Poster del film Sette minuti dopo la mezzanotte su Flanerí

“Sette minuti dopo la mezzanotte”
di Juan Antonio Bayona

Ci sono storie per bambini che i bambini farebbero meglio a non conoscere, o a non vedere. Storie di mostri, di madri che muoiono, di dolore e di solitudine. Storie che fanno sentire male e insegnano tanto. Che fanno crescere in un mondo complicato in cui il bene e il male non sono valori assoluti, che fanno comprendere il valore della verità come liberazione. Sette minuti dopo la mezzanotte del catalano Juan Antonio Bayona racconta una di queste storie nel modo più viscerale e potente che si possa fare.

Tratto da un romanzo ideato dalla scrittrice per l’infanzia Siobhan Dowd e terminato dopo la sua scomparsa da Patrick Ness, autore anche della sceneggiatura, il film di Bayona unisce il racconto di formazione con un impianto fantasy, andando a posizionarsi in un filone cinematografico che va da La storia infinita fino al GGG di Spielberg.

Connor è un ragazzino solo in un paese della campagna inglese. A scuola non ha amici, anzi, un gruppo di compagni lo picchia per il puro gusto di farlo. Suo padre vive negli Stati Uniti con un’altra famiglia. Sua madre è malata di cancro. Una notte, sette minuti dopo la mezzanotte, riceve la visita di un gigantesco uomo albero. Gli racconterà tre storie e alla fine Connor dovrà raccontare la sua storia, la sua verità. Il ragazzino non capisce di cosa l’albero stia parlando, non capisce le sue storie e perché abbia scelto lui, ma si attacca a quell’albero come unica sicurezza del mondo.

Tre film in dieci anni sono bastati a Bayona per conquistarsi l’attenzione del cinema mondiale. Dopo l’esordio spagnolo con l’horror El Orfanato (distribuito in Italia come The Orphanage perché l’inglese fa più fico) è arrivato il racconto incredibile dello tsunami con The Impossible . Prima di entrare nel mondo dei dinosauri con la regia del seguito diJurassic World, il regista catalano ha deciso di concludere la sua ideale trilogia sul rapporto madre e figlio. I tre film hanno in comune la minaccia della morte che incombe, che sia legata a un cataclisma o alla malattia.

Partendo dal romanzo di Dowd e Ness, Sette minuti dopo la mezzanotte racconta una storia adulta con un protagonista bambino. Il rifugio della fantasia (ma è davvero solo fantasia?) di un albero gigante che arriva ad aiutarlo passa per un percorso nuovo rispetto alla tradizione dell’amicizia  tra umano e mostro. L’albero gigante è minaccioso, pronto all’ira. Racconta a Connor tre storie – quella della morte misteriosa di un re, di uno speziale e di un prete, quella di un bambino che nessuno vedeva – in cui non c’è una morale scontata e assolutoria, in cui il lieto fine non esiste. La lezione che vuole insegnare è difficile da spiegare, prima ancora che da comprendere. E Connor non può capire se quel mostro, che nella versione originale ha la voce di Liam Neeson – ed è importante saperlo, se si presta attenzione ai dettagli –, sia lì per aiutarlo.

Sette minuti dopo la mezzanotte è un racconto di formazione che sceglie una strada diversa, meno scontata e molto più complessa per arrivare alla maturazione. È per questo che riesce laddove aveva fallito Il grande gigante gentile di Spielberg: è un film adulto che parla di fine dell’infanzia senza parlare ai bambini. Si rivolge di più alla memoria dei grandi, insegna agli adulti come confrontarsi con la mente dei bambini. Riesce, in sostanza, a raccontare l’enorme difficoltà di crescere da soli, con i rapporti invertiti in cui il figlio deve badare alla madre e rinunciare alla sua normalità.

Oltre alle splendide animazioni che compongono i racconti dell’albero, oltre agli effetti speciali che uniscono la computer grafica con i mezzi più tradizionali e fisici, oltre all’intensità delle interpretazioni del giovane Lewis MacDougall, della malata Felicity Jones, della splendida Sigourney Weaver, nonna di ghiaccio e marmo pronto a sgretolarsi, Sette minuti dopo la mezzanotte restituisce la complessità del dolore in un mondo di immagini.

Nonostante i nove premi Goya in Spagna (tra cui miglior regia), negli Stati Uniti ha fatto un tonfo colossale al botteghino incassando solo 4 milioni di dollari a fronte di un budget di circa 40. Sicuramente paga l’eccesso di racconti di crescita a fianco del mostro nel corso degli anni (in ordine sparso: Il gigante di ferroDragon TrainerIl labirinto del faunoNel paese delle creature selvagge, senza arrivare fino a E.T.) e un registro che a una lettura superficiale non si sposa con un film ritenuto per bambini. Eppure, è proprio quello il suo pregio più grande.

(Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona, 2016, drammatico, 108’)

Gli ultimi metri di corsa

Non ho mai fatto male a nessuno. Ero timido, ero introverso, ero asociale. Mi facevo i cazzi miei. Pensavo questo di me perché lo dicevano loro: mio padre, mia madre, mio fratello più grande, i miei amici. Non avevo amici, ma le persone con cui passavo più tempo li chiamavo così.
Ho due figli e il più sano non ha voglia di lavorare, diceva mio padre. Io ero l’altro. Lui lavorava per noi e quando smetteva era stanco. Mamma stava in casa perché mio padre si stancasse meno quando tornava. Mio fratello si riposava. Io facevo finta di studiare.
Prima di me avevano un gatto. Si chiamava Filippo, cercava sempre da mangiare, era rosso. Forse si chiamava Tito e ho pensato fosse un cane. Uno dei miei amici che non erano miei amici diceva che anche lui aveva un cane, anzi due. Solo che ce li aveva ancora. Per questo stavo con lui. Stavo con lui anche se mi faceva lo sgambetto. Io ho smesso e lui ha continuato.
Nel tema dovevo descrivere un famigliare e ho scelto Buck. La maestra ha detto: il cane non vale. Ho rifatto il tema e al posto del cane ho scritto mio fratello, al posto di Buck il nome inventato di mio fratello, al posto della cuccia la camera di mio fratello. Ho preso un’insufficienza.

Casa nostra era un appartamento in un condominio molto grande che in città sarebbe stato piccolo. Anche le persone, finché sono rimasto bambino, erano grandi. Quando sono cresciuto il condominio mi sembrava piccolo perché le persone erano le stesse. Volevo un condominio più grande o altre persone. Volevo vivere in un altro paese oppure in città. Volevo tornare piccolo.
Quando mio fratello è andato via con una donna più grande speravo avremmo preso un cane, invece abbiamo affittato la camera. Non l’ha presa nessuno perché nel paese non c’era niente e il condominio era brutto. Poi ci abita gente di merda, diceva mio padre.
Io stavo zitto anche quando avevo voglia di parlare. Stavo zitto se qualcuno mi chiedeva qualcosa. Dicevano è muto. Dicevano è scemo. Io stavo zitto. Quelli della mia età non erano miei amici perché parlavano. Le ragazze non m’interessavano perché sembravano bambine. Aspettavo la donna più grande che mi avrebbe portato via con lei. Ho aspettato, poi ho smesso. Ho continuato a tacere.
Mio padre si arrabbiava per ogni rumore. Quello del piano di sopra spostava i mobili di notte. Solo dopo si è scoperto che era quello di sotto. I carabinieri hanno chiamato mio padre, poi quello del piano di sopra si è trasferito e quello di sotto ha smesso di fare rumore. L’importante è il risultato, ha detto mio padre.
Anche noi dovevamo trasferirci. Non compravamo niente per evitare di spostarlo. Una casa vera, i vicini più lontani e più simpatici. Mio padre diceva domani, dopodomani o la settimana prossima. Finché mio fratello si è trasferito da solo.

L’estate la passavamo al fiume perché al mare c’era troppa gente e ore di coda per arrivarci. Quando una signora è affogata mia madre sarebbe andata in montagna, ma c’era da camminare. In piscina si pagava l’ingresso. Il parco era pieno di zanzare. Senza condizionatore restavo in casa il più possibile e quando uscivo non sapevo dove andare. Facevo una corsa per sudare di più. Mio padre diceva: quel cretino di mio figlio.
I nonni parlavano al telefono, mi chiedevano come stavo, poi sono morti. Da vivi li confondevo perché non li vedevo mai anche se abitavano vicini. Una nonna somigliava a mia madre, ma era la madre di mio padre. Era lui che non voleva andare da loro. Era mia madre a insistere. Era sempre lui a farla smettere.
Prima che nascessi camera mia era un ripostiglio, quindi il ripostiglio è finito in garage e l’auto l’hanno parcheggiata fuori, tanto era scassata. Il mio letto era un materasso, però era comodo. L’armadio non aveva le ante perché si chiamava scaffale. La finestra non c’era, ma la luce entrava dalla porta. Al posto del lampadario c’era la lampadina, poi ho scoperto che quella c’è sempre, anche se non si vede.
A scuola ci andavo a piedi perché non era abbastanza lontana per prendere l’autobus. Partivo mezz’ora prima e arrivavo mezz’ora dopo. Quando pioveva arrivavo bagnato. Se nevicava arrivavo più tardi. A volte non partivo perché non suonava la sveglia. Perché non la sentivo. Perché non la sentiva mia madre o faceva finta.
La messa iniziava dopo, era più vicina e durava meno. Il prete lo chiamavano Don Pino perché il suo nome era troppo lungo. Anche il paese aveva un nome, stava scritto sul cartello, poi il cartello è sparito e ho smesso di chiamarlo. A scuola era pieno di nomi da imparare, ma cercavo di scordare il mio.
Mio padre andava al bar per giocare a carte, ma perdeva sempre e si ubriacava per dimenticare. Quando vinceva si ubriacava per festeggiare. Se non c’era nessuno si ubriacava per passare il tempo. Oppure si ubriacava a casa.

Mio fratello giocava alle macchinette. Non aveva soldi per giocare e una volta li ha presi dal borsellino di mia madre, ma lei se n’è accorta, poi se n’è accorto mio padre e alla fine ad accorgersene più di tutti è stato mio fratello. Non l’ha più fatto, però ha continuato a giocare.
Lui giocava e io guardavo lo specchio. Somigliavo a me stesso, ma preferivo non guardarmi. Preferivo non mi guardassero gli altri. Per schivare gli sguardi chiudevo gli occhi e mi tappavo le orecchie, ma quella volta che ho attraversato la frenata l’ho sentita lo stesso.
Non mi sono fatto niente, ho detto, ma non mi hanno creduto. Non ci ho creduto neanch’io. Quando mio padre è venuto al pronto soccorso l’ha detto lui e gli hanno creduto subito. Poi si è preoccupato di farmi stare peggio.
Mia nonna, una o l’altra, oppure mio nonno, diceva che ero diventato più grande anche se non mi vedeva mai. Lo capiva dalla voce. La mia voce, per me, era uguale. Invece quelle dei miei nonni erano voci da vecchi che non potevano essere così quando erano giovani e nemmeno quando erano medi. Mia madre aveva una voce vecchia perché era vecchia dentro. Io ero giovanissimo e lo sarò sempre.
I miei compagni andavano al mare d’estate e a sciare d’inverno, qualcuno andava in posti lontani. Io stavo a casa. Il mondo lo guardavo in televisione, anche se non potevo scegliere cosa guardare perché il telecomando lo usava mio padre e se non c’era lui lo usava mia madre e se non c’era nessuno era meglio che studiassi perché la televisione faceva male. Però non studiavo.

Mio padre faceva i muscoli a lavorare, mia madre non ne aveva bisogno, mio fratello non li aveva e a braccio di ferro con mio padre perdeva sempre. Però vinceva con me perché era più grande. Per batterlo facevo le flessioni e andavo a correre, ma perdevo lo stesso. Perdevo con i miei compagni di classe. Loro facevano sport, ma lo sport costa, la corsa e le flessioni no.
L’unica sufficienza che avevo era in ginnastica. Pure in religione, ma quella non contava perché non credevo in dio, anche se facevo finta. Però bestemmiavo come gli altri, che erano più furbi perché non si facevano sentire. Quando l’ha saputo mia madre mi ha fatto confessare. Il peccato è sparito, la nota sul registro no.
Volevo limonare, ma era difficile perché bisognava farlo in due. Le mie compagne di classe non volevano. I miei compagni neanche. Mamma mi faceva schifo. Allora l’ho tirato fuori in classe e fuori ci sono finito io. A saperlo prima l’avrei fatto più spesso.
Anche mio padre lo faceva, ma lui era grande. Se mia madre non voleva lo faceva lo stesso. Mi tappavo le orecchie, ma sentivo comunque, allora chiudevo la porta. Se mia madre aveva il labbro gonfio capivo che l’aveva fatto o lei l’aveva meritato.
Come quando volevano licenziare mio padre perché un altro operaio era finito in ospedale. Mica l’ho ammazzato, diceva. Poi l’hanno tenuto perché aveva una famiglia da mantenere. Perché era successo fuori dal cancello. Perché aveva ragione e gli altri avevano torto.
Il figlio dell’operaio aveva tre anni in più, ma se fossero stati di meno era con quattro amici, e quando mi hanno preso nessuno ha visto. Mia madre non ha chiesto niente perché non avrei risposto, altrimenti mi avrebbero preso ancora. Secondo mio padre dovevo imparare a difendermi, ma lui non mi ha insegnato.

Ho pensato di portare un coltello: quello di mio padre era suo, quelli da tavola non erano appuntiti, quelli da cucina erano troppo grossi e le tasche erano piccole. Ho preso un accendino. Quando mi hanno rubato la merenda ho provato a dar fuoco agli zaini, ma era scarico, allora li ho buttati dalla finestra, ma eravamo al primo piano e non si sono fatti niente. Però hanno fatto male a me.
Quando ho scoperto che non ci sentivo bene da un orecchio ho pensato che fossero le botte, ma non ricordavo quali. Tanto valeva pensare che fosse colpa mia. Però non l’ho detto a nessuno, se qualcuno mi chiamava dall’orecchio sbagliato facevo finta di essere scemo. Scemo lo ero già e non volevo diventare sordo. Bastava evitare le botte dall’altra parte.
Mio fratello tornava a casa coi lividi perché cadeva spesso. Eppure l’ho visto sempre in piedi. Ha smesso quando hanno cominciato a cadere gli altri. Quando sei grande è più facile perché puoi far cadere i più piccoli. Un giorno sarebbe stato il mio turno, ma quel giorno non arrivava oppure gli altri non erano abbastanza piccoli o io non avevo abbastanza equilibrio. Intanto continuavo a cadere.
I vestiti si strappavano e mia madre doveva comprarli coi soldi di mio padre, che per quella spesa doveva prendersela con qualcuno, così preferivo tenerli strappati fino a quando non si fossero strappati ancora. Almeno in estate si strappavano meno o c’erano meno vestiti. Invece d’inverno faceva freddo e non ne avevo altri o non volevo strappare anche quelli.
Mio fratello non mi difendeva perché nessuno difendeva lui, poi era troppo preso a difendere se stesso. Dovevo cavarmela da solo, anche se in famiglia eravamo in quattro, perché un giorno loro sarebbero spariti e io sarei rimasto. Se non servivano, tanto valeva sparissero subito, invece restavano. Poi ne è sparito uno e il resto non è cambiato.

