Poster Notti magiche su Flanerí

Inseguendo un gol

Dopo l’esordio nel cinema statunitense con il drammatico Ella & John, che avrebbe meritato maggior fortuna per i suoi due straordinari interpreti, Paolo Virzì torna in Italia cercando il conforto e il confronto con le sue origini con Notti magiche. Un film che è, soprattutto, una grande operazione nostalgia verso il cinema italiano in uno dei suoi momenti di maggior declino, quei primi anni Novanta in cui le vecchie glorie si avviavano al tramonto e i nomi nuovi iniziavano lentamente ad affacciarsi.

È il luglio del 1990, mentre l’Italia esce in semifinale contro l’Argentina nel Mondiale di calcio, un’auto sbanda, si impenna e finisce dentro al Tevere. Al suo interno viene trovato, privo di vita, Leandro Saponaro, produttore cinematografico senza patente e con molti debiti e nemici. Vengono convocati in questura tre giovani sceneggiatori arrivati a Roma alcune settimane prima come finalisti del premio Solinas, uno dei più importanti riconoscimenti per le promesse della sceneggiatura (è un premio reale che ha aperto le strade del cinema a tanti, tipo Paolo Sorrentino). Catapultati nel mondo dei cinematografari romani, i tre ragazzi si sono ritrovati coinvolti, in vario grado, nei mille giri di Saponaro per trovare i mezzi per trasformare in film il copione vincitore.

Se non ci avesse voluto infilare a tutti i costi l’omicidio e la cornice di indagine, Notti magiche sarebbe stato un omaggio al tramonto del grande cinema italiano carico di tenerezza. Tornando indietro nel tempo a un momento di passaggio e di grande ricambio, Virzì è riuscito a ricostruire un ambiente e un calore che aveva conosciuto da giovane. È impossibile non sentire un respiro autobiografico che unisce i tre protagonisti a Virzì e ai suoi due co-sceneggiatori Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, giovani ma non giovanissimi in quell’estate del ’90 e comunque alle prese con i primi passi delle loro carriere.

In una Roma abitata da gente di cinema che si muove veloce per il centro, passando da un ristorante a una terrazza, che macina pagine e pagine di copioni per la tv, per il grande schermo, i tre ragazzi si muovono con l’entusiasmo degli esploratori tra sceneggiatori demotivati, grandi registi dimenticati, sognando un cinema d’autore che non esiste più e provando ad accontentarsi di un cinema commerciale che sta battendo gli ultimi colpi.

Se fosse per la semplice ricostruzione del mondo cinematografico, Notti bianche si guarderebbe con il sorriso del cinefilo compiaciuto che coglie le persone dietro i personaggi, gli omaggi dietro le esagerazioni, i ricordi nella rappresentazione.

L’improbabile pretesa di infilare il tutto nella cornice generale dell’omicidio finisce per banalizzare soprattutto la parte finale, precipitata e ingenua, così come è stereotipata e abusata la rappresentazione bohémienne della gioventù cinematografica. Non supportato da un cast di richiamo, con alcuni vecchi nomi come Giancarlo Giannini nei ruoli secondari, Notti magiche non trova nei suoi tre giovani protagonisti quella spinta di carisma necessaria alla svolta. Solo Giovanni Toscano, alter ego di Virzì, riesce a rompere la gabbia della macchietta che tiene rinchiusi i suoi due compagni di set, ma è comunque troppo poco.

Con Il capitale umano, Paolo Virzì aveva dimostrato di padroneggiare  registri diversi. Con La pazza gioia aveva confermato la tenerezza che lo lega ai suoi personaggi . Da quei due film le cose non sono andate più andate altrettanto bene. Ci sarà il prossimo film per riprendersi.

 

(Notti magiche, di Paolo Virzì, 2018, commedia, 125’)

 

Alla ricerca dei non-luoghi dell’esistenza

A Londra, nel chiostro dell’abbazia di Westminster, si trova questa antica iscrizione: “Noto a tanti / ma conosciuto da pochi / né erudito né incolto / trascorse la vita dedicandosi alle lettere / ma da uomo che non dà importanza al denaro / si adattò alla vita / e amò il proprio lavoro”; riproposta con civettuola umiltà da Giuseppe Marcenaro nell’exit del suo Dissipazioni (il Saggiatore, 2018), è la chiosa perfetta per rendere l’intelligente sberleffo e il disincantato sguardo dal ponte di uno degli intellettuali contemporanei più brillanti che l’Italia possa vantare. Giornalista, saggista, poeta, biografo, critico fotografico, con la ricercata spontaneità dell’ironia, Marcenaro in questo suo saggio – sorta di caleidoscopico Wunderkammer letterario – ammette candidamente di avere «sempre davanti l’inestricabile enigma: se io sia persona o personaggio. Lettore o maniaco accumulatore di carta stampata. Bibliofilo o collezionista. Bibliotecario di un me stesso sconosciuto».

Di fatto, nei tre capitoli – Carte, Memorie e Corpi – delle cinquecentosettantaquattro intense pagine che lo compongono, Dissipazioni non prevede risposta alla domanda del suo autore né smentisce la vaporosa evanescenza del titolo, anzi in un susseguirsi alternato di ricordi di incontri con scrittori, corrispondenze epistolari, lacerti di libri, appunti perduti e ritrovati, collezioni nascoste in labirintiche biblioteche ed edizioni clandestine, si offre come un fantasmagorico teatro delle ombre attraverso le quali, in filigrana, dietro ciò che non si vede o non si trova più, riuscire a riscoprire e rivitalizzare da un punto di vista inedito gran parte dei protagonisti della cultura letteraria (e non solo) tra Ottocento e Novecento: Pontiggia, Majakovskij, Montale, Gobetti, Marx, Luzi, Engels, Gadda, Poe, Campana, Vittorini, Brecht, solo per citare velocemente alcuni tra i tanti posti al vaglio della sua penna dalla cantabile facilità.

Una vasta collezione, dunque, omaggio e monumento insieme a quel quid inespresso che si cela tra le pagine dei libri, al di là delle convenzionali biografie degli autori; oltre il già noto dell’erudizione ufficiale, spinta dall’ambiziosa intenzione – solo in parte riuscita, data la complessità del tema e la vastità del campo preso in esame – di disvelarsi come una sorta di Recherche non solo delle lettere ma del significato della vita stessa, lotta impari contro la vanitas vanitatum che il suo autore sa già perduta in partenza, ma alla quale tuttavia non può e non vuole rinunciare, convinto com’è che il mondo non sia dei viventi ma delle ombre, le sole capaci di resuscitare magicamente città e giardini da una tazza di tè.

