Edizioni e/o: l’editoria è questione di scelte

Sono mesi che giriamo. Tra sapienti colonie di siti. Villaggi di parole recintati dentro un titolo, lastricati di storie da vendere. Perché è vero, le case editrici si raccontano soprattutto attraverso i testi che scelgono, folgorazioni trasversali per vicende e scritture. Incontri senza uscita sfociati in matrimonio.

Ma oltre all’insieme dei suoi libri, un editore si narra attraverso le sue origini, l’ossatura degli inizi, i nervi delle strade che hanno soffiato il giusto impulso, la profusione di volti e di idee scivolate nel sangue di un preciso progetto. Conoscere come non disseta soltanto un interesse pettegolo, ma consente di capire perché, di costruire un’immagine tutt’altro che epidermica. E non sempre accade di sapere facilmente.

Il caso di e/o, la realtà editoriale di questo mese, fortunatamente, sa dirla lunga. Almeno quanto la sua nascita, quanto i ricami di aneddoti e tappe che hanno istoriato la sua crescita. Quanto una linfa che sa nutrire e nutrirsi di un intorno mai scontato.

Quanto un sito che non sorvola e non nasconde nulla, ma s’impegna a condividere.

L’avventura parte da lontano, nel 1979 a Roma, figlia coraggiosa di una coppia di coniugi, Sandro Ferri e Sandra Ozzola, intenzionata a «creare ponti e aperture nelle frontiere letterarie per stimolare il dialogo tra le diverse culture». E i ponti spesso servono a non lasciare sole zone scomode, dove è facile pascolare tra gli spigoli. Il primo altrove con cui i due fondatori entrano in contatto è l’Est dell’Europa, «teatro da secoli dei giochi tragici e grotteschi della Storia». Terre arroventate, da troppa guerra fredda, da cortine di buio che a quel tempo si ha paura di toccare, anche con gli occhi di una trama. E così, esattamente come il suo popolo, anche le sue letterature all’epoca restano esiliate, tenute a debita distanza, vittime di ostracismo, strumentalizzazioni o abbondante indifferenza.

Aprire un varco diventa vitale, ossigenare pensieri e visioni con un confronto autentico. E finalmente arrivano i nomi giusti, quelli necessari: Milan Kundera che ha diretto la Collana praghese, Bohumil Hrabal, Christa Wolf, Kazimierz Brandys, Christoph Hein. Una schiera di voci pungenti, pronte a testimoniare un quotidiano difficile, uno spazio asfissiante, una finestra su un immenso lottato spicchio di mondo.

«La nostra era una scommessa allegra, ingenua forse, ma anche molto seria, che ci avrebbe portato soddisfazioni […] ma pure fatica, bocconi amari, ostilità. Una scommessa basata su un’intuizione: all’Est, oltre le frontiere; ben controllate, dietro i vuoti discorsi della propaganda comunista, dietro quelli meno colpevoli ma altrettanto fuorvianti degli ideologi dell’anticomunismo che diagnosticavano la desertificazione culturale e umana dell’Europa orientale, dietro a tutto questo c’erano donne e uomini che continuavano a vivere, a leggere, a scrivere, a fare e vedere film, a discutere, a protestare, anche ad amare e divertirsi». I primi volumi pubblicati ne sono la riprova: una monografia di Andrzej Wajda, un romanzo politico di Victor Serge (Memorie di un rivoluzionario) e i racconti di viaggio di Jan Potocki.

Correlare, annettere, offrire corpo alle alternative, come dichiara senza timore la sua identità anagrafica, quella di una doppia congiunzione. Anche e oppure. «Erano i nostri viaggi e soggiorni a Est ad alimentare questa intuizione e a fornire continue verifiche, prima ancora delle letture e prima ancora dei consigli, delle lunghe discussioni con i nostri consulenti. Viaggi e soggiorni, incontri, amicizie, un legame piccolo ma concreto che si creava tra noi (Ovest) e loro (Est), e faceva crescere in noi un senso di disponibilità a favorire il dialogo, a far conoscere l’Est, a superare l’indifferenza del pubblico e della stampa italiani».

L’attenzione si dirige poi in America, “importando” firme come quelle di Thomas Pynchon e Alice Munro; nell’ Africa di Chinua Achebe e Abasse Ndione, padri di dimensioni narrative totalmente sconosciute e infine nell’area prossima di un genere nuovo, quella del Noir mediterraneo di Jean-Claude Izzo e Massimo Carlotto. Creare e incentivare un catalogo plurale, “mulatto”, denso di incroci e punti di snodo.

Sandro Ferri, autore del pamphlet I ferri dell’editore, ha le idee molto nitide: «È nel nostro DNA di lettori alternare generi diversi di letture. Non crediamo quindi alle parrocchie dei puristi della letteratura così come non faremo mai un’editoria esclusivamente popolare».
Ecco quindi, nelle sue collane principali, come si articola il catalogo:

Assolo, graffi di narrativa, «testi di autori italiani e stranieri che scrivono per incidere nella realtà», tra cui Christa Wolf e Eric-Emmanuel Schmitt

Bill-Dung-Sroman, dedicata alle trasformazioni sociali della contemporaneità, all’adolescenza e alle sue dilatazioni.

Collana Praghese

Dal Mondo, echi da ogni angolo, con autori tra cui Svetlana Aleksievic, Gioconda Belli, Pedro Juan Gutiérrez, Etgar Keret, Yasmina Khadra, Selim Nassib, Joyce Carol Oates e Juan Manuel de Prada

Gli Intramontabili, riproposizione di titoli ancora importanti come L’uomo di fiducia di Herman Melville

Il Baleno, riservata ai più piccoli, tra cui segnaliamo Due che si amano di Wolf Erlbruch e Jürg Schubinger e Papà di Svein Nyhus

Sabot-Age, storie spinose da raccontare, come Trinacria Park di Massimo Maugeri e Undercover di Roberto Riccardi

Sharq Gharb, zona di contatto tra Europa e universo arabo, con opere italiane tradotte in lingua araba, come Io e te di Niccolò Ammaniti e Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami

Thriller e/o, fiction del crimine attenta al sociale, in cui campeggiano Jefferson Parker e Deon Meyer.

Affacciarci ai nostri prescelti a questo punto è quasi un obbligo, quello che preferiamo:

Il minotauro di Benjamin Tammuz. Parabola d’amore assoluto. Un fendente che trapassa a distanza. Spy-story spietata e straordinaria.

Di notte sotto il ponte di pietra di Leo Perutz. Ventaglio di racconti lirici nella Praga di fine Cinquecento tramati da un cantore della sua magia.

Il sole dei morenti di Jean-Claude Izzo. La vita sul bordo di Rico, del suo cuore ingiallito, del suo fondo notturno. La nobiltà del dolore di chi abita il margine.

Queste sono solo tracce, suggestioni, indizi. Il resto non prevede esclusioni.

“La trasmigrazione dei corpi” di Yuri Herrera

Una coltre di afa immobile e appiccicosa pesa sulle azioni rallentate dei personaggi di questo strano romanzo del messicano Yuri Herrera. In un’atmosfera dai contorni vagamente apocalittici, dove i negozi sono sbarrati e le strade deserte, i rari passanti proteggono bocca e naso con una mascherina: un’epidemia dalla genesi misteriosa aleggia nell’aria, veicolata da insetti avidi e dal morso contagioso. Dal clima boccheggiante emerge il Mediatore, una figura diplomatica discreta e perentoria, chiamata a trattare con cautela piccole e grandi questioni private dalle quali è meglio tener fuori la giustizia ufficiale.