Gli altri studiavano in gruppo e io non studiavo. Gli altri uscivano in branchi e io rimanevo a casa. Gli altri giocavano a squadre e io stavo in panchina. Se potevo uscivo, tranne quando ero già fuori. Tanto valeva restarci e aspettare che finisse una cosa perché ne iniziasse un’altra. Quando ricominciava tutto ero ancora lì ad aspettare.
Anche studiare era inutile, nessuno mi avrebbe pagato l’università e se me l’avessero pagata non volevo farla. Non volevo neanche lavorare. Non volevo diventare come mio padre. Non volevo restare qui o trasferirmi da un’altra parte per fare la stessa vita che non avevo vissuto.
Quando mio fratello ha chiamato per chiedere aiuto gli ho detto che non potevo aiutarlo. Voleva parlare con mamma, ma lei non c’era e papà nemmeno. Se ci fosse stata non avrebbe saputo aiutarlo. Se ci fosse stato lui non avrebbe voluto.
Era vietato parlare a mio fratello ed era vietato parlarne. Non ne parlavamo quando c’era mio padre e avremmo voluto parlarne quando c’eravamo solo io e mia madre, ma finivamo per parlare di qualcos’altro o stavamo zitti perché i muri non avevano orecchie, ma io e lei sì, e avevamo una bocca per dirlo a mio padre, che se la sarebbe presa con tutt’e due e pure con mio fratello, ma dal momento che lui non c’era la sua parte sarebbe toccata a noi.
Mio fratello cercava dei soldi e se cercava qualcos’altro i soldi sarebbero bastati, diceva mio padre. Ecco perché non bisognava dare soldi a nessuno, altrimenti risolvevi un problema agli altri e non ne avevi abbastanza quando sarebbe toccato a te. E meno soldi avevi più problemi finivi per non risolvere e meno soldi ricevevi dagli altri, così ti toccavano nuovi problemi e meno soldi ancora. Meglio risparmiarli, e se proprio bisognava spenderli meglio lasciarlo fare a mio padre.

Se stavo in casa rischiavo di fare qualcosa di sbagliato e di prenderle, se stavo fuori rischiavo di prenderle perché non stavo in casa. Cercare di non sbagliare rischiava di essere uno sbaglio e gli sbagli erano così tanti che non sapevo cosa fare. Ciò che era giusto oggi diventava sbagliato domani perché potevo fare le stesse cose, ma l’umore di mio padre cambiava. Almeno mia madre poteva prendersela con me mentre io non potevo prendermela con lei, perché se mi avesse dato uno schiaffo mio padre ne avrebbe aggiunto un altro, ma se l’avessi dato a mia madre lei me l’avrebbe restituito e mio padre mi avrebbe preso a calci. Per fortuna eravamo solo in tre.
Anche mio nonno le dava a mio padre che non voleva vederlo e non voleva che lo sapessimo. Non voleva far sapere che gliele aveva ridate. Non voleva perché non è bello suonarle a un vecchio in carrozzina. Non voleva vedere la tomba, che non vedeva neanche mia madre perché non era suo padre, e nemmeno io perché, pur essendo mio nonno, non l’avevo visto quasi mai.

Non volevo un figlio e nessuna donna l’avrebbe voluto da me, ma nemmeno il figlio mi avrebbe voluto come padre. Se avessi avuto un figlio non l’avrei toccato, ma mio padre avrà detto lo stesso prima di avere me, allora tanto valeva non saperlo e andare avanti. Anche se stavo fermo.
Le stagioni se ne andavano e non pensavo sarebbero tornate. Tornava il freddo e tornava la neve, troppo freddo, e più avanti sarebbe stato troppo caldo e in mezzo troppo piovoso. Anche quando andava bene avevo altri problemi e se non ci pensavo erano loro che pensavano a me. Per questo speravo ci fosse più freddo o più caldo, così avrei avuto un problema più grande che avrebbe nascosto gli altri e a forza di nasconderli li avrebbe risolti. Invece restavano.
Se avevo la merenda dovevo consegnarla a chi era più grosso di me. Se non gliela davo la prendeva lui. Se non avevo la merenda dovevo rubarla a qualcuno e quando se ne accorgeva dovevo restituirla rubandola a qualcun altro oppure pagarla coi soldi che non avevo e dovevo rubare. Così è finita che il preside ha chiamato mia madre per dire che ero un ladro e quando ho raccontato la verità ha risposto che era la mia parola contro quella degli altri, ma loro erano in tanti e io ero da solo.
Dal momento che ero stato bugiardo una volta, ogni volta che parlavo era una bugia. Ogni volta che a qualcuno mancavano dei soldi li avevo rubati io. Se quel giorno ero malato li avevo rubati il giorno prima. Così tutti dicevano di aver perso soldi che non avevano mai avuto. Mio padre diceva che non dovevo difendermi, ma farli stare zitti prima che potessero attaccarmi, allora li attaccavo e loro mi zittivano.
Dicevano: buon sangue non mente, ammesso sia il sangue di tuo padre. Quando l’ho detto a mio padre hanno smesso, però mi chiedevano la merenda e io continuavo a non dargliela perché mia madre non la dava a me. Per farmela pagare mi facevano mangiare la confezione della loro. Almeno non avevo debiti.

Ho sempre evitato di andare in gita. Mio padre non avrebbe voluto perché la gita costa, e se non ci andava lui, non capiva perché ci potessi andare io. Se avesse voluto sarebbero stati i miei compagni a non volere me. Se avessero voluto loro si sarebbero messi di trasverso i professori.
In casa mi annoiavo e annoiavo mia madre, che quando non sapeva cosa fare non voleva farlo con me, così stavo fuori e giravo per il paese dove mi chiedevano perché non stavo in casa. Quando ero piccolo i bar erano da grandi e quando sono diventato abbastanza grande anche i miei compagni ci andavano, ma dentro non mi volevano perché non mi volevano neanche in classe. Solo che in classe ero obbligato ad andarci, lì no, così mi obbligavano a stare fuori.
Andavo nel bosco perché non c’era nessuno e immaginavo non ci fossi io. Quando sono arrivati i cacciatori ho cercato di restare, ma mi hanno trovato e se non fossero stati loro l’avrebbero fatto i proiettili che sparavano, allora sarebbe stato un problema per tutti. Avrei voluto dire: non per me.

Anche mio fratello usciva senza dire dove andava e quando tornava diceva di non essere stato da nessuna parte. Stessa cosa avrei detto io se mia madre me l’avesse chiesto. Non sono mai uscito con lui che non mi ha invitato, e se mi fossi proposto non mi avrebbe preso perché non sapeva dove andare nemmeno da solo. Ma lui poteva scegliere, io no. E ora non potevo raggiungerlo perché non sapevo dov’era e nemmeno se c’era. Tra i due, preferivo mancare io.
A volte usciva mia madre senza dirlo e se la vedevo non lo diceva lo stesso, e se glielo chiedevo non rispondeva. E no, io non potevo andare con lei. Mi sarei annoiato, quindi meglio mi annoiassi da solo. Solo che lei aveva la macchina e io ero a piedi. Ero a piedi anche quando potevo avere un motorino perché bisognava comprarlo e se avessimo avuto i soldi avremmo già preso una bicicletta, quindi potevo scordarmi da subito di avere una macchina. Andavo a piedi finché mi facevano male le gambe.
Almeno avevo le braccia, ma non sapevo cosa farne. Se mi avessero fatto male anche quelle mi sarei annoiato meno, così aspettavo il momento in cui le avrei prese perché mi facesse male dappertutto, ma non dovevo aspettare molto. Quando capitava rimpiangevo il momento prima.
Se le prendevo stavo zitto perché quando mia madre urlava nessuno ascoltava, e a forza di sentirla non l’ascoltavo neanch’io, così pensavo che se avessi urlato non mi avrebbe ascoltato lei e nemmeno mi sarei ascoltato da solo. Però le botte le sentivo lo stesso. A volte le sognavo e mi svegliavo, altre volte ero già sveglio e avrei voluto addormentarmi. Quando le prendevo dicevo sto sognando, ma calci e pugni erano reali.
Quelli che prendevo a casa avrei detto di averli presi a scuola, quelli che prendevo a scuola di averli presi a casa, ma nessuno mi faceva domande e a forza di prenderle non avrei saputo rispondere. Tornavo a casa con un livido e scoprivo che ne aveva uno anche mia madre. Non le chiedevo niente e i vicini non se ne accorgevano perché evitavano di guardarla, per sicurezza evitavano di guardare me, al punto che anch’io evitavo di guardare loro anche se non avevano lividi. O io non li ho mai visti.
Vedendo un livido di mia madre non pensavo a cosa fosse successo, non potevo saperlo e quando succedeva cambiavo stanza aspettando che finisse, tranne quella volta che sono tornato e stava ancora accadendo. Il collo di mia madre era tra le mani di mio padre, lui stringeva e lei aveva smesso di urlare, ma lui continuava a stringere, allora sono uscito per andare più lontano. Mi sono messo a correre per arrivarci prima. Più correvo meno sapevo se ero arrivato, quindi correvo più forte e mi stancavo di più, finché mi sono scordato della meta e della corsa, ma correvo lo stesso.

 

Milo Busanelli è nato a Reggio Emilia nel 1981. Ha realizzato cortometraggi e scritto sceneggiature per lungometraggi finaliste al Riff e al Sonar. I suoi racconti sono stati selezionati al concorso 8×8 e pubblicati su Cadillac, inutile, #self, Zibaldoni, Squadernauti, L’Inquieto, Ellin Selae, Il Colophon, Argo, Colla, Verde, la rassegna stampa di Oblique, Cattedrale, Abbiamo le prove e Nazione Indiana.

I nerd non salveranno il mondo, ma intanto lo plasmano

Il nuovo romanzo di Vanni Santoni, La stanza profonda (Laterza, 2017), è nella dozzina dello Strega. È un libro dalle fattezze ibride, che racconta il mondo dei giochi di ruolo analizzandone meccaniche, idiosincrasie e atmosfere. Dopo aver narrato la free tekno in Muro di casse, Santoni sceglie un’altra subcultura che con il passare del tempo è stata in grado di influenzare innumerevoli aspetti del nostro presente. Ho posto alcune domande all’autore, chiedendogli di spiegare ai lettori di Flanerí alcune caratteristiche delle stanze profonde, del rapporto che hanno con la cultura di massa e con la scrittura.


Sulla bandella di La stanza profonda c’è scritto che il passatempo di cui racconti ha contribuito a gettare le basi di un «immaginario divenuto egemone» e di parte della nostra vita quotidiana (soprattutto quella online). Come è avvenuta questa lenta opera di conquista, secondo te? Un breve saggio di Fulvio Gatti, I nerd salveranno il mondo (Las Vegas Edizioni), individua alcuni responsabili di questa rivincita: la saga di Star Wars, i film di Iron Man e compagni, The Big Bang Theory e l’affermarsi di Internet. Sei d’accordo?

È evidente che quella che un tempo era una nicchia oggi è diventato, appunto, parte della cultura di massa più mainstream. Tutti i bambini leggono Harry Potter, tutti sono andati al cinema a vedere i film di Peter Jackson tratti dal Signore degli anelli, tutti guardano Game of Thrones in tv. Questi tre, assieme alla diffusione capillare dei videogiochi, mi sembrano gli elementi chiave di tale processo. Star Wars e i fumetti Marvel sono discorsi molto diversi, che hanno sempre avuto anche una dimensione mainstream e che hanno più volte toccato ambiti per niente nerd. Allo stesso modo, l’affermarsi di Internet, essendo un cambiamento antropologico radicale, paragonabile all’invenzione della stampa a caratteri mobili, trascende qualunque discorso sulle sottoculture, per quanto all’inizio abbia innervato quella degli smanettoni, e quindi anche dei nerd, per ovvie ragioni di affinità tecnologica. Dubito altresì che i nerd possano «salvare il mondo», al massimo lo hanno conquistato e hanno salvato se stessi diventando i “forti” della nostra contemporaneità – del resto abbiamo davanti agli occhi ciò che hanno fatto personaggi considerati “nerd” come Gates, Jobs o peggio che mai Zuckerberg: creare delle multinazionali senza cuore e mettersi la coscienza a posto buttando qualche milione in beneficienza. Non mi pare un gran risultato, inoltre nel momento in cui i nerd diventano il potere… Be’, per certi versi non sono più nerd, almeno nell’accezione che aveva il termine un tempo.


Ho letto una volta che un buon libro deve essere come una lasagna, cioè deve avere tanti strati. Trovo che il tuo sia un’ottima lasagna, e di tutti gli strati che possiede uno ha attirato la mia attenzione in modo particolare: la stanza profonda come luogo del subconscio e dell’archetipo; come mondo ctonio dove altri mondi vengono creati, plasmati e vissuti; come spazio creativo in cui si gioca secondo regole complesse e condivise a un gioco che è (quasi) tutto nella mente del partecipante. A partire da questa considerazione ti pongo le seguenti domande.

1) Sono convinto che molte stanze profonde (giochi di ruolo, generi musicali e artistici, movimenti, subculture…) necessitino di una certa dedizione per essere raggiunte, come se fosse presente una serie di barriere da superare o un percorso esoterico da portare a termine. Sei d’accordo? Credi che questa “barriera”, che è per alcuni respingente e per altri affascinante, sia una caratteristica da preservare affinché la comunità che racchiude possa continuare a esistere?

È senz’altro vero, spesso nelle sottoculture c’è una dimensione iniziatica, un codice da assimilare se non, a volte, anche un percorso interiore in qualche modo inevitabile. Questo è ancora più marcato nelle due che ho preso in analisi, la free tekno ovvero i rave, e i giochi di ruolo, perché si tratta di fenomeni con una forte componente rituale – l’unico libro a essere presente nella bibliografia di entrambi è infatti Il processo rituale di Victor Turner – e il cui focus è decisamente quello della creazione di mondi altri, che siano indotti attraverso musica ritmata, psichedelici e tecniche di trance o strumenti analogici quali carta, dadi e matite.
Detto ciò, è normale che un fenomento, finché resta underground, mantenga dei tratti di purezza che inevitabilmente si perdono quando esce alla luce del sole. Quindi capisco bene una certa tensione: da un lato si vorrebbe che la cultura a cui si appartiene e che ci regala gioie trovasse un maggior riconoscimento (o almeno non venisse criminalizzata dai giornali); dall’altro si capisce che un tale riconoscimento corrisponderebbe a una maggior partecipazione di massa e questa, a sua volta, a un imbastardimento dei tratti della sottocultura, quando non una sua cooptazione da parte della cultura di massa, la quale corrisponde alla giustamente temuta “commercializzazione”.


