Perché è nato come trilogia, fin dal principio. Non si può andare avanti, anche se te lo chiedono. Abbiamo pubblicato più di trenta autori, così come per WATT • Senza alternativa ho creato una numerazione decimale e dei temi legati a ogni uscita, per B comics • Fucilate a strisce ho ideato dei temi con dei suoni onomatopeici. Ma non può proseguire. Che ci mettiamo a fare bum bum, poi ciaf ciaf, poi clap, poi sbam… non era quello lo scopo. Mi piaceva che fosse un’esperienza compiuta, per far vedere quelli che sono i segni che si possono rintracciare nel tessuto italiano. Le possibilità che si possono avere ancora con il linguaggio del fumetto. Molti mi hanno detto: ma come, tu prendi gli illustratori e li metti a fare i fumettisti? È chiaro che il fumetto è un linguaggio più narrativo rispetto a quello dell’illustrazione, ma non è detto che gli illustratori non possano accettare la sfida. Con B comics abbiamo potuto sperimentare il fumetto senza freno a mano, con tutti gli autori, tant’è che poi molti di quelli che abbiamo pubblicato stanno uscendo da altre parti o hanno trovato una casa editrice. Insomma in questa attività di scouting abbiamo fatto in modo che venissero fuori dei nomi e magari abbiamo dato loro la giusta benzina per proporsi. E questo è un punto d’orgoglio.

 

Scanner, un festival dedicato alle autoproduzioni. Puoi darcene una definizione?

Scanner è un luogo dove mostriamo il punto in cui è arrivata la ricerca delle autoproduzioni nella penisola. Non uso il termine fanzine, perché è distantissimo da autoproduzione: per fanzine si intende un altro tipo di materiale, legato molto più agli anni Settanta/Ottanta, cioè alle fotocopiatrici. Che cos’è l’autoproduzione? I vocabolari italiani non sono stati in grado ancora di decifrare questa parola. Oggi con le autoproduzioni si va avanti e indietro nel tempo, si possono usare le fotocopiatrici così come si possono usare la risograph, i layer della serigrafia o l’offset in maniera ultra professionale, dando vita a oggetti che sconfinano nel mondo del libro artistico. Ecco, Scanner cerca di tenere insieme tutte queste realtà diffuse, che nessuno conosce perché nessuno le sa catalogare e contenere. Sono oggetti che non esistono nemmeno in libreria, o ci vanno in misura minore, perché sono materiali così anarchici, e autarchici, che in realtà nascono e muoiono nel giro di un anno, o se durano lo fanno in un avamposto, in una specie di ristretta cerchia. Poi ovviamente Scanner è nato anche come luogo della parola, cioè per dare voce alle persone che lavorano su questi materiali. Perché per adesso in tutti i festival legati al mondo del fumetto ci sono le esposizioni, ma sono rare le occasioni in cui si può raccontare come si fanno le cose, perché le si fanno, chi sei, da dove vieni, che idee hai. Quindi è un po’ un modo per mettere in mostra non soltanto dei materiali, ma anche le persone che stanno dietro a quei materiali. Persone e oggetti diversissimi tra loro: non esiste un decalogo dell’autoproduzione.

Se posso dirlo in una parola: Scanner è un luogo utopico di oggetti cartacei che non restano imbrigliati ma spiccano come tappeti volanti, dove vivono e convivono a pari merito realtà molto diverse e dove si cerca di dare voce e mostrare oggetti cartacei che altrimenti passerebbero inosservati o comunque non sarebbero capiti. Oggetti che per fortuna sono cartacei. Ecco, noi ce ne siamo accorti sette o otto anni fa di tutto questo fermento, ossia nel momento in cui si predicava l’ebook, e si predicava tutta una serie di scenari irrealistici sulla morte della carta e sull’inesorabilità del digitale. I due invece sono strumenti diversi: la carta deve fare il lavoro della carta e deve farlo al meglio. Non sono due strumenti antitetici, ma sono diversi. Bisogna ancora lavorare molto per trovare un’estetica dell’ebook, mentre sulla carta, dopo cinque secoli e mezzo, c’è ancora molto da inventare e reinventare.


 

S’è fatto tardi, e mentre io e Maurizio Ceccato ci scambiamo le ultime battute comincio a sfogliare un libro per bambini: è un Pinocchio narrato da Alberto Fiori. Si tratta della prima uscita della serie Juvenilia, collana di albi illustrati per bambini, in cui le immagini sono realizzate dai bambini stessi. Ma non solo, le storie non sono esattamente quelle della nostra infanzia; vengono infatti riviste in modo da sorprendere e incuriosire sia gli adulti, sia i lettori più piccini, che non si troveranno di fronte a una favola già nota. Un progetto editoriale complesso che procederà col bel passo delle produzioni non industriali, perché indissolubilmente legato al lavoro in laboratorio di ragazzini che non superano i 10 anni di età.