Stavolta, il Mediatore si muove in un campo minato per evitare l’aggravamento di una faida tra famiglie rivali: la figlia dei Castro e il figlio dei Fonseca sono stati rapiti, ma è troppo tardi per chiederne la restituzione, visto che i due giovani sono ormai morti. Non resta che appellarsi al buon senso perché ai cadaveri della Muñe e di Romeo sia concessa la giusta sepoltura, facendoli ritornare alle rispettive famiglie.

A far da contorno alla vicenda, un corollario di protagonisti dall’etica incerta, connotati secondo il proprio ruolo sociale o un dettaglio fisico sufficiente a definirne l’identità: l’Intrattabile, il Delfino, il Menonita (che ha dovuto allontanarsi dalla sua comunità di cristiani anabattisti per un fattaccio mai chiarito), e Ñándertal, l’amico cocainomane del Mediatore che lo accompagna a negoziare per la città a bordo di un Maggiolino. Si pongono come intermezzo a questa sporca storia di contese e gelosie gli incontri di sesso clandestino del Mediatore con la Tre Volte Bionda, la vicina di casa sfacciatamente bella che quando ha un orgasmo vede colori pastello e aiuta il dirimpettaio ad accatastare in un oblio temporaneo il mondo fuori da quel condominio. Il marcio che domina la città, però, si infiltrerà gradualmente anche sotto la loro porta, e la Tre Volte Bionda al culmine del piacere finirà per vedere solo nero.

Yuri Herrera con La trasmigrazione dei corpi (Feltrinelli, 2014) scrive un romanzo dal quale nessun lettore deve uscire pulito, lavorando a creare una dimensione corrotta e pesante in cui si finisce facilmente per rimanere invischiati. Sullo sfondo di un centro urbano mai identificato racconta una storia che ha il sapore di vendette irrisolte e liquore Mezcal. Dopo La ballata del re di denari e Segnali che precederanno la fine del mondo, lo scrittore messicano chiude la sua trilogia slegata con un testo dedicato a personaggi guastati dal rancore, che sopravvivono per orgoglio in uno scenario rassegnato, desolato sul piano geografico e su quello umano.

(Yuri Herrera, La trasmigrazione dei corpi, trad. di Pino Cacucci, Feltrinelli, 2014, pp. 96, euro 12)

“Il taccuino di Bento” di John Berger

La passione per il disegno, l’impulso ad accarezzare o aggredire il foglio bianco per dare forma con linee e colori al nostro sguardo sul mondo. Passione molto comune e impulso che tutti noi, prima o poi, abbiamo sentito quasi irrefrenabile. Ma forse non tutti sanno che anche il grande filosofo olandese Baruch Spinoza, detto Bento, disegnava. Infatti pare che, oltre a tornire lenti per guadagnarsi da vivere e a scrivere opere che hanno segnato profondamente la storia della filosofia moderna, amasse anche affidare a un taccuino, mai ritrovato, la sua personale visione delle cose.

Il taccuino di Bento (Neri Pozza, 2014) è un raffinato libro di disegni e sul disegno scritto da un altro cultore appassionato, il critico d’arte e giornalista inglese John Berger. La fonte di ispirazione è proprio quel misterioso quaderno così caro a Spinoza, un’autentica molla per l’immaginazione dell’autore. Così, lungo le pagine si susseguono svariate riflessioni sull’arte del disegno e sull’atto di guardare che si intrecciano ad aneddoti e brevi racconti di esperienze quotidiane, squassate dalle contraddizioni della contemporaneità. Questo flusso di impressioni di inchiostro e colori è scandito dalle parole di Spinoza, in particolare da citazioni tratte dall’Etica e dal Trattato sulla emendazione dell’intelletto. Un dialogo in cui la ricerca espressiva si unisce a quella filosofica e lo sguardo diventa la via privilegiata per addentrarsi nel mistero delle cose: «con il passare del tempo […] noi due – Bento e io – siamo sempre meno distinguibili. Nell’atto di guardare, di interrogare con gli occhi, siamo diventati quasi intercambiabili. Deve essere perché entrambi sappiamo dove e a cosa può condurre la pratica del disegno».

In senso lato, il libro di Berger è un libro filosofico, non solo perché si avvale dei pensieri di Spinoza, ma anche perché è un libro di ricerca: quella, paziente e silenziosa, del disegnatore, volta ad assorbire frammenti di realtà, accumulare dettagli, miscelare linee e colori, capace di fare i conti con limiti ed errori finché non giunge a dare forma a un’immagine sul foglio. Un procedimento incerto, imprevedibile e capriccioso, con dentro qualcosa di maieutico: in fondo, «noi che disegniamo lo facciamo non solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di invisibile alla sua incalcolabile destinazione». Non solo, quella dell’autore è anche una ricerca morale, che si confronta con le varie forme di umanità che incontra riportandone la testimonianza, talvolta drammatica, con un tono amichevole e confidenziale: proprio come un disegno dal vero, sincero e imperfetto, senza tanti trucchi retorici.

In definitiva, quello che ci offre John Berger è un modo di interrogare con gli occhi e con le parole che non si accontenta di schemi preconfezionati e non rifiuta il disordine delle cose, accettando invece la continua sfida posta dal foglio bianco. In questo modo, la tecnica del disegno sembra estendersi anche alla scrittura: quella di Berger è infatti una prosa ragionata, certo, ma possiede quella stessa immediatezza, leggerezza e spontaneità che caratterizzano i suoi disegni.

(John Berger, Il taccuino di Bento, trad. di M. Nadotti, Neri Pozza, 2014, pp. 176, euro 20)

“Mai così vicini” di Rob Reiner

È un maestro delle commedie sentimentali, Rob Reiner, sin dal successo straordinario di Harry ti presento Sally nel 1989, divenuto un punto di riferimento rosa per molto cinema a venire per più di un motivo, per proseguire con Il presidente – Una storia d’amore nel 1995. Con Mai così vicini Reiner unisce i sentimenti a un altro tema già di recente al centro del suo cinema in Non è mai troppo tardi: la terza età e le occasioni che ancora può regalare.

Oren è stato per anni il miglior agente immobiliare della contea di Fairfield. Un’istituzione, un pezzo grosso, poi però le cose hanno iniziato a rotolare. Sua moglie si è ammalata di cancro, lui si è ritrovato a doversi prendere cura di lei mentre il figlio sapeva solo iniettarsi eroina. Quando la donna da sempre amata è morta, Oren è cambiato, si è chiuso in se stesso, è diventato ostile. La vita a Fairfield non è più possibile, si tratta di vendere la grande casa dove aveva sempre vissuto con la famiglia e poi ritirarsi in Vermont, un ultimo affare prima di cambiare vita. Quello che non può prevedere è che il figlio torni per affidargli una nipote abbandonata dalla madre che neanche sapeva di avere, che si chiama Sarah come la nonna, prima di andare in carcere per pagare una colpa che non ha ma è che facile fargli cadere addosso anche ora che si è disintossicato. Incapace di badare alla bambina, Oren trova un aiuto prezioso in Leah, vicina di casa nel complesso, di sua proprietà, in cui Oren si è ritirato in attesa del Vermont, anche lei vedova, anche lei sola, anche lei inconsolabile. I rapporti tra i due sono tutt’altro che buoni, ma poco alla volta, grazie alla bambina, si ritroveranno sempre più vicini.