2) Nel romanzo scrivi che dentro alla stanza profonda ha luogo una «partenogenesi vertiginosa di possibilità», quasi un atto creativo permanente, un atto immaginativo che non è mero fantasticare ma un vero e proprio approccio costruttivo. Essendo tu stato un giocatore, credi che questo continuo processo di creazione abbia affinato alcune tue abilità? Se sì, quali?

Non so se ha affinato alcune mie abilità. Di sicuro ha espanso la mia coscienza, che mi pare qualcosa di più rilevante – avendo a che fare con la dimensione intellettuale più pura e confinando addirittura con quella spirituale – delle semplici skills. Posso però dire, e per esperienza diretta, che per quanto gli scenari dei giochi di ruolo siano stati la prima cosa che ho scritto, non hanno avuto un’utilità diretta nella mia attività di autore letterario: i due medium sono diversi, storie, personaggi e materiali rispondono a esigenze diverse – anche quando ho scritto i due fantasy Terra ignota, e ora che sto scrivendo il loro prequel L’impero del sogno, non ho utilizzato niente che venisse dalle decine di ambientazioni che avevo concepito. Credo che l’eredità sia più indiretta: penso per esempio al progetto SIC, da cui è nato il romanzo storico In territorio nemico: il metodo SIC, nel suo superamento della “staffetta” per cercare modalità di narrazione di gruppo che siano veramente collettive, deve molto ai giochi di ruolo; o ancora, come mi hanno fatto notare su Stay nerd, la forma di Personaggi precari ha forse dei debiti con la creazione di migliaia di mini-schede di PNG, ovvero comprimari, tipica dell’attività di dungeon master – è vero che è un progetto inventato da zero, i suoi ascendenti nobili, che siano Wilcock, Perec, Manganelli o Pontiggia, li ho letti tutti dopo, quando ne ho scoperto l’esistenza dalle recensioni dei critici che tracciavano paralleli tra Personaggi precari e alcuni dei loro lavori come La sinagoga degli iconoclasti, Mi ricordo, Centuria o Vite di uomini non illustri.


3) Uno degli ingredienti base del gioco di ruolo è il coinvolgimento. Nel romanzo parli di spazio mentale condiviso e di concentrazione. Come descriveresti l’atmosfera che si crea durante una partita? Su quali sensazioni lavora? Ritieni che esistano altri aggregatori sociali che operano sulle medesime coordinate?

Mi sembra che il gioco di ruolo, quello “puro”, fatto con il minimo di apparato – schede, dadi, matite; mappe quando servono – sia ancora qualcosa di molto avanzato, proprio per la sua caratteristica di svilupparsi interamente nel “cloud” dell’immaginazione condivisa dei giocatori. Qualcosa di avanzato e tuttora unico, nel suo incrociare narrazione, teatro d’improvvisazione, proiezione psichica, virtualità, persistenza, attività demiurgica.


4) Chi abita la stanza profonda è, in genere, un amante del complesso e del dettaglio: studia manuali, è preparato su ogni aspetto della sua passione e da questa sapienza trae spesso una strana forma di piacere. Ciò che è in grado di minacciare tutto questo è la semplificazione. Quali danni credi che possa arrecare alla stanza profonda?

Per quanto i GdR siano percepiti da fuori come qualcosa di molto complicato, che richiede l’assimilazione di quantità enormi di regole, la storia del medium è un alternarsi di cicli di complessità e semplificazione, rispetto al quale ha vinto la seconda. Oggi, per esempio, un gioco molto popolare è Savage Worlds, la cui caratteristica principale è la rapidità con cui si possono creare personaggi e mettersi a giocare. Se una volta il mito di molti giocatori, me compreso, erano macrosistemi come il Rolemaster o lo Hero System, volti a coprire con regole dettagliate ogni situazione, specie a livello tattico, o a garantire livelli impensati di personalizzazione ai personaggi, successivamente, con il crescere dell’importanza di ambientazione e storytelling – pietra miliare in questo senso è Vampiri: The Masquerade – la tendenza è stata di andare verso sistemi di regole più snelli e di buon senso, onde evitare che l’eccesso di regole e sottoregole rallentasse il narrato e il vissuto dei giocatori, mentre l’aspirazione alla complessità si è spostata nella raffinatezza e nel dettaglio dell’ambientazione, piuttosto che nel pacchetto-regole. È chiaro che la bontà di un master sta anche nel mantenere il giusto equilibrio tra precisione delle regole e fluidità della campagna, decidendo quali adattare e quali no, e rispondendo anche alle esigenze dei giocatori in tal senso. Una caratteristica importante dei giochi di ruolo è il fatto di essere medium flessibili, le regole contenute nei manuali sono solo una base, che poi inevitabilmente viene adattata con house rules generate e concertate giocando.


5) Spesso ho sentito “esponenti della cultura nerd” lamentarsi di fronte all’imporsi del loro immaginario. Lamentano la perdita di tante cose di cui abbiamo parlato: complessità, stratificazione, richiesta di dedizione. Lamentano, forse, l’apertura della stanza profonda e l’erosione delle sue caratteristiche fondamentali, vendute come sono alla massa e al consumismo sfrenato. Cosa ne pensi a riguardo?

La cultura di massa cerca sempre di divorare le sottoculture. È nella sua natura. Ruba le loro idee e la loro estetica, cerca di cooptarle in sistemi commerciali e monetizzarle, e quando non ci riesce le stigmatizza e le reprime. Che fare, dunque? Penso che si debba, semplicemente, e continuamente, inventarsi qualcosa di nuovo. Le sottoculture hanno un loro ciclo vitale, nascono come scintille, crescono in nicchie, diventano controculture in grado di impattare la realtà e cambiarla, subiscono gli assalti di quella stessa realtà, si ritirano in subculture con loro precisi codici di riferimento, infine si disperdono, poco importa se questa dispersione avviene per marginalizzazione e annientamento o per cooptazione e fagogitazione. È ovvio che in un mondo in cui tutti i bambini leggono Harry Potter, tutti i ragazzi (e tutti i genitori, pure) guardano Game of Thrones, tutte le famiglie giocano ai videogiochi, inizia a diventare quasi assurdo parlare di “sottocultura nerd”: alcuni suoi tratti, oggi, e anzitutto l’immaginario fantasy, sono semplicemente aspetti del più pieno mainstream e quindi, sì, parte della magia se ne è andata per sempre. Dall’altro lato, però, resta almeno la pur magra soddisfazione di aver avuto ragione da prima.


In La stanza profonda scrivi che il manuale è quasi un medium a sé. Hai mai scritto un manuale? Hai mai pensato di scrivere, ora che hai anni di esperienza di editing e di corsi di scrittura alle spalle, un manuale di scrittura (sempre che abbia senso scriverne uno)?

Di manuali ne ho scritti una dozzina, in realtà. Dopo alcuni anni con sistemi “ufficiali” ho creato infatti il mio sistema di regole, che abbiamo utilizzato per quindici anni, cambiando ambientazione, e quindi di fatto manuale, ogni anno: per quanto il core ruleset rimanesse più o meno lo stesso, ogni volta ambientazione e quindi razze, classi, incantesimi o tecnologie, tutto, cambiavano e li riscrivevo ex novo, oltre a ritoccare le regole con i suggerimenti portati dai giocatori durante la campagna. Non ho mai pensato di pubblicarne uno, sia perché era comunque un sistema molto derivativo – ogni volta che trovavamo un concetto o una regola interessante da qualche parte la includevamo – sia perché ho cominciato a scrivere i miei giochi nel ’98 o ’99, quando ormai l’industria era bella che collassata, e quindi non pareva né utile né plausibile l’idea di pubblicare un proprio sistema. Circa la scrittura: non credo che si possa insegnare, almeno non nei termini in cui si insegnano altre tecniche o altre materie, perché a scrivere si impara leggendo e scrivendo, ed è proprio questo che cerco di trasmettere nei miei corsi. Dieta, ovvero letture adeguate e abbondanti, e disciplina. E poi faccio tanto lavoro di editing dal vivo sui testi, che è una cosa che posso fare dal vivo ma che è diversa dall’insegnamento tout-court. In realtà ho cominciato a insegnare scrittura nella speranza di trovare possibili autori emergenti da lanciare con la collana Tunué, poi a quanto pare la mia esperienza pregressa di docente ha creato una sinergia interessante con la mia idea di “non-insegnamento” della scrittura, tant’è che minimum fax mi ha chiesto di farne un piccolo libro, che dovrebbe uscire a metà dell’anno prossimo.


Nel romanzo sono presenti alcune citazioni, da Cărtărescu a Giorgio Vasta. Io li definirei entrambi scrittori “da stanza profonda”, in quanto i loro lavori richiedono un certo grado di dedizione e di immersione. Quali sono secondo te gli autori che oggi sono capaci di creare opere complesse in grado di attirare i lettori in “mondi altri” (a me viene in mente Volodine, per esempio)?

Volodine mi sembra un ottimo esempio. Metterei anche László Krasznahorkai, riscoperto di recente nel mondo anglosassone, e da lì anche da noi, grazie alla vittoria del Man Booker Prize con Satantango, che però è del 1985, così come Georgi Gospodinov, bulgaro, lui pure tra i migliori romanzieri contemporanei. Rimanendo in Europa citerei anche Mathias Énard, per quanto sia evidente il suo debito verso Claudio Magris, mentre uscendo dal continente e restando tra i viventi citerei senz’altro William T. Vollmann e ovviamente il maestro Thomas Pynchon, mentre una scrittrice più giovane, ma che ha certamente le abilità per raggiungere quel livello, è la messicana Valeria Luiselli.


Ti pongo una domanda sulla tua attività di editor. Ho letto su Facebook che consigli agli aspiranti scrittori di farsi le ossa sulle riviste specializzate, in particolare consigli loro di scrivere recensioni e articoli riguardanti i libri e la letteratura. In che modo sono connesse la lettura e la formazione di uno scrittore? Ci sono autori che consigli a tutti (durante i corsi, per esempio), oppure ogni autore ha bisogno di leggere libri affini a quello che sta scrivendo o che vuole scrivere?

La lettura è tutto. Chi vuole scrivere deve passare il grosso del suo tempo a leggere. Deve arrivare ad avere una conoscenza almeno decorosa dei classici antichi, moderni e contemporanei e lavorare sempre per tappare tutti i buchi e trasformarla prima o poi in una conoscenza buona; quando lo ha fatto, e può quindi cominciare a scrivere seriamente, dovrà anche leggere le cose più interessanti che escono, per avere almeno una minima idea di dove sta andando il campo letterario di cui aspira a far parte; infine, dovrà creare dei percorsi di lettura specifici per quello che sta scrivendo – questo al di là degli ovvi materiali di ricerca. Chi vuole scrivere deve leggere, leggere, leggere, altrimenti è impossibile che gli venga fuori qualcosa di decente. Tutto il resto è marginale.


Io sono un grande appassionato di libri che parlano di libri e di libri il cui tema è l’atto stesso dello scrivere. Secondo te quali sono i migliori titoli appartenenti a questo non-genere, quelli che ti sono piaciuti di più?

È un campo in cui recentemente è sorta una montagna molto alta e grande e selvaggia, che si chiama 2666 e con cui dobbiamo continuare a fare i conti. Il classico moderno del filone, invece, è certamente Illusioni perdute. Una lettura più leggera, non elevata quanto i capolavori di Bolaño e Balzac, ma con i suoi momenti, specie nella prima parte, è L’informazione di Martin Amis. Un libro eccellente e di uscita recentissima è infine Leggenda privata di Michele Mari, che fra le tante cose è anche la storia della formazione di uno scrittore.


Per salutarci mi potresti dire un brano che ti è rimasto dai tempi dei rave, un ricordo goliardico del tuo periodo da giocatore di ruolo e un aneddoto dal mondo dell’editing?

Non mi piace la postura nostalgica, quindi linko (a) un set che viene sì da figure storiche della scena rave – Ixi degli Spiral Tribe, iniziatori della free tekno, e Maskk dei Kernel Panik, la tribe italiana storicamente più importante – ma che risale solo a quattro anni fa; (b) l’ultimo disco di Ajja, a testimonianza che «moriremo goani» (cfr. Muro di casse).
Per quanto riguarda i giochi di ruolo non posso che citare l’“Iveco”, ma è qualcosa che capiranno solo i miei ex giocatori… lo faccio apposta, tanto per rimanere misterici e iniziatici come ci si aspetta da dei giocatori di ruolo.
Un aneddoto interessante, almeno antropologicamente, tratto dal mio lavoro di editor, e nello specifico da quella parte del lavoro che riguarda la selezione dei testi (l’altra metà, quella che riguarda il lavoro sul testo con l’autore, è meno gravida di aneddoti, dato che si tratta di dialogare in modo solitamente molto civile con una persona in cui si è deciso di credere e che è in genere motivata a far bene), mi è capitato giusto due giorni fa: un aspirante autore mi ha mandato il manoscritto copiato direttamente nei messaggi privati su Facebook, naturalmente solo pochi secondi dopo l’approvazione della richiesta d’amicizia.


Buona fortuna per lo Strega!

Grazie! Critici da 66 ai lupi tutti!

 

(Vanni Santoni, La stanza profonda, Laterza, 2017, pp. 156, euro 14)

“Warlock”
di Oakley Hall

Non posso definirmi un amante del western. Sono molto legato ad alcune pellicole: Ombre Rosse, Sentieri selvaggi, la produzione di Leone, Gli spietati, Open Range di Costner, l’ultimo Tarantino e le recenti contaminazioni con l’horror come nel caso del bellissimo Bone Tomahawk con il grande Kurt Russell (esteticamente identico al ruolo che poi reciterà in The Hateful Eight). Poco altro per il resto. Però ho un ricordo: l’abituale vacanza in montagna con i miei da bambino e una televisione accesa in camera dopo cena. Rete4, un vecchio western – ma a colori – con Henry Fonda e Anthony Quinn. Era Ultima notte a Warlock, film tratto da Warlock (Edizioni Sur, 2016) appunto, romanzo del 1958 di Oakley Hall subito finalista al Premio Pulitzer. Scene che mi sono rimaste impresse in tutti questi anni e che ho ritrovato intatte presso la loro sorgente letteraria.

