copertina di Chthulucene

Un po’ di ginnastica
per la prosperità

A settembre 2019 Nero Editions ha pubblicato un’accurata traduzione di Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto di Donna Haraway.

Ci accomodiamo in prima fila sulla poltrona scomoda di spettatori della sesta estinzione di massa del pianeta Terra. Ed ecco che alcune creature favolose mostrano come accedere alla matassa delle relazioni tra esseri viventi! Su questo l’autrice è molto chiara: come nei giochi tradizionali in cui si annodano corde con le mani per comporre figure di filo, l’«arte di vivere su un pianeta danneggiato» non si esercita con le soluzioni dell’economia e dell’ecologia ma si pratica tessendo narrazioni.

Nel primo capitolo sui piccioni, riconsideriamo la differenza che fanno i saperi (dei colombofili!) e i luoghi urbani che accolgono sinergie tra specie. Nel secondo, ragni, calamari e batteri luminescenti insegnano l’arte di coniugare mondi attraverso il pensiero tentacolare. «Pensare dobbiamo», infettandoci con la diversità del vivente. Nel quarto, il kin, parentela non basata sulla famiglia, è il tema più marcatamente femminista della filosofa.

Chi di noi conosce la rete mondiale di tessitori che crea barriere coralline con perline e uncinetto? Quale abilità svela? Stay with the trouble (il titolo originale del saggio) è l’imperativo di Haraway per barcamenarsi nel tempo osceno dell’Antropocene, categoria in parte rifiutata dall’autrice e sostituita con la provocatoria definizione di Chthulucene. Da khthon “sotterraneo” e kainos “nuovo”, sono le diverse forme di tempo-spazio utili per imparare a restare davvero a contatto con il vivere e il morire su una Terra ferita. Equazioni e storie si sovrappongono in un turbine istrionico e generativo.

L’autrice ripete il messaggio: per salvarci dobbiamo farci carico soprattutto del modo in cui raccontiamo le cose. L’ultimo capitolo, che insegue la vita di cinque generazioni di bambine che si chiamano Camille, è un capolavoro di fantascienza. Chi ha visto il documentario di Fabrizio Terranova su e con Donna Haraway – imperdibile – scopre finalmente questa versione integrale del racconto I bambini del compost e rivede le meduse del film negli organismi psichedelici della bellissima copertina di Chthulucene.

L’illustrazione, che appare poi nel capitolo terzo, ricorda quando da piccoli guardavamo i funzionamenti degli organismi nei libri di scienze e ci sembravano sospesi tra realtà e immaginazione. Precipitando nell’universo, intimo ma smisurato, del pensiero dell’autrice, possiamo tornare a quel tempo involuto in cui grammatica ed esperienza non erano ancora composti reciprocamente. L’invito della filosofa è «lacerare il nostro linguaggio per ospitare il resto del mondo».

Alla fine dell’avventura interpretativa l’individualismo è impensabile, tra acrobazie di parole e rivoluzioni dei sentimenti siamo giardinieri capaci dell’arte del compost-aggio (altro che post-umani!). La ginnastica per la cura della prosperità rinvigorisce il lettore, restituendo i colori di un futuro possibile e la «sensuale curiosità molecolare» per ogni cosa terrestre.

 

(Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero Editore, 2019, trad. italiana di Claudia Durastanti e Clara Cicconi, pp. 284, euro 17, articolo di Martina Pietropaoli)

 

poster di gli anni più belli su flanerí

La fine del cinema borghese

Gli anni più belli di Gabriele Muccino è il racconto di una fine. Non parliamo, però, della trama, ma dell’idea di cinema del regista. Se c’era ancora qualche possibilità che Muccino tornasse ai livelli degli anni a cavallo del cambio di secolo, questo film spazza via ogni illusione.

È un peccato davvero, e andremo a vedere perché, prima però parliamo di questo progetto troppo ambizioso per reggere alla sua stessa pressione. Giulio, Paolo e Riccardo sono tre amici di sedici anni nella Roma dei primi anni Ottanta. Crescono insieme, tra l’amore per Gemma, i sogni, i mondiali, il muro di Berlino, Tangentopoli, Berlusconi eccetera, e i rapporti cambiano, così come le persone, ma in fondo a tutto l’amicizia rimane.

C’è un modello enorme e prepotente a cui Muccino ha dichiarato di essersi ispirato: C’eravamo tanto amati, il capolavoro di Ettore Scola. Stessa ambizione – raccontare quarant’anni di storia nazionale attraverso le vicende personali dei personaggi –, stesse dinamiche di relazione – tre amici, una ragazza contesa –, quasi le stesse caratterizzazioni – c’è l’idealista che non si realizza mai, l’intellettuale, l’opportunista che appende cappello e accumula ricchezze – e risultati molto diversi.

Ci sarebbe anche il cast, perché, con le debite proporzioni, mettere insieme Claudio Santamaria, Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino e Micaela Ramazzotti potrebbe essere una base sufficiente per fare qualcosa di interessante. Non è così.

Gli anni più belli è un film sbagliato sotto un’infinità di punti di vista, a partire dalla richiesta implicita che viene fatta allo spettatore di accettare come ventenni plausibili i quattro protagonisti truccati – male – da giovani. Il passaggio dagli anni Ottanta a oggi non ha segnato una generazione nel modo in cui ci vuole far credere Muccino, e soprattutto non nel modo in cui ci mostra. La sua narrazione, sviluppata insieme allo sceneggiatore Paolo Costella (già con lui per A casa tutti bene, ma prima a lavoro su titoli come Ricky e Barabba  e Matrimonio al Sud) è del tutto individuale, incapace di raccontare i cambiamenti italiani e internazionali. Anzi, li sfrutta come deboli pretesti per mandare avanti la trama, tra Torri gemelle che crollano su sfondi  televisivi e Movimenti per il Cambiamento agitati nelle piazze per pochi, incomprensibili minuti.

Non è solo con gli esempi a cui Muccino per primo ha dichiarato di rifarsi che Gli anni più belli perde impietosamente, ma anche nel confronto con la filmografia del regista stesso.

Tra fine Novanta e inizio Duemila, Gabriele Muccino aveva infilato tre film che più di molti altri del periodo avevano gettato le basi ipotetiche di un rinnovato cinema borghese. Non appesantito dagli stilemi dei film d’autore né svuotato dalle attenzioni più canoniche al mercato cinematografico. Come te nessuno maiL’ultimo bacioRicordati di me avevano segnato un nuovo modo di raccontare e analizzare la classe medio-alta romana e, per estensione, italiana, con un linguaggio e uno stile riconoscibili e originali.

Quella spinta innovativa si è persa negli anni statunitensi e non è mai tornata. Il già menzionato A casa tutti bene aveva fatto credere, in maniera confusa e meno ragionata, che quel cinema fosse ancora vivo, in fondo a tutto. Gli anni più belli cancella ogni dubbio.

Rispetto ai suoi film precedenti, Muccino sembra trovarsi meno a proprio agio con un arco narrativo così ampio, senza riuscire a concentrarsi sulla dimensione individuale che gli è più congeniale.

Il gruppo di protagonisti è perseguitato dal solito carico di angosce e dubbi e drammi esistenziali del cinema mucciniano. Quel senso eterno di insoddisfazione, che sia sentimentale, lavorativa, individuale o intellettuale. C’è sempre quel rabbioso sentirsi fuori posto, derubati, strappati, ma c’è un’indulgenza nuova, esagerata. C’è un equilibrio incompleto tra dimensione pubblica e privata che porta a evoluzioni della sceneggiature poco lineari, con buchi di anni e incontri casuali come eterno deus ex machina.

Se la scrittura non riesce a centrare il suo obiettivo di doppio racconto, come regista Muccino si concede i soliti piani sequenza per dare spazio ai suoi attori. I risultati, sono, però, a tratti oltre il confine della parodia involontaria – il confronto a tre tra Rossi Stuart, Favino e Ramazzotti fuori scuola sarebbe perfetto se fosse una caricatura affettuosa del cinema mucciniano.

Ed è incredibile come Gli anni più belli riesca a sprecare il talento dei suoi interpreti. Di nuovo insieme quattordici anni dopo il film di Romanzo criminale, i tre protagonisti annaspano tra un copione fragile e una caratterizzazione macchiettistica.

In un periodo in cui Pierfrancesco Favino non sbaglia nulla, anche in film non riusciti come Hammamet, qui è poco più che una somma di stereotipi di arrivisti ed eterni delusi. Kim Rossi Stuart, sempre attento a scegliersi film e ruoli, cade in un idealista ingenuo, tutto polo e discorsi ispirati. Solo Claudio Santamaria si conserva sincero e spontaneo.  Il cast femminile è imbarazzante. Micaela Ramazzotti continua a interpretare il personaggio trito della ragazza fragile, desiderata e contesa, la cantante Emma Marrone sceglie un esordio non esattamente riuscito, e l’immagine generale delle donne che viene fuori le vuole fragili, irrisolte, ricattatrici, sostanzialmente stronze.

Molto meglio i giovani interpreti della prima parte, quella che funziona di più, insieme alla cena quarant’anni dopo dei tre amici.

Gli anni più belli è l’occasione mancata di un nuovo cinema corale italiano, il momento finale di qualsiasi illusione autoriale di Gabriele Muccino.

 

(Gli anni più belli, di Gabriele Muccino, 2020, commedia, 129’)

Copertina di Sfacelo di Barjavel

La profezia del disfacimento della civiltà

Dopo Il Mago M., la casa editrice L’Orma prosegue la riscoperta di un autore francese pressoché sconosciuto in Italia, René Barjavel, con la pubblicazione di Sfacelo (2019), un romanzo distopico e fantascientifico, apparso per la prima volta in dispense sul periodico collaborazionista Je suis partout nel 1943, durante l’occupazione nazista della Francia.

Il romanzo risente certamente del clima tragico in cui fu composto, ma il suo fascino risiede soprattutto nelle tematiche di un genere innovativo per l’epoca, in particolar modo in Francia. È un romanzo infatti profetico e visionario. Ci fa riflettere sulla pericolosità dei desideri umani e della ricerca della felicità ad ogni costo, magari ottenuta, come in questo caso, mediante un uso eccessivo della tecnologia in nome della scienza onnipotente.

Barjavel si rivela anticipatore di tutta una serie di scrittori ascrivibili al genere sci-fi come Orwell, Huxley, Vonnegut, la Atwood di Il racconto dell’Ancella, in cui la rappresentazione letteraria di un’utopia fallita può aprirci gli occhi sulle conseguenze negative della modernità per i valori umani quando a dominare e condizionare la società sono “le magnifiche sorti e progressive”.

È una lettura affascinante se fatta dalla giusta prospettiva, quella di un lettore del secolo scorso. È inquietante scoprire quanto il nostro mondo assomigli a quello immaginato da Barjavel quasi 80 anni fa.

Sfacelo è ambientato nella Francia del 2052. Il mondo del 2052 è ipertecnologico e pervasivamente e totalmente dominato dalle macchine. Ogni bisogno umano, anche il più elementare, dal cibo al trasporto, dall’abbigliamento al culto dei defunti, è eseguito da macchine. È un mondo, quello creato da Barjavel, minuziosamente descritto e ricco di dettagli. La scienza è la sola religione e verso di essa si nutre una fiducia cieca.