Mai così vicini si infila in un sottogenere cinematografico che ha il precedente più illustre in quel Voglia di tenerezza che nel 1983 riuscì a conquistare cinque premi Oscar tra cui miglior film e miglior regia: la commedia sentimentale over 45, per adulti, per quasi anziani o per anziani. Il tema generale è che la vita riserva possibilità sentimentali anche quando non sembra più possibile, che è sempre possibile innamorarsi come ragazzini. A reggere la trama d’amore sono chiamati di solito grandi attori che sanno reinventarsi in ruoli leggeri. Ne hanno fatti tanti, di film così, fino al recente È complicato, o lo stesso Mamma mia!, per rimanere su Meryl Streep. Jack Nicholson ha saputo vincere due volte l’Oscar interpretando storie sentimentali, prima per Voglia di tenerezza, poi quattordici anni più tardi per Qualcosa è cambiato, non interamente ascrivibile al sottogenere ma con più di un elemento in comune, soprattutto nell’idea generale della rinascita attraverso l’amore.

Oren Little, il personaggio principale di Mai così vicini, sembrerebbe preparato apposta per il Nicholson da commedia. Sarà la misantropia, la scorrettezza, la viziosa pigrizia, sarà che alla sceneggiatura è stato chiamato Mark Andrus che già aveva scritto Qualcosa è cambiato. Comunque, non è Nicholson a interpretarlo. Tocca a Michael Douglas, risorto dopo la brutta malattia e al terzo ruolo in questa stagione dopo Last Vegas e, soprattutto, Dietro i candelabri. Al suo fianco c’è Diane Keaton, che torna a interpretare una cantante di locali trentasette anni dopo Io e Annie. La coppia fa il novanta per cento del film, con il suo carisma e la sua capacità di prendersi in giro con leggerezza. Leah, fragile, insicura ma forte nel contrastare l’insopportabile Little, conferma Diane Keaton in un ruolo relativamente classico nella sua carriera. Douglas, con lo spettro del paragone con Nicholson che sembra aleggiare sul film, riesce a dosare l’istrionismo per evitare il rischio dell’imitazione. Il suo Oren è sempre attraversato da una vena di dolore, dal desiderio brusco di strappare con la vita precedente, dalla casa, dal figlio che lo ha deluso, dalla nipote che gli ricorda di essere stato marito e padre.

Per il resto Mai stati vicini riesce a non insistere eccessivamente sul sentimentalismo di facile presa. Reiner e Andrus buttano dentro un po’ troppi drammi – la malattia, i lutti, la droga, gli abbandoni, le delusioni – alla ricerca di facili seduzioni sul pubblico. Niente di incredibile o indimenticabile. Offrendo una variazione su un tema noto ci si aspetta qualcosa di più della semplice prova degli interpreti – che è il minimo sindacale per progetti del genere. Mai stati vicini non riesce a offrire quel guizzo in più, la trovata briosa, la scena, brevemente, memorabile. Solo garbo, scorrettezza e confezione, niente di più dell’appena sufficiente.

(Mai così vicini, di Rob Reiner, 2014, commedia, 94’)

“Romantic Works” di Keaton Henson

A un anno di distanza dallo splendido Birthdays, Keaton Henson torna con Romantic Works. Definito da alcuni il Jeff Buckley inglese – appellativo probabilmente poco calzante, per approccio musicale,  intenti, complessità dei due artisti, e che potrebbe sminuire il londinese a semplice epigono del più famoso collega statunitense –, il giovane musicista, poeta e disegnatore si prodiga in un nuovo lavoro che ha poco a che fare con i primi due album (oltre all’appena citato Birthdays, l’album d’esordio Dear). Registrato interamente nella sua camera a Londra, Romantic Works si colloca in uno spazio altro da tutto ciò che fino a ora è stato il prodotto artistico del poliedrico inglese.

La percezione che si ha di Keaton Henson, la voce tremante e sottilissima che canta di amori perduti, di incapacità nell’affrontare la vita e le relazioni umane, dell’inadeguatezza, del tempo che scorre ineluttabile, fa spazio a un Keaton Henson che rimane in silenzio e che lascia la ribalta in maniera esclusiva ad archi e pianoforti. Al violoncello in particolare, quello dell’amico Ren Ford, giovane musicista inglese, che collabora in tutti i brani.

Ed è in questo che Romantic Works può lasciare spiazzati – oltre all’assenza della chitarra elettrica riverberata che è l’altro suo marchio di fabbrica –, nel momento in cui per abitudine la voce da sempre accentratrice sparisce per far posto ad arrangiamenti strumentali che vibrano gracili nell’aria, un’idea di complessità musicale – che comunque si rifà a strutture pop – che ha in Philip Glass e nei suoi ispiratori di sempre, Elgar e Saint-Saëns, i principali modelli. Eppure, la voce di questo neo-romantico viene sempre ricercata, per essere rassicurati, perché sublimi la propria sofferenza insieme a noi attraverso i suoi dolorosi e impercettibili ululati all’amore; fino a quando Romantic Works non prende coscienza di sé, autodefinendosi per quello che è: un lavoro di Keaton Henson senza Keaton Henson. Ed è in quel momento che lo si può guardare nella sua totalità.

La partenza è una non partenza: “Preface” sono cinquantotto secondi di strumenti che vengono accordati. Subito dopo, “Elevator Song”, brano struggente che, forse per suggestioni che provengono dalle migliaia di fobie di cui è afflitto Henson (rinomata la sua paura di salire sul palco) potrebbe essere la descrizione della sensazione di  claustrofobia derivata dal rimanere bloccati in ascensore – e ancora di più, nel momento in cui si alza l’intensità degli strumenti, il rumore dell’ascensore in picchiata fino allo schianto a terra, se in quell’ascensore ci fosse lui. La meditativa “Healah dancing” fa spazio al violoncello scuro e vibrante di Ren Ford in “Field”, una versione diurna di “Moon Trills” di Jonny Greenwood. In “Petrichor” piano e archi provano a far percepire l’odore della pioggia sulla terra asciutta, mentre “Earnestly yours” sembra l’equivalente al piano di “Sweetheart What Have You Done To Us”. Prima della chiusura con “Emissary”, inno alla propria epica individuale, “Nearly Curtains”, brano di nemmeno tre minuti in cui il piano fa da padrone.

La possibilità che Romantic Works possa risultare un album eccessivamente omogeneo è tangibile, l’impressione è che manchi quello spunto che splende in modo palese di luce propria (forse la sola “Elevator Song”) e che riesce a far brillare maggiormente tutto il resto. Ciò non toglie che sia un lavoro interessante, a tratti commovente – senza riuscire a fare un discorso profondo sulla fragilità dell’uomo come fa Birthdays – che può chiarire Keaton Henson non esclusivamente come cantautore folk intimista, ma come compositore e musicista in senso più ampio. Romantic Works è la scoperta di una zona d’ombra che potrebbe nel tempo uscire allo scoperto in maniera ancora più netta, sviluppando un discorso parallelo a ciò che finora è stato.  