Fine dell’Ottocento, Sud-ovest americano, terra di confine. Qui sorge Warlock. L’attività commerciale e quella mineraria fioriscono insieme alla prostituzione e al gioco d’azzardo mentre gli onesti cittadini cercano – come al solito – di proteggere il loro piccolo orticello dalle scorribande dei banditi. Niente di nuovo. Solo che in questa cittadina la situazione è più complessa. Qui non esiste bianco o nero, non c’è il duello tra buono o cattivo, bene contro male. A Warlock ci sono solo linee d’ombra e tante anime dannate disposte a valicarle.

La situazione non è delle migliori, anzi. Ce lo testimonia l’inizio del libro in cui viene riportato il Diario di Henry Holmes Goodpasture: anche l’ultima speranza della città – il vice sceriffo Canning – è stata schiacciata dalla banda di Abe McQuown che oramai non ha più freni e niente e nessuno può più arginare. La città è vessata e non rimane che l’ultima soluzione: affidarsi a un marshal esterno, qualcuno disposto a muoversi dove la legge non arriva. Ecco l’arrivo di Clay Blaisedell, con le sue pistole dal calcio dorato. Dovrà affrontare la banda di Abe McQuown, il nuovo vice sceriffo Bud Gannon (ex membro della band di McQuown!) e la vecchia conoscenza Tom Morgan.

Se fin qui il contesto vi sembra molto aderente al western classico, andate avanti: Warlock è ben altro e il merito è sicuramente di Hall. La Nota introduttiva a inizio romanzo è una dichiarazione d’intenti chiara e si chiude con una frase indimenticabile: «Ripeterò pertanto che quest’opera è un romanzo, e il compito della letteratura romanzesca è la ricerca della verità, non dei fatti».

Oakley Hall si serve dell’impianto western e della storia americana per dare vita a un discorso ben più complesso e intenso. Riesce nel suo scopo creando il più grande tra i personaggi dell’opera, il vero protagonista: Warlock. La città non è solo il classico centro abitato fatto di ferrovia e saloon: è un limbo, una zona di confine dell’esistenza. Un luogo in cui alcuni passano, transitano e ne escono diversi, cambiati, trasformando anche la vita di chi gli sta attorno. Spesso in maniera violenta. I duelli ci saranno, le pistole ruggiranno, ma il lettore sarà molto interessato a vedere come si evolvono i complessi rapporti tra i personaggi, appassionandosi sempre di più a un mondo in cui anche l’ultimo e più sporco dei peccatori ha una possibilità di redenzione. Una redenzione che passa per la strada impolverata e sporca di sangue del centro di Warlock.

 

(Oakley Hall, Warlock, trad. di Tommaso Pincio, Edizione Sur, 2016, pp. 685, euro 22)

“La terra dei figli”
di Gipi

Dopo il meritato successo del precedente Unastoria, candidato al Premio Strega 2014 e i precedenti graphic novel dal taglio autobiografico e intimistico, scopriamo con La terra dei figli (Coconino Press/Fandango, 2016) un Gipi, alias Gian Alfonso Pacinotti, inedito e inaspettato.

Una nebbia, una foschia riempie di mistero questo volume e ci obbliga a osservare con attenzione le scene per entrarci dentro, per carpire quello che a un primo sguardo non si afferra, non è immediatamente visibile.

L’autore sembra andare a caccia di epifanie, di inciampi, di momenti insoliti che raddensano la vita intorbidendola, di faglie che aprono squarci nel tempo, inaspettati, di tunnel senza un lampo di luce all’orizzonte ma pieno di ombre sguscianti, e tutte diverse.

 La terra dei figli si presenta come un racconto lineare nel suo sviluppo, ma incredibilmente profondo grazie ai diversi piani di significato che presenta.

La storia è ambientata in un futuro distopico in cui un evento catastrofico ha completamente cancellato dal mondo i segni della civiltà, lasciando che la razza umana regredisse a uno stato primitivo. Si tratta di un mondo incolore, in bianco e nero, privo di sfumature e sentimenti che possano dirsi umani.

Non ci sono espliciti riferimenti al mondo di ieri, nel senso che ognuno è strappato a sé stesso e ovunque si avverte il senso di un esilio assoluto, di una lacerazione irrimediabile, di uno spaesamento inguaribile.

La terra dei figli parla dunque dei sopravvissuti a una misteriosa fine del mondo che ha costretto un padre e due figli adolescenti a una vita anfibia. Tra l’acqua e le palafitte, i tre vivono in una cruda realtà post-industriale, dove il cibo scarseggia, i cani sono prede e il baratto è l’unico modo di procurarsi beni di prima necessità.

La fame e una natura estrema e spietata influiscono prepotentemente sulle relazioni umane, scatenando la violenza e brutalità primitiva umane, l’homo hominis lupus, una lotta per la sopravvivenza senza pari.

La barbarie dei tempi primordiali ha semplicemente cambiato tempo e faccia. Il mondo di Gipi assume sempre più l’aspetto di una caverna di spettri criminali nella quale non vi è posto né per la poesia né per l’amore né per la religione.

Oltre al Padre e ai due figli, mai nominati, la Terra è popolata da un gruppo di fanatici religiosi, i Fedeli, riuniti attorno alla figura dell’Uberprete, seguaci disposti a credere e obbedire senza alcuna spiegazione.

Siamo in un mondo dove i morti non vanno toccati, perché tossici, dove un padre cresce i suoi due figli in maniera dura e rigida, imponendogli una serie di parole proibite perché siano forti abbastanza per il mondo in cui dovranno vivere, dove le donne sono ridotte in schiavitù o considerate streghe, e dove la generazione più anziana ricorda il mondo in cui la vita era “normale” e le persone sapevano leggere senza però trasmetterlo alle nuove generazioni perché la conoscenza è potere e dunque è pericolosa.

I figli, intanto, vagano ciechi e ignoranti di quel che è successo, di cosa ha cambiato per sempre il loro mondo e di come fosse il mondo prima. Le tensioni distruttive dei figli con il Padre favoriscono una violenza irrazionale ma spesso intenzionale, che nullifica le conquiste umane e civili. Unico motore di un’azione e una trama minimaliste è il desiderio di conoscere il contenuto del diario tenuto dal Padre una volta morto.

L’elementarità dell’intreccio si traduce in un paesaggio semplificato come un puzzle per bambini, formato da pezzi a incastro dai contorni netti. Non ci sono immagini a tutta pagina, né colorazioni acquerellate, i dialoghi sono semplici e scarni al limite dell’afasia.

Con quest’ultimo graphic novel Gipi ha davvero stupito senza perdersi in esercizi di stile, rendendo così al meglio, con l’essenzialità del tratto, la possibile cruda realtà futura.

 

(Gipi, La terra dei figli, Coconino Press/Fandango, 2016, pp. 288, euro 19,50)

 

“Slowdive” Degli Slowdive

Pochissimi gruppi riescono a identificarsi esattamente con un genere. Uno di questi, certamente, sono gli Slowdive. Perché Gli Slowdive sono lo shoegaze e lo shoegaze è gli Slowdive. Provare a definire lo shoegaze nel suo significato più puro significa provare a definire gli Slowdive. Più dei My Bloody Valentine, troppo eccentrici per essere racchiusi in un unico genere, più dei  Ride che osarono una svolta tanto interessante quanto confusa con Carnival of Light (che gli Slowdive non avrebbero mai scritto), più dei Pale Saints che si affacciarono fortemente verso l’indie. E oggi, a distanza di vent’unanni dall’ultimo lavoro, Pygmalion, la band di Reading torna con Slowdive.

Come per quel ramo del post-rock sviluppatosi anche a seguito dello shoegaze, dove ritroviamo dei perfetti esempi di gruppi identificabili in tutto per tutto con un genere (gli Explosions in the Sky e i This Will Destroy You fanno quel ramo del post-rock e sono quel ramo del post-rock), così  tra shoegaze e Slowdive possiamo fare un’equazione sovrapponendoli senza problemi.

Questo, per forza di cose, porta con sé dei limiti palesi. Perché se negli anni Novanta lo shoegaze era la conseguenza di un processo storico musicale partito dalla new wave e dai Cocteau Twins, avere oggi tra le mani Slowdive  sembra trovarsi di fronte solo a un’enrome dose di nostalgia e nient’altro. Perché lo Shoegaze di fatto è morto nel giro di pochi anni  soppiantato dal Brit-Pop. Perché in ventuno anni la musica ha subito dei cambiamenti notevoli, espandendosi e contaminandosi differentemente rispetto a due decenni fa.

Slowdive è in tutto e per tutto un album vecchio e che oggi risulta un tentativo di aggrapparsi a un passato che non c’è più. Oltre a questo, inoltre, portandosi appresso il problema che lo shoegaze ha sempre avuto insito: quello di dire la stessa cosa allo stesso modo.

Un altro gruppo che avrebbe potuto identificarsi in un genere, i Low con lo Slow Core, nel corso degli anni ha saputo mutare,  cambiando il modo di approcciarsi  e di auto intendersi, per cui da I  Could Live in Hope a C’mon è possibile non etichettare il gruppo americano esclusivamente come Slow Core. Gli Slowdive, come nel pieno della loro carriera, invece, continuano a muoversi in maniera unilaterale. Esiste quella strada e nessun’altra.

“Slomo”, “Star Roving” e “Don’t Know Why” sembrano uscite dalle registrazioni di Just for a Day, ma suonate oggi da gente più stanca. Così come “Everyone Else” e “Go Get It”. Brani presi e allungati, chitarre dilatate, voci riverberate al punto tale da ricordare un sussurro che non ha fine. Le componenti sono sempre le stesse.  Quando ascolti gli Slowdive sai esattamente cosa ascolterai. Non c’è altra possibilità, perché identificandosi così prepotentemente in un genere, l’unica possibilità è quella di scrivere esattamente la stessa cosa, in continuazione.

Un paio di brani forse si distaccano leggermente, continuando comunque a orbitare attorno alla stessa cosa. “No Longer Making Time”, che e  sembra un pezzo scritto dagli Interpol  durante le registrazioni di Turn on the Bright Light e l’ultima traccia, “Falling Ashes”, caratterizzata da un pianoforte e un’atmosfera che lontanamente ricordano le musiche per aeroporti di Brian Eno.

Il forte paradosso è che è un lavoro coerente, ma che sfocia in un unicuum che fa risultare questo unicuum come qualcosa da cui si dovrebbe fuggire.

L’ascolto di Slowdive è alimentato unicamente dalla nostalgia. È difficile relazionarsi  a questo disco se non così. Un peccato, perché  gli Slowdive erano una perla negli anni Novanta. Ma i cinque di Reading hanno deciso di risvegliarsi da un letargo di ventun’anni scrivendo un album di cui si poteva fare a meno, offuscando il ricordo che si aveva di un gruppo che ha avuto un peso specifico importante nella musica pop degli ultimo venticinque anni.

(Slowdive, Slowdive, Shoegaze)

Poster di tutto quello che vuoi su Flanerí

“Tutto quello che vuoi”
di Francesco Bruni

Francesco Bruni, uno dei migliori sceneggiatori del cinema italiano, si conferma anche regista intelligente con il suo terzo film, Tutto quello che vuoi, racconto di formazione e confronto sorretto da due protagonisti particolarmente ispirati, il giovane Andrea Carpenzano e Giuliano Montaldo, uno dei registi più importanti del cinema civile italiano.

Alessandro è un ragazzo di Trastevere poco più che ventenne. Nella vita non fa molto oltre stare al bar con gli amici, infilarsi in piccoli problemi di droga e violenza e disprezzare il padre, la sua bancarella al mercato e la sua fidanzata dell’Est. L’inerzia inutile dei suoi giorni viene interrotta quando è costretto, in cambio di pochi euro, ad accompagnare Giorgio, un anziano malato di Alzheimer, un tempo poeta celebre e celebrato, nelle sue passeggiate pomeridiane. In poco tempo si crea con il vecchio smemorato un legame di complicità e fiducia che li porterà sulle tracce di un tesoro perduto e sulla strada della maturità.

A sei anni di distanza dal suo esordio alla regia con Scialla!, Francesco Bruni torna con Tutto quello che vuoi a raccontare una storia ricca di sfumature private nascoste nelle pagine della sceneggiatura. Se il suo primo film si concentrava sull’incapacità di un padre di comunicare con il figlio, prendendo come modello di riferimento il rapporto con suo figlio Arturo (presente in un ruolo minore e tra i membri della tanto chiacchierata Dark Polo Gang della trap romana), per questo nuovo lavoro l’ispirazione arriva dalla vera malattia del padre. Bruni ha il merito enorme di aver scelto di raccontare l’Alzheimer senza insistere sul dramma, concentrandosi su quei momenti di straziante e disarmata comicità che la perdita della memoria, nelle sue fasi iniziali, può regalare.

Il confronto si svolge tra quelli che potrebbero essere nipote e nonno, eliminando i padri, punto intermedio ma inutile in questo percorso di formazione. Perché Alessandro e gli altri ragazzi che il regista vuole mostrare sono il prodotto del tempo in cui viviamo, alimentati da nichilismo e assenza di valori, trincerati in silenzi astiosi. I padri non li capiscono, o sono assenti. È solo dalla distanza che può venire la comprensione e l’assoluzione, la distanza del tempo e di una mente un po’ sbiadita, in grado di confondere il presente e il passato, la Playstation e la realtà, e di vedere oltre la superficie piatta dietro cui si nasconde Alessandro e gli altri come lui.

Mantenendosi sempre sulla rotta della leggerezza, Bruni unisce il percorso di formazione con il racconto dell’Italia di oggi e di quella che rischia di essere domani. La memoria è il valore da recuperare e da difendere, anche quando sembra andare via, anche quando appare confusa. Non è una difesa a tutti i costi del tempo passato, non è un richiamo al valore dello studio, è un appello al recupero della dimensione umana, della voglia di impegnarsi, di difendere ogni singolo momento, pensiero, regalo come il bene più prezioso del mondo. È con questo spirito che il film di Bruni riesce a diventare anche una specie di avventura in stile Goonies, un on the road nel tempo.

È tutt’altro che privo di difetti, Tutto quello che vuoi, nella rappresentazione del mondo giovanile, sia quello dei trasteverini autentici che degli “alternativi” del Cinema America, nella tendenza all’accumulo di drammi che dovrebbe dare profondità ai personaggi e invece appiattisce, in certi scarti psicologici da fiction Rai scritta male. La grandezza del Giuliano Montaldo smemorato, però, in compagnia del giovane Andrea Carpenzano, riesce a dare la giusta dignità a un copione che ha il pregio di proporsi comunque come un modo diverso, intelligente e raffinato, di fare commedia nel nostro cinema.