Tutto funziona con l’elettricità, dalle fibbie che chiudono i nuovi vestiti all’azoto alle automobili che intasano le strade, dal sistema di coltivazione artificiale che permette la riproduzione di ogni varietà di prodotti vegetali immediatamente commestibili e persino di carne, fino alla distribuzione del latte nelle case mediante un impianto di tubature del tutto analogo a quello dell’acqua potabile.

La velocità ha azzerato le distanze: si possono percorrere migliaia di chilometri in pochi minuti stando comodamente seduti su un divano ad osservare una realtà che si può perfino toccare ed odorare. La ferrovia sospesa, che congiunge Nantes e Marsiglia a Vladivostok, è considerata la nona meraviglia del mondo. Ma ci si sposta soprattutto con gli aerei, velivoli che poco conservano dell’aspetto allora noto: sono infatti privi di ali ed elica e si presentano con una forma ovoidale che tante affinità sembra avere piuttosto con uno shuttle. Ci sono ancora le automobili ma sono veicoli ultrapiatti, alcuni ancora a combustione, ma la maggior parte alimentata a «quintessenza», una sostanza «ottenuta dalla fermentazione e distillazione dell’acqua di mare», che permetteva di avere un’autonomia di migliaia di chilometri.

Rimane tuttavia un avamposto, in cui il progresso non è riuscito a penetrare, nella Provenza sud orientale, abitato da irriducibili contadini (fra cui i genitori dei protagonisti François e Blanche) che coltivano alla vecchia maniera alberi da frutto e viti, praticano ancora l’allevamento animale tradizionale e vendemmiano tre volte l’anno.

Il romanzo è diviso in quattro parti. La prima parte è più lenta e idilliaca e fa da prodromo al deflagrare dell’imminente catastrofe. Si sofferma sula descrizione di questo mondo perfetto in cui sembra superato persino il timore della morte grazie a un metodo di conservazione degli antenati defunti collocati in stanze private o comuni, dette «Conservatori», a monito dei vivi: «non c’era più il timore di finire in pasto ai vermi, di disperdersi definitivamente nella Natura indifferente. […] In questo modo il progresso materiale era riuscito a vincere la grande paura della morte che opprimeva l’umanità fin dalla notte dei tempi». In questa parte inoltre conosciamo il protagonista, François Deschamps, uno studente di scienze ventiduenne, giunto nella capitale per sostenere l’esame di ammissione alla Scuola di chimica agraria e per conquistare il cuore della sua amica di infanzia Blanche, più allettata dal mondo del successo televisivo del canale di Jerome Seita.

Come in ogni distopia che si rispetti, l’informazione è manipolata e distorta e la Storia contraffatta: a scuola i professori insegnano una nuova storia, senza più conquiste né secessioni, una storia in cui invece si dà risalto agli scienziati ed è scandita dalle scoperte scientifiche e dalle rivoluzioni tecnologiche. Nel 2052, ad esempio, ricorre il trentennale delle «Tre Gloriose Giornate della sostituzione», ovvero della sostituzione delle macchine all’uomo.

Altro elemento distopico che troveremo in un autore come Ballard è lo sviluppo in verticale della popolazione (i condomini in Il condominio di Ballard), distribuita a seconda dello status nelle quattro «Città Alte». Si tratta di grattacieli sorti sui vecchi quartieri parigini (ad esempio la «Città d’oro» sorgeva su Montmartre, l’antico arrondissement degli artisti) e dotati di ogni comfort. La crisi abitativa è stata in gran parte determinata dalle migrazioni dalle campagne verso le città in seguito allo sviluppo industriale.

Nella seconda parte, quello che sembra un ingranaggio perfetto si inceppa a causa di un inaspettato e duraturo blackout, che priverà gli uomini di quella che fino ad allora era stata la fonte primaria del loro benessere. Neanche «la scienza che tutto spiega e tutto può» in questo caso riesce a individuarne le cause né a fare previsioni su un possibile ritorno alla normalità. Dopo un surreale silenzio ben presto delirio e follia prenderanno il sopravvento.

La città di Parigi diventerà teatro dei più atroci spettacoli di disumanità: episodi di sciacallaggio, di egoismo, di cannibalismo, violenza, panico e anarchia totale. Oltre a paralizzare la città, la mancanza di energia innescherà una lotta cruenta per la sopravvivenza: «ormai nessuno si curava davvero di quel che facevano gli altri. Ci si preoccupava soltanto della propria sorte, il resto non aveva importanza». Questo regresso a una condizione primitiva e istintuale favorirà la formazione di gruppi in lotta fra di loro senza più alcuna etica: «la legge del più forte prese a regnare incontrastata nella capitale messa a ferro e fuoco».

Nella terza parte seguiamo la piccola comunità messa insieme da François, radunando gli abitanti del suo quartiere, in fuga da Parigi, una città ormai devastata dai crolli e gli incendi provocati dall’esplosione delle macchine e la caduta degli aerei. In questo viaggio assistiamo al peggio che l’umanità riesce a dare di sé in condizioni estreme.

Sfacelo cerca di farci accettare l’idea del male connaturato alla natura umana. La credenza in un universo benevolo, la fiducia nel progresso e nell’amore romantico si rivelano illusioni perché l’uomo è solo di fronte alla propria coscienza in un mondo privo di significato. In questo paesaggio apocalittico, l’uomo è sempre nudo, costretto alla furbizia e alla violenza perché debole animale fra le forze ostili della Natura matrigna.

La quarta parte è quella più debole del libro, come se Barjavel avesse voluto affrettarsi a concludere la storia trasformandola in una sorta di apologia del ritorno alla natura e finendo così per risolvere il motivo fondamentale del romanzo, ovvero il contrasto fra natura e cultura intesa come progresso, in un nostalgico “era meglio quando si stava peggio”. Il gruppetto decimato e stremato giunge infatti in Provenza, dove François instaurerà una comunità antiprogressista e dittatoriale posta ai suoi ordini: vengono messi al rogo i libri, tranne alcuni testi di poesia utilizzati per insegnare a leggere e scrivere; viene legalizzata la poligamia per garantire la necessaria forza lavoro (come non pensare alla Atwood, in cui ugualmente la donna è ridotta a mero apparato riproduttivo?); si applicano severe pene a chiunque abbia l’ardire di affidarsi di nuovo alla tecnologia dimostrando di non aver imparato nulla della lezione del passato (la tracotanza umana è punita finanche con la morte).

Barjavel ci offre un quadro spietato della società umana avanguardistica che non dà spazio all’individualità e all’emotività. A parte François, che all’inizio è l’unico ad avvertire un senso di impotenza di fronte al dominio delle macchine, gli altri personaggi sono privi di vitalità, piatti, indifferenti, egoisti. È una società piuttosto dis-utopica, vorrebbe essere perfetta ma non lo è. Già nella prima parte si notano i primi segnali di disfacimento: riscaldamento globale, inquinamento atmosferico e acustico. In questo senso oggi potremmo leggere il romanzo anche in chiave ecologista.

Lo stile semplice e a tratti lirico di Sfacelo favorisce l’immersione del lettore in un mondo “altro”, mentre la fantascienza è utilizzata non come mera tematica da letteratura di serie B ma per affrontare quesiti filosofici ed esistenziali a cui neppure l’uomo del 2052 sembrerebbe in grado di dare una risposta unica e definitiva.

(René Barjavel, Sfacelo, L’orma Editore, 2019, trad. di Claudia Romagnuolo e Anna Scalpelli, 288 pp., euro 21, articolo di Chiara Gulino)

Sanremo 2035

È finita l’85esima edizione del Festival di Sanremo. Come ogni anno finalmente ci siamo scrollati di dosso questa assurda discesa verso gli inferi, questa settimana dove tutto può accadere, dove tutto deve accadere, dove si parla di tutto e quando capita anche di musica; dove i media non fanno che gonfiarsi e i nostri Account monopolizzati da notizie, video, interviste, sondaggi, diventano estensioni delle nostre sinapsi e ci aggiornano costantemente per faci stare sempre sul pezzo durante gli aperitivi con gli amici.

Dobbiamo parlarne, parlarne, parlarne. Dobbiamo commentare, commentare, commentare.

Ne parliamo e lo commentiamo nonostante la crisi diplomatica che ci vede protagonisti con gli Stati Uniti, nonostante il Pil sia ai minimi storici, nonostante non abbiamo di fatto un Presidente del Consiglio. Ne parleremmo e lo commenteremmo anche sotto le bombe, non possiamo farne a meno. Perché, ammettiamolo, arrivati alla fine di questa settimana più che estenuante, il sentimento con cui abbiamo a che fare è la tristezza: Sanremo è ancora l’unico vero collante del popolo italiano, nazionale di calcio maschile a parte. L’unico momento in cui in qualche modo possiamo ancora poter dire a noi stessi di essere italiani, se dirlo ha ancora senso. Quando finisce Sanremo, finisce un pezzo d’Italia.

È così da quando esiste, lo è e non potrà che esserlo in futuro.

È successo un po’ di tutto, come ogni anno. Non sarebbe potuto essere diversamente. Ci sono state polemiche nei confronti di chi ha vinto, Ultimo, con le accuse di stupro dell’ex compagna (il discorso della Presidentessa della Repubblica Murgia contro la presenza del cantautore romano è già negli annali); nei confronti di chi ha partecipato, Tommaso Paradiso che sputa in faccia a Diego Fusaro nel backstage dell’Ariston, Katarro che dà della checca isterica a Ghali via twitter e Ghali che cambia testo nel finale di “Rogoredo” dandogli del mangiamerda; nei confronti di chi non ha partecipato, Fedez con il suo video insulto nei confronti di Chiara Ferragni che in poco più di un’ora aveva già 2 milioni di visualizzazioni, perché quella che era sua moglie, che guarda un po’ ha presentato questa sghemba edizione del Festival, ha deciso di non accettare la proposta della sua canzone (anche giustamente, possiamo dire senza alcun problema: “Cantami o diva”, il brano in questione, è un osceno pastrocchio di retorica e pressappochismo, meglio andare oltre).

Chiara Ferragni, insomma, che tutti davano come assoluto flop e che invece alla prova della presentazione del Festival di Sanremo se la cava più che degnamente. Ma perché essere così tirchi, perché sempre questi preconcetti nei confronti di Chiara Ferragni: se la cava alla grande, riuscendo a trascinare il pubblico senza eccedere, lasciata da sola a combattere contro la follia che accadeva attorno a lei. Senza accentrare su di sé l’attenzione, facendo finta che l’affaire Fedez non la coinvolgesse, lavorando a testa basta, portando competenza e gusto, unico spiraglio in un’edizione schizofrenica e, a tratti, lo diciamo senza farci troppi problemi, disgustosa. Per lei zero gaffe, zero polemiche. Grandissima professionalità. Chiara Ferragni, unica grande vincitrice di questo Festival. Chi se lo sarebbe aspettato, ricordando com’era agli esordi?

Ma, nonostante tutto quello che è successo, è stato un Sanremo nel ricordo, necessario, di Amadeus. Quella tragica notte di esattamente dieci anni fa (sì, sono passati già dieci anni) è ancora viva nella memoria di un popolo a volte dà per scontate troppe cose. Un dramma che ha creato un vuoto che non sapevamo essere così incolmabile, lasciandoci orfani di un personaggio che piano piano avevamo imparato ad amare. Quel tragico incidente alle porte di Genova mentre si recava con la moglie e Fiorello a una festa organizzata per festeggiare l’enorme successo di pubblico per il 74esimo Festival di Sanremo, ha segnato una crepa nella nostra memoria collettiva.