(Keaton Henson, Romantic Works, Oak Ten,  2014)

“Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán”

In qualsiasi lavoro l’invidia e il sempre valido motto latino mors tua vita mea creano inevitabilmente antipatie, conflitti e discussioni.

Questo è tanto più vero in letteratura. La storia è piena dei cosiddetti “nemici di penna” che si sono scambiati insulti più o meno fantasiosi e coloriti: Robert Louis Stevenson definì Walt Withman «un grosso cane a pelo lungo, che appena sciolto il guinzaglio, dissotterra tutte le spiagge del mondo e ulula alla luna»; H.G. Wells accusò George Bernard Shaw di essere «Un bambino idiota che strilla in ospedale». Gli esempi potrebbero essere centinaia, con duelli anche ultraterreni tra vivi e morti.

Così non è stato invece fra Andrea Camilleri, il padre del commissario Montalbano, e Manuel Vázquez Montalbán, creatore dell’investigatore privato gourmet Pepe Carvalho. Anzi, le affinità erano evidenti anche ben prima di conoscersi nel 1998 a Mantova in occasione della seconda edizione di Festivaletteratura. Camilleri, recentemente insignito del Premio Pepe Carvalho 2014, ha chiamato il protagonista della sua serie di gialli di clamoroso successo proprio Montalbano, cognome assai diffuso in Sicilia ma soprattutto in omaggio allo scrittore catalano. Ne nacque infatti un intenso rapporto di amicizia letteraria. 

Da quel primo incontro, testimoniato dall’intervista fatta dallo scrittore siciliano al collega, Skira ha tratto un libricino pubblicato nella collana di mini saggi SMS diretta da Eileen Romano: Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán (Skira, 2014).

CAMILLERI: «Io non avevo alcuna esigenza di conoscere Montalbán. So benissimo che nel 99% dei casi, quando si conosce uno scrittore amato, si hanno delle delusioni terribili. Quindi, non dovendolo sposare, ed essendo già sposato, perché dovevo conoscere personalmente Vázquez Montalbán? Bastavano i suoi libri che aspettavo con ansia. Senonché mi è capitato che dovevamo incontrarci a Mantova al festival della letteratura, dove io lo avrei intervistato: tutti e due avevamo detto di sì, all’insaputa l’uno dell’altro. Senonché c’è stato un invito gentilissimo di D’Alema, che avrebbe fatto da moderatore. Credo che sia stata da parte mia la curiosità di vederlo in quelle vesti a spingermi ad accettare l’invito. Ecco, quella è stata la prima conoscenza».

MONTALBÁN: «La prima notizia dell’esistenza di Camilleri è stata una notizia giornalistica. La mia traduttrice l’aveva letto, e anch’io ho cominciato a leggerlo. Poi, l’incontro è stato sotto gli occhi del “padrino” D’Alema, la parola padrino è innocentemente pronunciata, non c’è un secondo fine. E avevo una grande curiosità di conoscere D’Alema come critico letterario. E lui ha fatto una critica letteraria di un mio romanzo O Cesare o niente, e ha dato una curiosa interpretazione, molto gramsciana, del partito come Il Principe: questo è stato un motivo di conversazione con Camilleri, questa lettura molto particolare di D’Alema. Camilleri, che è un uomo molto generoso – una generosità che non è normale in uno scrittore, e che, da narciso, lui dissimula molto bene – ha dimostrato una grande conoscenza della mia opera. È vero che la nostra è stata un’amicizia vera, condizionata dalle letture, dagli incontri, e per questo per me è un piacere essere qui e rinnovare la possibilità di parlare in pubblico con Camilleri».

In questo godibilissimo dialogo i due si intrattengono sui più disparati argomenti: dalla letteratura alla politica, dalla cucina al calcio, in un costante confronto fra le loro due creature di cui è inutile nascondere le somiglianze. Amano il cibo e la letteratura, anche se Montalbano non brucia i libri come fa l’investigatore galiziano, ed entrambi hanno un rapporto complicato con le donne.

Pepe Carvalho, poi come tutti gli investigatori, è un personaggio di frontiera: «non è un personaggio socialmente identificabile, è un outsider, e questa condizione gli permette di intraprendere un viaggio di indagine, come se fosse nient’altro che un punto di vista, quasi un percorso tecnico».

A questo proposito Montalbán cita Leonardo Sciascia, modello anche di Camilleri, che in Breve storia del romanzo poliziesco attribuiva un aspetto metafisico al racconto poliziesco: «in un certo senso il romanzo poliziesco presuppone una metafisica, l’esistenza di Dio, della grazia, di un mondo al di là del fisico. L’incorruttibilità, l’infallibilità dell’investigatore, il suo ascetismo, il fatto che non rappresenta la legge ufficiale ma la legge in assoluto, la sua capacità di leggere il delitto nel cuore umano oltre che nelle cose, cioè negli indizi, lo investono di metafisica luce».

È evidente il rammarico di non essere una mosca per poter assistere tra un registratore, alcuni sorsi di birra e immancabili boccate di fumo, a questo interessantissimo scambio di opinioni tra due mostri sacri del genere come Andrea Camilleri e Manuel Vázquez Montalbán.

(Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán, Skira, 2014, pp. 46, euro 7)

“I passanti” di Laurent Mauvignier

I passanti (Del Vecchio, 2014), titolo italiano per Ceux d’à côté, è un romanzo del 2002 di Laurent Mauvingnier, autore francese piuttosto premiato e ben considerato, non soltanto dalle sue parti, tanto dai favori dei lettori quanto da quelli degli interpreti di mestiere. Si tratta di un libro che sostanzialmente, come altri nella Francia degli ultimi tempi, mette al centro delle sue vicende narrate un brutto fatto di violenza di quelli che capitano tutti i giorni, e dappertutto. Stavolta però non si tratta di efferati ammazzamenti (come per esempio avviene in L’avversario di Emmanuel Carrère, Il banchiere di Régis Jauffret e Viviane Élisabeth Fauville di Julia Deck), ma di uno stupro: violenza perpetrata da un disadattato senza nome, dall’anima povera e dalle abitudini fisse, nei confronti di Claire, una giovane e presumibilmente dolce ragazza colpevole soltanto di aver frequentato una certa piscina cittadina.

Del fatto violento in sé, ossia dello svolgersi della terribile faccenda di prevaricazione di genere, dell’imposizione coercitiva di sgradevoli e sanguinose penetrazioni e altrettanto sgradevoli fiati sul collo, non si parla direttamente nel libro. Piuttosto gli si gira attorno in maniera moderatamente ellittica, anche elegante a dirla tutta. Lo stupro viene infatti soltanto evocato nelle pagine del libro, tramite l’alternarsi di due voci narranti (secondo lo schema battuto, per esempio, da Muriel Barbery ne L’eleganza del riccio) che vedono le cose della vita in maniera apparentemente assai distante eppure, come scopriremo leggendo, anche alquanto simile. Sicché la testimonianza dell’anonimo carnefice, nelle pagine de I passanti, si affianca a quella di una certa Catherine, vicina di casa della stessa deflorata Clarie, donna abbastanza insicura e apparentemente non molto entusiasta di stare a questo mondo.