C’è un valore fondamentale che arriva da Tutto quello che vuoi, dalla lezione senza morale che il vecchio Giorgio insegna ad Alessandro e ai suoi amici. Nasce da un aneddoto, da un momento fortuito che fa emergere l’amicizia del poeta con Sandro Pertini e quel rifiuto, di tanti anni prima, di diventare senatore a vita. Non c’era vanità o paura in quel no, c’era la scelta consapevole di mantenere la propria libertà. La libertà vera, non quella del non fare niente, ma dello scegliere di fare sempre, di non sedersi, di non rimanere lì a far passare le cose. Tutti i ragazzi, in un modo o nell’altro, cambiano e crescono insieme a Giorgio. Perché la storia e le storie possono ancora dire tanto, basta trovare il modo giusto di raccontarle.

(Tutto quello che vuoi, di Francesco Bruni, 2017, commedia, 106’)

Giacche nere

1
«Michele, che c’è?»
Il tono della domanda del mio capo non è di quelli da metterti con le spalle al muro, anzi, direi che è persino confidenziale, eppure ho una involontaria contrazione allo stomaco: «Che c’è? Niente. Tutto okay, capo».
«Sbrigati a darmi quelle cavolo di pratiche, così me le tolgo dai piedi».
Le pratiche, già. Sono tre. Non molte, a dire il vero. Ciò vuol dire che gli inefficienti irrecuperabili, in questi ultimi tempi, sono diminuiti in modo considerevole.
Guardo il mio capo come il topo guarda il gatto. Eccolo là: frangetta bionda su volto pacioso, occhi azzurri slavati, percorsi da bagliori inquietanti. E l’immancabile giacca nera, simbolo della sua condizione di efficiente di primissima categoria. È lui che ogni trimestre mi appioppa il temuto voto, il quale, sia pure con valenza tripla, viene assommato a quello assegnato da amici, vicini di casa, negozianti e, novità recentissima, estranei. Anche quest’anno, il giudizio emesso dalla Commissione giudicante è stato di 42/100. Come dire che ci posso sempre mettere una pezza, ma che questa pezza può strapparsi da un momento all’altro, facendomi ritrovare in mutande.
«Mi domandavo…»
Il mio capo sghignazza: «Da quando in qua sei in grado di domandarti qualcosa…»
Faccio orecchie da mercante e cerco di ritardare il momento in cui gli metterò le pratiche in mano, così da permettere all’inefficiente irrecuperabile di cui non conosco il nome e il cui il destino è temporaneamente nelle mie mani, di giocare col suo figliolo ancora una mezz’ora, rinviando l’inevitabile internamento in una delle molte Case per il recupero dell’efficienza, dalla quale difficilmente uscirà col cervello a posto.
«Be’, mi domandavo se questi inefficienti irrecuperabili riusciranno, un domani, ad avere un lavoro, una casa, una famiglia».
«Ma che belle domande ti fai. Gli inefficienti l’hanno avuto un lavoro, una casa, una famiglia. E se non hanno saputo tenerseli, peggio per loro. Abbiamo già affrontato l’argomento mille volte, no?»
Annuisco.
«E cosa ti dico ogni volta?»
Lo so bene cosa mi dice, che gli inefficienti irrecuperabili sono dei malati, come i gay, come coloro che aborrono la famiglia, che non vogliono figli, che non accettano serenamente la morte fra atroci dolori, contravvenendo alle direttive della Chiesa.
«Malati, è chiaro?» Ribadisce con un’occhiata truce. «Su, dammi ’ste pratiche».
Mi alzo e gliele porto.
«Oh, bene. Oggi ho una gran voglia di lavorare. Starei qui tutta la notte, tutta la settimana… Un mese intero starei qui. Mentre tu, Michele, me ne sono accorto che non vedi l’ora di uscire».
«Be’, in effetti sono stanco».
«Sei stanco?» Scuote la testa non riuscendo a celare il suo disprezzo: «Con la disoccupazione che c’è, tu ti permetti di essere stanco. Devi stare molto attento, Michele».
Deglutisco a fatica.
«Togliti dalle palle, adesso».
«Grazie, capo», dico, ed esco dall’ufficio.

Vado a casa, e subito Ness, la nostra dolcissima capra, mi si fa incontro e mi lecca la mano. Questa bestia è l’unico mio affetto. Già, perché con Eleonore le cose non vanno troppo bene.
«Buona, Ness», dico, e vado in cucina, dove trovo Eleonore sprofondata sul divano, tutta presa a guardare il telegiornale, nel quale si parla delle tremende difficoltà in cui si trova la nazione, e degli sforzi inauditi che fanno quei poveracci di ministri per renderci la vita sopportabile.
Mi chiedo perché, nonostante le infinite discussioni e liti, Eleonore si ostini a guardare una simile spazzatura; ma ormai ho rinunciato a capire e a discutere, tanto che a volte mi siedo anch’io davanti al televisore e fingo interesse per compiacerla. Povera Eleonore! Da quando ha avuto quell’incidente alla catena di montaggio… Si è ripresa alla grande, ma è sempre nervosa.
«Ciao Ele», le dico dandole un bacio sulla fronte impiastricciata di creme.
Scommetto che ancora una volta ha provato a fare una torta, ma con i due moncherini che le sono rimasti deve aver avuto qualche problema.
«Ciao», fa lei, lo sguardo incollato allo schermo.
Mi tolgo la cravatta e mi tuffo sul divano, appoggiando la testa sulle cosce di Eleonore.
«Michi, mi dai fastidio».
«È che ho voglia di te, Eleonore».
«E io no».
L’ennesimo rifiuto.
«Ho una certa famuccia», dico alzandomi di scatto e pescando dal frigo la solita anguria.
Eleonore mi guarda storto: «Sempre l’anguria?»
«E cosa vorresti, l’aragosta?»
«Magari».
«Accontentati dell’anguria. Cavolo, Ele. Sono tempi duri, lo sai».
Solo dieci anni fa, prima della catastrofe economica che ha gettato sul lastrico milioni di persone, le cose andavano diversamente. Non dico che fossimo ricchi, ma non eravamo preoccupati.
Col groppo in gola taglio l’anguria a metà, e metto ogni metà nei rispettivi piatti. Dopodiché mangiamo: con la tv accesa, naturalmente. Eleonore sostiene che la televisione la fa stare meglio, che le è necessaria. Le piace un mondo vedere le giacche nere. Le adora tutte, specie se a indossarle sono i nostri rappresentanti governativi. Mentre stiamo finendo di mangiare, sento il mio arnese pulsare di un desiderio che non verrà soddisfatto. L’unica consolazione, oltre a una tazza di caffè, è quella di fumare sigarette da due soldi.
Sono lì che fumo, guardando un programma idiota e pensando che da un momento all’altro correrò in bagno a masturbarmi, quando Eleonore mi si siede vicino vicino: «Michi!»
«Sì?»
«Cosa ne diresti se domani sera invitassimo i Colaianni?»
Trattengo a stento un porca puttana, no, i Colaianni no, lo sai che non mi piacciono per niente. Entrambi scrivono su un giornalucolo locale. Morti di fame come noi, anziché accettare la loro misera sorte, camminano a due spanne da terra, convinti che il loro lavoro sia il più bello e il meglio pagato di questo mondo. Tutt’e due magri da far paura, con le guance scavate, ma con un sorriso talmente largo e falso, che sembra dovuto a due chiodi conficcati ai lati delle labbra.
«Ma, perché proprio i Colaianni?»
«Mah, mi sono simpatici e pensavo che la loro compagnia facesse piacere anche a te».
«Simpatici? Ma quando mai, andiamo!»
«Me l’hai detto più di una volta».
«Ti sbagli di grosso».
«No, non mi sbaglio. Comunque è inutile discutere».
«Infatti».
«Be’, io vado a dormire. Domani devo lavorare».
«Ma domani è domenica».
«Embè, lo sai che vado a lavorare, no?»
«Di’ piuttosto che vuoi andare a lavorare. Per prendere due o tre punti in più sulla scheda di valutazione di fine anno».
«Be’, io voglio arrivare a cinquanta. Non come te, che è una vita che sei inchiodato a quarantadue. Comunque piantiamola lì. Non ho voglia di discutere».
Appena Eleonore va a letto, Ness viene vicino a me.
Le prendo il muso con le mani: «Ness, tesoro. Sei tu il mio unico amore, vero?»
Lei non mi risponde. Io l’accarezzo, poi filo a letto: domani sarà una giornata dura.

2
La domenica non c’è divertimento, per me. Non ci sono partite di calcio, né passeggiate in campagna, né tiro al piattello: c’è solo il mio lavoro. O meglio, la mia missione. In un locale striminzito, privo di finestre, dove l’unica nota di colore è costituita da alcuni poster di Balzac, Brad Pitt, Edward Norton, Gandhi e gli U2, conduco la mia lotta segreta contro le giacche nere. Sto cospirando e questo mi fa sopportare tutte le schifezze e i soprusi del mondo, e le lamentele di Eleonore.
In cosa consiste la mia cospirazione? È presto detto: cerco di salvare quanti più inefficienti possibile dall’internamento in quell’inferno che sono le Case di recupero per l’efficienza. Come ci riesco? Falsifico carte di ogni tipo, mi sbatto per rendere recuperabili gli irrecuperabili, fornisco passaporti per quei paesi del Sudamerica dove l’efficienza non è il credo assoluto della nazione.
Di solito, alla porta del mio bugigattolo si presentano giovani disperati, ma anche donne: casalinghe, disoccupate, imprenditrici in crisi; e poi vecchi, sì, vecchi che sognano di chiudere gli occhi per sempre con un voto che sfiori l’agognata sufficienza. Da qualche anno a questa parte, fra i miei clienti, annovero sempre più ragazzini, che pur di ottenere i miei servigi sono pronti a sfoderarmi sotto al naso un revolver. Io non m’impressiono e falsifico tutto ciò che c’è da falsificare: patenti, carte di identità, licenze di commercio, certificati di laurea, pagelle scolastiche.
Sto per dare inizio al mio lavoro, quando sento bussare alla porta.
Di fronte a me si presenta una bella tipa, poco più che ventenne, fresca, capelli morbidi e due seni poco più grandi di due coppe di champagne. E gambe lunghe, affusolate, di gran lunga più belle di quelle di Eleonore.
«Mi chiamo Ludmilla», si presenta lei. «Sono un’amica di… di Gualtiero».
Fortunatamente Gualtiero è un amico: «Cosa posso fare per te?»
Imbarazzata, si raschia la gola, poi dice che deve falsificare una relazione di condominio. Fisso quei begli occhioni e chiedo se per caso le hanno dato cinquanta su cento.
«Meno», dice lei con un sorriso nervoso. E mi allunga un papiro zeppo di timbri e di firme. Gli do un’occhiata, ma non vedo nemmeno cosa c’è scritto. Il seno di Ludmilla attrae il mio sguardo più di una calamita.
«Puoi fare qualcosa?» mi chiede lei mordicchiandosi un’unghia.
«Certo. Ma devi darmi un paio di giorni. Lasciami il tuo numero, non si sa mai».
Ludmilla segna il numero su un foglietto, poi mi regala il suo sorriso più grato: «Prenditi tutto il tempo che vuoi. Solo, ti prego, fa’ un buon lavoro».
Il solito appello! Come se non fossi il migliore falsificatore di documenti in circolazione! Le dico di non preoccuparsi. Lei mi chiede quando potrà tornare: «La settimana prossima». Restiamo intesi e se ne va.
Ho la forte tentazione di abbracciarla, ma mi ripeto quel che so già: con le clienti è meglio non avere complicazioni sentimentali. Se si cade nella rete di certe complicazioni, si mette a rischio il proprio lavoro, e tanto vale mettere un cartello alla porta con su scritto: scusatemi tanto, ho mancato al mio impegno. Mi vergogno come un cane. Scusatemi ancora, e buone vacanze.
Ma stavolta sarà dura dominarmi.

3
Mi sveglio con un gran mal di testa.
Chiamo Eleonore per chiederle se sa dove sono le aspirine, ma non risponde nessuno. Per forza. Eleonore è già al lavoro. In compenso chi è che si affaccia sulla soglia della stanza? Ness, la nostra capra.
«Buongiorno bella».
Lei attacca a belare, il che non è proprio il rimedio di cui ho bisogno.
Butto giù i piedi dal letto e mi accorgo di essere in ritardo. Che fare?
Telefono al capo per avvisarlo che non posso andare in ufficio. Prende male la mia defezione.
«Fingi, Michele, tu fingi!», sbraita. È invasato: «Tu vuoi fottermi. Ma guarda che con me hai sbagliato indirizzo. Io ti tengo per le palle, hai capito?»
«Vengo oggi pomeriggio, sto male da cani».
«Non ti credo».
Dico che sono a pezzi, che non so se lui può capire.
«Fanculo», dice lui, e chiude la comunicazione.
Torno a sdraiarmi sul letto. Ness mi viene vicino e mi appoggia il muso sul petto. Le do una carezza, poi la prendo per la collottola e la trascino nel bagno, dove comincia a belare. Mi metto i tappi nelle orecchie, e faccio colazione.
Non riesco a non pensare a Ludmilla. Pensando a lei mi eccito subito, ma stavolta non mi sparo una sega. Mi dico che ho una moglie. E Ness. Insomma, una famiglia. Cavolo, come sono depresso. Per riprendermi mi attacco al Penbridge, il modulatore di umore. Metto l’assesta-umore su livello tre, programma Ripresa rapida da cadute di umore.
Per fortuna, dopo qualche minuto i nervi si distendono. Ma Ludmilla non riesco a togliermela dalla testa. Verso mezzogiorno, grazie al Penbridge, ho recuperato quel buonumore sufficiente a farmi alzare dalla sedia per farmi la barba. Vado in bagno e Ness esce come una palla da schioppo. E si allontana da me.
«Che c’è, piccola?»
Lei bela. Deve essersela presa perché l’ho chiusa in bagno. Le passerà.
Mangio un boccone, e corro alla fermata, dove due minuti dopo arriva l’autobus, che mi porta dritto al lavoro.