Ecco allora Marcenaro spingersi a tessere l’ordito di questa libera, anarchica quanto singolare trama dei frammenti fin dentro ai cimiteri dove, tra rumorosi silenzi, le ceneri e le ossa dei grandi che furono ci ricordano malinconicamente gli imprevedibili giri della storia e i suoi eterni corsi e ricorsi, per cui oggi, se pure il grande scrittore del Realismo socialista Maksim Gor’kij giace ancora inumato nel mausoleo della piazza Rossa, la celebre arteria moscovita che portava il suo nome è tornata a chiamarsi via Tverskaja, così come, per beffarda ironia, le varie parti anatomiche che compongono le spoglie mortali del grande Napoleone, che unificò l’Europa, si rimpallano a più riprese tra collezioni private ed aste, disseminate per i meandri del mondo, un pezzo qui un pezzo là, bizzarramente catalogate come objet d’art.

Contemporaneamente, il gioco dello scavo tra brandelli di vite estinte spesso ci restituisce inaspettati cadeaux, come la passione letteraria di uno dei maggiori poeti della beat generation, Gregory Corso, germinata imprevedibilmente da distratte letture delle poesie di Shelley, tra l’entrata e l’uscita dai numerosi riformatori della sua gioventù, per non parlare della tomba di E.A. Poe a Baltimora dove, dal 19 gennaio 1949 – centenario della sua morte – ogni anno una mano misteriosa lascia cadere sulla sua lapide tre rose rosse e una mezza bottiglia di cognac francese. Omaggio di uno stravagante cultore del divino Edgar, accanito gesto di un curioso narcisista o piuttosto manovra pubblicitaria per rinverdire la leggenda dell’americano maledetto?

Sicuramente invito ad accettare qualcosa di irragionevolmente certo, sostiene Marcenaro; ciò che è secondario e segreto eppure ci spinge a ricostruzioni e divagazioni voyeuristiche, combattendo per non cadere nelle tenebre della dimenticanza perché «siamo pieni di morti, dentro»; quelle presenze perennemente ritrovate al fondo di un cassetto, i testamenti perduti, le scartoffie disperse, le eredità che tentano di riunire ciò che la morte ha separato. Dissipate dissertazioni, le sue, proprie di un flâneur fintamente distaccato eppure capace di leggere, nel non-luogo di ciò che non esiste più, l’inesorabile giro che governa l’ingranaggio della vita e della morte.

 

(Giuseppe Marcenaro, Dissipazioni, il Saggiatore, 2018, pp. 574, € 32.00)

I Mumford & Sons non sono mai esistiti

Con Wilder Mind, i Mumford & Sons si staccavano dalle proprie radici roots e provavano a entrare in un più generico mondo pop/rock alternativo: più simili ai coldplay post X&Y che agli ambiti The National, lo facevano con una goffaggine che risultava a tratti meschina: tentativi di scopiazzamenti qua e là, rendevano il quarto lavoro della band londinese il pasticcio di un gruppo di liceali a cui era piombato dal cielo Aaron Dessner in supporto. Sono passati tre anni, Wilder Mind non è un ricordo lontano, anzi: Delta si presenta come suo successore ideale, che conferma il nuovo modus operandi.

Sigh No More aveva l’unico merito, al di là di ciò che effettivamente proponesse, di esser riuscito a portare un genere – seppur in maniera palesemente ammiccante – ai vertici di tutte le classifiche mondiali. Ma, e questo si è palesato dopo, non era esploso nella cultura musicale, ma nel sistema economico musicale: gli strascichi che ha lasciato sono stati minimi, nessun impatto reale e concreto. Un ricordo annebbiato. Di fatto, un album innocuo che all’epoca era stato travestito da altro da sé. Uno dei grandi bluff degli ultimi anni, al pari di An Awsome Wave degli Alt-J.

Di base, e qui sta una chiave, la scrittura di Mumford è facile, ma di quel facile per cui bisogna fare attenzione. Perché appiattisce e omologa.

A questo punto, per non correre il rischio di somigliare sempre a sé stessi, per cercare di trovare nuove strade, forse per noia o disperazione artistica, con risultati piuttosto scadenti, la grande sterzata. Wilder Mind è stato il primo testimone di questo declino: un declino, però, di un impero mai nato. Delta segue in silenzio la strada, rincorrendo al guinzaglio il suo predecessore.

Mumford sembra preso in una morsa da cui non riesce a staccarsi: non è palese, ma strisciante: il kick-drum è pieno di demoni. Sia in Wilder Mind, sia in Delta, risulta ininterrottamente combattuto tra due spinte verso due modi di percepirsi e percepire la musica diametralmente opposte: una parte che mira verso la Stella Polare odierna, all’Olimpo, a Bon Iver (copiandolo, però. E, passando per l’Islanda, l’outro di “Slip Away” non è un calco dei Sigur Rós?); un’altra, invece, ancorata a un sistema a cui sembra non poter staccarsi, a cui sembra dover appartenere per sempre, a un canone da seguire per poter vendere ed essere dunque presenti al presente, incarnarsi tout court nell’immagine di Ed Sheeran: ciò che rende ideali come artisti da pubblicità su Spotify tra un gruppo di canzoni e l’altro – “42” rappresenta questa scissione perfettamente. Mumford vorrebbe essere, ma non sa esserlo.

Delta è un lavoro marginale: nonostante la produzione di Paul Epworth, un paio di chitarre effettate e un po’ di nozioni di elettronica non risolvono le cose. I Mumford & Sons sono stati e sono un abbaglio sin dall’inizio: Sigh No More ere il principio di una creatura grigia che si è mossa nel mercato cercando di captare ciò che andava e, su quello, ha dato vita alla propria ispirazione artistica.

Cover Addio fantasmi

L’ossessione del ricordo

Addio fantasmi di Nadia Terranova (Einaudi Stile Libero, 2018) è un’opera intima e allo stesso tempo universale che si ispira al concetto di Nostos, il viaggio di ritorno nel luogo originario ma anche nel nucleo originario, quello delle relazioni famigliari spesso portatrici di dinamiche complesse e insuperate. Come il profondo senso di sospeso che la protagonista, Ida, si porta dentro e che deve superare per ritrovare un senso nuovo alla sua vita.

Un romanzo che prova a chiamarci a fare i conti con tutto quello che è irrisolto e indicibile.

 

Addio fantasmi è un romanzo sulla memoria e sulle ossessioni. Sulla elaborazione della perdita e il confronto con il passato: Ida Laquidara, la protagonista, è una donna che vive a metà tra la vita da adolescente – quando ha vissuto un forte trauma famigliare – e la donna che è diventata. Quanto peso hanno le dinamiche già vissute in quello che siamo?

Troppo. A un certo punto ti fermi e quello che sei stato è talmente forte, talmente presente, che nemmeno sai più chi sei. E ti accorgi che non va bene, è come continuare a giocare a un gioco del quale nel frattempo sono cambiate le regole. Così tutti noi a volte, grottescamente, siamo imprigionati in un ruolo che la sorte, la vita o qualcun altro ha deciso per noi. Ida vive al centro del suo dolore non digerito da ventitré anni. Invece è fondamentale ritrovare la misura di noi stessi: è questo che si snoda per tutta la narrazione.