Amadeus, al quinto Sanremo consecutivo era entrato di diritto nell’immaginario comune come vero erede di Pippo Baudo, capace di aggregare milioni di italiani davanti alla televisione. Amadeus, la sua voce iconica, simbolo della routine delle fine giornate di lavoro, del buttarsi sul divano dopo ore di fatica, al pari di quelle del compianto Fabrizio Frizzi o di Gerry Scotty; quella voce si è spezzata tragicamente una notte di febbraio lungo l’Aurelia e Sanremo l’ha ricordata nel peggiore dei modi possibili.

Il momento di raccoglimento struggente che ha visto apparire l’ologramma di Amadesus sul palco dell’Ariston nel buio di una sala in un silenzio irreale non è riuscito a fare a meno anche qui di polemiche. Due minuti di silenzio purissimo, interrotti dagli archi che hanno iniziato a eseguire Hallelujah di Leonard Cohen, a cui è seguito un applauso scrosciante di quasi tre minuti, interrotto come una mannaia a sua volta dalla pubblicità, partita si dice accidentalmente, che ha fatto infuriare gli abitanti del web – c’è chi dice che Acqua Lete abbia messo in ballo una cifra importante per apparire in quel preciso istante e che fosse tutto organizzato etc etc. Ma ci sorprende questa cosa?

È stato anche il Festival segnato dal ritorno di Fiorello, che da quella tragica notte ha bazzicato le televisioni davvero a intermittenza. Anche andando a memoria, è difficile contare con una mano quante volte lo abbiamo visto in Tv o su internet. Sicuramente questa volta lo abbiamo visto invecchiato, claudicante e con una voce quasi afona che ha accompagnato le due sole parole pronunciate dal palco, “Scusa Ama” e nient’altro. Grande commozione tra il pubblico in sala e a casa. Ci ha fatto pena vedere quell’animale da palcoscenico ridotto così, un piccolo insetto, una mosca intrappolata in un bicchiere fatto di rimorso e dolore che non andrà mai via.

Povero Fiorello.
Povero Fiore.
Povero Ama.
Ma purtroppo bisogna andare avanti.

La musica. È il Festival della musica italiana e quindi potremmo, anzi dovremmo, parlare di musica.

Dovremmo pensare di parlare di musica, di canzoni, di qualità. Di chi ha fatto bene e chi no. Di chi ha meritato e chi no. Ma siamo sicuri che non tiri di più altro, tipo la proposta di matrimonio sul palco di Zitelli a Francesca Michelin e il suo rifiuto che ha raggelato l’Ariston e la faccia incredula, pietrificata di Zitelli che poi scappa dietro le quinte, viene seguito dalle telecamere che lo inquadrano mentre si siede per terra e scoppia in un pianto quasi mistico e Michelin dall’altra parte che non sa che fare e dalla regia, non si sa per quale motivo – a) per il momento b) c’è un’orchestra – parte la Marcia Nuziale? Tutto fa brodo, tutto fa traffico.

Dovremmo quindi parlare della vittoria di Ultimo con “Baciamoci come nel 2022”, tralasciando i problemi giudiziari, concentrandoci sui più che legittimi dubbi su un pezzo mediocre (ancora la trap?!) che comunque conferma l’artista romano come uno dei più amati, se non il più amato, degli ultimi vent’anni. Potremmo parlare del duo Apriscatole al primo Sanremo big dopo la vittoria tra i giovani dello scorso anno, che ha portato uno dei brani più interessanti dell’intero festival, “Saluti da Marte”, un elettro rock sperimentale imbevuto di contaminazioni afro che si posiziona ingiustamente al nono posto, e poi menzionare la loro struggente cover di “Non mi avete fatto niente” di Meta e Moro durante la serata delle cover, con la sola arpa di Edith Pritkch a sostenere le due voci.

Dovremmo parlare del secondo posto di Mahmood, ed è la quinta volta che lui e Ultimo si alternano le prime de posizioni del podio. Mahmood, che dalla periferia di Milano ha conquistato l’Italia e non solo. Un numero di dischi d’oro incalcolabile, e oggi la nuova canzone “Andiamo a vivere in limousine”, che quest’estate ci tormenterà in ogni stabilimento balneare italiano, da Cattolica fino a Pantelleria.

Oppure dovremmo parlare del terzo posto di un resuscitato Valerio Scanu, che non si esibiva da un’era geologica fa, non da quando da ragazzino cantava tutti i laghi tutti luoghi etc etc, ma da “Finalmente piove” nel 2016, e che si è presentato in Liguria con “Italia mia”, un pop leggerissimo con una spruzzata di qualunquismo e spirito di unità nazionale che si vede deve aver fatto breccia nel cuore dei telespettatori.

Dovremmo parlare anche del fatto che questa 85esima edizione è stata quella della nuova grande promessa della musica italiana, Cecilia, che con il suo brano “Divorzio da me”, quella strana combinazione di Mina e Eminem post rehab e un retrogusto tropicale, ha incantato una platea realmente inghiottita dalla sua voce strepitosa e, scusate la banalizzazione, fuori dal comune (possiamo scommettere sulla sua vittoria tra i big nelle prossime edizioni).

Dovremmo parlare dei Negramaro, e di quanto forse sia giunto il capolinea per la band di Giuliano Sangiorgi, suggerendogli magari di provarci di nuovo con la scrittura di sceneggiature, visto il notevole successo della serie Sky “La guerra è infinita”, scritta insieme a Valerio Lundini. La loro “Teresa”, che arriva giustamente ultima, è uno dei brani più insulsi, impalpabili, banali, di base uno dei brani più brutti che siano mai stati, nono solo portati a Sanremo, ma che siano stati mai scritti in Italia: «Sei la mia piccola / Piccola Teresa / E che posso dirti se / Se ti amo anche quando facciamo la spesa».

Dovremmo parlare di tutto questo, ma non lo facciamo. Perché la musica sì, ma non è poi così fondamentale. Perché in fondo ci piace guardare gente che litiga, che fa casino, che impazzisce. Perché, vi starete domandando. Lo sappiamo tutti il perché. Ma questo pezzo non finirà con perché Sanremo è Sanremo. No, non finirà così.

 

Crediti foto: Sanremo Promotion/La mia Liguria

Péter Nádas: Non possiamo fidarci di altro che del nostro intelletto

Nel 2019 la rivista letteraria ungherese online “Litera” (www.litera.hu) ha presentato una serie di interviste a scrittori ungheresi e non (fra i quali spiccano i nomi di Mircea Cărtărescu, Jonathan Franzen, Ilma Rakusa) intitolata Lo stato delle cose, sui dilemmi degli intellettuali nel ventunesimo secolo, con il seguente manifesto: «All’inizio del terzo millennio i sintomi della crisi si compattano in focolai di profondo malessere. I punti di riferimento stanno scomparendo. Sta diminuendo la fiducia nello spirito e nella cultura. In questa serie interpelliamo scrittori ungheresi e stranieri sulle strategie spirituali e del pensiero nel ventunesimo secolo». Il primo intervistato è stato lo scrittore, drammaturgo, giornalista e fotografo ungherese Péter Nádas (Budapest, 12 ottobre 1942), da anni ormai menzionato fra i probabili vincitori del premio Nobel per la letteratura. Della sua immensa produzione letteraria in italiano sono disponibili solo alcuni titoli come La Bibbia e altri racconti (BUR), Fine di un romanzo familiare (Dalai), Minotauro e Amore (Zandonai), il monumentale Libro di memorie (Dalai), e da poco il primo volume del capolavoro Storie parallele (Bompiani). Ecco il testo dell’intervista tradotta da Andrea Rényi:

 

Secondo lei, alla luce degli ultimi trent’anni, la nostra può considerarsi un’epoca, oppure la fine di un’epoca? Quali sono le sue caratteristiche?

A mio avviso né in Ungheria né nel mondo abbiamo raggiunto la fine di un’epoca, neppure quella della distruzione, anche se i ghiacciai si stanno sciogliendo, i livelli dei mari si stanno alzando, sempre più spazzatura si deposita in acqua e sulla terraferma, e non sappiamo che farcene delle scorie radioattive. Questo, né più né meno, è quello che sapevamo o avremmo potuto sapere che sarebbe successo già trent’anni fa. Il crollo dell’Unione Sovietica è stato indubbiamente la fine di un’epoca, da allora però tutto è rimasto pressoché immutato. Con operazioni cosmetiche i governi europei hanno rimosso le reti sociali che fino ad allora avevano funzionato in maniera esemplare, e hanno permesso che la politica cedesse il primato all’economia. Governano quindi gli interessi di grandi gruppi che non sono più collegabili a nazioni, individui o sistemi elettorali, e i governi dispongono soltanto del ruolo di vigili urbani. Possiamo dire invece che grazie al cherosene bruciato nell’aria, ai diserbanti, ai fitosanitari e ai farmaci che in quest’ultimo secolo hanno reso le nostre vite di individui molto più facili e producono utili a livello globale, prosegue più rapidamente l’estinzione di specie vegetali, api, insetti e mammiferi. Di questo possiamo ringraziare l’industria chimica, in particolare la Monsanto, e la Bayer che l’ha acquisita completa di colpe. Gli alimenti e l’acqua potabile sono pieni additivi e persino il latte materno mostra ormai tracce di antibiotici.

Quest’inverno anche gli uccelli sono diminuiti, basta guardare fuori dalla finestra. In questi ultimi dieci anni il manto erboso è scomparso dal mio cortile, eppure avevo fatto tutto il possibile per conservarlo. Trovo molto importante fare ogni tanto un bilancio di quello che ci è successo e delle conseguenze delle nostre azioni, ma per la verità le nostre azioni hanno poco a che fare con quello che succede e con le esigenze su grande scala sul piano sociologico e storico-tecnologico.  Percorrono strade diverse, mentre noi non siamo i prigionieri di mutamenti globali, bensì delle opinioni di mamma e papà. La regina Vittoria è scomparsa da un pezzo, eppure i preziosi canoni morali della sua epoca resisteranno ancora per un bel pezzo nella nostra vita quotidiana, nonostante le nostre intenzioni e tendenze libertine. Che nemmeno la regina prendeva poi tanto sul serio, tant’è vero che si infilava spesso nel letto in pieno giorno con il bel principe Albert, oppure si sdraiava lestamente sul tavolo. Faceva bene. Da vedova preferiva il signor Brown, lo stalliere, da vecchia invece non riusciva a togliere gli occhi da Abdul Karim, il bellimbusto cameriere indiano. E aveva ragione. Le intenzioni individuali e le epoche non coincidono mai. Le epoche si sovrappongono. Varie tendenze si sovrappongono sempre nell’universo dello spirito e del pensiero, una sopra o sotto l’altra. Nemmeno una rivoluzione sanguinaria può porre fine alla loro moltitudine. Io per lo meno non vedo un nuovo gruppo o blocco di istinti, emozioni, idee o visioni sociopolitiche, che potrebbero sostituire saldamente quelle antiquate, sorpassate e chiaramente nocive.