4
Il capo non mi frusta né mette in atto manovre di ritorsione. Si limita a dire: «Ah, sei qui, finalmente».
La mole di lavoro che c’è all’Ufficio casi disperati deve avergli fatto capire l’importanza della mia presenza. Lavoro come uno schiavo, ma ho la testa da un’altra parte. Spasimo dalla voglia di inviare un messaggio a Ludmilla, di dirle che l’ho amata fin dal primo momento, che sarei pronto a fuggire con lei, anche se non so dove: io sono al verde, come del resto lo sono milioni di miei concittadini, e se andassi con Ludmilla in qualche altro paese non farei altro che arricchire le falangi di disoccupati, facendo dei sit-in davanti agli uffici di collocamento, e strappare un improbabile sussidio.
Mi conviene dominare questo desiderio, se non voglio mettermi nei guai. Qualsiasi mio messaggio potrebbe venire intercettato. E se le giacche nere, o i ministri della Chiesa – che con le giacche nere, si sa, vanno a braccetto – scoprissero che sono un fedifrago, me la passerei maluccio. La mia valutazione crollerebbe sotto i 30/100 e per me si aprirebbero le porte di una clinica.
Quando, dopo sei interminabili ore di lavoro, torno a casa e mi trovo a tavola con Elenore, sono tentato di dirle come stanno le cose, ma siccome lei non mi guarda in faccia, preferisco rimandare. Visto che non sono molto allegro, mi attacco al mio aggiusta-umore, al che Eleonore osserva perfida: «Hai di nuovo tirato fuori quel coso?»
«È un apparecchio di prim’ordine, che ti aiuta a ritrovare il buonumore. Credo che dovresti provarlo anche tu. Saresti meno acida».
«Non cercare di coinvolgermi nei tuoi problemi. Io non ho bisogno di certi marchingegni. Sei tu che non riesci a adattarti alla vita. Pensavo che la presenza di Ness potesse aiutarti, ma sbagliavo».
Nonostante l’influsso benefico del Penbridge, mi altero di brutto.
«Lascia stare Ness. Cosa c’entra lei?»
«C’entra. Se nemmeno lei ti aiuta, vuol dire che sei irrecuperabile».
«Pensa per te. Il mio Penbridge mi aiuta, eccome se mi aiuta. Sopporto meglio la vita».
«Mi fai pena. La vita è meravigliosa e tu non te ne accorgi».
«Vita meravigliosa? Lavorare dodici, quattordici ore al giorno al servizio delle giacche nere, tu la chiami vita meravigliosa?»
«Giacche nere? Ma ti accorgi che stai delirando? Quelle che tu chiami giacche nere sono gli stessi che si stanno facendo un mazzo così per raddrizzare le sorti del nostro paese. Vivono soltanto per rimettere in carreggiata la nostra economia, e non sono certo quei diavoli che tu vuoi vedere».
Sentire mia moglie dire queste falsità così assurde, mi fa male.
«Okay, il visionario sono io. Non voglio più discutere. Parlare con te rende inefficace il lavoro del Penbridge, perciò fammi il favore di farti gli affari tuoi».
«Crepa».

5
Tre giorni d’inferno durante i quali ho dovuto stringere i denti per non cercare Ludmilla. Altri attacchi parossistici di desiderio li ho avuti quando, la sera, sono uscito dall’ufficio e l’idea di tornare a casa, anziché consolarmi, aumentava il mio scontento, accendendo il desiderio di Ludmilla, e insieme a esso i dubbi, le paure.
Il peggio è venuto quando, venerdì sera, arrivo a casa e chi ti trovo? I Colaianni, naturalmente. Faccio buon viso a cattivo gioco. Stringo la mano a Walter, e a Glenda, sua moglie, una biondina niente male, coi capelli a caschetto e le gambe un po’ secche ma sensualmente nervose.
Chiedo a cosa dobbiamo questa bella sorpresa, ma visto che i coniugi Colaianni hanno il solito sorriso inchiodato sulla faccia, interviene una entusiasta Eleonore: «C’è una bella novità».
«Ah sì?»
«Dobbiamo festeggiare l’avanzamento di Walter. Pensa, è stato promosso».
«Cos’è, lo hanno fatto caporedattore?»
«Ma no, gli hanno dato settanta, capisci? Settanta! Ormai, è praticamente un efficiente», sorride maliziosa, «o giacca nera, come dici tu».
La notizia non mi stupisce. È chiaro che Walter Colaianni, essendo un portaborse delle giacche nere, sia stato promosso.
Walter mi stringe ancora una volta la mano. Guardo la maglietta grigia che indossa, e le vistose bretelle blu che servono solo a tenergli su i calzoni, anch’essi grigi e incredibilmente larghi.
«Vedrai che un giorno ce la farai anche tu, anche se per gli impiegati è un tantino più dura. Sai com’è, i dipendenti pubblici non sono visti di buon occhio».
Dico che lo so, e mi chiedo se non sia meglio fingere un malore, dire che devo andare in farmacia e rifugiarmi nel mio covo, dove forse è rimasta ancora una traccia del profumo di Ludmilla. Ma Eleonore mi prende sottobraccio: «Vieni, caro, sediamoci a tavola, ché è pronto».
Ci sediamo. Eleonore ci serve arrosto con bacche fritte.
Subito Ness fa capolino alle mie spalle.
«Michi, da’ una bacca a Ness», dice Eleonore.
«Non ci penso nemmeno. Credo abbia già mangiato, no?»
Eleonore alza gli occhi al cielo: «Sei insopportabile, quando ti ci metti».
«Su, ragazzi, non bisticciate», ci esorta un’amorevole e sorridente Glenda.
«Non è facile, Glenda. Non hai idea di che cosa voglia dire avere a che fare ogni giorno con la negatività fatta persona. È così bello vivere, e lui avvelena la vita».
Ness si prende una bacca dal mio piatto. Al che le do una scoppola fra capo e collo.
«Michi. Ma cosa diavolo fai?» urla Eleonore, che ha deciso di mettere in scena i nostri problemi di convivenza. All’improvviso scoppia a piangere, e intanto bofonchia: «Lo vedete anche voi, no, con che bel tipo ho a che fare. Ma adesso ti avverto, Michi, e lo faccio davanti ai nostri amici: io non ce la faccio più a vivere in questo modo».
«Forse Michi è un po’ esaurito», concede Walter. «Passare le carte è un lavoro duro, Eleonore. Se hai la fortuna di scrivere, come facciamo Glenda e io, dai voce a un mondo tuo, cresci, ti espandi, non so se mi spiego. A passar carte tutto il santo giorno, invece, non partecipi, ti avvilisci. E poi, tieni conto che tuo marito lavora all’Ufficio casi disperati. Dico bene, Michi?»
Annuisco.
«È un lavoro duro», continua Walter: «Io davvero non so come fai a resistere. Dodici ore di lavoro, e tutte quelle pratiche da sbrigare, con quella marea di voti. Tutto per vedere chi è inefficiente e chi no».
«E tu non lo sei più», cinguetta Eleonore. All’improvviso applaude coi suoi moncherini che fanno uno strano rumore, clac clac.
«Sono così felice per te, Walter. Settanta su cento. È meraviglioso. Michi, non trovi che sia meraviglioso?»
No, non lo trovo. Per cui sto zitto.
«A cosa stai pensando, Michi?» Chiede Glenda.
«E secondo te un tipo del genere è capace di pensare?» Sibila Eleonore.
«Abbiamo proprio intenzione di rovinarci la serata?» Chiede un inappuntabile Walter.
Eleonore sfodera un sorriso splendente: «Hai ragione, caro. Scusaci». Guarda Glenda, e le posa il palmo della mano sulla sua: «Scusaci anche tu, Glenda».
«Ma niente. Sono cose che capitano a ogni coppia sposata».
«A… anche a voi?» chiede Eleonore.
«Be’, a noi no. Noi siamo molto felici. Soprattutto dopo la promozione di Walter. Vero, Walter? Fagli vedere cosa ti sei comprato».
Walter sparisce. E dopo un minuto riappare, con indosso una splendida giacca nera, che deve essere costata un occhio della testa.
«Glenda! Chiudi tutte le tende!» Invoca Eleonore, con un tono che potrebbe far pensare che qualcuno di noi si trovi in serio pericolo.
«Perché chiudere le tende?» chiede Glenda, sorpresa.
«Ma per la Giacca Nera, no? Lui, Walter, non lo è ancora, no?»
«Non lo è ancora, ma può portarla tranquillamente», la rassicura Glenda, non senza orgoglio.
Walter è in piedi, con indosso la sua giacca nera, e come d’incanto sulle labbra gli sboccia il solito sorriso ebete delle giacche nere, che è una versione più estasiata e gongolante del suo solito sorriso fissato coi chiodi.
«Se non vado ancora in ufficio con questa, è perché non voglio dare nell’occhio. Ma è vicino il giorno in cui potrò portarla anche per andare allo SpendiMeno».
«È davvero magnifica. Complimenti!» Dice Eleonore, ammirata.
«Adesso valla a rimettere nel sacchetto. L’abbiamo comprata ieri, e volevamo farvela vedere», dice Glenda con lo stesso tono di chi ha appena mostrato un gioiello dal valore inestimabile.
Sono nauseato.
Walter torna fra noi, e proprio in quel momento squilla un cellulare.
«È il mio», dice, e risponde. Subito sul suo volto si disegna un’espressione accigliata. «Ciao capo. A cosa devo questa chiamata? Come? Ma no. Oh santo cielo. Chris, non chiedermi questo adesso. Sono in compagnia di amici. Non puoi mandare qualcun’altro? Tutt’e due? Vuoi dire io e Glenda?»
Walter ci guarda e scuote la testa.
Eleonore mi lancia uno sguardo astioso, come se avessi combinato qualcosa che l’ha fortemente contrariata.
«Chris, lo sai che non dico mai di no, che sono sempre disponibile. Ho come ospiti questi amici molto cari, e che figura farei se… Capisco, capisco. Okay, verremo. Anche Glenda, sì sì. Saremo sul posto fra non più di un quarto d’ora. Avrai un servizio coi fiocchi, Chris. Ci vediamo domattina».
«Che c’è, Walter?» chiede Glenda.
Walter ci guarda contrito: «Cosa ti dicevo, Eleonore? Questo lavoro mi toglierà la vita. Dobbiamo andare subito via. Per un servizio. Una cosa grossa. Un ministro che sosteneva l’insostituibilità della famiglia ha ucciso moglie, figli, suocera, nipoti. Un massacro».
«Non preoccuparti per noi, Walter», dice Eleonore, «il lavoro è lavoro».
«Eh già. Ragazzi, non sapete quanto mi dispiace. Era così bello trascorrere una serata con amici, e invece dobbiamo correre alla svelta. Sono mortificato».
«Scusateci, davvero», dice Glenda, che in fretta e furia s’è infilata un giubbottone tipo missione in Antartide.
Da questo momento in poi tutto si svolge in modo accelerato, come se fossimo i protagonisti di un film muto. Io sono contento che i coniugi Colaianni se ne vadano. Una manna dal cielo questa chiamata improvvisa per Walter e consorte!
Chi è nera invece è Eleonore. Con Walter e Glenda si mostra dispiaciuta, li bacia e li abbraccia, e dice loro pazienza, ragazzi, sarà per un’altra volta, a presto. Ma appena sono usciti mi vomita addosso una sequela di insulti: «Tutta colpa tua, idiota. Ci hanno scaricato, non ne potevano più di noi. Quella che hanno ricevuto era una telefonata fasulla».
«Non essere paranoica, Ele. Era una chiamata di lavoro, lo si capiva benissimo».
Eleonore mi guarda con disprezzo.
«Povero idiota! Ma come fai a stare in questo mondo? I Colaianni non ne potevano più di noi, di te soprattutto, dei tuoi musi. E quando Walter ha tirato fuori la sua splendida giacca nera, l’avrebbe visto anche un cieco che morivi di invidia».
«Ah sì?»
«Sta’ zitto, cretino. I Colaianni non ne potevano più, Glenda lo ha chiamato col suo cellulare, e Walter ha fatto la sceneggiata. Ma non li biasimo. Avrei fatto anch’io la stessa cosa. Ci hanno scaricati. Abbiamo perso gli unici amici che avevamo».
«Ce ne faremo degli altri».
Eleonore lancia uno strillo e guarda il soffitto della cucina: «Chi? Dimmelo! Nessun amico, avremo. E tutto per colpa tua. E adesso ci daranno una votazione che abbasserà la nostra media, capisci? Tu rischi di diventare un inefficiente irrecuperabile, e forse io me la caverò per il rotto della cuffia. E tutto per colpa tua!» E scoppia a piangere.
«Trovo la tua reazione esagerata, faresti bene a usare l’aggiusta-umore», le suggerisco.
«Vaffanculo, idiota».

6
Sono di nuovo nel mio covo. Finalmente. Solo qui, fra le mie scartoffie, mi sento a casa mia. Ancora con l’impermeabile addosso do un’occhiata alle pratiche che ho falsificato, fra le quali c’è quella di Ludmilla. Poi, visto lo sporco che mi assedia da ogni parte – più che altro fuliggine, dovuta all’inceneritore che sorge a non più di cinquecento metri da questa stanzetta – mi tolgo l’impermeabile e passo lo straccio sulle sedie e sulla scrivania, e in ultimo lavo per terra. Sono lì che sfrego quando sento una voce inconfondibile: «Michele», dice.
Mi volto. È lei, Ludmilla. Il viso etereo, gli occhi chiarissimi.
Gesù, quanto mi piace! Per lei metterei a repentaglio ogni cosa. Anche i miei 42/100. Ma sì. Chi se ne frega di tutte le regole sulla famiglia, l’adulterio e compagnia bella. Contengo a fatica il mio desiderio di abbracciarla e le dico che sono felice di vederla.
Lei tace. E con voce afona dice solo: «Michele, io…»
È in quel preciso momento che entrano due tizi che potrei scambiare quasi per modelli divise nere. Ma non c’è alcun dubbio, sono poliziotti.
Afferro per le spalle Ludmilla, e mi metto davanti a lei per proteggerla.
«È lei Michele Cantarella?» mi chiede uno dei due.
Dico di sì: «Perché?»
«Venga con noi, glielo spiegheremo alla centrale, il perché».
Mi volto verso Ludmilla, ma lei evita il mio sguardo. Sembra mortificata.
In testa ho un casino pazzesco. No, non può essere. Balbetto: «Ludmilla, non dirmi…»
In quel momento capisco e mi precipita il mondo addosso. Il mio cuore annaspa in cerca di sangue che chissà dove si è andato a ficcare.
I due uomini dalle divise nere mi portano via come un delinquente qualsiasi.
Alla centrale c’è un’aria di gelo ovunque. Le divise nere hanno modi di fare terrificanti. Vengo trascinato davanti a una scrivania di acciaio, dietro alla quale è seduto un tipo di età indefinibile.
«Ci dica ciò che ha da dirci, così non perdiamo tempo».
Tergiverso, cerco di depistarli. Ma quando mi chiedono del mio lavoro di falsificatore di documenti, di cosa mi proponevo di fare, be’, a quel punto ho la sensazione che se non rispondo mi spaccheranno qualcosa che mi farà molto male.
Dovrei resistere? Sarei in grado di resistere? No, ultimamente mi sono fiaccato parecchio. Non ho più fatto ginnastica, né pesi, né alcun tipo di moto. Ho messo su un po’ di pancetta. E poi le conosco, le divise nere. E so che non avrei scampo. Perciò spiffero tutto.