 

«La memoria è un atto creativo: sceglie, costruisce, decide, esclude; il romanzo della memoria è il gioco più puro che abbiamo». Così Ida definisce il “gioco” entro il quale si addentra sin dalle prime pagine del libro, quando subito narra del padre scomparso del quale non si è più saputo nulla. Una perdita che ha segnato la vita di Ida e di sua madre e che appunto innesca la ricostruzione degli eventi. Soprattutto attraverso gli oggetti, i luoghi, le foto. Ricordare è ricostruire e poi, superare: è ciò che volevi spiegare in questo romanzo?

Purtroppo a lungo, per Ida, ricordare è quasi un atto involontario, è un’ossessione, un anancasmo, un rituale che imbriglia. Ci vuole del tempo affinché il ricordo smetta di essere un incubo e diventi una scelta.
Questo romanzo è incentrato sul tempo: e il tempo si porta avanti parallelamente alla memoria, perché chiaramente oltre a avere un’idea del passato e quindi appunto la memoria di ciò che è stato, abbiamo una proiezione su quello che sarà. Il punto è esattamente questo: Ida, la protagonista, “sente” di non avere futuro, lei vive protesa al passato e al massimo nel momento presente. Mai sfugge nel corso di 196 pagine di romanzo e dei trentasei della sua vita un desiderio, una visione su quello che lei sarà: è come se per lei il futuro assomigliasse a una saracinesca chiusa. Questo è il groviglio in cui la sua vita si è inceppata: se non abbiamo futuro restiamo ancorati al passato, quando questi elementi, il passato e il futuro, tornano a bilanciarsi la nostra vita torna in equilibrio.

 

Uno dei centri emotivi più intensi di Addio fantasmi è il rapporto con la famiglia di origine, in particolar modo, quello tra Ida e sua madre, che rimaste una orfana e l’altra vedova di un uomo depresso, del quale non hanno potuto seppellire il corpo, hanno dovuto “arrangiarsi” per continuare a vivere con dignità. Cosa volevi emergesse del loro rapporto che viene rappresentato come una diade ossessiva, un continuo duello?

Una madre e una figlia sole dentro una casa, la casa dove sono cresciute insieme. Non è già questa una tragedia greca? Devono fronteggiarsi, guardarsi negli occhi, a parte gli oggetti non c’è nulla. Solo loro, occhi negli occhi, in un continuo tribunale.
Ida vorrebbe emanciparsi dal rapporto con la madre ma per farlo deve necessariamente passare attraverso l’empatia: devono deporre entrambe le armi, ma la verità è che di fronte a uno sguardo di una madre o quello di una figlia ci si sente sempre nudi. Questo è il motivo per cui loro due si fuggono. La loro è una verità troppo dolorosa e complessa. Ha contaminato la loro quotidianità e non è mai stata veramente elaborata.

 

«Non sono qui per seppellire ma per esumare», dice Ida a un certo punto, convinta che solo passando attraverso il ritrovamento e il recupero di una misteriosa scatola rossa che contiene dei ricordi non detti, possa far pace con lo spettro del padre e del suo ricordo che le avvelena l’esistenza.

Disseppellire, togliere via la terra scura dai ricordi, dal passato, dalle ombre, dai pozzi bui: è questo che fa la letteratura, no? Illuminare i luoghi più dolorosi e doloranti. Portare sulla pagina quello che altri vorrebbero tenere nascosto. Il libro tende alla ricerca di un riscatto che, pagina dopo pagina, si delinea tra i ricordi, le riflessioni, gli eventi che Ida vive una volta tornata nel luogo della sua infanzia e adolescenza.

 

«Sussumere, sarebbe il verbo giusto: prendere su di me le vite degli altri, non sono capace di farlo con i vivi, forse ci riesco con i morti, ma la vera emergenza è pensare ai sopravvissuti». Hai scelto di dedicare il romanzo ai “sopravvissuti” (colpisce anche in esergo un passo di Infanzia di Natalia Ginzburg): chi sono precisamente i sopravvissuti?

Sono io, sei tu, è chi legge… Tutti noi siamo sopravvissuti a qualcuno, a una persona cara che è morta o scomparsa, che ci ha abbandonato. Quando Ida scopre che anziché preoccuparsi di chi non c’è più può preoccuparsi di chi c’è ancora, allora si fa un grande regalo. Ida è nel mezzo, non solo geografico, tra Roma e la Sicilia: questa condizione è anche la condizione della sua vita e di un ponte che lega il passato e il futuro che lei deve attraversare per venire a capo della sua vita. E anche del suo matrimonio, anch’esso popolato di “fantasmi”. Il passaggio in esergo della Ginzburg l’ho reputato perfetto per rendere la condizione dell’essere imprigionati in una dimensione a metà, non definita, ibrida e che, come spesso accade per le cose non chiare, genera conflitti non facili da gestire.

 

La protagonista torna a Messina nella casa di infanzia per la ristrutturazione del terrazzo che viene affidato a due operai, padre e figlio, i De Salvo: il figlio, Nikos, avrà un ruolo dominante nel cuore del romanzo e nell’elaborazione del lutto di Ida.

Padre e figlio sono lo specchio di Ida e sua madre, e in particolare Nikos, testimone e protagonista di una storia dolorosissima e segreta, potrà aiutarla a capire quanto tangibile e profondo sia il dolore degli altri. Nikos e suo padre sono molto diversi da Ida e la madre: si parlano, lavorano insieme al tetto che devono riparare e che è il motivo per cui la protagonista ha lasciato Roma per raggiungere la casa di famiglia. Lo stesso tetto sotto il quale madre e figlia hanno vissuto per anni il loro tormento, il tetto che si sgretola sulle loro vite e che l’elemento maschile – appunto rappresentato dai De Salvo – che a un certo punto è mancato nella loro esistenza, deve rimettere in sesto. Il loro è un ruolo riparatore, protettore, che avrebbe dovuto esserci e è appunto mancato. La vicenda intensa e dolorosa di Nikos poi, confidata a Ida come atto estremo, stabilisce un ulteriore sviluppo della storia e della percezione del dolore della protagonista.

 

«L’irregolarità è l’unica regola della vita, i fatti scorrono accanto a noi mentre ci illudiamo di dominarli. Ecco perché mi rifugiavo nelle mie finte storie vere: su di loro esercitavo una signoria assoluta». Così la protagonista intuisce a un certo punto della narrazione: lei che si occupa di scrivere storie per una nota rubrica radiofonica, avverte che non si possono controllare gli eventi. La scrittura è terapeutica in questo percorso?