Al contrario. C’è voglia di antichissimo, di consumato, di usato, malgrado alla fine di ogni campagna elettorale i ministri principali promettano ai popoli che da quel momento in poi, all’insegna del progresso, potranno stare meglio e avere di più. C’è richiesta di regressione, di ripetizione, di minestra riscaldata, di chiacchiere vuote, delle parole deleterie, a vanvera, della piccola borghesia. Nella letteratura e nell’arte c’è voglia di ciò che c’era già stato una, due, cinque volte, del riflusso, del riscaldato, dunque di nobili manierismi. Nella cultura di massa di tutto quello che in teoria la modernità aveva già lasciato dietro di sé, del mitico, del magico, del corpo tatuato, della danza rituale, tribale, cioè della rinuncia spontanea all’individuale, della scomparsa senza traccia, dello zelante fondersi con la moltitudine, dell’opportunismo completo e perfetto, quello di gruppo, dello spirito di banda, non importa se il sistema politico sia democratico o dittatoriale.

 

Com’è cambiato il ruolo dell’intellighenzia in queste circostanze? Servono nuove strategie di vita esterne e interne?

Che io sappia, non è mai esistita una classe intellettuale omogenea, anche se è fuori dubbio che persone con formazione scientifica avevano preso in consegna dagli ordini ecclesiastici il governo spirituale e intellettuale della società. Intellighenzia, in russo intelighencijà. Queste intelighencijà sono sempre state tanto composite quanto è stratificata la società. Sostituivano con concetti il principio di regia autoritaria del re, fossero essi decabristi, panslavisti, monarchici, democratici, anarchici, bolscevichi, comunisti, nazionalisti, fascisti, liberali, sionisti o semplicemente razzisti, secondo le idee o le fantasie di ciascuno su come trasformare completamente la società. In base alle esperienze del diciannovesimo e ventesimo secolo, e in qualità di lettore di Cechov e di Dostoevskij, ho forti dubbi riguardo ai movimentisti istruiti.

 

Cosa può sorreggere, in che cosa può riporre la fiducia, in che cosa può sperare il ceto intellettuale all’inizio del ventunesimo secolo?

In nulla e nessuno, con l’eccezione del proprio intelletto. Con questo però non ho detto nulla, oppure ho detto addirittura troppo. Mi dispiace, ma gli esseri umani non possono fidarsi che dell’intelletto. La forza e la furbizia hanno fallito. Anche i nostri istinti li possiamo a tenere a bada solo con la ragione.

Neppure gli anti-illuministi possono prendere decisioni con strumenti che esulino la loro ragione. Posso solo sperare che la mia mente conservi, e nel momento opportuno ripeschi per sistemare nei luoghi adatti, le mie cognizioni più volte controllate. Cosicché in certi casi io tenga la bocca chiusa, e in altri la apra senza possibilmente far male ad alcuno. O perché mi ritiri in un angolo, quando vengo colto da un attacco di rabbia. Ma che in qualche altra occasione invece io esca in strada per darle sfogo pubblicamente.

 

L’indomabilità della realtà sta diventando sempre più evidente e minacciosa; la crisi migratoria provoca agitazioni politiche, sospetto e chiusura, il cambio climatico mette a repentaglio l’esistenza stessa sulla Terra. In questa situazione eccezionale le arti sono in grado di captare la crisi, darle una definizione e misurarla con la lingua?

Non lo si può fare essendo allo stesso tempo totalmente conformisti e anarchici, rivoluzionari, ribelli. Non funziona neppure diventando un artista maledetto che incassa un formidabile successo di pubblico e soldi a palate. Non va bene nemmeno semplificando, cancellando tutto l’esistente dalla superficie terrestre per ricominciare da capo.

La condizione del mondo e quella della singola persona non possono essere tanto diverse da non riuscire a comprenderle. Sono state causate da uomini, quindi possono essere afferrate da altri uomini. Io però non sono portato per la comprensione. Comprendere non è distinguere la bugia dalla verità, o separare la facciata dalla sostanza, oppure disporre di un quadro strutturale o di collegamento della realtà. Per completare queste operazioni dobbiamo innanzitutto riconoscere che nessuno è in grado di svolgere questo compito da solo. La cosiddetta libertà dell’artista dipende dall’ammetterlo o meno.

 

Sono visibili delle tendenze nella letteratura che disegnano la trasformazione intellettuale in questi anni del terzo millennio? Se sì, come sono?

È improbabile che il mondo civilizzato possa superare il personale, l’individuale, il proprio, ovvero le caratteristiche individuali; di questo possiamo essere certi.

L’individuale però deve specchiarsi intensamente nella massificazione. Per il momento solo nello slam poetry vedo una tendenza adeguata all’epoca. Non nel pop o nel rock, fenomeni della regressione magica, e nemmeno nel rap, che rientra nella tradizione dell’agit prop e della chastushka. Lo slam rappresenta una relazione nobile fra l’individuo e la folla raccolta.

 

In Ungheria l’intellighenzia indipendente e di sentimento democratico sembra essere caduta in trappola. Sono numerosi i casi in cui i membri della comunità costretti dal potere a compiere qualche passo non trovano risposte univoche e valide. Il governo ha radicalmente ridimensionato l’estensione dello spazio pubblico, ha centralizzato i media, ma non ha liquidato del tutto la libera espressione.  Sia un’opposizione coerente che l’assunzione responsabile di un ruolo presentano tranelli insidiosi. A volte la libertà creativa viene limitata, eppure le opere possono essere pubblicate e i teatri continuano a operare. Se anche secondo lei i dilemmi appena descritti esistono, quali opzioni vede per scioglierli?

Da decenni per me la domanda è piuttosto un’altra: può il capitalismo quadrare con la ragione umana? Sì, può farlo in qualche caso e localmente. Riguardo la sostanza del capitalismo, nella nostra area geografica si impone invece la domanda su com’è possibile un’economia capitalista senza capitale, come può essere competitiva una regione povera di capitale, e anche l’opposto, ovvero se è possibile l’accumulo di capitale iniziale senza commettere furti, truffe e omicidi a scopo di lucro, facendolo stringendo sodalizi criminali. E se non è possibile, in quell’area geografica ci si può aspettare una vita politica equilibrata e scevra di estremismi, oppure bisogna abituarsi alla folle frenesia diffusa e alle tante bugie dettate dall’interesse del momento? Ossia se il capitalismo può funzionare senza una forte classe media pronta a investire, o se può esistere una democrazia senza democratici istruiti e forgiati nella lotta, e se nell’epoca del flusso e dell’offerta globali di capitalismo si può sperare nel funzionamento ragionevole delle istituzioni democratiche. Se il movimento del capitale esteso a tutto il globo terrestre avviene al di fuori delle leggi emanate dai parlamenti nazionali, o meglio, se i parlamenti nazionali non sanno rendere trasparenti e regolare con accordi globali i movimenti finanziari, è chiaro che gli spostamenti avvengono in maniera non trasparente e il loro funzionamento non può essere seguito razionalmente. Mentre si moltiplicano comunque le eventualità di una totale catastrofe naturale. A volte i mercati finanziari non sono diretti neppure da decisioni personali ma da algoritmi, e non solo agiscono sopra le teste delle democrazie più forti, ma con il loro funzionamento rendono direttamente possibile che le democrazie più forti accumulino debiti mai restituibili, e secondo le antiche regole del populismo i capi di governo possano fare promesse sempre più grandi ai popoli che si fingono creduloni. Il funzionamento incontrollato dei mercati finanziari ha indebolito prima di tutto le più forti democrazie rappresentative, privandole delle proprie competenze. Eppure il sistema elettorale poggia proprio su queste competenze. Non vale la pena parlarne senza prima prendere in considerazione questo tipo di collegamenti. Ma se non vogliamo trattare il tema in toto, possiamo parlare dell’area geografica in cui il crollo dell’impero sovietico ha posto la popolazione e i governi fra le più diverse tendenze politiche davanti a particolari compiti da risolvere. Che nei primi quindici anni sembravano superabili, mentre oggi i tentativi di trovare una soluzione si rivelano fallimentari. Possiamo parlare del comportamento di questa area geografica priva di autentici democratici e borghesi benestanti nell’ambiente euro-atlantico, dove da secoli è in corso l’accumulo di conoscenze e capitali operanti. Facendolo non staremo meglio, né la nostra vita diventerà più facile, eppure da tempo sono convinto che semplificare le situazioni complesse non conviene.

 

 

Qui si può leggere l’intervista in lingua originale e qui in inglese.

Nell’immagine: Péter Nádas, foto di Gábor Valuska

La madre di tutte le occasioni sprecate

Un pennarello per bambini disegna il logo vecchio stile della band, e il titolo dell’album si staglia sul braccio che 16 anni fa esibiva il cuore a forma di bomba a mano di American Idiot. Non è tutto: il titolo dell’album è in parte cancellato dal disegno stilizzato di un unicorno strafatto che vomita un arcobaleno.
Uno scherzo di pessimo gusto? Uno scarabocchio blasfemo del fratello minore sul vecchio poster di qualche millennial che ha venerato, a suo tempo, il Jesus of Suburbia?
No: è Father of All…, ultimo disco in studio dei Green Day, ed è tutto vero. La copertina, decisamente oscena evoca il desiderio, da parte della band, di tornare all’attitudine ed al suono più scanzonati delle origini, quello di Dookie (1994): spostiamo il fuoco dall’heart like a hand-granade di American Idiot, suoniamo il braccio e non il cuore.

Ora, questa istanza da parte dei Green Day sarebbe anche comprensibile, persino condivisibile, se non fosse per un dettaglio: è un film già visto.
Corre l’anno 2012: Billie Joe Armstrong, sul palco dell’iHeart Radio Festival, evoca il fantasma di Paul Simonon che spacca tutto sulla copertina di London Calling. Il giorno dopo, è in rehab. A stretto giro escono Uno, Dos e Tre: la trilogia è un ideale dito medio innalzato verso le sonorità – e la fama – da stadio del predecessore, 21st Century Breakdown (2009).

La band raggiunge quello che forse era il suo obiettivo recondito: un clamoroso insuccesso.
Nel 2016 esce Revolution Radio. Da Somewhere Now a Forever Now, Billie Joe disegna un cerchio perfetto, con un messaggio chiaro: stiamo diventando vecchi, ne siamo consapevoli, chiudiamo ora e saremo giovani per sempre.
E allora perché ricominciare da capo con Father of All… (che poi sarebbe Father of all motherfuckers)?

Il più grande errore dei Green Day, da otto anni a questa parte, è quello di ostinarsi a pensare di avere ancora qualcosa da dire: un errore che tocca il suo apice proprio con quest’album.
Father of all…ricorda, nell’atteggiamento di fondo, quegli uomini d’altri tempi che si mettono a smanettare con lo smartphone. Il desiderio tenace, quasi ossessivo, di aggiornarsi, adattarsi ai nuovi linguaggi musicali, già di per sé foriero di rischi, diventa a questo punto ridicolo.
In Father of all…ci sono troppe idee, tutte insieme, fuori tempo massimo: la volontà di rinnovare il proprio sound è costretta a convivere con il recupero delle radici, del rock ‘n’ roll classico. Idee strozzate.
Il risultato è il disco più corto della storia dei Green Day (26 minuti totali), allo stesso tempo compatto ed eterogeneo.
Compatto nella durata, che è senz’altro un vantaggio – difficilmente, con un minutaggio maggiore, Father of All… sarebbe risultato anche solo credibile –; compatto nel sound di fondo, che – complice la produzione di Butch Walker – unisce una ritmica vicina alla drum machine a voci effettate e chitarre sintetizzate; eterogeneo nel recupero, da parte del songwriting di Billie Joe e compagni, di una serie di stili musicali appartenenti al passato.