7
Sono davanti a un giudice.
Strano, ho anche un avvocato: hanno voluto darmelo per forza. Così non potrò lamentarmi che i miei diritti non sono stati rispettati.
Comincia il dibattimento. Prende la parola il piemme che inizia a elencare un’infinita serie di capi di accusa. Alzo un braccio perché vorrei fargli notare che ha sbagliato persona, ma il mio avvocato mi fulmina con un’occhiata e mi chiede se sono pazzo: «Tenga giù quel maledetto braccio, vuole peggiorare la sua situazione?»
Non apro bocca e mi disinteresso del processo. Tanto, faranno di me quello che vogliono.
Dopo una mezz’oretta di dibattimento, il giudice si ritira per pochi minuti, quindi rientra in aula, e legge la sentenza. Contrariamente alle mie previsioni, non mi mandano in una Casa per il recupero dell’efficienza, no. Io, come sottolinea il giudice fissandomi con quei suoi occhi da corvo, sono peggio di un irrecuperabile, io sono un delinquente, un pericolo per la società. Per me c’è solo il carcere duro.
«È stato fortunato, mi creda». Dice l’avvocato, raccogliendo le sue scartoffie. «Sarà una nuova esperienza. E poi ci rimane sempre l’appello».
Capisco, dico, guardandomi intorno, nella speranza di vedere Eleonore. Ma non c’è. Si vede che ha avuto di meglio da fare. E Ness? Cosa farà, Ness? Rimpiango i suoi belati.
Lascio l’aula e raggiungo il carcere.

8
Ho due compagni di cella: solo che non indossano la divisa a strisce. Vestono la camicia nera. La loro presenza qui me l’ha spiegata il direttore del carcere, il dottor Grund, un nanerottolo antipatico che quando parla sputacchia: ho bisogno di una raddrizzata. Saranno quei due a rendermi il carcere più o meno duro. Dipende da me.
Faccio garbatamente notare che devo ancora giocarmi la carta del processo di appello, e il dottor Grund dice: «Ah, lei ci spera? Bravo, fa bene. Sappia che se cambiasse idea, se dimostrasse di essersi pentito, be’, il Processo di appello potrebbe esserci piuttosto alla svelta. In caso contrario…» Mi fa un sorrisetto e se ne va.
I due tizi in camicia nera mi fanno visita un paio di volte la settimana. Ogni mattina, in genere prima di farmi la barba, entrano nella mia cella, mi chiedono un formale come va, e cominciano a malmenarmi, a prendermi a ciabattate in faccia, in modo che non si vedano i segni. «Non meriti altro, bel tomo. Basterebbe che ti ravvedessi, e quelle che tu stupidamente chiami giacche nere mostrerebbero molta comprensione nei tuoi confronti. Il nostro primo ministro è la persona più comprensiva di questa terra. Cosa ne diresti di rilasciare un’intervista al tuo amico Walter Colaianni? Potresti dirgli che cominci ad avere dei dubbi su ciò che hai fatto e detto in passato».
Dico di no. Loro ridacchiano e dicono che sono una testa dura, ma che col tempo mi ammorbidirò.
Hanno ragione loro. A furia di stare a pane e acqua e di prendermi ciabattate in faccia e sulle reni, nel giro di un paio di mesi non sto più in piedi. Poco prima di Natale mi fanno dono di un bastone, a dimostrazione della natura comprensiva dei miei carcerieri. Ricevo una cartolina di auguri del mio capo in cui mi dice che in ufficio si sente la mia mancanza. Ricevo anche una lettera di Walter:

Come va, testone? Perché continui a darti la zappa sui piedi da solo? Quando lo ritieni opportuno fammi un fischio e io farò un salto da te per farti un’intervista che costituirà il primo e decisivo passo verso la liberazione.
Intanto ti faccio i migliori auguri di buon Natale
.

Ricevo una lettera anche da Eleonore:

Scusa se ti scrivo dopo parecchi giorni, ma c’è voluto un po’ per digerire la verità che sono venuta a sapere sul tuo conto. E chi se l’aspettava di avere un marito falsificatore di documenti? Essere un nemico giurato delle giacche nere ha un senso? Le giacche nere sono persone fantastiche, superiori a noi che navighiamo fra l’inefficienza recuperabile e quella irrecuperabile. Capisco quanto possa esser dura, per te, accettare questo dato di fatto, dal momento che psicologicamente sei rimasto un ragazzino.
Povero caro, immagino quanto te la passerai male dove sei adesso. Probabilmente uscirai di senno, il che sarà un bene. I poliziotti non mi hanno detto granché sul tuo conto. Mi hanno permesso di scriverti, assicurandomi che in un modo o nell’altro ti faranno pervenire la mia missiva. Se sono stati di parola, non mi è dato sapere. Io mi auguro di sì. Altrimenti cosa scrivo a fare?
Sappi che questa è l’unica lettera che ti scrivo. Voglio il divorzio. Primo perché non accetterei più di vivere accanto a chi mi ha nascosto a lungo la verità, secondo perché adesso ho un altro uomo. Si chiama Enrico, ed è un inefficiente recuperato, ossia un 60/100. Insomma, vale più di te. È una persona cara. Fa il macellaio, mi rispetta, chiava come un dio, non come te che ultimamente stentavi a venire, e credo proprio che avremo quel figlio che tu non hai mai voluto.
Oltre che a me, Enrico vuole molto bene alla nostra Ness. La accarezza e la porta a passeggio. Ness sembra contenta, e penso si sia rassegnata a non vederti più.
Ti auguro di sopravvivere, caro Michi, e, se ci riuscirai, di farti una ragione di com’è questo cavolo di mondo. Mi dispiace che tu non abbia il tuo modulatore di umore: so che ne avresti grande bisogno. Non scrivermi perché non ti risponderei.
Un abbraccio,
Eleonore

Appena finisco di leggere la lettera, provo un po’ di dolore, non tanto perché non rivedrò più Eleonore, o perché si sposerà con un inefficiente recuperato. Che cavolo me ne frega di quello che farà lei? No, il dolore che provo è per Ness: non mi poserà più il muso sulle ginocchia, non mi verrà più fra i piedi per chiedermi di farla uscire. Quell’Enrico la farà fuori, e la darà da mangiare a Eleonore, e la scema lo guarderà sdilinquita e dirà: “Oh, Enrico, erano secoli che non mangiavo una carne così tenera”.
Può darsi che questa lettera sia un trucco, ma io non ce la faccio più. Non mi riconosco più allo specchio per via di tutte le botte che ho preso. Per di più hanno creato un discreto buco anche nella mia memoria.
Dico ai miei compagni carcerieri che accetto le loro condizioni. Si complimentano con me, mi danno delle pacche sulle spalle. Un’ora dopo sono davanti a Walter Colaianni che ha la faccia tosta di dirmi che ho una bella cera.
«Taglia corto», dico. Poi dico che nella mia vita ho sbagliato tutto, che la nostra società è la più bella che si possa desiderare e che sono stato davvero uno stupido a contestarla.
Walter annuisce e guarda quel gioiellino di registratore che ha posato a meno di un metro da me, al che io proseguo dicendo che le giacche nere, contrariamente a quanto ho sempre creduto, sono delle gran brave persone, le quali hanno a cuore non l’accrescimento del loro conto in banca, come uno stolido del mio calibro poteva a prima vista pensare, né il desiderio malato di popolarità, bensì solo e soltanto le sorti del nostro amato paese. Dico poi che la rovina del paese non è dovuta all’evasione fiscale perpetrata a ogni piè sospinto da imprenditori, medici, dentisti, avvocati e compagnia cantante, ma solo e soltanto da quei furbetti che sono i dipendenti pubblici.
Su precisa domanda di Walter rivelo poi i miei gusti in fatto di televisione. Dico che i reality show sono dei programmi necessari, che mettono addosso la voglia di vivere. Confesso poi che, quando ascolto il papa, mi commuovo. Ma che piango addirittura di gioia quando mi capita di vedere o di sentire la giacche nere, a Bruxelles, che vogliono solo e soltanto il nostro bene.
«Per il momento può bastare», dice Walter. «Hai fatto la cosa giusta, amico. Sei ancora giovane, e se anche tua moglie ti ha lasciato, puoi rifarti una vita».
In cella non entra più nessuno a picchiarmi. Adesso mi portano sigarette, whisky e vagoni di tiramisù.
Quando, pochi giorni dopo, mi presento davanti al giudice per il processo di appello, non mi reggo in piedi nemmeno con l’aiuto del bastone.
Il giudice dice che sono libero, che posso essere riconsegnato alla società, ma che il mio vecchio lavoro me lo scordo, visto che ho l’interdizione ai pubblici uffici: «Ah, un’ultima cosa: è necessario che venga controllato da una équipe di psichiatri. Ha qualcosa da dire?»
Scoppio a ridere fino alle lacrime.
Il giudice mi fulmina con un’occhiata, poi si rivolge a due divise nere: «Toglietemelo di torno».

9
Sono fuori. In tutti i sensi. Fuori dal carcere, e fuori di me, fiaccato dagli eventi. Per fortuna ricordo ancora il numero dell’autobus che mi porterà a casa. Mi siedo su uno dei tre sedili di ferro, incastrati nella pensilina, e aspetto. Aspetto un bel po’, e quando finalmente l’autobus arriva, salgo e mi affloscio nel primo posto libero che trovo.
Dopo una quindicina di fermate, arrivo nel mio quartiere. Ma ho un colpo al cuore. La gente, la mia gente, quella che vedevo ogni giorno, quella con cui di tanto in tanto scambiavo qualche parola, mi guarda torva, con malcelato disprezzo. Mi guardo il petto per vedere se per caso sulla maglia che indosso c’è marchiato il numero zero. No, non c’è. Ma è come se ci fosse, lo so.
Di corsa guadagno casa mia. Non c’è nessuno. Sul tavolo di cucina trovo un’altra lettera.

Questa lettera è per te, Michi. Probabilmente non la leggerai mai perché ti avranno fatto fuori. Ma se per caso riuscissi a venire via da quell’inferno dove ti hanno cacciato – so che le tenterai tutte per venir via: nella tua follia paranoica, che ti porta a lottare contro i mulini a vento, sei ostinato: è l’unica virtù che ti riconosco. Per il resto sei un disastro – e ti trovassi a metter piede in questa catapecchia, desidero che tu non stia in ansia per  Ness e me. Non cercare Ness: qualcuno l’ha fatta secca. Tu sai che razza di gente circola nel nostro condominio-alveare. Ho sofferto molto per la mancanza di Ness, e so che anche tu ne soffrirai.
Io sono partita col mio adorato Enrico, che si rivela ogni giorno di più un fior d’uomo. Lo amo pazzamente, e quando sono fra le sue braccia dimentico in che mondo viviamo. Per il male che ti voglio, auguro anche a te qualcosa del genere.
Eleonore

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Povera Ness. Ammazzata da un macellaio. Era chiaro che sarebbe successo, visto la crisi che c’è e il prezzo della carne. E quella cretina di Eleonore non l’ha capito.
Mi guardo intorno e ovunque trovo strati e strati di polvere. Riuscirò a toglierla? Oppure soccomberò a essa? Diavolo, che tristezza! Dritto come un automa vado alla credenza. La apro ed eccolo lì il mio modulatore di umore! Eleonore deve esserselo dimenticato. Un vero colpo di fortuna! Lo prendo, mi ficco gli elettrodi in testa e lo programmo su Recupero rapido di speranza.

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Ho recuperato un umore discreto, ma mi sento parecchio confuso. Quando incontro una bambina con la mamma, mi intenerisco e, carezzandola sulla testa, le dico: «Ciao Ness, come va?» Chissà perché, la mamma mi guarda inorridita e scappa con la sua figlioletta.
Un paio di mattine alla settimana vado al Centro malati mentali. Non siamo in tanti, per fortuna. Quasi tutti parlano per conto proprio. Io devo ancora stabilire questo particolare legame con me. E, grazie al mio Penbridge, mi auguro di rimandare il più possibile quel giorno.
Quando arriva il medico che si occupa del mio caso, mi chiede il solito come va. Io non parlo, e a volte piango un po’. Il medico scuote la testa e mi rifila una decina di scatolette, che io lascio cadere in un sacchetto di plastica. Quindi ringrazio e lo saluto.

Alcuni giorni fa, la buona sorte ha accarezzato la mia porta. Il postino mi ha consegnato una raccomandata che conteneva un invito a partecipare a un corso di manichino per negozi. Ho aderito. La valutazione della prima settimana è stata: Può fare di meglio. Il che mi inorgoglisce. Sì, posso fare di meglio. Se dirò sempre di sì ai miei istruttori quando mi chiedono di andare a fare la spesa per loro, se dirò in tutti i negozi che il ponte sullo stretto di Messina è un’opera che solo un grandissimo statista può aver pensato, se dichiarerò ai quattro venti che l’eutanasia è una immane sciagura, se andando da un medico non mi opporrò al suo desiderio di non farmi la fattura, se tutte le mattine dirò le preghiere, se proporrò il mio nome come portatore di croci nelle sagre paesane, forse, dico forse, un domani, magari non tanto lontano, un 30/100 riuscirò a strapparlo.

 

Andrea Guano è nato a Genova nel 1948. Ha svolto un’enormità di lavori. È stato segnalato due volte al Premio Calvino. Ha pubblicato un racconto su Colla, e l’incipit di un romanzo su Cadillac.

“E due uova molto sode”
di Giovanni Nucci

Dato che il volume si inserisce nella collana “Piccola biblioteca della letteratura inutile”, E due uova molto sode di Giovanni Nucci (Italo Svevo, 2017) è un libro che va letto assolutamente. Non fosse altro per rimanere stupiti di come le uova possano essere il filo conduttore di quello che è, o produce l’animo umano. Nucci, che è primariamente scrittore per bambini, oltre che poeta, si diverte a congegnare un lavoro spiazzante e colto, ironico e riflessivo, onirico e pratico.

«L’uovo ha di per sé un che di nascosto: è il contenitore di se stesso, ma non rivela ciò che contiene (o meglio, se contiene veramente ciò che dovrebbe: un pulcino o il suo disavanzo). E questo lo rende inafferrabile. Così per quanto appaia essenziale e molto semplice, in potenza già racchiude tutta la complessità dell’universo, in ogni sua futura possibilità. È al contempo il creato e la creazione», scrive Nucci che snocciola Caldarelli ma si diverte a tenere assieme anche Giorgio Manganelli, Carlo Emilio Gadda, don Sturzo e Giacomo Matteotti.