Sì, ma involontariamente. Non ci si mette a scrivere per guarirsi, si comincia al contrario sapendo che ci si farà molto, molto male. E poi, un giorno, molto dopo aver lasciato andare quel nucleo rovente, ci si scopre forse un poco più sollevati. Non esistono piani certi e definiti e il romanzo lo ribadisce: qualsiasi progetto possiamo fare la vita lo modifica, lo stravolge, intanto perché ci sono eventi che succedono e che sono totalmente imponderabili. Ogni cosa che facciamo come comperare una casa, investire in una vita insieme, deve fare i conti con questa finitezza. Ci sono un miliardo di cose impreviste e sono date da tutte le variabili che dipendono dalla società, da quanto guadagniamo, dalle nostre professioni, dai legami famigliari. Crescere e diventare adulti significa accettare di non avere il controllo e in un certo senso smettere di pianificare eccessivamente, poiché questo vuol dire non fare i conti con la casualità. Vive bene chi riesce a individuare una sana via di mezzo tra una prospettiva del futuro e un sanissimo godersi l’oggi, che è l’unica cosa davvero certa.

 

In una conversazione con Annie Ernaux hai ribadito che succede questa cosa molto strana: più è intimo quello che hai raccontato, più pensi che sia soltanto tuo, più di solito diventa universale. Così è questo che avviene in Addio fantasmi?

È il mio romanzo più intimo. Ci ho messo due anni e mezzo per scriverlo. Cresciuto un pezzo per volta ha attraversato le fasi di revisione per poi essere completo e quasi intatto come era nella mia idea originale. Mi sono vergognata tantissimo in ogni pagina, e intanto su questa vergogna ho cercato di esercitare un controllo stilistico e narrativo. Mi sentivo sempre come se stessi accanto a una me stessa autentica e profondamente nascosta. L’incontro con la Ernaux è nato sulla base di un leggersi: quando si incontra una connessione letteraria diventa fluido ritrovarsi come scrittrici.

 

Cosa rappresenta per Ida la “scatola rossa”?

Intanto ha un forte potere simbolico, di talismano, rossa come le scarpette di Dorothy di Il mago di Oz, evoca una visione fantastica, il ruolo dell’immaginazione che costruiamo che Ida costruisce nella sua vita. Nella scatola che Ida cerca, complice la ristrutturazione della casa di infanzia, laddove l’aveva nascosta, c’è il passato. Quello con cui lei deve fare i conti. E sciogliere.

 

(Nadia Terranova, Addio fantasmi, Einaudi Stile Libero, 2018, pp. 208, euro 17)

Lasciare sul più bello

Se c’è una cosa che ho appurato sui racconti, è che sono merce potenzialmente a rischio. Rischio di caduta, per debolezza strutturale, difetti di fabbricazione sparpagliati in superficie, o imboscati nel fondo come nucleo inesploso. Rischio di esclusione dai criteri di scelta del lettore, perché è tutt’altro che semplice agganciare a stretto giro l’attenzione di un estraneo; e se per demiurgico incanto l’esperimento riesce, allora è seccante disaffezionarsi ai personaggi e fuoriuscire dalla storia e poi disarmarsi e ricominciare. Questo è quanto riscontrato, sia come consumatrice che come venditrice di libri. Oltre che come redattrice di articoli.

È un terreno sismico, pericolante, vulcanico. Su cui muoversi però può essere un’esperienza elettrizzante. Il rovescio dell’incerto è sempre la sfida. E quando capita ad esempio d’incappare in un breve testo di Kurt Vonnegut, Dino Buzzati o Flannery O’Connor, si ha la fulminea impressione di penetrare un ingranaggio, un meccanismo perfetto, oliato per ferirti nel respiro di otto pagine. È con quest’andatura travagliata, compressa nella gola tra attrazione e sospetto, che ho iniziato a leggere Il vizio di smettere (Racconti, 2018) di Michele Orti Manara.

Classe 1979, quindi ci piace ancora dire giovane autore, blogger di nepente, ghostwriter e social media manager in campo editoriale.  Abituato a maneggiare la scrittura come materia quotidiana, viva e sfigurante.

Si esordisce con Rantolo, breve dramma familiare stritolato in una notte: un padre e una madre angosciati dall’affanno del figlio che dorme, dal fischio ingrato che gli ronza dalla bocca. Feritoia di terrore da cui stilla tutto il fiotto del loro scontento, le asimmetrie in cui si specchiano ogni giorno. Quel sibilo è anche il loro, la spia fumante di un guasto in corso da chissà quanto. E dirottarsi in ospedale è l’istinto estremo di tamponare l’avaria, consapevoli che la crepa è ancora lì, a gelarti nell’ombra, anche quando il rumore si accuccia e il bimbo riposa.

Esistono pezzi che non s’incastrano più, «sarà il caso di smontarli per vedere se si tratta solo di un po’ di sabbia che ci è finita dentro o se sono arrugginiti e andranno cambiati, ma adesso è tardi, anzi è già mattina presto…» E l’elenco del da farsi si sfarina in mezzo all’alba.

Si scivola poi in uno dei più dolenti, Quello che non sono riuscito a scrivere, dove lo spartiacque tra il prima e il dopo della trama è la morte del fratello del protagonista. Linea di demarcazione, battesimo del lutto, reclutamento all’età adulta. Il ragazzo si ritrova sbalzato, anche lui dopo la corsa in moto che gli ha ucciso un segmento di vita ed è costretto ad abitare un vuoto, in casa, negli occhi, nell’impotenza di restituire appena più di qualche briciola di ciò che l’ha smembrato. Restano frammenti, granelli di memorie, un odore da grande che è ora è lui a indossare. La sigaretta offerta dal padre per fumare con un altro uomo, dopo che il primo lo ha lasciato, perché fosse ancora possibile riesumare un Natale.

E il titolo compendia l’intenzione e si spalanca come un’onda sul senso intero del narrato. Il non detto, l’indicibile, l’entropia del diluvio inespresso. Di cui si legge qualche goccia, affaticata sulla crosta.

Ho proseguito con Sulla colonna, brano tra i più lunghi del volume, con un protagonista adolescente e sgangherato, grandinato da asteroide in qualunque posto, sempre in disordine dentro ogni attimo, e ancora con I tacchi sul pavimento, storia d’amore indichiarato tra un giovane e il suo più caro amico, migrato in Brasile come aspirante fazendero. E accumulando passi e vicende, con Post it o Un posto vivibile, l’impressione non cambia.

In ciascuna dinamica, il destino dei vari capitoli è sempre lo stesso: tracciare uno squarcio, trovare un tessuto, inciderlo dove la pelle è più docile e lasciare che parli il crepaccio. Mai a lungo, mai del tutto. Senza mai provare a ricucire la fessura. La storia termina, ma non si chiude. Resta a colare sangue, a sfebbrare oltre il finale. Aperta a qualsiasi direzione, a qualunque (mancata) salvezza.