 

 

 

Maurizio Ceccato: Ho partecipato alla Grande Estrazione Occidentale del 1970 e sono uscito con il numero 14 di aprile. Ho imparato a leggere, scrivere e disegnare con i fumetti. Illustratore amanuense dal 1994 per diversi periodici nazionali (il manifesto, Il Fatto Quotidiano, Avvenimenti, L’Espresso). Come disertore della grammatica ho pubblicato Non capisco un’acca (Hacca, 2011). Vestito da designer autarchico ho avviato Ifix, studio di progettazione grafica e comunicazione visiva realizzando cover e art direction per Fazi Editore, Arcana, elliot, Del Vecchio, Laterza, Hacca, Time Out Roma, Ponte alle Grazie, Fao, L’orma, Gaffi, ItaloSvevo, Playground, Teatro di Roma. Ifix dal 2011 inizia le pubblicazioni con «Watt • senza alternativa», libro–magazine retrofuturista di narrazioni e illustrazioni italiane e il rotocalco di scouting a fumetti «B comics • fucilate a strisce». La neonata collana Juvenilia, diretta da Lina Monaco, indaga favole per bambini illustrate da bambini.
Nel 2012, con Lina Monaco, all’interno dello studio Ifix, a Roma, apre il bookshop Scripta Manent, specializzato in design, edizioni illustrate e per bambini con un’ampia finestra dedicata alle autoproduzioni italiane.

Poster italiano di Scappa - Get Out su Flanerí

“Scappa – Get Out”
di Jordan Peele

È una delle grandi sorprese dell’anno, Scappa – Get Out, horror indipendente scritto, diretto e co-prodotto dall’esordiente Jordan Peele (che di mestiere fa l’attore comico in televisione). Negli ultimi anni, il cinema d’orrore ha proposto alcuni dei film più interessanti nel panorama indipendente nordamericano. In alcuni casi, come per It Follows di David Robert Mitchell nel 2014, è arrivato un grosso successo al box-office. In altri, come per The Witch di Robert Eggers nel 2015, anche i premi della critica del Sundance.

Scappa – Get Out ha ottenuto un enorme successo di critica e pubblico, con incassi da record (è costato 4 milioni e mezzo di dollari e fino a questo momento ne ha incassati più di 200 in tutti il mondo). È il film perfetto per proseguire il percorso di ridefinizione del genere.

Se ci si aspetta il solito horror a base di jump scare e tutto il repertorio recente ci si rimane male. Perché sotto la maschera del film d’orrore, Peele è riuscito a creare un’interessante e intelligente fusione di generi che parte da Indovina chi viene a cena? Ti presento i miei per arrivare a echi della fantascienza classica di L’invasione degli ultracorpi.

Lo spunto di partenza è un classico. Una giovane coppia si mette in macchina per trascorrere il fine settimana nella casa dei genitori di lei. È la prima volta che il ragazzo viene presentato e la ragazza non ha ritenuto necessario dire che è di colore. Chris è giustamente nervoso, nonostante le rassicurazioni di vario livello della sua fidanzata («Guarda che papà avrebbe votato Obama anche per una terza volta»). Nella casa, isolata sulla sponda di un lago, l’apparente normalità sembra nascondere qualcosa di insolito e misterioso, tra personale di servizio (di colore) estremamente silenzioso e obbediente, al limite del catatonico, e la curiosità morbosa degli amici di famiglia per il giovane.

Scappa – Get Out sfrutta i generi per creare un prodotto unico in grado di fondere insieme thriller, horror, satira sociale, denuncia e commedia. L’apparente semplicità della trama viene stravolta dalla svolta horror che gioca con intelligente ironia con tutti gli stereotipi della situazione – la casa isolata, la cantina, gli esperimenti – per offrire allo spettatore qualcosa di completamente diverso e nuovo.

Perché sullo sfondo del film si muove una riflessione sulla condizione degli afro-americani negli Stati Uniti d’oggi e sulla loro integrazione. L’estremizzazione del concetto di segregazione razziale su cui Scappa – Get Out si basa – senza raccontare troppo per non rovinare la visione – racconta di ampie zone del paese in cui il nero è visto ancora come qualcosa di diverso, un oggetto esotico, dal fascino misterioso.