E due uova molto sode è un libro, insomma, che si diverte a creare rendicontazioni culinarie, laddove sono le parole a cucinare situazioni paradossali e quindi – proprio per questo motivo – doppiamente reali. Nucci quindi dipinge storie simboliche come le frittate alle cipolle di Guido Alberti, l’invenzione delle uova Benedict, la menzogna e le uova in Federico Fellini, il soufflé e il declino dell’occidente nelle cartoline di Bartolomeo Polidoro, la lezione sulla messa in scena di Norton Bernard sull’uovo in Hamlet che si tiene nel Senese.

C’è molta patafisica in questo volume che è sì un pamphlet sulla struttura stessa dell’essere (come concetto) e dell’avere (come struttura dell’essere), ma la cura con la quale Nucci si propone di procedere nell’argomentare i suoi racconti rasenta un divertissement che trascende genere e stile e fa di questo libro una fiaba. Una fiaba per adulti, filosofica, verrebbe voglia di dire.

Se la scrittura diventa ciarliera, il metodo di scrittura è analitico e molto alto. Inutile, mutuando il senso dal titolo della collana della casa editrice, e quindi assolutamente necessario, se si vuole capire cosa possa – per esempio – essere passato nella testa di Carmelo Bene che (a differenza di quanto avviene nel libro) ha messo in scena il capolavoro shakespeariano: in queste pagine Nucci porta avanti ciò che la materia è e può diventare.

In parte usciti sul supplemento domenicale di Il Sole 24 Ore, questi sette pezzi sembrano poter dimostrare insomma, come accaduto già per Tommaso Landolfi con il suo Un paniere di chiocciole (scritti allora apparsi sul Corriere della Sera), che il resoconto giornalistico e la grande scrittura possono convivere alla grande. E che giornalismo e narrativa possono diventare così «due uova molto sode».

 

(Giovanni Nucci, E due uova molto sode, Italo Svevo, 2017, pp. 118, euro 14)

Edizioni di Atlantide: libri fuori dal coro

Ritrovarsi un libro addosso. Adocchiandolo di fretta, come una caccia a cronometro. Comprarsi una storia in un atto predatorio, compulsivo, epilettico. Perché tutti ne parlano. Perché troneggia su una pedana imperiale, con sconti lampeggianti e borsette in omaggio. Ritrovarsi un libro addosso come fosse un insetto. E ignorarne il motivo. Poiché in verità s’ignora l’oggetto. La complessità condominiale di ciò che racchiude.

Questo è quello che accade. Nell’oggi dei negozi infiniti, dei mausolei commerciali in cui tutto si mescola e si maschera di buono. Questo è quello che una nuova casa editrice ha deciso di combattere. Con la propria nascita. Con le proprie scelte.

Edizioni di Atlantide, realtà romana creata nel 2015, si propone l’obiettivo strutturale di «recuperare la centralità dei testi e il senso più profondo del loro essere fuori dal tempo oltre ogni meccanismo produttivo consolidato». Rimettere il libro al centro. Degli occhi, delle mani, del mestiere di narrare. Così sostiene Simone Caltabellota, editor, scrittore e direttore editoriale di Atlantide.

Imbarcarsi in altre strade, rifiutare il sistema megalitico, di catene dominanti o del grande rosicchiatore virtuale chiamato Amazon. Atlantide non compare nelle grandi librerie, ma decide un rapporto fiduciario con chi vende i suoi volumi, un circuito indipendente dove «creare un canale preferenziale» con il pubblico, che sappia dove procurarsi i suoi autori e la sua qualità. Un appuntamento in cui letture e lettori si annusano e s’intercettano. E gli acquisti si effettuano direttamente sul sito Atlantide o tramite abbonamento.

È quindi questa la sua forza. Investire nella sfida di alzare l’asticella. D’incarnare un’idea mitica, proprio come fa il suo nome. Non piegarsi ai dettami omologanti, ai principi piallati delle copertine fatte in serie, dei titoli differenziati da un apostrofo e proporre la sfrontatezza del sentiero non battuto.

Dieci uscite ogni anno, sempre inferiori alle mille copie, dissotterrando grandi libri del passato, come testimoniavano già i primi tre volumi: Filosofi Antichi del grande e dimenticato Adriano Tilgher, uno dei pensatori più liberi e originali del primo Novecento; Ritratto di Jennie, capolavoro praticamente ignoto di Robert Nathan, uno dei maestri del romanzo americano; e Tomaso di Vittorio Accornero, preziosa graphic novel ante litteram. Anche se è possibile identificare all’interno del sito contenitori di narrativa, saggistica, poesia e illustrati, lo stesso Caltabellota precisa che non ha senso «distinguere generi diversi in differenti collane, se l’idea editoriale che li accomuna è sufficientemente forte».

Sapere chi si è può bastare per presentarsi ai lettori e convincerli del proprio valore.

Il catalogo, perciò, è in piena adolescenza e in attesa che fioriscano altri abitanti, segnaliamo quelli che più incarnano la visione di questo progetto:

L’outsider di Colin Wilson. Concepito e scritto in condizioni di vagabondaggio denso, il libro è una carrellata di menti eccellenti attraverso cui l’autore delinea la frontiera d’azzardo del libero pensiero. Perla underground rimasta per l’appunto troppo tempo sommersa.

Il mondo sul filo di Daniel Galouye. Distopia claustrofobica. Una società vittima dell’escapismo asfittico e delle sue ipnosi. Un libro ossessivo, prepotente, profetico.

Indipendenti, liberi, visionari. Così si definisce la squadra di Edizioni di Atlantide. Indubbiamente impavidi.

E noi siamo qui, ad aspettarci che ogni mossa confermi il suo ritratto. Ad aspettare ogni volta il sapore delle storie.

“Le pietre”
di Claudio Morandini

«È vero che la pietra a volte si mostra, anch’essa, agitata. Negli ultimi stadi, allorché, diventata ormai ciottolo, ghiaia, sabbia, polvere, non è più capace di recitare la sua parte di contenente e di supporto delle cose animate». Il poeta Francis Ponge non ha dubbi: le pietre si muovono. Abdicano e, pare, animate da forze a noi ignote, migrano; lasciandoci sgomenti: di fronte al sasso fattosi mobile, anche il baffo altero del filososo Martin Heidegger avrebbe preso a vibrare. Fu lui, del resto, a stratificare il cosmo terreno, sentenziando che la pietra – simbolo atavico dell’inerzia materiale – è “povera di mondo” e abita laggiù, ben lontana dall’essere supremo, colui che i mondi li costruisce (l’uomo, ovviamente). Per quanto possa essere mobile, rapido e piuttosto autonomo, il sasso resta comunque privo di tutto e non è animato, per così dire, da alcuna «soggettività petrosa» (come dice Felice Cimatti). Esso resta, in definitiva, un muto – anche se migrante – testimone. È scenario, fondale, paesaggio, diorama. Scenografia semovente. Pietra di paragone.

Nel nuovo romanzo di Claudio Morandini le pietre sono innumerevoli. Sono ovunque. I villaggi montani gemelli di Sostigno (a valle) e di Testagno (a monte) hanno subito, per anni, ciò che un personaggio chiama «cataclisma al rallentatore». Infatti, la quiete – antica, lenta e ciclica – di villaggi e valligiani non è stata scovolta da un disastro naturale, bensì da un evento misterioso, al limite del sovrannaturale. Niente di improvviso dunque, bensì una lenta quanto inesorabile e inquietante apparizione di sassi e ciottoli, che ha inizio nel salotto di una coppia di città trasferitasi in montagna, Agnese ed Ettore Saponara. L’invasione litica è talmente diffusa e incessante che, pietra dopo pietra, ogni paesano ne viene coinvolto, ogni attività ne è interessata; la storia di Sostigno e Testagno cambia radicalmente, dando vita a un nuovo presente. Chi lo abita sono i giovani, coloro che narrano questa storia composita, ricca di dicerie, storie da osteria e ricordi collettivi. Col passare del tempo, ci racconta Morandini, ciò che in paese chiamano “lo strano” è divenuto la realtà di tutti i giorni, al punto che le pietre appaiono anche in cielo: «ormai anche le nuvole sembrano sassi: sono grigie, rossastre, rotolano nel cielo invece di sfilacciarsi o sovrapporsi, si accumulano fino a togliere la luce».

Il nuovo romanzo dell’autore valdostano si muove lungo due binari: uno formale (il punto di vista collettivo) e l’altro stilistico (il registro tragicomico). Le pietre – basali questa volta, e ben solide – costituiscono le fondamenta di un romanzo il cui centro è il cambiamento. La venuta dei sassi cambia sia la comunità sia i singoli; i sassi sono un agente infestante che Morandini utilizza come calmo e spietato degradatore sociale della comunità montana e come perturbazione psicologica dei singoli (causano ansie, timori e paure nei vari personaggi). Ma non tutto è tragico: l’autore riesce ancora una volta, grazie alla delicatezza e allo humor della sua penna, a mettere in evidenza alcuni punti di luce fra un’invasione di pietre e l’altra. Ma c’è anche – ed è doveroso sottolinearlo, perché alla fine della lettura è ciò che rimane come retrogusto – una certa inquietudine. Infatti, come già detto, non è qualcosa di strisciante, invisibile ed etereo che ha provocato l’alterazione dei comuni gemelli e delle vite dei loro abitanti; no, è qualcosa di materiale, concreto. La «soggettività petrosa» altro non è che la manifestazione reale di una crisi che noi, nella vita, non riusciamo a spiegare; una crisi sociale, temporale e generazionale.

«Smarrita lontano dal blocco fondamentale» scrive ancora Francis Ponge a proposito della pietra, essa «rotola, vola, rivendica un posto in superficie, e allora la vita si ritira lontano da quelle distese smorte dove volta per volta la disperde e la raccoglie la frenesia della disperazione». Quante volte sappiamo che lì, nel bel mezzo del nostro salotto, ci sono pietre? Invisibili ai nostri occhi oppure tenute nascoste di proposito, perché siamo consapevoli dei disagi che creano a noi stessi e agli altri. Come già in Neve, cane, piede, Morandini esplora la tendenza dell’essere umano alla chiusura, all’isolamento, all’incomprensione reciproca. Di fronte all’ennesimo giornalista impiccione che visita Sostigno e Testagno, gli abitanti ammettono che non se ne andranno, e che nonostante da quelle parti si stia consumando “Il dramma della Montagna”, loro continueranno a vivere in quei luoghi, testardi abitatori del loro posto. Anche se il mondo e le persone del mondo li stanno cambiando, anno dopo anno, quella è la loro natura, ormai alterata, ma pur sempre la loro natura.

 

(Claudio Morandini, Le pietre, Exòrma, 2017, pp. 187, euro 14,50)

“YASДYES” di Ekat Bork

In quell’Estremo Oriente più a oriente della Cina stessa e a settentrione della Corea del Nord c’è una striscia di territorio russo, un vero e proprio “Far East” dell’immensa Siberia, un litorale che si apre sul Mare del Giappone proprio di fronte alle isole dell’arcipelago nipponico. Proprio qui, in questa parte lontanissima ed estrema della cosiddetta Eurasia, nella cittadina di Ussurijsk, a due passi da Vladivostok, la San Francisco della Russia che ha dato i natali anche al mitico Yul Brynner, è nata e ha vissuto fino a dieci anni fa Ekat Bork, la musicista e cantante autrice di Veramellious.

A sedici anni, la giovanissima Ekaterina Borkova decide di lasciare la sua famiglia e l’amata nonna per partire alla volta di San Pietroburgo attraverso la leggendaria ferrovia transiberiana. Nell’antica Capitale degli Zar, tra strade e metropolitane, Ekat sopravvive per un periodo come artista di strada e dopo un lungo viaggio, intenso, ricco di avventure e di incontri approda nel 2007 nella Svizzera italiana, nel Ticino, dove vive tuttora. Qui la Bork scopre e arricchisce la sua vera identità musicale, quell’ambiente sonoro tra rock e elettronica introspettiva che oggi con il nuovo album YASДYES perfeziona e articola dopo l’esordio sognante, favolesco e catartico di Veramellious del 2013, disponibile qui.

Chiaro e scuro, dolce e tagliente sono le facce della stessa medaglia della personalità e della musica di Ekat Bork. Tanto dolce e piacevole è Ekat nel suo modo di porsi, di raccontarsi e di presentarsi con quel divertente e tenero accento con cui parla (molto bene) l’italiano, quanto dark e oscuro è il suo nuovo album YASДYES appunto, che tradotto dal russo significa “Io sono qui adesso”.
Il dark side di Ekat, il lato oscuro della musa di ghiaccio siberiana. L’altra metà della luna di una donna, di un’artista adrenalinica e allegra, ma allo stesso tempo complessa e cupa. Musica elettronica, ricca di synth, sonorità digitali, ritmiche drum and bass e dub che ricordano quelle di un’altra icona nordica come l’algida Björk simile (ma non uguale, per carità) perfino nel cognome o Laurie Anderson, la performer musa e sposa del grandissimo Lou Reed. Un’anima rock anche, che tra macchine pulsanti, percussioni e chitarre richiama a tratti alla mente anche un altro mito femminile inarrivabile: Pj Harvey.

Nei quattordici brani che raccontano sfaccettature, aneddoti della sua ancora giovane ma intensa vita c’è una energia impetuosa, dilaniata ed intrigante. Si passa dalla cupissima “Fear” accompagnata anche da un video quasi horror nella messinscena, alla meravigliosamente dolce e intima “When I Was”, con la bella voce metallica di Ekat in primo piano, finalmente nuda e libera da effetti. La nenia elettrotribale di “Zhazhda” risuona ipnotica nella testa e – così come la sognante e leggiadramente dance “Happiness” – le due canzoni potrebbero essere dei perfetti ed eleganti biglietti da visita radiofonici della nostra Ekat.

Canzoni autobiografiche e scritte nei suoi viaggi tra Italia, Svizzera, Polonia, Germania, Inghilterra e Portogallo, che verranno presentate live nei prossimi mesi in un tour europeo tra Italia, Inghilterra, Svizzera e Germania, e che vedranno la musicista siberiana in scena in uno show ricco di suggestioni visual e accompagnata una band di sette elementi. Su tutti con Ekat sul palco la splendida voce dell’ex Mr Big Eric Martin (ricordate le popolarissime “To Be With You” e “Wild World”?) e l’iconica chitarrista di Michael Jackson, Jennifer Batten.

L’uscita del nuovo album di Ekat Bork, YASДYES (release cd fisico 20 maggio 2017), prodotto dall’etichetta indipendente GinkhoBox con il suo manager Silvio Cattaneo e i produttori musicali Francesco Fabris e Sandro Mussida, è stata preceduta dallo “scandaloso” video di “Red Sektor”, da “Happiness”, e adesso dal nuovo singolo “Fear”.

(YASДYES, Ekat Bork, Elettro-Pop)