Tratto comune a tutti gli episodi della raccolta è questo costante impulso di sospensione, di assenza di risposte. L’avvenimento è un organo scoperto, su cui si rovesciano intemperie a cui spesso è possibile opporre un rimedio. Ma lo strappo più segreto non è fatto per essere sanato. Il dolore galleggia, la debolezza si sbraccia, il conflitto resiste come entità incomunicata. Ogni protagonista è la somma delle sue mancanze, dei singoli obiettivi irrealizzati, dalla pioggia molesta dei tiri mancini. Lo afferma chiaramente lo stesso Orti Manara: «Alcune di queste sorprese sono imprevedibili, dispettose e inspiegabili come poltergeist. Altre sono frutto di scelte sbagliate, comportamenti discutibili, errori di valutazione». E ancora: «una cosa che mi ha sempre affascinato della letteratura è che dopo l’ultimo punto fermo, tutto sommato, ogni cosa è ancora possibile».

Se nei casi degli autori sopra citati, come anche di Bernard Malamud o di Alberto Moravia, si tratta di congegni impeccabili, manufatti eccellenti di sconfitta e inettitudine con un corpo perfetto e ben definito, qui incontriamo una collezione di orologi rotti, disegnati appositamente per esibire il danno. E la possibile, non svelata soluzione.

Con un linguaggio chirurgico, asciutto, di ritmo giornalistico, Orti Manara non ci lascia mai sazi a fine lettura. Ci pervade un retrogusto d’inconcluso, di amaro prurito. La coscienza che siamo solo sostanza incompiuta. Secondo Niccolò Ammaniti «il racconto è la passione di una notte». Il vizio di scrivere è una notte in cui il maledetto sonno incombe sempre a metà incontro.

 

(Michele Orti Manara, Il vizio di smettere, Racconti, 2018, pp. 170, € 14.00)

Prigionieri, una passione amorosa

Dopo sessantasette anni dalla prima e cinquantaquattro dalla seconda edizione italiana a cura della casa editrice Dall’Oglio la riedizione di questo breve romanzo rende omaggio a ben tre letterati. Il primo è Ferenc Molnár (1878-1952), l’autore ungherese che il lettore italiano conosce sicuramente per I ragazzi di via Pál, ma forse anche come l’autore di molte opere teatrali tuttora in cartellone nei teatri italiani, oltre che di qualche romanzo tradotto in italiano ma sfortunatamente non più disponibile in commercio. Gli altri due sono una coppia di traduttori, l’ungherese Balla Ignácz – Ignazio Balla (1885-1976) per gli italiani – e Alfredo Jeri (1896-1962). Pubblicato con il titolo Rabok (Prigioneri) nel 1907 a Budapest, e riedito una seconda volta nel 1928 in un unico volume insieme a un altro breve romanzo intitolato Ismerősök (Conoscenti), La piccola pasticceria (Elliot, 2018) è considerato un’opera minore giovanile nella vasta produzione letteraria dell’eclettico Molnár. Tant’è vero che l’ultima edizione ungherese risale al 1928, e di questo testo si trovano cenni solo nelle storie della letteratura ungherese più complete. Eppure meriterebbe la riscoperta anche in patria.

L’esile volume al quale forse sarebbe stato meglio lasciare il titolo originale, Prigionieri, ha in serbo parecchie sorprese piacevoli, a partire dalla trama ben tesa, fino all’intento di rompere gli schemi con una storia d’amore anticonformista, e ai pochi ma ben delineati caratteri che popolano le poco più di cento pagine. Una struttura narrativa dove tutto è ben dosato, presentata con un linguaggio raffinato, reso più efficace e convincente dalla revisione a cura della redazione di Elliot, perché la traduzione risale 1951 e risentiva del passare degli anni e della tecnica traduttiva imperfetta che caratterizzava il pur prestigioso operato della coppia di traduttori.

La piccola pasticceria è frutto di quel periodo narrativo di Molnár che lo prepara al genere in cui saprà dare il meglio di sé: il teatro. Scritto contemporaneamente al suo intramontabile I ragazzi di via Pál, il romanzo si colloca fra le sue ultime prose impregnate ancora di sentimentalismo, con sullo sfondo Budapest, città natale che ha reso sempiterna protagonista delle sue opere nel primo ventennio di produzione artistica.

Un giovane avvocato fresco di laurea e fidanzato della diciassettenne figlia ben educata, benpensante e conformista del direttore di un penitenziario di Budapest difende una cameriera di una pasticceria accusata di furto dell’incasso. L’ha incaricato la stessa imputata in virtù del cordiale rapporto che intercorreva fra i due come cliente e inserviente della pasticceria. Durante un colloquio in prigione la cameriera svela però il suo amore per l’avvocato, una passione per la quale è disposta a tutto e che piano piano lo conquista, tanto che lui sarà costretto a infrangere l’etica e le norme di comportamento della buona società borghese. Molnár tornerà a rielaborare questo tema con una trama molto simile trent’anni dopo, all’apice della sua carriera, in un’altra opera narrativa intitolata L’ussaro verde.

Se questo libro è arrivato a noi è merito di Ignazio Balla, fra le due guerre chiamato amichevolmente ambasciatore della cultura ungherese dal grande Kosztolányi: era il periodo d’oro del romanzo d’intrattenimento in Italia, un genere che diversi scrittori ungheresi coltivavano ed esportavano con grande successo. Ciò era possibile grazie al valido aiuto di traduttori, fra i quali il più noto era Balla, ungherese trasferitosi in Italia ormai quarantenne, che per migliorare la resa in italiano si faceva aiutare dal madrelingua Jeri. A sua volta Balla era anche un fecondo scrittore,  traduttore da altre lingue e, per uno scherzo del destino, fiero sostenitore del fascismo per tutta la sua vita, malgrado le sue origini ebraiche e le inevitabili persecuzioni. Giunse persino a scrivere una monografia sul duce, che conosceva personalmente. Al netto di questa peculiarità, Balla contribuì in ampia misura alla diffusione della letteratura ungherese in Italia, scegliendo e promuovendo più di venti romanzi di cui firma la traduzione con Jeri o altri cotraduttori.

 

 

(Ferenc Molnár, La piccola pasticceria, Traduzione di Ignazio Balla e Alfredo Jeri, Elliot, 2018, pp. 122, € 12.50)
copertina “Illusioni”

La vita attraverso i quadri

D Editore è una casa editrice della provincia romana specializzata prevalentemente in saggistica per l’architettura. Ciò non toglie che negli ultimi anni si sia mossa con grande acume nei campi più disparati. Ci ha regalato, per esempio, il bello e proficuo Datacrazia: una silloge di interventi sull’uso dei big data – argomento che dovrebbe interessare tutti. E ancora, per la stessa collana, il manifesto della panarchia, bizzarra forma di governo e ufo della teoria politica. Ma la casa editrice non si muove solo nella saggistica, complice lo scrittore-curatore Valerio Valentini (che ha da poco pubblicato la raccolta Parlare non è un rimedio, un affresco dei nostri tempi di matrice carveriana, ma aggiornato all’era del precariato), non sono state poche le riscoperte di autori americani meno conosciuti in Italia. Nella collana “Strade maestre” è apparsa una riedizione con capitoli inediti di Il primo dio di Emanuel Carnevali e il classico della scrittura sudista I racconti del Mississippi, di Hamlin Garland. Le uscite della casa editrice si distinguono per particolarità e cura del dettaglio.