Questo atteggiamento da operazione-nostalgia è sempre stato lì, dietro le quinte. Il problema è che, anche sotto questo aspetto, la band è in piena fase involutiva: una volta, i pezzi che oggi compongono Father of All… sarebbero stati buoni per un disco dei Foxboro Hot Tubs (side-project del trio), o per un concerto dei Longshot (cover-band di Billie Joe). In altre parole, per divertirsi, niente di più. Con la pubblicazione della trilogia (in particolare di Dos!), questa tendenza al “divertiamoci, facciamo casino e basta” era già passata all’interno della musica ufficiale dei Green Day, con risultati disastrosi.

Father of all…è un ulteriore passo avanti (indietro) in questo senso.
Reverend Strychnine Twitch (pseudonimo del frontman nei Foxboro Hot Turbs) si è nuovamente impossessato di Billie Joe, ma è invecchiato malissimo: le sue canzoni hanno perso, rispetto al passato, quella carica di autenticità, forse dovuta – bisogna ammetterlo – all’inebriante mix di pills and alcohol di cui il cantante faceva uso. Il Reverendo Twitch ora è sobrio, è diventato un responsabile padre di famiglia che deve tornare a casa presto e quindi chiudere in fretta le sue canzoni: quasi come se avesse paura di essere colto con le mani nel sacco.

Esattamente così suona Father of All…: musica d’intrattenimento per un ottimo e divertente sottofondo, come certe serie Netflix, le cui puntate sfumano l’una nell’altra senza soluzione di continuità. Una festa a tema, un ballo scolastico: nulla di nuovo.
Il sintetico, finto drumming di Tré Cool, a partire dalla title-track in apertura, ci trascina in questo sound di plastica, che copre con una patina di elettronica anni ‘80 ogni altra citazione.
Da lì, è un rincorrersi di strizzate d’occhio a vari generi: dal glam di “Oh Yeah!” (dove i Green Day arrivano a campionare una canzone non loro, il pezzo di Joan Jett che si sente nel ritornello) al garage di “Fire, ready, aim”, dal soul in stile Motown di “Meet me on the roof “(che, nonostante la durata esigua, riesce addirittura ad annoiare!) ai battimani da stadio di “Graffitia”, pezzo di chiusura che sembra scimmiottare i ritornelli epici e aggreganti di Springsteen.

Le note – relativamente – positive sono riservate al lato B: “Sugar Youth” è il pezzo più Green Day del disco, con un onesto ritornello pop-punk che, a questo punto, è una boccata d’aria; ma, soprattutto, è interessante “Junkies on a High”, dove il ritmo rallenta per trasformare la voce e la chitarra di Billie Joe in qualcosa di autenticamente nuovo.
I testi non riescono, da soli, a salvare la situazione: anche quando trova dei buoni spunti – come nei tre primi singoli, che si confrontano con la paranoia collettiva, con l’utilizzo di armi vecchie e nuove (dai fucili ai post infuocati degli haters) e con la fama al tempo dei social network – la scrittura di Billie Joe è soffocata dalla fretta e dalla frenesia di questo divertimento artificioso che è Father of all….

La sensazione che domina è quella di trovarsi di fronte ad un’occasione sprecata, perché in mano alle persone sbagliate.
Ci hanno provato, i Green Day, a reinventarsi per l’ennesima volta (sarebbe stata almeno la terza nella loro carriera trentennale), ma non ci sono riusciti: il coraggio ed il progetto vanno premiati, ma non basta.

Sarebbe forse stato meglio se la pratica non fosse mai arrivata, e ci si fosse fermati alla teoria: come quando, di recente, Billie Joe, che ci ha visto lungo, ha dato pubblicamente il suo endorsement ad un’altra Billie, la Eilish, lei sì davvero figlia di questo tempo, di cui i Green Day non fanno più parte.
Sarebbe forse meglio se i Green Day, per il bene stesso dei Green Day e di ciò che rappresentano, semplicemente la smettessero: solo così sarebbero giovani per sempre.

Copertina di Dal Matto al Mondo di Matteoni

Dai tarocchi alla poesia

Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (Effequ, 2019), l’ultimo libro di Francesca Matteoni, si inserisce nella collana Saggi Pop e lo fa a buon titolo: si tratta di un testo esaustivo sul tema dei tarocchi caratterizzato da uno stile narrativo scandito da citazioni di testi, che aprono un mondo che va al di là delle carte abbracciando poesia, fiaba e molti altri universi.

Dal Matto al Mondo è un ottimo punto di partenza per avvicinarsi ai tarocchi: 22 capitoli dedicati ai 22 Arcani Maggiori, 4 dedicati a bastoni, coppe, spade e pentacoli e un ultimo capitolo dedicato a re e regine, fanti e paggi. Durante tutta la lettura Francesca Matteoni accompagna il lettore con delicatezza in questo mondo arcaico, avvolto da un fascino che resiste al tempo e alle superstizioni. Alla fine si posa il libro con la voglia di farsi leggere le carte o di imparare a leggerle. A me è anche venuta voglia di parlare ancora un po’ con Francesca di carte, di poesie, di Dante, del potere delle immagini. Se non avete ancora letto il libro, questo è un modo per cominciare a immergervi, oppure per continuare il viaggio.

 

Perché nascono i tarocchi? 

Questa è una domanda complessa e senza risposta definitiva. Una storia diffusa nel Settecento francese grazie ad Antoine Court de Gebelin, esponente di spicco della massoneria, li vuole connessi a Thoth, dio egizio della scrittura, e li definisce un antico libro sapienziale composto di lamine o carte invece che di pagine. La teoria esoterica, seppure tarda, ha una sua ragione intima: di fatto possiamo leggere le immagini attraverso gli archetipi e la tradizione. In origine i tarocchi devono essere stati un gioco di carte nato nelle corti rinascimentali italiane. Certo, la presenza degli Arcani Maggiori ha un fascino che resiste al passare delle stagioni: in questo i tarocchi si comportano come tutte le opere d’arte, offrendosi a varie letture e interpretazioni.

 

Perché i tarocchi funzionano e resistono al tempo? 

Perché hanno la forza e il mistero dell’immagine che precede la parola. Nonostante o in virtù della loro specificità, si possono adattare a contesti diversi. Per esempio, nei mazzi tradizionali abbiamo presenze come il Papa o gli Amanti che possono risultare rigidi, privi di senso, fuori dalla loro tradizione religiosa e culturale, addirittura stonati in un’epoca contemporanea di multiculturalismo, nuove spiritualità, visioni non più asfitticamente binarie dei generi e degli orientamenti. Ma lo sguardo non può fermarsi alla superficie e dietro il sembiante i tarocchi invitano a capire la funzione delle figure.

Allora il Papa diventa il Gerofante, colui che amministra il sacro attraverso la tradizione in cui cresciamo (e da cui ci affranchiamo). Gli Amanti sono la radice dell’amore, cioè la possibilità di riconoscere un altro fuori da sé e di compiere scelte di conseguenza. Ecco quindi che possono nascere mazzi dove trovare due oche canadesi che viaggiano insieme tutta la vita, invece di un uomo e una donna; possiamo avere un Gerofante femminile, arboreo, rappresentato come vecchio maestro o come sciamano ibrido fra bosco e animale.

È ciò di cui si fanno portatori che resiste, perché tutti noi abbiamo sperimentato, o sperimenteremo, l’amore, tutti abitiamo più o meno consapevolmente una tradizione. Funzionano grazie alla loro capacità di rinnovarsi sia in chi li legge che in chi li immagina, attingendo però a una stessa fonte di sentimenti ed esperienze diffuse del vivente.

 

In Dal Matto al Mondo parli dei tarocchi utilizzando tanta poesia, ma anche favole, saggi e altre fonti. Essendo i tarocchi qualcosa di iconografico, perché la scelta di ricorrere ad altri mezzi per esplicitarne il significato, e in cosa ti sono stati utili? 

L’immagine è uno scrigno. È l’animale antico ed evanescente sul muro di una caverna preistorica. È il riflesso in una polla d’acqua dove qualcuno crederà di scorgere un altro universo fino a farne il suo sogno. L’immagine resta se stessa pur aprendosi a molteplici tradizioni, e per questo alle parole. Poiché arriva a noi senza istruzioni per l’uso ci permette un viaggio nella nostra storia e in quelle che ancora non conosciamo, che diviene la seconda vita del racconto. Tutto rimanda sempre a qualcosa d’altro, è così che si lega dentro di noi e che tende alla chiarezza.

Come puoi dire ad altri che una vecchia betulla sente, pensa, conosce e che magari tu l’hai amata, solo mostrandogliela? Molti non vedranno che un tronco bianco, interrotto da crepe scure di corteccia. È già una storia, certo, la più pura, quella che sopravvive nell’occhio e nel corpo, ma per farsi bene diffuso ha bisogno di un rito, di un’evocazione. Potrei dire che quella betulla è la Temperanza e a sua volta la Temperanza è la storia di un angelo compassionevole. Attraverso la storia dell’angelo compassionevole forse qualcuno risalirà fino alla betulla o magari, usando la sua persona, troverà un’altra creatura.

Bisogna partire dall’osservazione: osservo a lungo le carte perché esse si riallaccino ai miei strumenti familiari, quindi la poesia, le fiabe, il linguaggio con cui sono nata. Sono una che a due anni tormentava gli adulti con Cappuccetto Rosso e Buchettino; a sei inchiodai due maestre che sventuratamente mi avevano chiesto se conoscessi una poesia, con le otto poesie che sapevo a memoria. Una rompiscatole. I tarocchi mi ascoltano con pazienza e fluiscono in queste parole svelando altre vie, prendendomi di sorpresa insomma, perché come dei trickster di carta alla fine sono loro e non io a raccontare.

 

Una delle due citazioni iniziali è di Dante: «Lo duca e io per quel cammino ascoso / intrammo a ritornar nel chiaro mondo». Si tratta del momento in cui Dante e Virgilio risalgono dall’Inferno. Perché la scelta di questo pezzo? 

L’ultimo degli Arcani Maggiori è il Mondo. È anche l’Arcano di partenza, se ci pensiamo: nasciamo nel mondo, ma ci vuole tempo per tornarci e riconoscerlo quale compagno. I tarocchi sono un’immersione dentro noi stessi proprio perché spingono e premono verso il fuori, aiutano ad attraversare l’ombra e a dismettere l’idea che la nostra interiorità sia il fine del pellegrinaggio. Il fine è ciò che sta fuori. Il fine è il corpo e le stelle che lo vegliano. Entrare nei tarocchi significa accettare che ogni cosa, perfino la più apparentemente quieta, può scatenare un tumulto. Significa sapere che l’ombra cammina con noi: è quanto non vediamo, quanto ci nascondiamo, ma anche una fedele verità che può rafforzarci. Le carte invitano a non temere l’inferno, insomma. Ma a ricordarci dov’è e che ci siamo stati molte volte – è per questo che vediamo la luce.