Catherine e il carnefice, nel loro ragionare sulle cose che fanno la vita che è data da vivere agli umani, a partire dall’evento disonorevole della violenza carnale riflettono su ciò che costruisce il quotidiano, sull’essenza dei rapporti umani e sul peso dell’esistere traendone in conclusione la consapevolezza del morbido struggimento che sta nella solitudine urbana. Proprio grazie a questo alternarsi di voci, e a quanto esse ci dicono, I passanti appare come un’involontaria e mesta elegia invertita cantata all’insignificanza dello stare con gli altri, alla vacuità senza vero contatto di corpi che si amano che avvolge l’anima degli abitanti post-materialisti del nostro Occidente: gente per statuto abbandonata all’isolamento e all’emarginazione. I due narratori, come due poveri emuli di Schopenhauer metropolitani e secolarizzati, hanno soltanto una certezza che guida i loro passi nel tragitto terreno: l’essere umano è un animale molto solo, inadatto alla vita comunitaria, ai rapporti di coppia e a tutto il resto, a cui il fato ha riservato il più triste dei destini: piangere di sé, e farlo con costanza per di più. Ed è proprio in tal modo che i due procedono, nella narrazione e nella vita: come due passanti, appunto, che sfiorano i contemporanei, nascondendosi a essi e vivendo grosso modo nel sotterfugio e nel nascondimento. Così anche Clarie, la contumace violata, non può far altro che passare oltre, poiché purtroppo di soluzioni, a questo terribile stato delle cose, sembra non ce ne siano poi molte.

(Laurent Mauvignier, I passanti, trad. di Angelo Molica Franco, Del Vecchio, 2014, pp. 126, euro 13)

“La vita in tempo di pace” di Francesco Pecoraro

Certi romanzi non si possono immaginare. Anche depositando negli occhi mille acri di storie e d’ispirazione, rassicuranti scorte di sentito dire, di odori strappati ad altre pagine. Certi romanzi vanno esperiti. Testati su strada. Sono il frutto narrativo di ciò che ci attraversa, prima ancora che l’inchiostro li inchiodi.

E sono coetanei dei loro autori. La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013) ha sessantanove anni, anche se la sua pubblicazione risale a pochi mesi fa. Tanti quanti veleggiano nel nome di Francesco Pecoraro, scrittore finalista con questo titolo del Premio Strega 2014.

Suo alter ego assoluto è Ivo Brandani, ingegnere “quasi anziano” recintato nel limbo di un aeroporto egiziano, in attesa d’involarsi verso casa. Non è lì per caso, per annacquare le sue ansie nel Mar Rosso, ma per un progetto che ha dell’astruso: rifabbricare la barriera corallina, in forma sintetica. Escogitare un’imitazione dell’irripetibile, puntellare un paradosso. È lì per aspettare, senza altri imperativi. E quel ritaglio di pareti senza patria è l’occasione per snocciolare il bandolo del suo passato. E non solo il suo.

Una parentesi sdraiata lungo settant’anni, l’algoritmo di una stagione senza guerra, almeno non dichiarata. Il romanzo è tutto lì, sgorgato, custodito in un viaggio a ritroso, uno slalom di tappe esistenziali infarcito di aneddoti e visioni, del planisfero completo delle opinioni di Brandani. Dispensatore di una vera Weltanschauung. Il nerbo pulsante è il Brandani-pensiero. Che prospera ovunque.

Nell’infanzia dominata da un Padre ombra onnipresente. Padre/legge/Terra. Padre/gelo artico spalmato sullo spirito, contrapposto alla Madre abbraccio di Mare, conforto evaporato troppo in fretta a cui viene consacrata una porzione di racconto vestita da epistola. Nel tempo del lavoro, durante una biblica alluvione nella Città di Dio, con cui Roma entra epicamente in campo, senza essere mai menzionata. Gli argini tremano fino a esondare; anche quella è lotta, si guerreggia ogni giorno contro la propria impotenza, come Brandani nuovo Responsabile dell’Ottavo Distretto, che affronta disarmato la Natura pluviale, potenza divina che scroscia anche sugli atei. Istituzioni stracciate, come il piccolo preposto.

Nel tempo del riposo, immerso nell’Isola greca anch’essa innominata, preistorica purezza di rocce stuprate da troppi piedi di uomini, come se anche quella fosse battaglia, mai consensuale. Una follia a senso unico senza armistizi, nella foga di chi oltraggia i fondali per una cena di pesce. Egoismo vorace che ammala lo sguardo, anche quello di Brandani, così stanco e gonfio di immagini. L’ingegnere ormai è un deserto d’asfalto e amarezza. Il corpo del disincanto, che vuole stare comodo, che sbraita contro gli altri per qualsiasi inezia, che ha sempre nuotato nel conflitto e che nella sua ultima stagione galleggia nella rabbia del perduto, di una vita che scivola malgrado le sue mani la afferrino ancora.

Scrittura sontuosa quella di Pecoraro (anche poeta), sardonica, possente, sicuramente rara. Perfetta per dipingere la parabola del singolo e quella di una nazione, come avvenuto di recente nel romanzo di Alessandra Fiori Il cielo è dei potenti o in quello di Walter Siti Resistere non serve a niente (a proposito di Strega). C’è l’Italia smargiassa e panciuta degli anni Sessanta, ci sono le sue utopie studentesche, il ritorno all’ordine con in bocca una fame diversa. E poi scatta l’involuzione del nuovo millennio, un universo sghembo in cui è impossibile incastrarsi. Si resta a una spanna, incapaci di prendere parte, di ingranare un po’ il gioco. E allora si valuta, si smonta, si decostruisce un sistema sgradito, per capire quale anello è saltato, quale giuntura è troppo lenta per far ruotare il meccanismo. Con una mente ingegneristica, come quella di Brandani/Pecoraro, attratta dagli aerei in quanto macchine perfette, figlie di una matematica applicabile a ben poco di umano. Non c’è materia nuova, trama sconvolgente, artificio diegetico fuori dal comune.

C’è un percorso immenso, una distesa (forse troppo) densa di eventi, per dimostrare abilmente un teorema fin troppo chiaro, dispiegato con indubbia maestria appena all’inizio: «Noi viventi siamo troppo caotici, siamo conformazione, non forma, abbiamo contorni a-geometrici, mutevoli, indeterminati, come quelli delle nuvole, come i confini delle nazioni […] Come pretendiamo che ci sia ordine se siamo ciò che resta di un’esplosione?» E tra queste parole, anche solo per la loro bellezza, vale la pena raccoglierne i pezzi.


(Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, 2013, pp. 512, euro 16,80)

“Sofia nel mio autunno nevrotico”: a tu per tu con Chiara Apicella

Sofia nel mio autunno nevrotico, di Chiara Apicella, edito da Lantana, è un romanzo leggero e delicato in cui la protagonista si scopre innamorata di una ragazza. Tra le vicende di una madre che sembra non voler invecchiare e una figlia ancora acerba nei sentimenti, l’autrice parla di tematiche attuali e personaggi comuni: per chi ancora non la conoscesse – Chiara scrive da più di due anni sulla nostra rivista racconti ispirati dalla musica e raccolti nella rubrica “Soundtrack” – l’abbiamo intervistata in modo da capire il suo punto di vista e la gamma di sentimenti che ha ispirato questa storia.
Il tuo libro affronta la tematica dell’omosessualità femminile, poco dibattuta e talvolta meno considerata rispetto a quella maschile. Nella scelta di questo argomento quanto conta la volontà di spostare l’attenzione su un aspetto sociale ancora troppo poco sdoganato?

Prima di tutto volevo affrontare la reazione di una madre, che si professa progressista e ha sempre creduto di esserlo, all’eventualità che la figlia ventiquattrenne sia lesbica. Nel periodo universitario frequentavo una coppia di ragazze molto affiatata. Una delle due un giorno mi ha raccontato che la madre, alla scoperta della sua omosessualità, le aveva impedito di uscire di casa la sera. Così mi sono chiesta come avrebbe reagito a una notizia simile ma molto più edulcorata una donna colta, che da sempre sventola con convinzione e buona fede ideali di sinistra. Poi la storia si è arricchita di tutto il resto. Ancor prima che di omosessualità, volevo che il mio romanzo parlasse di attesa, di indefinitezza del desiderio, molto spesso difficilmente classificabile. La protagonista, con stupore, scopre affinità profonde con una ragazza che poco prima le appariva frivola e superficiale. E piano piano si chiede se il suo interesse e la sua curiosità nascondano altro. Non racconto una storia fra due ragazze; descrivo in modo più o meno ironico i dubbi che una delle due attraversa nel tentare di definire i propri sentimenti, e il suo primo vero confronto con una madre molto diversa da lei. In un certo senso, affronto tutto quello che può scatenarsi prima di una storia omosessuale. Il sesso della protagonista credo derivi semplicemente dal fatto che avessi ben chiaro il personaggio dell’altra ragazza, Sofia: un po’ provinciale, spontanea e molto meno sprovveduta di quanto sembri. Con un bagaglio di ricordi che trascina con sé e che a volte la rende improvvisamente malinconica.
Il romanzo è anche una storia generazionale, raccontata dal punto di vista di Daria da una parte e quello di sua madre dallaltra: è stato difficile mettersi nei panni di un’adulta e raccontarne le sensazioni e le paure?

La madre, Cinzia, ha da poco superato i cinquanta. Divorziata e ancorata nostalgicamente al ricordo di un ex marito che l’aveva tradita, si consola con il lavoro: è psicologa presso un consultorio e ha a che fare quotidianamente con adolescenti che non sopporta e di cui allo stesso tempo non può fare a meno. Ovviamente la vita di Cinzia è molto diversa dalla mia, ma quando scivolavo nel suo personaggio le trasmettevo ansie e paure che conosco bene, piluccate da altre situazioni. Applicavo un po’ alla scrittura quello che il Metodo Stanislavskij prevede per la recitazione, in modo – spero – da conferire al personaggio verità. Se si scrive dello scoramento che segue un divorzio, a venticinque anni (l’età che avevo durante la prima stesura del libro) si può ricordare la malinconia dopo una giovane storia finita male. Se si scrive di una donna in menopausa, a venticinque anni si può immaginare la propria vita privata e arricchita di altri timori e aspettative. In fondo le emozioni, con gradazioni che variano da persona a persona, sono universali; sono le esperienze che differiscono completamente.
La musica è senza dubbio una componente fondamentale nel libro; immagino ti abbia aiutato molto durante la stesura del romanzo. Da più di due anni, inoltre, sperimenti su Flanerí la formula del racconto legato a tracce musicali da cui trai ispirazione. Qual è la tua playlist ideale quando scrivi e perché?

La musica riveste una funzione vitale per me, da quando a tredici anni ho ricevuto da mia madre la prima audiocassetta. Poltrivo a letto con la febbre e ho ascoltato con meraviglia i Platters; sentivo di aver fatto una scoperta eccezionale, che purtroppo non potevo condividere con le mie coetanee, appassionate dei Take That e di altre boy band contemporanee. Musicalmente venivo alquanto snobbata. Poi il primo anno di università ho ricevuto da un amico un’altra audiocassetta fondamentale. Quella dei Platters era il corrispettivo della Numero Uno per Paperon De’ Paperoni, mentre quest’altra è l’oro in cui tuttora amo sguazzare. Smiths, Pulp, Joy Division, Belle and Sebastian… Ricordo ancora quando l’ho ascoltata in macchina per la prima volta, e ho mandato indietro quaranta volte There Is a Light That Never Goes Out per sentirla da capo. Come emozione credo si avvicini al colpo di fulmine dei film americani ambientati al college. Da allora quell’audiocassetta è la mia playlist ideale. Ovviamente integrata da cantanti e gruppi che poi ho scoperto via via: Elliott Smith, Violent Femmes, Divine Comedy, New Pornographers, Wave Pictures… Molti di questi si trovano qui su Flanerí, nella mia rubrica di racconti “Soundtrack”. Dove ho approfondito l’idea della colonna sonora nella narrativa. Proprio perché, adorando anche il cinema, mi piace leggere e scrivere visualizzando le scene, come se stessi davanti a un film.
Lo scrittore mette sempre un po di sé in quello che racconta: quanto cè di Chiara nei suoi personaggi? Quanto si somigliano la scrittrice e la protagonista?

Moltissimo. A Daria, la studentessa ventiquattrenne, ho prestato i miei studi e i miei gusti musicali. Lei frequenta Lettere e sta scrivendo una tesi sul cinema, come me anni fa. Si sente spesso inadeguata, e forse la sicurezza non è neanche la mia prima qualità. Ciò che la distanzia da me è la diffidenza verso gli altri, che la fa essere schiva e piuttosto asociale. In questo siamo molto diverse.
La madre, Cinzia, che per motivi anagrafici è senz’altro più lontana da me, mi assomiglia di più per alcune caratteristiche di cui spesso, come lei, devo pagare lo scotto poco dopo: la spontaneità quasi compulsiva, la gelosia, l’irascibilità. Caratterialmente mi sento senza dubbio più simile a Cinzia.
Quali sono i tuoi prossimi progetti narrativi?

Ho pronta una raccolta di racconti intitolata L’amore quando è assente. La cifra è prevalentemente ironica o intimistica, come nei racconti di “Soundtrack”, confluiti infatti nella raccolta. Il fil rouge è la difficoltà nel capirsi, spesso all’interno della coppia e a volte in altre dinamiche. La raccolta è suddivisa in varie sezioni: Sentirsi migliori dell’altro, Non essere corrisposti, Rimpiangere… La musica svolge spesso una funzione importante.
Ho iniziato anche un secondo romanzo, incentrato sulla fatica di avere trent’anni oggi. L’impronta è decisamente ironica, tanto per provare a sdrammatizzare l’irrisolutezza su tutti i fronti in cui ci sentiamo avviluppati io e molti dei miei coetanei.
Un consiglio per i giovani scrittori con un romanzo nel cassetto: come si raggiunge il miraggio della pubblicazione? Cosa deve assolutamente avere una storia per risultare interessante, secondo te?