L’ultima uscita è Illusioni (2018), una raccolta di racconti in cui una dozzina di scrittori – alcuni dei quali abbastanza noti – prende le mosse della narrazione a partire da un quadro. Come scrive Emmanuele Pilia nell’introduzione: «All’origine dell’umanità vi sono due abilità che sono profondamente primordiali nel nostro più profondo essere: raccontare e disegnare», lo scopo del volume è ritrovare il legame fra azione e visione, fra parola e immagine, attraverso una complicazione formale che suscita riflessioni e domande: come creare un’opera d’arte da un’altra opera d’arte? Come restituire la realtà mediata da un’altra produzione umana, e dunque simbolica? In questo libro non siamo nel campo dell’ecfrasi, perché non vi è la semplice narrazione del quadro. Ogni autore, al contrario, sceglie di utilizzare l’oggetto quadro in maniera diversa: c’è chi lo utilizza come elemento narrativo, chi si ispira all’immaginario che esso evoca, chi ci costruisce sopra ragionamenti o metafore sull’atto della visione.

Un altro elemento interessante della raccolta è il modo in cui è stata composta. La scelta è frutto di un concorso sul magazine Reader for blind, ai partecipanti veniva chiesto di scrivere un racconto inerente un quadro, fra i cento a scelta. Ai sette vincitori si sono aggiunti i racconti dei cinque giudici, che hanno deciso di confrontarsi sullo stesso terreno di chi hanno dovuto giudicare, una decisione coraggiosa che fa loro onore. È interessante vedere come, almeno nei narratori più esperti, il tema dell’immagine risulti declinato secondo poetiche ben precise. Se uno scrittore cerebrale come Francesco D’Isa si ingegna nello scomporre l’atto della visione, riflettendo sul nesso fra realtà e linguaggio, all’altro capo dello spettro Paolo Zardi si lascia prendere da una narrazione materica, in cui il sesso è un prisma attraverso cui sviscerare i rapporti di coppia.

A mio parere il racconto più riuscito è quello di Demetrio Paolin, anche se definirlo “racconto” potrebbe essere riduttivo. In effetti si tratta di una vera e propria meditazione sul significato di scrivere: Paolin identifica nel Quadrato nero di Malevič la metafora dell’approccio dello scrittore alla realtà. Orchestrando un gioco di specchi fra l’io narrante, la figura dello scrittore e l’opera del suprematista, Paolin riesce a comporre un racconto pur continuando ad affermare di «non avere più voglia di scrivere». Insomma Paolin ci regala una sorta di colto gioco beckettiano, che però dell’esercizio non ha nulla, perché è mosso dalla bussola di un moralismo vivo, intransigente.

Solo un piccolo appunto va fatto ai curatori: sarebbe stato meglio esplicitare sin da subito i quadri su cui sono costruiti i racconti, perché a volte ci si perde nella narrazione senza riuscire a identificare il dato di partenza. Una mancanza che – per l’appassionato d’arte – potrebbe essere un punto di forza: giacché, di volta in volta, si aggiunge il piacere di indovinare a quale opera si sta facendo riferimento. Tuttavia questa nota metodologica non inficia il giudizio su di un libro che regala, a fianco del piacere della lettura, il più sottile gusto della riflessione. Per questo consigliamo, a chi è già amante della saggistica della casa editrice di Emmanuele Pilia, di buttarsi fra queste pagine, alla ricerca della propria opera preferita.

 

(AA. VV., Illusioni, D editore, 2018, 160 pagine, 9,90 euro)

Il prossimo album dei Muse sarà sempre il peggiore

L’adagio per cui i Muse agli inizi della loro carriera siano stati un gruppo promettente, molto più che promettente, un gruppo che avrebbe potuto/dovuto segnare gli albori del ventunesimo secolo del rock alternativo, vale ancora. Certo. Ma con il passare degli anni suona sempre più triste e ridicolo. Un’agonia che si prospetta non finire a breve, visto il successo commerciale e la giovane età dei tre inglesi. Perché i Muse sono chiaramente morti nel 2003 con Absolution e, oramai, sono dodici anni di abomini musicali e indecenza: merce. Ogni volta, a ogni loro nuova uscita, l’interesse si sposta dall’album in sé a dove i Muse questa volta riusciranno ad arrivare, quali altre soluzioni troveranno per accattivarsi altro pubblico, verso quali crinali del mercato si dirigeranno, a quali altri compromessi scenderanno questa volta. Ci sono ancora compromessi a cui possano scendere? Simulation Theory è, a oggi, il punto più basso della loro carriera.

La questione è esclusivamente economica? O, domanda ingenua, si può in qualche modo perdere quella magia? Come si fa a passare da quella miscela di rock, synth e classica che si spalancava sul nuovo millennio di “Bliss” a “Get Up And Fight”, forse neanche buona come colonna sonora scritta dai Sum 41 per una serie tv adolescenziale minore? Perché i Muse con Simulation Theory sono riusciti nell’azione eroica di riscrivere la propria storia, in negativo: un’impresa. Dalla copertina Vintage-Terminator all’ultima nota dell’album, non c’è nulla che non suoni finto, falso, ipocrita. Bellamy, che a inizio 2000 aveva lo statuto per ricevere il testimone da Jeff Buckley, da Black Holes & Revelations, ha avuto la capacità di trasformare in sporcizia ogni cosa che abbia suonato e cantato.

Quest’ultima creatura amorfa del trio del Dovon è un inno al nulla. Non c’è la minima traccia di qualcosa che possa essere anche solo immaginata come arte: ha la stessa valenza che potrebbe avere un’interpretazione musicale di un catalogo IKEA. Bellamy e compagni sono delle macchine da profitto, un modo per appagare il proprio ipotetico pubblico, un dare per avere un tornaconto. Sono un’azienda, sono ogni difetto di un’azienda.

Simulation Theory spazia senza logica da tentativi di dubstep e rock alla neoclassica; ci sono i falsetti ridondanti di Bellamy, melodie battute e ribattute, nessuna nuova soluzione, niente che possa farti pensare a qualcosa di nuovo, men che meno qualcosa che possa, non farti addirittura sobbalzare dalla sedia, ma almeno sgranchire le gambe; sai quando Bellamy sparerà la voce in alto, quando e come salirà di un’ottava, gli arpeggi – sempre quelli – messi lì come contorno per ricordare che Bellamy sa suonare il piano; i cori che sono dei latrati di cani in mondi disabitati, tentativi di appoggiarsi ai Queen con risultati pietosi (raccapricciante anche il tentativo di princeizzazione di Bellamy in “Propaganda”, la quale, poi, si divincola in un passaggio no sense di chitarra alla Beck a metà tra “Nausea” e “Loser” ). Simulation Theory ti fa rivalutare gli ultimi U2, ti fa dare altre chance a Chris Martin.