 

Attraverso le citazioni che utilizzi, il libro alla fine sembra quasi il prodotto di un lavoro coreutico, un libro sull’ascolto degli altri per dare una risposta. Applicando questo concetto ai tarocchi, siamo noi ad ascoltare le carte, o viceversa? 

Forse ho già un po’ risposto. Siamo noi che ci convinciamo di dire una storia attraverso le carte e invece sono loro a illuminare i punti salienti della narrazione, a tirarne le fila. Si attivano nella nostra attenzione; una volta attivati azzerano l’io, appunto, lo conducono dove il groviglio dei pensieri e dei tormenti si allenta per farci passare. Per questo è utile ricordare che ogni carta non ha una storia sola e che talvolta alcune restano mute, perfino ostili, per lunghi periodi. A oggi ci sono Arcani sia Maggiori che Minori che hanno perso o acquistato nella loro intensità a seconda della vita che ho vissuto e di dove li ho riconosciuti negli anni.

 

All’inizio spieghi perché hai cominciato a leggere i tarocchi, l’ho trovata un’immagine molto dolce: «per rompere il disagio in certi ambienti dove non conoscevo nessuno». Sembra che le carte siano state per te un ponte d’incontro con l’altro. È forse questa la funzione ultima dei tarocchi? Unirci a qualcosa di sconosciuto? 

O forse a qualcosa da cui siamo sempre talmente circondati da darlo per scontato. Hai presente tutte quelle fiabe in cui qualcuno deve superare cinque mari, dieci montagne, quindici giganti, indossare diverse paia di stivali delle sette leghe per trovare che la meta ultima era l’orto dietro casa sua? Ecco, va così, anche con le carte. Sull’usarle come ponte per gli altri, penso di poter aggiungere questo: non sono una persona timida, ma posso isolarmi molto senza sentire la mancanza di nessuno.
Il problema sta nel trasportare verso gli altri, scansando come la peste i facili giudizi, tutto quell’universo che ho sempre abitato e che per molti suona come un guazzabuglio di stramberie. Non è che puoi andare in giro facilmente a intavolare discussioni sugli spiriti, su quello che ti hanno detto i sogni, sulla betulla parlante, su orsi e caprioli che erano bambini e bambini che erano orsi e caprioli – tutto questo, se non ha un filtro, ti fa semplicemente passare per pazza.
Mi consolo dicendomi, con qualche mania di grandezza, che anche molti sciamani artici come antichi e moderni guaritori, sono solo dei pazzi, degli imbroglioni, dei marginali e da questo traggono la loro energia. Allora per veicolare ciò che più mi preme scelgo vari mezzi: le fiabe e il linguaggio diretto con i piccoli; i tarocchi con gli adulti. E sapessi quanti animisti insospettabili si manifestano!

 

Quando arriviamo alla carta della Forza, dici che forse è la tua carta preferita. Ce n’è una che temi e perché? 

Sì, la Giustizia, una carta per cui nutro profondo rispetto. Rischia spesso di passare inosservata, proprio come accade alle cose più difficili. La Giustizia è oltre l’umano, perfino indifferente all’umano, non preannuncia una disfatta come la Torre né un cattivo maestro come il Diavolo o il Gerofante: lei esiste – imperscrutabile, ferma e rigorosa. Situazioni che, dal nostro limitato punto di vista, possono risultare ingiuste e dolorose, si rivelano in lei come un’estrema forma del giusto pre e post-umano. Pensa a quanto abbiamo fatto al pianeta che abitiamo e a come si sta ribellando.

Tanto di quello che accade è ingiusto: la morte degli innocenti (spesso i non umani, ma anche i popoli cosiddetti minoritari, marginalizzati dal sistema capitalista) è ingiusta, eppure è una diretta conseguenza delle azioni della minoranza caucasica e occidentale. A suo modo la Giustizia agisce, impone morte e rovina e non si ferma per raccattare nessuno, non dà spiegazioni. Lei è. Siamo noi a dover essere abbastanza maturi, abbastanza coraggiosi da capirne il messaggio e provare a riparare. È per me l’Arcano implacabile, il più equamente disumano. Se invece dovessi scegliere una carta che non amo per niente (ma non la temo), direi il Re di Coppe e lo dico anche nel libro: quell’adulatore losco e sentimentale.

 

Siamo all’inizio di un nuovo decennio, con che tarocco rappresenteresti il 2019 e quale carta auguri al 2020? 

Il 2019 è stato l’anno in cui per chiunque non sia preda della solita modaiola grettezza è divenuto chiaro che il tempo è scaduto. Se vogliamo salvare il pianeta non si può più rimandare. Questo mentre imperversano minacce di guerre, sovranisti di ogni sorta, piccoli e grandi egoismi, l’incapacità di curarsi perfino degli immediati dintorni. È stato l’anno del Giudizio, senza dubbio. Prendo di questa carta l’aspetto vigoroso di risveglio, di apertura delle tombe, di vocazione. L’anno della chiamata, tenendo a mente che i veri morti non sono i defunti, ma i ciechi.

Perché questa chiamata sia efficace, perché movimenti come Extinction Rebellion o i ragazzi di Fridays For Future trovino sponda fino a costringere la maggioranza della classe politica a divenire responsabile, occorrono saperi, immaginazione, forza creativa, tenacia. Mi immagino quindi una piccola stesa augurale a carte scoperte: si inizia con l’Imperatrice, ovvero madre terra stessa, madre fantasia e cura; si cerca guida nella Stella fissa, la speranza che fa sgorgare l’acqua dalla pietra; si mette in pratica ogni arte con dedizione nell’Otto di Pentacoli mentre con l’Otto di Coppe si cambia strada senza rimpianto.

Infine si evoca la volontà dell’Imperatore, la sua autorevolezza politica per strutture sostenibili che non escludano nessuno. Ho scelto cinque carte, cinque il numero della crisi (anche del Gerofante, ma questo ce lo teniamo per un’altra volta); e il numero del cammino a metà. Forse siamo alla fine di un’epoca e di molte nocive illusioni – ma non siamo finiti. Coraggio.

 

(Francesca Matteoni, Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi, Effequ, 2019, 320 pp., euro 15, intervista di Giulia Fuisanto)

 

Copertina di “Città sommersa” di Marta Barone

Il padre sommerso

Marta Barone ha paragonato Città sommersa (Bompiani, 2020) a una lanterna magica: in un luogo oscuro, attraverso un foro e una lente, il dispositivo conduce lo spettatore dentro una proiezione di fantasmagorie luminose. Questo libro ci mostra, allo stesso modo, le apparizioni di un uomo: il padre dell’autrice, chiamato L.B. nel romanzo, illuminandone le parti della sua vita giovanile, rimasta fino ad allora, almeno per Marta, priva di immagini, vaga, sommersa.

Tutto ha inizio con la lettura della memoria difensiva di L.B. nel processo in cui è stato incriminato, e poi assolto in Cassazione, per banda armata: le carte suscitano l’interesse di Marta, che ne coglie la storia da raccontare. Il faro sulla vita dell’uomo punta sugli anni Sessanta, il periodo trascorso a Roma come leader del movimento studentesco; poi, la rinuncia alla laurea in Medicina (che prenderà solo anni dopo), col trasferimento a Torino. Qui il racconto oscilla tra l’accorato coinvolgimento per le agitazioni movimentiste e la difficoltà di comprendere come il padre abbia potuto far parte della formazione politica Servire il popolo, che tentò in quegli anni di introdurre un rigidissimo regime di vita socialista tra i suoi membri. Una follia ricostruita da Marta Barone attraverso gli opuscoli della propaganda dell’epoca: documenti, tracce di realtà che sembrano provenire invece da un mondo parallelo, distopico, dunque perfettamente a loro agio in un romanzo.

L’autrice, cercando la chiave giusta per ricomporre una vita su carta, ci coinvolge nelle sue ricerche, raccontandoci di sé, del suo lavoro di traduttrice e scrittrice di libri per ragazzi, trasformandosi in un personaggio dal suo stesso romanzo. Perché Città sommersa è un testo fortemente letterario, nell’accezione più genuina del termine: la narrazione, attraverso il mito, diventa lo strumento utilizzato per esplorare la realtà; le persone cambiano nome e diventano anche loro personaggi; le vicende seguono una precisa filosofia di composizione; le citazioni, i libri, ci vengono offerti come riparo dalla semplicità, dalle ovvie risposte, dalle facili conclusioni. Seguiamo così il lavoro artigianale della scrittura (e i colloqui, i dubbi, le notti insonni), i flashback continui e le digressioni insistite, ricomposte in affabulazioni che tendono una mano al lettore, a cui Marta Barone si rivolge direttamente.

Nel fare questo, l’autrice ricostruisce la vita di L.B. seguendone le tracce spurie nei luoghi in cui ha vissuto, per le strade, negli appartamenti: posti da riscoprire necessariamente, poiché costituiscono la vita stessa dell’uomo, ostinato a scomporre la sua esistenza e le relazioni in compartimenti stagni. Il libro diventa così una mappatura, intesa come cartografia dell’anima: è L.B., la vera Città sommersa che lentamente affiora, specie grazie al confronto con le testimonianze di chi gli era stato più vicino, come Agata, la prima moglie. L’autrice cerca e si confronta, dunque, con le uniche tracce pubbliche di L.B., ritrovate nella misconosciuta cronaca locale torinese di quegli anni: il ritratto è quello di una persona conosciuta e amata nel mondo del proletariato, grazie alla sua indomita volontà di aiutare i più bisognosi, alla caratteristica di essere un buono, e tuttavia a volte respinto, forse perché troppo umano, impossibilitato a non tradire la sua purezza.

Quando deflagrano gli anni di piombo, l’autrice deve soffermarsi sulle vicende del nucleo di Prima linea attivo a Torino, con le dolorose ferite del terrorismo, gli assassini che prima di uccidere sorridono «ma solo con la parte di sotto della faccia», scrive Marta Barone in Città sommersa; e poi le morti innocenti, i tragici episodi avvenuti in città, come lo scontro a fuoco nel bar dell’Angelo, nel febbraio del 1979, e l’agguato di via Millio, che causò la morte accidentale di uno studente diciottenne. Un episodio legato anche al destino di L.B., che presterà aiuto, inconsapevole, da medico, a uno dei terroristi feriti, e che gli costerà l’arresto e il carcere.

Mito, romanzo, biografia? L.B., il padre sommerso, resterà inconoscibile; ma dal fondale della letteratura, riemerge tra le pagine. Il rapporto tra Marta e il padre, genitore e prole, si ribalta: la figlia svuota l’acqua, rimuove il superfluo, asciuga le figure. «Il libro esiste perché non c’è più l’uomo», scrive l’autrice che così lo ricrea, riaffermando che L.B., suo padre, sì, ha vissuto.

(Marta Barone, Città sommersa, Bompiani, 2020,  pp. 304, euro 18, articolo di Domenico Ippolito)
poster della serie Dracula disponibile su Netflix

Un nuovo Dracula per un nuovo millennio?

Quando si sceglie di lavorare su Dracula, una delle figure più longeve e sfruttate della storia del cinema, non lo si può fare a cuor leggero: bisogna quantomeno darsi una certa autorevolezza, e sentire di avere qualcosa da aggiungere.