Riguardo al miraggio della pubblicazione, cito due frasi di personaggi molto diversi fra loro. La prima è di Eraclito, e la sento ripetere da mia madre da quando sono piccolina. «Se non speri l’insperabile, non lo troverai; perché è duro da ricercarsi e difficile da ottenere».
La seconda è di Frank-N-Furter, il protagonista di The Rocky Horror Picture Show. Mentre scrivevo la tesi sul travestitismo nel cinema, rimasi rapita dalla scena in piscina: una delle più liriche e significative del film. Lì veniva ripetuta una frase, che estrapolata e decontestualizzata suona banale e rievoca erroneamente il sogno americano. Ma inserita in quel contesto, dove si urla che bisogna fare di tutto per raggiungere ciò che in fondo già si è, diventa un inno all’autenticità e al non mollare mai il forte desiderio che ci muove. Allora il mio forte desiderio era scrivere questo libro. E la frase è «Don’t Dream It. Be It».
Calandola nella realtà editoriale, in effetti molto diversa da quella per cui questa frase è stata concepita (sebbene l’autenticità sessuale sia uno dei centri motori anche del mio romanzo), il consiglio che darei è: nonostante il mondo dell’editoria sia uno dei più difficili e le piccole case editrici fatichino a restare a galla, i libri esisteranno sempre, e quindi l’aspirante scrittore avrà una vita forse complicata, ma realizzabile.
Un consiglio più pratico e meno poetico è di partecipare a concorsi rinomati e di non ricorrere alle case editrici a pagamento, se l’ambizione è diventare scrittori anziché veder pubblicato solo il primo libro. Anche se valida, un’opera che per vedere la luce ha a monte un pagamento non rappresenta per un autore un buon biglietto da visita.
Per quanto riguarda le caratteristiche imprescindibili che deve possedere un’opera per risultare interessante, credo che un autore oltre a maneggiare perfettamente la lingua e – possibilmente – avere una storia in mente, debba scrivere con onestà: durante la stesura, non dovrebbe pensare alla reazione dei lettori, ma vivere ciò che scrive, commovendosi o ridendo insieme ai personaggi. Immergendosi totalmente nell’umore della storia si può trasmettere un’emozione. Per ricorrere a una metafora, una risata spontanea è contagiosa, una artefatta no. Ovviamente in ogni caso si toccheranno le corde di alcuni lettori e non di altri, ma in questo modo le possibilità che le persone si rispecchino in ciò che scriviamo sono maggiori.
Un requisito diverso ma affine è la conoscenza perfetta di ciò che si scrive, il che non significa concepire opere autobiografiche, ma quantomeno svolgere a monte un lavoro di documentazione che consenta di collegare in modo appassionante e credibile la storia al suo contesto sociale.
In ogni caso, il primo passo è vincere ogni titubanza e iniziare a scrivere.

(Chiara Apicella, Sofia nel mio autunno nevrotico, Lantana, 2014, pp. 271, euro 15)

“Il padre infedele” di Antonio Scurati

«C’è qualcosa di storto in un uomo quando l’intero esercito delle sue debolezze viene passato in rassegna dagli occhi ignari della bambina».

Quando l’orologio della cucina segna puntuale le dieci di mattina, Giulia sbotta in un singhiozzo. «Forse non mi piacciono gli uomini»: è l’unica frase che riesce a pronunciare, e suo marito non si precipita a consolarla; dapprima immobile davanti al pianto convulso della moglie, cerca distrazione nel ritmico scandire delle ore e arriva presto ad ammettere a se stesso che non può darle la colpa di nulla.

In una specie di diario di confessioni intime, Glauco Ravelli, cuoco d’avanguardia laureato con una tesi sulla morte dell’arte in Hegel, racconta il proprio (infelice) ruolo di marito e di padre, dai primi incontri con la donna che sarebbe diventata la madre di sua figlia e dal loro innamoramento, passando per le repulsioni della moglie, i tradimenti immaginari o meno di lui, per arrivare al lento ma inevitabile disincanto della vita di coniuge e di genitore.

Dopo essersi tenuto per anni alla larga dal «veleno delle emozioni», vivendo felicemente la spensierata, cinica e nichilista vita da maschio solitario, assiste all’immagine della contentezza domestica ricreata in uno spot Barilla e prova il morso della solitudine. Intuisce subito però che il ruolo pater familias che fa la spesa al supermercato scegliendo confezioni risparmio, promette tutto tranne la felicità. E tale si sarebbe rivelato.

Il padre infedele (Bompiani, 2014) di Antonio Scurati è una storia che, raccontata dalla voce cinica e intima del padre novello, affronta questioni importanti sul ruolo e l’identità di uomini, donne, madri e, infine, padri, anzi, papà. Papà quarantenni che si sentono impauriti, nervosi, stanchi e anagraficamente inadatti alla paternità. Papà che non si trovano a loro agio dentro quel ruolo che avevano intuito che gli sarebbe toccato un giorno, al quale tuttavia giungono del tutto impreparati e persi, invocando maldestramente e senza successo quella virtù che dovrebbe essere in loro innata.

Alle confessioni intime sul declino della felicità di coppia e sull’inadeguatezza nel ruolo di padre, si uniscono riflessioni che richiamano anche Gli anni che non stiamo vivendo – raccolta di saggidi Scurati – in cui l’autore affronta, tra l’altro, anche il tema della generazione «più agiata, nutrita, longeva, sana e protetta che avesse mai calcato la faccia della terra», che eppure è una generazione insicura, depravata e con l’aria sempre un po’ disgustata. Una generazione che pretende, ma indugia prima di concretizzare, che anche se ottiene, dubita della propria scelta; una generazione affamata e mai satolla. Sono padri moderni, spauriti e a volte nauseati davanti all’impossibilità di (continuare a) vivere nell’illusione della felicità, dello scontro con la scomoda realtà dei figli che piangono e non dormono e non lasciano dormire, delle mogli che a loro volta combattono contro le proprie delusioni e girano le spalle al marito e suscitano pena e rabbia.

La repulsione di lei e la conseguente repulsione di lui, lo porteranno a fantasticare su «demoni femminili di ogni genere», che potrebbero appartenere alla realtà come alla fantasia, iniziano ad assalirlo. Non si arriva oggi a provare sensi di colpa: Glauco Ravelli, tradita la moglie, si sente però in colpa al cospetto della propria figlia. Si sente un padre fallito. Con il crescere della figlia, tuttavia, inizierà a recuperare sempre più fiducia del proprio ruolo del genitore e si sentirà autorizzato a pronunciare – in toni sempre più cupi, apocalittici e meno cinici – critiche sulla società odierna finendo per sentirsi un sorta di «eroe dei nostri tempi». Eppure non riesce a convincersi. Né a convincere noi lettori.

Del romanzo di Scurati si è parlato molto: è tra i titoli finalisti del Premio Strega di quest’anno, e ha risvegliato molte polemiche per il presunto autoplagio da Il bambino che sognava la fine del mondo, con cui nel 2009 aveva proprio sfiorato la vittoria dello Strega, battuto di un solo punto da Tiziano Scarpa con Stabat Mater.