È chiaro che l’intento di Jordan Peele è quello di parlare soprattutto al pubblico, per cui non c’è una volontà assoluta di denuncia della condizione degli afro-americani come in tanto cinema di oggi, dal premio Oscar Moonlight indietro nel tempo. È il momento storico in cui il film è arrivato nelle sale, però, con il passaggio di consegne tra Obama e Trump in un paese in cui le questioni etniche continuano a essere di assoluta attualità, a giustificare uno sguardo oltre la superficie pura e semplice.

Di suo, Scappa – Get Out è soprattutto un ottimo film d’intrattenimento, in grado di fare bene tutto quello che deve fare. Come thriller, è teso e coerente, come horror garantisce un’inquietudine sottile per tutto il tempo, con un paio di momenti che si spingono più in là. Nella prima parte, più vicina a una commedia classica (appunto i riferimenti a Indovina chi viene a cena? Ti presento i miei), riesce a rappresentare bene tutta l’ansia del confronto generazionale ed etnico in quelle situazioni di cortesie forzate che sono le presentazioni in famiglia. L’aspetto più comico della commedia, però, è garantito da LilRel Howery nei panni dell’amico paranoico del protagonista Chris, che esaspera l’idea del confronto lasciando alimentare la paura da retaggi post-coloniali.

La nota di satira politica dà al tutto una spinta in più. Certo, il fatto che il protagonista sia il britannico Daniel Kaluuya, già visto in uno degli episodi più inquietanti della di per sé inquietante serie distopica di culto Black Mirror, aggiunge un ulteriore sfumatura nell’occhio dello spettatore pronta a coglierla.

(Scappa – Get Out, di Jordan Peele, 2016, horror, 103’)

 

“Perdersi”
di Charles D’Ambrosio

Quando gli scrittori americani guardano con la lente d’ingrandimento gli estremismi, le follie, le contraddizioni, le paure e le paranoie della società statunitense riescono sempre, in un modo o nell’altro, a parlare di tutti noi. Quantomeno di tutta quella parte di mondo chiamata Occidente che ha vissuto, volontariamente o involontariamente, la mitologia degli Stati Uniti sulla propria pelle: quegli animali sociali figli della vittoria del capitalismo più sfrenato.

Qualche anno fa, John Jeremiah Sullivan ci riusciva con Americani (Sellerio), ora Charles D’Ambrosio alza ancora di più il tiro, e in Perdersi (minimum fax, 2016) traccia le coordinate dell’asse culturale del suo paese in una discesa verso il proprio inferno.

La narrazione che gli americani fanno dell’America – dalla letteratura al cinema, passando per il marketing – permea ogni momento delle nostre vite. La questione è: l’alienazione che proviamo leggendo dei prefabbricati della Fleetwood nel cuore degli Stati Uniti è davvero qualcosa di estraneo oppure rievoca scenari che già conosciamo? È veramente fuori dal mondo la Hell House, una sorta di parco dell’orrore ideato da organizzazioni paracristiane, quando siamo abituati alle moltissime degenerazioni di stampo religioso che pullulano in ogni angolo degli Stati Uniti?

Non è paradossalmente più straniante, per esempio, 33 attimi di felicità del tedesco Ingo Shulze? Pensare, oggi, all’America come insulare, unicamente autoriflessiva, che parla di sé per parlare di sé, risulta fuori luogo. Oramai l’America parla di noi.

Il punto di vista di D’Ambrosio, in Perdersi, è quello di chi è fuori dal mondo e lo osserva, ma al tempo stesso ne è circondato. L’insegnamento di David Foster Wallace, la sua capacità irridere ed essere irriso dal mondo (Tennis, tv, trigonometria e tornado e Una cosa divertente che non farò mai più) è qui mischiata con la desolazione di certe immagini nei lavori di Adrian Tomine e le fredde ma familiari geometrie di Chris Ware. D’Ambrosio incarna la solitudine dell’essere umano in una società che goffamente cerca in tutti i modi di nasconderla e dimenticarla. Perché in quei prefabbricati della Fleetwood, o nella Hell House, o a caccia di balene nel profondo Ovest, D’Ambrosio non è da nessuna parte, si perde, ed è solo.

La stessa solitudine di suo fratello Danny, quando ha deciso di spararsi un colpo in testa, e dell’altro fratello, Mike, salvo per miracolo dopo essersi buttato dall’Aurora Bridge, raccontate attraverso un parallelismo eccezionale con la storia di J.D. Salinger, scrittore e uomo, e soprattutto con l’idea di suicidio che corre lungo Il Giovane Holden.