Questo almeno devono aver pensato Mark Gatiss e Steven Moffat, i creatori di Sherlock, nell’ideare il nuovo Dracula per BBC, disponibile su Netflix in Italia dal 4 gennaio. Che nella forma della miniserie, in pratica tre film da un’ora e mezza, hanno compiuto un’operazione a dir poco funambolica: portare in scena tre generi, tre estetiche e tre mondi narrativi diversi usando come base i personaggi e le vicende di un unico racconto, quello di Dracula, sbilanciandosi tra una fedeltà sorprendente e una rivisitazione totale del romanzo e di ogni sua trasposizione – tra cui di certo spicca la creazione del personaggio di suor Agatha, un corrispondente femminile di Abraham Van Helsing interpretato dalla splendida Dolly Wells, che, nel conservare il carattere, l’energia e l’acume del professore olandese, risulta contro ogni previsione riuscita.

Il primo episodio è un vero concentrato di orrore, un Dracula di una crudeltà che ormai neanche si sperava più di vedere: c’è il gusto per il sangue – rosso, denso, da film di qualche decennio fa – e per i mostri – i numerosi non-morti che infestano il castello del conte e che mettono a disagio sia dal punto visivo che da quello concettuale. Ma soprattutto c’è un’estetica infernale di gusto quasi medievale, come la memorabile scena del conte Dracula che esce dal corpo di un lupo davanti alle suore del convento di Budapest.

È anche un lungo omaggio alla storia del cinema, capace di rassicurare chiunque sull’amore e la buonafede dell’intera operazione: gli esterni sono stati girati nel castello di Orava, lo stesso che Murnau scelse per il suo Nosferatu nel 1922, e l’aspetto del conte, ogni fase del suo ringiovanimento mentre assorbe la vita dell’avvocato Harker, sono stati studiati nel dettaglio per rievocare ogni altro grande Dracula del Novecento, da Gary Oldman a Christopher Lee a Bela Lugosi.

Il secondo episodio si basa invece sulla vicenda sempre un po’ negletta della traversata in mare per l’Inghilterra della nave Demeter, che viene sfruttata per creare una sorta di gioco di scacchi, un Assassinio sull’Orient Express con Dracula come assassino e come deus ex machina. Dentro c’è tutto l’immaginario di Agatha Christie, l’ironia, le piccole crudeltà individuali nascoste dietro una facciata rispettabile, e un’eleganza in cui la figura del conte, nell’interpretazione seducente e profondamente malvagia di Claes Bang, emerge forse al suo meglio.

Quanto al terzo episodio, sembra un tentativo di doppia traslazione: tutta la parte britannica del Dracula originale, insieme ai suoi personaggi – Lucy Westenra, i suoi pretendenti, il folle Renfield – viene spostata non solo nella Londra contemporanea, ma anche nell’universo estetico e narrativo dello Sherlock di Benedict Cumberbatch: troviamo infatti una sorta di investigatrice, oscure società collocate in località più o meno segrete, e anche quel mondo della comunicazione digitale reso visibile, fluttuante sullo schermo, come parte integrante della realtà.

Si dice che a Gatiss e Moffat l’idea per un Dracula sia venuta proprio sul set di Sherlock: guardando Cumberbatch di spalle, con il bavero del cappotto nero alzato, scherzando hanno detto che sembrava il conte Dracula. E sarà stato forse per questo, per l’impossibilità di staccarsi da quell’immagine, o per un desiderio troppo profondo di tornare lì dove tutto era cominciato, che il terzo episodio è per certi versi un esperimento fallito: le numerose forzature narrative sembrano frutto del tentativo di accostare elementi che invece si respingono – come la scelta di far dormire il vampiro in acqua per più di cent’anni, o la presenza di Zoe Helsing, una fantomatica discendente della suora Agatha, che dall’inizio alla fine è invece l’unico vero punto focale del racconto – e impediscono soprattutto nella prima parte una qualunque sospensione di incredulità.

Non basta questo però a definire la serie mediocre in generale, come da più parti è stato detto.

È imperfetta, come lo sono a volte i grandi esperimenti: chi ricorda lo smarrimento e la sorpresa dati da uno dei migliori horror degli anni Dieci, American Horror Story, che di stagione in stagione usava gli stessi attori per rivitalizzare temi ormai diventati cliché, sa che certi tentativi sono più riusciti, altri decisamente meno, ma la grandezza delle intuizioni rimane indiscussa.

E sono proprio le intuizioni a rendere questo Dracula meritevole al di là delle sbavature. Perché le storie di vampiri hanno un senso e lasciano un’impronta sull’immaginario collettivo solo quando riescono a cogliere il sentire di un’epoca, a interpretare il suo rapporto con il male e con la morte.

Il Dracula di Claes Bang è crudele: crudele e indifferente alla crudeltà come lo era solo il conte di Bram Stoker, mentre porta via un neonato per darlo in pasto alle sue “spose” o quando sceglie le sue vittime per ciò che può assorbirne. È mostruoso ma attraente come lo è da sempre la via del male, in un modo quanto mai esplicito: l’effetto che ha sui passeggeri della Demeter è forse lo stesso che ha il Lestat di Anne Rice sulle sue vittime, se non che Lestat è molto più angelico di questa figura con le unghie come artigli.

Ha però anche una particolarità. Un po’ come un serial killer, vuole e non vuole essere compreso: respinge ed è attratto da chi prova a smascherarlo, perché dietro una malvagità satanica, quasi senza ombre, cela un’inquietudine molto contemporanea. Nello svelamento finale, in cui Zoe-Agatha mostra al conte che le sue paure – la luce del sole, le croci – sono solo superstizioni, lo mette di fronte a se stesso, alla propria miseria.  

«Direi che vi vergognate», gli dice, perché dietro la facciata perfetta e spietata Dracula è soprattutto un vigliacco. È un signore della guerra che da secoli manda gli altri sul campo di battaglia della vita e si tira indietro di fronte a ciò che è ineluttabile. È un vecchio che si nutre del sangue dei più giovani pur di non mollare la presa sulla vita – anche se si tratta di una vita solo a metà. Per questo non riesce a guardarsi allo specchio: perché lo mostra per quello che è. E per questo non riesce a guardare la croce: perché è il simbolo della scelta di morire per qualcun altro.

Rispetto alla deriva esistenzialista del Louis di Intervista col vampiro e alla malinconia dei vampiri annoiati di Solo gli amanti sopravvivono, per cui la vita eterna è una prigione nella quale ci si trascina senza trovare un senso, questo Dracula compie un passo avanti e pone la questione della non-morte nei termini nuovi del coraggio, della scelta della morte. Dracula non è imprigionato nella vita, ha solo troppa paura per accettare la morte.

In questo, la sua vera nemesi non è tanto Agatha, che con Dracula giocherebbe a scacchi per l’eternità solo per dimostrare di poterlo sconfiggere, quanto la giovane Lucy Westenra. Perché nella sua leggerezza, nel suo disprezzo per la vita non c’è tanto il credere incosciente dei giovani di poter vivere per sempre, ma piuttosto una consapevolezza profonda della propria finitezza e del mondo in cui vive, in cui «Tutti ti sorridono se sei bella», in cui solo l’apparenza ha valore.

Lucy che invita la morte e le sopravvive nella speranza di mantenere il proprio aspetto; che solo attraverso un selfie – lo stesso specchio che Dracula da sempre evita – scopre di essere invece condannata a un’eternità da mostro, e allora preferisce non essere affatto. Lucy è la vera figura tragica, e la più contemporanea, di questo Dracula, insieme a tutti i morti che invece non riescono a morire, i non-morti destinati a grattare per l’eternità il coperchio della propria bara e a supplicare di essere uccisi mentre vivono ogni momento della propria decomposizione.

Se ogni ritorno a Dracula è, più di ogni altro racconto dell’orrore, un nuovo tentativo di raccontare il perturbante e l’attrazione per la morte, quello della serie di BBC è denso di riflessioni e intuizioni, ma è soprattutto pieno di un amore profondo e di un vero desiderio di sperimentare, incurante di ogni intento commerciale.

poster italiano di piccole donne su Flanerí

“Piccole donne”, ancora una volta

Arrivata alla sua seconda regia dopo il buon successo di critica e pubblico di Ladybird, Greta Gerwig alza l’asticella confrontandosi con il classico per eccellenza della letteratura femminile statunitense: Piccole donne.

L’opera di Louise May Alcott, iniziata nel 1868 e sviluppata poi in quattro diversi volumi fino al 1886, è ormai relegata al non infame rango di lettura per l’infanzia, ma contiene molto di più. C’è un passaggio d’epoca, con le conseguenze della guerra di secessione, c’è la descrizione puntuale dell’adolescenza sia maschile che femminile, c’è la fine della aristocrazia terriera e l’ascesa della città. Le precedenti versioni cinematografiche (una decina tra tv e grande schermo, dal 1918 alla penultima per la BBC del 2017) si sono concentrate sull’aspetto pedagogico del romanzo. Gerwig va oltre e restituisce, nelle intenzioni, grandezza al ruolo di Piccole donne e in senso più ampio di Louise May Alcott nella cultura statunitense.

La storia è quella delle quattro sorelle March, Jo, Meg, Amy e Beth, giovani ragazze nel Massachusetts del 1861. Il padre è al fronte con gli stati confederati, la madre manda avanti la casa tra mille sacrifici e con l’aiuto freddo e distante di una zia ricca e severa. A questo primo piano temporale se ne incrocia un secondo, sette anni più tardi, con Jo a New York che cerca di diventare scrittrice e Amy a Parigi insieme alla zia, tra nostalgia di casa e rimpianti.

Greta Gerwig ha cercato un difficile equilibrio per le sue Piccole donne tra classicismo e modernità. Portando avanti un discorso già iniziato con Ladybird si concentra sulle varie sfaccettature del femminile, in particolare su Jo e Amy, sorelle rivali, diverse e legatissime, ma sempre in conflitto.

Se in Jo è facile leggere, come già nei libri, l’alter ego di Alcott – con ampio spazio alle sue vicende editoriali che richiamano quelle dell’autrice –, in questa versione ci possiamo intuire anche una identificazione della regista. Una giovane donna che non vuole piegarsi alle aspettative sociali e preferisci definirsi in autonomia. Amy, dall’altra parte, sogna l’alta società, i bei vestiti e un matrimonio. Le altre due sorelle, Beth e Meg, rimangono sullo sfondo. Avanza invece Laurie, il giovane vicino timido e riservato, pronto a diventare uno di famiglia.

Quello che Gerwig è riuscita a fare molto bene è rendere la psicologia complessa dei vari personaggi. Le loro fragilità, i loro desideri, sia dei giovani che degli adulti, vengono mostrati con semplice efficacia. Quello che manca, però, è il giusto approfondimento per tutte le piccole storie che vengono solo accennate. Con l’attenzione riservata quasi esclusivamente a Jo e Amy, e alle loro dinamiche con Laurie, le vicende delle altre due sorelle, della madre e degli altri personaggi secondari, rimangono semplici bozzetti che chiamano più spazio.