Al di là delle controversie che ogni anno si scatenano intorno al premio letterario, Il padre infedele, con un linguaggio curato e mai banale, rappresenta non solo uno sguardo sui (mancati) padri e mariti di oggi, ma soprattutto una disincantata e lucida visione della società moderna, dei suoi vizi, delle sue tante mancanze ed esuberanze, di un’Italia della crisi, insomma.

(Antonio Scurati, Il padre infedele, Bompiani, 2014, pp. 208, euro 17)

“Manuale del rivoluzionario” di George Bernard Shaw

«Democrazia significa organizzazione della società per il bene di tutti e a spese di tutti, […] e non soltanto a beneficio di una classe privilegiata. La difficoltà quasi insuperabile che si oppone alla sua attuazione sta nell’illusione che, per attuarla, sia necessario dare il voto a tutti; ciò costituisce invece l’unico modo per distruggerla. Il suffragio universale la uccide. Le persone di grande intelligenza e cultura la desiderano; ma nelle sezioni elettorali esse non sono che una minoranza trascurabile».

Negli scritti inediti di George Bernard Shaw, raccolti da Piano B Edizioni nel libro Manuale del rivoluzionario, l’autore e drammaturgo irlandese riporta le sue teorie sulle voluminose limitazioni della società e le ipocrisie dell’uomo a più di un secolo di distanza dalla loro stesura.

Shaw contesta la democrazia come forma di governo, o meglio non la considera adeguata per una possibile evoluzione, in quanto frutto e conseguenza di precedenti regimi fallimentari e retta da una popolazione di elettori che non ha le capacità critiche e le competenze politiche per riconoscere la buona volontà dei propri eventuali rappresentanti.

La concezione che ha Shaw della civiltà è associabile a un gregge di ignavi dell’intelletto dediti al servilismo, al denaro e alla cupidigia, dove la scuola è la prima causa di bulimia formativa poiché si limita, con scarsa efficacia, a non provocare noie nell’allievo invece di svolgere il compito fondamentale di creare cittadini attivi e responsabili di uno Stato libero.

Ciò dipende, secondo Shaw, dall’esclusione dell’arte e dell’artista dalle scuole e dall’insipida preparazione dei cosiddetti istitutori che impongono con la forza un’istruzione scialba e settaria che potrà solo nuocere all’allievo.

«Con gli scaffali di tutto il mondo, carichi di libri affascinanti e ispirati, vera manna mandata dal cielo per nutrire le vostre anime, voi siete forzati a leggere l’odiosa impostura chiamata “testo scolastico”, scritto da un uomo che non sa scrivere; un libro da cui nessun essere umano impara alcunché, un libro che, sebbene lo possiate decifrare, non sapete leggere con altro profitto se non questo, che lo sforzo che vi viene imposto vi farà detestare la semplice vista di un libro per tutto il resto dei vostri giorni».

Ma le teorie di Shaw non si limitano a una blanda provocazione o a delineare un quadro disfattista della società, egli invoca il metodo e la volontà del singolo, in quanto se c’è volontà c’è un mezzo per procedere nell’evoluzione umana e non nella semplice illusione del progresso, per arrivare a una democrazia formata da Superuomini, il solo cambiamento da augurarsi per avere la forza e l’audacia che richiede una rivoluzione.

«Ciò può voler dire che dovremo stabilire un dipartimento di Stato per l’evoluzione, con un seggio nel gabinetto per il suo capo e una rendita che copra le spese dei diretti esperimenti statali, e procuri ai privati gli incentivi necessari per raggiungere risultati soddisfacenti. Ciò può significare una società privata o una compagnia privilegiata per l’elevazione del gregge umano».

Per quanto possa sembrare immorale o indecente la visione evolutiva di Shaw, egli punta a far scattare la “molla segreta” del processo cognitivo della volontà che spinga l’uomo, e di conseguenza le istituzioni e le pubbliche autorità, nella direzione temuta: verso il Superuomo.
(George Bernard Shaw, Manuale del rivoluzionario, trad. di Alessandro Miliotti, Piano B Edizioni, 2014, pp. 120, euro 11)

“Familiars” degli Antlers

Sono passati cinque anni da Hospice (Frenchkiss Records, 2009) e l’ombra della pietra miliare ancora si sente. Liberarsi dalla reminiscenza del capolavoro non è facile, ma i The Antlers hanno provato come loro hanno mostrato di saper fare, con eleganza e raffinatezza: nel 2011 è uscito Burst Apart (Frenchkiss Records/Transgressive Records, 2011) che modifica e traina il loro suono in evoluzione, ed ora Familiars (ANTI-/Transgressive Records, 2014). Il trio di Brooklyn è passato alla più grande casa discografica ANTI- dall’indipendente Frenchkiss, le cose si fanno serie, e Peter Silberman, Michael Lerner e Darby Cicci si prendono tutto il tempo per l’uscita di Familiars, anticipato da un criptico video su youtube dal titolo “”. Il video mostra delle scene minime dalla sala di registrazione e, tra gli effetti di suono, spunta un giro di accordi suonati da Cicci su un piano.

Questi accordi sono gli stessi che aprono l’opera. “Palace” è la prima traccia, una traccia programmatica, incisiva, in cui si sente che il disco sarà ancora una volta differente, qualcos’altro. Non parliamo di svolta ma di percorso: attraverso Burts Apart e il successivo EP Undersea, i The Antlers approdano ad una dimensione – per ora – sedimentata, in un dream pop da camera che a tratti ricorda i Grizzly Bear. Secondo pezzo è lo spettrale “Doppelgänger” e già serve più attenzione, non c’è spazio per un ascolto occasionale. Gli arrangiamenti non soverchiano ma accompagnano: piano, violoncello, trombone, contrabbasso, si mescolano e non spiccano, la voce di Silberman si fa lamento come da un’altra dimensione e la batteria di Lerner è quasi jazzistica.

I temi dei testi sono quelli dei preconcetti, dell’idealizzare il passato, del confronto con il presente – che sia anche questo un riferimento al loro passato, con Hospice?

Il vero punto di forza del disco sta, secondo me, nella poliedricità di Cicci: piano, organo, il Fender Rhodes, gli ottoni, i bassi, ha disegnato persino l’artwork di Familiars. Cicci dà forma solida a questo disco, lo rende concreto e complesso. Tutto è dosato magistralmente, anche nei pezzi facili come la ballade “Revisited”, e non ci si accorge neanche di tutto il lavoro che sta dietro a pezzi splendidi come “Surrender”.

Il disco ha dimostrato la maestria compositiva del trio di Brooklyn, è un disco unitario e possiede una certa grazia; allo stesso tempo è un disco da mezzofondisti, che apprezzi a pieno solo dopo averne colto tutte le sfumature, dopo il secondo o terzo ascolto, eppure non lascia impresso nessun marchio, nessun picco da ricordare per sempre, sulla lunga distanza. Forse è stato un errore mettere “Palace” in apertura, un pezzo che innalza il livello dell’ascolto e crea l’aspettativa di cose ancora più grandi all’interno del disco, per poi ritrovarsi invece con pezzi che ne inseguono lo spettro, che si somigliano; ottimi pezzi, capiamoci, ma che non staffilano – e, probabilmente, non intendevano farlo – e abitano quell’alto piano musicale evocato da “Palace”, senza creare disordini né scompigliare nulla.

(The Antlers, Familiars, ANTI-/Transgressive Record, 2014)