Ed è inoltre la solitudine di D’Ambrosio quando si chiede, forse nel punto più alto di Perdersi, cosa sarebbe riuscito a fare per Danny se ne avesse avuto la possibilità.

La grazia dell’autore di Il museo dei pesci morti di vivere assimilando la solitudine e ricostruirla nella sue storie ricorda quella di Richard Yates (Undici solitudini), e ha lo stigma della grandissima letteratura.

Perdersi ha in sé lo sguardo maestoso dei Saggi di Montagne filtrato dalla grande sensibilità della tradizione americana del secondo dopo guerra. Non è una raccolta di saggi, una raccolta di racconti, un reportage o romanzo moderno. È tutto questo insieme. È un’opera necessaria per capire in quale direzione stiamo andando.

 

(Charles D’Ambrosio, Perdersi, trad. di Martina Testa, minimum fax, 2016, pp. 312, euro 18)

“Blonde on Blonde”
di Bob Dylan

C’è qualcosa in Blonde on Blonde che non lo rende un album di puro rock’n’roll. O meglio, di non solo rock’n’roll.

Nel 1966 i Beatles e i Rolling Stones hanno già all’attivo rispettivamente 5 e 10 album di musica rock eccezionale. Anche Bob Dylan aveva anticipato la conversione dall’acustico con l’esplosivo Bringing it All Back Home e il leggendario Highway 61 Revisited (vinile che conteneva, tra le altre, “Like a Rolling Stone”), entrambi realizzati nel corso del 1965.

Ma il ritardo con il quale Bob Dylan porta con sé sul palco jack e amplificatori ha, nonostante tutto, l’aura della rivoluzione.
Nel maggio del 1966, esattamente a un anno dall’apparizione della Stratocaster a Newport, Dylan realizzava la sua più grande eresia in formato double record: con Blonde on Blonde il Cristo del folk esplodeva finalmente in un elettrico e splendido Giuda.

Accanto all’aria scanzonata di tracce come “Rainy Day Woman” e “I Want You”, si percepisce, adesso come allora, qualcosa di più significativamente energico. Una gravante eredità dal folk di ballate aspre e lunghe narrazioni, corrette dal romanticismo spregiudicato di un giovane artista nel pieno della sua rivelazione.

Quello di Blonde on Blonde è un universo di matrice biblica, derivato dritto dai racconti folk della sofferenza e della morte, della dialettica del servo e del padrone, dell’uomo e della terra. E’ ancora lì, viva per tutte le quattordici tracce dell’opera, quella terra delle radici, grezza e calda, antica madre di centinaia e centinaia di uomini e donne in migrazione.

E poi c’è l’ermeneutica del testo. Con le sue liriche, Dylan mostra e dimostra come la forza del linguaggio verbale possa risiedere in realtà nella sua potenza ermetica, in una comunicazione evocativa che gli sarebbe valsa, giusto 50 anni dopo, il Nobel per la Letteratura.

Il Roots fa da groove all’anima del disco. Ad ogni traccia sembra di ascoltare il grido di vittoria degli Yankees nel profondo Sud, affiancato inevitabilmente dalla decadenza di quel Deep South degli anni Venti e Trenta di cui Steinbeck e Faulkner fecero il cuore della loro poetica.

Blonde on Blonde è l’epilogo del Vecchio Testamento di Zimmerman. Un cammino che parte dai lamenti alla Guthrie del 1962 e 1964, passando per le tonalità imploranti di The Freewheelin’, fino alla voce di fumo di Bringing It All Back Home e Highway 61 Revisited.

Ma Blonde on Blonde è anche il disco che apre le porte al Nuovo. Non è una cesura con il passato, è ritrattarlo, rivisitarlo, capirlo ancora meglio.

Si tratta di un bisogno inarginabile di intima ricerca d’identità, una necessità che, passando per il country à la Nashville di Nashville Skyline (1969) e per i capolavori di Planet Waves (composto e registrato con The Band nel 1974), trova il suo culmine in Blood on The Tracks (1975), manifesto dell’Uomo Dylan, non più solo narratore magistrale, ma soggetto pieno della sua arte.

Blonde on Blonde è la speranza di migliaia di artisti, e insieme la loro frustrazione. D’altronde chi non si sentirebbe mortificare qualsiasi ambizione ascoltando “Visions of Johanna”? Forse solo Dylan ha saputo fare di meglio.

(Blonde on Blonde, Bob Dylan, Folk Rock / Blues Rock / Roots Rock)