Aprendosi palesemente al mainstream più becero con “Starlight”, si percepisce qua e là il loro tentativo a inserire brani che dovrebbero funzionare come contraltari alternativi nei propri lavori – ma che risultano sghembi, inquietanti, malsani e odiosi: è il caso oggi di “Algorithm”, unico episodio che meriterebbe un po’ di attenzione, ma che si risolve nel nulla, una lontanissima reminiscenza di quello che erano, un giochetto per piacere e niente di più.

I testi hanno sempre il proprio orizzonte politico/distopico: il rapporto con il potere, i soprusi, le ribellioni, le non ribellioni, la propaganda. Bellamy affronta tematiche complessissime con lo stesso spirito con cui un adolescente prova a riscrivere una cosa alla Orwell dopo aver letto un paio di pagine di 1984. La superficialità con cui riesce ad affrontare ogni aspetto di una canzone è la cifra di cosa sono i Muse.

Capita, quindi, di pensare che il trittico Showbiz, Origin of Symmetry, Absolution sia stato un enorme errore. Probabilmente i Muse non sono morti dopo il 2003, ma sono nati: di fatto, sono molto più “Pressure” che “Stockholm Syndrome”.

Cover Est

Fruizione e produzione in “Est”

Quando nel 2014 Tunué decise di iniziare a pubblicare romanzi di “sconfinamento”, l’intento era parso a tutti piuttosto chiaro. Da casa editrice storicamente dedita alla divulgazione di fumetti e graphic novel, il progetto editoriale di narrativa medio-breve è sembrato decisamente azzeccato. Di certo, nessuno poteva aspettarsi che questa linea di confine tra ricerca letteraria e ambizione fantascientifica, questa formula dei «quattro quinti di realtà e uno di sconfinamento», raggiungesse livelli di eccedenza tali da immischiarsi con l’esperienza reale. Tantomeno poteva aspettarselo Gianluigi Ricuperati quando si è trovato a dover fare i conti con DAU, uno dei progetti di videoarte più discussi dell’ultimo decennio, e a raccontarlo in Est (2018), ultimo libro edito per Tunué «Romanzi».

Qualche passo indietro: nel 2008 inizia a prendere forma DAU Freedom, un progetto di cinema-verità messo in pratica dal regista russo Ilya Khrzhanvosky. Ritiratosi in Ucraina, a Charkiv, Khrzhanovsky si dedica all’allestimento di un set ispirato in tutto e per tutto all’Istitut für physikalische Probleme der sowjetischen Akademie der Wissenschaften di Mosca, il centro segreto di ricerca che ospitò l’operato del fisico premio Nobel Lev Landau, nonché personaggio centrale dell’esperimento (da cui, appunto, DAU), durante gli anni dello stalinismo.

Centinaia di persone volontarie sono state chiamate a partecipare al film/istallazione, tra le quali noti scienziati, veri criminali assoldati dal vicino carcere di Charkiv, e un’ignara e cristallina componente di gente comune. Il personale dell’operazione, sistemato in un palazzo di 12.000 metri quadri riadibito per l’occasione, ha trascorso l’intero periodo delle riprese indossando gli stessi vestiti dell’epoca, mangiando lo stesso cibo di quegli anni e obbedendo alle stesse leggi che regolavano l’URSS nel trentennio tra il 1938 e il 1968 – come essere pagati in rubli durante l’intera durata della fiction.

Sul finire del terzo anno, non proprio tutto stava andando liscio come l’olio. I metodi totalitaristici imposti da Khrzhanovsky sulle vite dei partecipanti, così come i provvedimenti penali e gli interrogatori da regime “messi in scena” sulla pelle di alcuni dei volontari, hanno obbligato lo scioglimento dell’impresa e la distruzione dell’Istituto nel 2011.

Alla riuscita finale dei tredici video-installazioni (estrapolati da più di 700 ore di materiale filmico) hanno preso parte, tra gli altri, il premio nobel David Gross, Marina Abramović, Peter Sellars, Carlo Rovelli, il matematico Shing-Tung Yau, il compositore Brian Eno, Wim Wnders e i Massive Attack.

Pochissimi i giornalisti lasciati entrare nell’Istituto durante lo svolgimento del progetto. Altrettanto pochi quelli lasciati assistere al montaggio all’interno della struttura londinese di Piccadilly Street. Tra questi, c’era Gianluigi Ricuperati.

E dunque, il preambolo a Est occupa così tanto spazio da strabordare nel discorso sul libro stesso. Ma due sono i piani da distinguere: di certo, da una parte c’è l’espediente narrativo incredibile di cui ha potuto giovarsi Ricuperati, con tutti i mutatis mutandis del caso. Dall’altra, però, c’è l’effettiva capacità di Ricuperati di giocare con il dono immenso che si è trovato tra le mani.

Del primo piano si è già piuttosto parlato. Nel testo, Ilya è Igor, Lev Landau è Vladimir Ivanovich Vernadskji, DAU è VER. Piccadilly 100 è Piccadilly 99. L’Ucraina è l’Ucraina e l’URSS è L’URSS.
Il libro segue con un elevato grado di fedeltà il rapporto di Ricuperati con l’esperimento, seppur con qualche piccola modifica richiesta dalla ritmica e dalla metrica narrativa (il protagonista, Gianluigi, è un ambizioso fotografo di moda e non un ambizioso scrittore).

Del secondo piano della questione c’è più da dire. Nonostante la volontà di Ricuperati di mantenere un forte legame con la componente veritiera del racconto (d’altronde, che spreco sarebbe non utilizzare il vero quando la realtà è così esagerata di suo!), la prima persona della storia risulta a pochi centimetri dal baratro dell’inautentico involontario. Il registro usato dal protagonista, talvolta molto secco e incisivo, talvolta più pretenzioso e forzato, corre spesso il rischio di trovarsi nella famigerata terra di nessuno: troppo performativo per rientrare a pieno titolo nel modello New journalism, troppo legato al fatto reale per liberarsi formalmente nel campo della pura narrativa letteraria.

Il percorso lessicale di Ricuperati si inceppa, e così l’esperienza stessa del suo protagonista, nei nodi irrisolti della scelta del genere. A volte perduto, senza apparente necessità, nella sciorinatura nozionistica (nelle pagine sui suoi stati di Facebook, per esempio, ma anche nelle risposte che Gianluigi dà a Igor durante i primi incontri), l’autore inquina troppo spesso la sua solita capacità di fornire un’esperienza di lettura più che fluida. Il protagonista stesso, che potrebbe a buon diritto approfittare del vantaggio offerto dalla spontanea sincerità dell’esperienza autobiografica, risulta troppo mediato, quantomeno nella prima parte, dall’obbligo della riflessione sull’esperimento di VER/DAU e dalle conseguenti sovrastrutture imposte dall’occasione di spunto. In tutto il primo capitolo, “Una storia d’amore con la realtà”, Ricuperati si lega eccessivamente alla necessità descrittiva ed esplicativa, andando a gravare sulla necessaria agilità della forma romanzo, almeno quel po’ che basta per rendere il tutto troppo rigido e macchinoso. La storia d’amore con la realtà, in fin dei conti, non riesce granché.