Peccato, perché questo nuovo Piccole donne ha uno stile interessante e personale – ottimi i costumi – ma dimostra ancora i limiti di una cineasta come Gerwig, intelligente e sensibile ma forse non ancora del tutto strutturata per confrontarsi con un classico della letteratura e con storie meno personali e più corali.

Negli Stati Uniti non sono mancate le polemiche per la mancata candidatura agli Oscar per Gerwig. Sono sei in tutto – miglior film, sceneggiatura non originale, costumi, attrice protagonista e non, colonna sonora –, ed è già un bilancio decisamente generoso.

Ottimo il cast principale, con Saoirse Ronan, già in Ladybird, come Jo e la sempre più lancia Florence Pugh per Amy. Emma Watson, come Meg, conferma come già con La bella e la bestia, di non poter contare su una gamma espressiva molto ampia. Timothée Chalamet continua a costruire con intelligenza la sua carriera. Su tutti, piccole donne e giovani uomini, vegliano Laura Dern e Meryl Streep, sempre eccellenti.

 

(Piccole donne, di Greta Gerwig, 2019, drammatico, 135’)

 

Asburgo, Europa

«La morte incrociava le ossa sopra i bicchieri dai quali bevevamo»: è l’epitaffio incancellabile di questo memorandum sulla finiis Austriae di Joseph Roth. La cripta dei cappuccini (Adelphi, 1974, ed. or. 1938) si presenta solo formalmente come seguito di La marcia di Radetzky, in cui lo scrittore austriaco narrava le vicende del casato dei Trotta. Il giovane protagonista di questo libro è l’ultima espressione, la più decadente, di quella famiglia: di giorno dorme; trascorre le notti coi rampolli della società viennese; è innamorato di Elizabeth, sorella di uno dei suoi amici, ma non può e non vuole dichiararsi, perché teme di inchiodare una tendenza esistenziale votata all’effimero, al superficiale, con le catene pesanti del vero amore.

Le visite a Vienna di Joseph Branco, un cugino sloveno, coi baffi e la faccia scura, e dell’amico di questi, il vetturino Manes Reisiger (galiziano ed ebreo come lo stesso Roth), metteranno in moto una serie di avvenimenti destinati a mutare per sempre la vita del giovane Trotta. Per lui, i due uomini rappresentano l’espressione più autentica dell’Impero asburgico: un tetto caotico ma (apparentemente) sicuro, dove convivono non senza difficoltà austriaci e ungheresi, cechi e slovacchi, sloveni e croati, serbi e bosniaci, e poi ancora montenegrini, rumeni, polacchi, italiani, ucraini. Una sorta di Europa unita ante litteram, miscuglio di tradizioni, lingue e religioni diverse, che si ritrovano tutte insieme a celebrare il Kaiser Francesco Giuseppe nel giorno del suo compleanno.

Quando Trotta decidere di raggiungere Branco e Reisiger in Galizia, viene sorpreso dallo scoppio della Prima guerra mondiale: sceglierà di combattere al loro fianco, abbandonando i commilitoni del suo reggimento. Joseph Roth ha conosciuto davvero l’esercito e la guerra, nonostante abbia svelato la burocrazia e l’ottusità del militarismo austro-ungarico, soffermandosi sulla contraddizione di una generazione cresciuta in maniera indolente, ma proprio per questo destinata alla morte in battaglia.

Dopo la sconfitta, infatti, l’Impero sarà destinato a sgretolarsi sotto la spinta degli Stati nazionali: degli Asburgo resteranno solo i sarcofaghi, conservati sotto la cripta dei cappuccini, nel centro di Vienna. Proprio alle tombe renderà omaggio il reduce Trotta, nel 1918, a guerra finita, dopo anni trascorsi come prigioniero dei russi e nascosto in Siberia. Tornerà alla cripta ancora, vent’anni più tardi, nel giorno dell’Anschluss alla Germania nazista, che metterà fine alla parola Austria. Joseph Roth, esule in Olanda, dove pubblica questo libro proprio nel 1938, ormai malato e alcolista, morirà qualche settimana dopo.

La cripta dei cappuccini racchiude in sé una metafora semplice e potente, al tempo stesso testimonianza storica e tragedia esistenziale, l’inabissarsi di un mondo e il declino di un uomo. Trotta e la generazione perduta alla quale appartiene, che poi è la stessa di Roth, si identifica con l’Impero Asburgico, le rovine imperiali e la disfatta storica sono le ferite insanabili di un uomo che ha perso la sua identità. Perché in questa parabola, profetica e lucida, vi è racchiuso anche il destino tragico che attende la civiltà ebrea mitteleuropea, di cui Roth faceva parte.

 

 

(Joseph Roth, La cripta dei cappuccini, Adelphi, 1989, prima ed. ita. 1974, trad. di Laura Terreni, 195 pp., euro 10, recensione di Domenico Ippolito)

Il grido disperato dell’itpop

Merce Funebre è arrivato, finalmente. Ecco l’ennesimo artista hypeforme, dove tutto ciò che precede l’uscita dell’album è l’album in sé. Un racconto avvenuto prima che accadesse il racconto stesso. Tutti Fenomeni non è I Cani, lui e Contessa non sono i Battisti Panella dei nostri tempi, come scritto da Rolling Stones qualche giorno fa. Sparare altissimo dopo un album, senza una storicizzazione, senza riflessione approfondita, è un bel modo per catalizzare l’attenzione, rendendo narrazione della realtà quello che realtà non è.

Perché poi rimane che Tutti Fenomeni e Contessa hanno oggi il peso specifico che Battisti Panella avevano nel loro, ed è ingiusto per tutti, per chi fa e chi ascolta. Davvero, cerchiamo altro. Lasciamo stare gli autori di Hegel. Non abbiamo bisogno di certe cose, perché in questo momento di forte fragilità neanche l’iperbole deve essere accettata. Si continuano a generale fraintendimenti, dando largo a cattive interpretazioni, propinando un modo di pensare che accetta l’omologazione come chiave del successo, per cui siamo tutti fenomeni.

Sì, Tutti Fenomeni, ci siamo arrivati. È un’enorme presa in giro questo progetto? Già solo ascoltarlo è il significato proprio dell’album, un esempio al ribasso per testare la salute del pubblico?  È volontariamente lui la merce funebre di cui parla?

Un album meta narrativo, come si capisce da “Metabolismo”?

C’è un misto di vittimismo e mettere le mani avanti, una retorica furba per cui dovesse andare bene o male, lui ne uscirebbe comunque vincitore. Il trucchetto della meta narrazione da quattro soldi non impressiona e non convince come movente.

“Sono uno spartiacque”, canta in “Trauermarsch”. No, non ci troviamo di fronte a uno spartiacque. Tutti Fenomeni non è una nuova interpretazione della musica italiana contemporanea. È l’itpop che cerca di sopravvivere al tempo, non riconoscendosi più, messo allo strette dalla trap, bisognoso di mutare solo per continuare a esistere, in un’altra forma, rimanendo però la stessa identica cosa. Può essere un crossover tra trap e itpop, ma siamo stretti. Azzardiamo.

Tutti Fenomeni suona come una richiesta disperata d’aiuto da parte dell’itpop, non uno spartiacque.

Perché spartiacque è stato Contessa con I Cani, capendo le potenzialità dei social, inventandosi un modo di esprimersi diverso. In quel momento la musica in italia è cambiata realmente e lo abbiamo capito sin da subito. Che poi avrebbe preso una diramazione altra, quella calcuttiana, questo non potevamo saperlo.

Se proprio bisogna trovare uno spartiacque in qualcosa che possa essere assimilabile a  questo lavoro, allora prendiamo Pop X. Sì, Pop X. Quel progetto pazzo, scritto in una lingua che poi, senza che lo potessimo immaginare, sarebbe andata a combaciare con quella  di Tha Supreme. Tutti Fenomeni suona come un Pop X più intellegibile, che si appoggia a qualcosa di più riconoscibile, dai Depeche Mode a Battiato.

A questo punto, se dobbiamo puntare su uno spartiacque, puntiamo su di lui. E, tornando a Battisti Panella, c’è molto più Hegel in Lesbianitj che in Merce Funebre.

Ma Pop X è troppo, eccessivamente estremo. Tutti Fenomeni è furbo, perché a quelle componenti di follia ha messo insieme citazioni alla rinfusa, in un collage post moderno senza cultura, superficiale e senza direzione. Pezzi di Mozart e Chopin messi lì, senza giustificare l’uso della citazione che si dovrebbe fare racconto stesso, ma che qui sta come pezzi di design in una catapecchia.

Non sorprende, Merce Funebre. No, ed è importante avere gli anticorpi per affrontare certi nuovi fenomeni. Al disagio alla Calcutta, o al sentimentalismo da new macho di Tommaso Paradiso, contrappone un linguaggio che viene fatto passare per sofisticato, ma che non mette in discussione nulla, e che sofisticato non è. «Leonardo Da Vinci era rock / Mentre Caravaggio era tipo un trapper». Celentano che prova a reinterpretare Battiato.

Contessa, dicevamo. Niccolò Contessa dietro a tutto questo. Il produttore dell’album. Per forza di cose, la sua mano si sente. Si sente troppo. Prendiamo quanto successo con Francesco Bianconi nell’ultimo album di Lucio Corsi, Cosa faremo da grandi?,  e confrontiamo: Contessa, in Merce Funebre, ci si è completamente immerso dentro, prendendo la forma Tutti Fenomeni, confondendosi, espandendosi lungo tutto il suo universo. Bianconi, invece, no. Ha fatto da perno al musicista toscano, lo ha aiutato a dare il meglio. La questione, a monte, è complessa, ma semplice allo stesso tempo. Dietro Lucio Corsi c’è un essere umano da cui si sente una spinta genuina verso l’arte, un artista per farla breve; in Tutti Fenomeni no, o quantomeno si percepisce che non sia necessario: è un intruglio di mode, superficialità, ipercitazionismo spiccio, linguaggio social. Se ci mettessero un programma, un computer, un robot, uscirebbe la stessa cosa. Il confine sarebbe irriconoscibile.

Questa è una grossa differenza tra due modi interpretativi della musica, oggi. Ed è anche utile per capire che, se da un lato esiste ancora qualcuno che è fuori da certe logiche, non omologabile in un calderone di tutto uguale, dall’altra si percepisce come invece la proposta musicale si muova proprio su questi binari. Tutti Fenomeni sembra uscire da una sorta di laboratorio etereo da dove ciclicamente viene pescato qualcuno a cui affidare le sorti di un ipotetico movimento mosso dall’espandersi sul mercato.

Poi uno funziona più di un altro, ma non importa.

Pensare che per fare Battiato sia sufficiente un paio di Farfallone amoroso buttati lì, insomma, non ci siamo.

Tutti Fenomeni è, momentaneamente, un ex trapper che, a un certo punto, si è messo in società con Contessa. Merce Funebre non è neanche un album piacevolissimo da ascoltare, con cui almeno controbilanciare una mancanza di profondità, visto che le melodie non sono eccezionali. I brani sono inutilmente arzigogolati, pur non essendo musica complicata. Dietro a un pop che si fa più complesso, dovrebbero aprirsi mondi, universi. Qui ciò che vediamo dietro a un proto intellettualismo è l’incapacità di stare al passo con sé stesso.

Merce funebre è un finto bizzarro. Una non novità, la delusione dietro una promessa mai fatta e non mantenuta.