Dalla seconda parte in poi, invece, il romanzo inizia a stupire in positivo. Sciolto finalmente dal legame con l’esperimento, la presenza di Ricuperati scrittore (e non più fruitore) si espande in tutto il perimetro di Est. Paradossalmente, l’ambizione dell’autore di parlare di qualcosa di vero tocca il suo picco di maggior riuscita nel momento di abbandono del dato storico. Ma l’incongruenza non sbalordisce troppo, a ben pensarci, trattandosi di letteratura  ̶ e dunque di produzione e non di semplice ricezione. Anche «l’evidente mancanza di savoir-faire relazionale» del protagonista, che rimane immutata nel corso dell’intero libro, risulta più vicina al vero nel rapporto di Gianluigi con la moglie e con la nuova compagna, di quanto non lo fosse durante la descrizione, nella prima parte, delle ritrosie e delle difficoltà nei confronti dell’ambiente di Piccadilly 99.

Si succedono passi di virtuosismi narrativi degni di nota( «I giorni dei bambini sono costellati da questi oggetti senza dimensioni che scatenano gesti senza ragioni. Ma così si inietta l‘endorfina che poi si ricerca come un’ombra durante tanti altri momenti di là da venire»), e punte di estrema empatia nel valzer a tre autore-protagonista-lettore ballato nei flussi di coscienza dell’esperienza amorosa («E che si può decidere allora? Di libertà si può godere all’infinito, quando si decide di vivere nel contrario della menzogna, di alleggerire il peso del proprio stile, esiliarsi, diventare esile, chiedere asilo, alzare le mani, allungarle su di lei, e lei su di te, ora, domani, sempre […]»).
È il racconto sentimentale, vera sostanza del libro, a essere sincero tout court, di una concretezza che lascia quasi increduli, se mai si ha avuto esperienza della fuga dall’amore quieto e razionale o quella di un sentimento che agisce autonomo tramite la propria stessa pelle. «L’amore vero», dirà Ricuperati durante una presentazione di Est, «è una cosa forte come la rivoluzione russa».
L’espediente di VER/DAU in Est, arrivati alla fine, sembra servire solamente a dar figura alla spada di Damocle di un personaggio che resta irrisolto per buona parte del libro sia nel lavoro che nel privato.

Rimane il rammarico che, se Ricuperati avesse dedicato alla scrittura del libro più di trenta giorni, il testo avrebbe avuto una completezza maggiore. Il percorso di coincidenza con il sé che il protagonista/scrittore tenta di percorrere fin dall’inizio del romanzo, ha un suo momento difficile e fallimentare all’inizio, e un momento risolutivo e conciliativo finale. Chissà se Ricuperati non abbia voluto giocare in modo cosciente con questo rapporto intricato tra autentico e inautentico, tra esperienza fattuale e esperienza affettiva, attraverso un tracciato di paradossi e rovesciamenti nei riguardi di ciò che ci si aspetta sia vero e ciò che ci si aspetta sia falso. Sarebbe una bella lezione da imparare da Khrzhanovsky, e dall’arte contemporanea nella sua interezza, che la letteratura non può che voler (e dover) cogliere immediatamente.

 

(Gianluigi Ricuperati, Est, Tunué, 2018, pp. 197, euro 16)

Un’esistenza ad aspettare

«Dopo quasi tre ore arrivò alla coda della fila e prese l’ultimo posto. Si era ormai abbandonato al ritmo dei suoi pensieri. Gettò uno sguardo pieno di sconforto verso la Porta domandandosi se si sarebbe mai aperta, e, da lontano, gli si parò davanti minacciosa e ottusa come un muro sordo».

Basma Abdel Aziz è una psichiatra e un’attivista per i diritti umani e con La Fila (Nero Editions, 2018, ed. or. 2013) esordisce nella narrativa. I capitoli del romanzo,  incominciano tutti allo stesso modo: sei documenti impersonali e asciutti, scritti in un linguaggio burocratico e straniante, ciascuno per ogni capitolo, informano il lettore sulla salute del protagonista Yahya, un uomo colpito da una pallottola durante quelli che l’autrice chiama gli sciagurati eventi, scontri tra i manifestanti e l’Unità antisommossa di difesa della sicurezza, nonché trasposizione letteraria della Primavera araba. Ecco il primo documento:

 

DOCUMENTO N. 1

Dati

Nome: Yahya Gad el-Rabb Said

Età: 38 anni Stato civile: celibe

Luogo di residenza: Area IX – Edificio I

Professione: agente di commercio

In un mondo diffusamente islamico, conosciamo per la prima volta la natura degli sciagurati eventi dalla prospettiva di Tareq, il medico dell’ospedale dove va Yahya sperando di potersi curare, poi logorato dai sensi di colpa per la sua iniziale indifferenza. «Quello che aveva capito è che alcune persone, oppresse dall’intransigente regime che la Porta aveva messo su poco dopo essersi materializzata, avevano protestato». La Porta, un organismo pervasivo e totalizzante, governa le vite dei cittadini del paese anonimo in cui è ambientata la storia, fagocita tutto il loro tempo, perché è da lei che ognuno spera di ottenere i certificati necessari per sopravvivere alle più varie incombenze di una vita quotidiana interamente burocratizzata: le prerogative della Porta, spiega Aziz, sono «tutto ciò che un essere umano potrebbe mai concepire».

Tutti quindi vi accorrono e alimentano una fila sempre più estesa. Passano le loro esistenze ad aspettare che la Porta apra. Sperano notte e giorno che questo avvenga: «[Yahya] si frugò nelle tasche alla ricerca del blister di analgesico che si portava sempre dietro, ma lo trovò vuoto. Un ragazzo di bell’aspetto, che aveva assistito alla scena da dietro le spalle di Nagi, gli diede due pillole di un famoso medicinale usato di solito contro il mal di testa e gli suggerì di tornare a casa a riposarsi un po’, offrendosi di tenergli il posto. Nagi lo ringraziò al posto di Yahya e gli disse che girava voce che quasi sicuramente la Porta quel giorno avrebbe aperto, e non poteva perdersi un’occasione del genere, visto che forse non si sarebbe ripresentata tanto presto».

E ancora: «[Yahya] era rimasto prigioniero della fila. Vi passava la maggior parte delle ore del giorno, e a volte anche la notte, come del resto molta altra gente. Nagi gli propose di tirare su una tenda, ma lui rifiutò: preferiva fare come gli altri, chiacchierare fino alle prime luci dell’alba e poi dormire soltanto un paio d’ore rannicchiato al proprio posto. Quelli che aveva attorno stavano sempre in piedi; non aveva visto molta gente seduta o addormentata, nell’attesa dei giorni passati. Tutti si aspettavano che la Fila potesse iniziare a scorrere in qualsiasi momento, e volevano tenersi pronti. Si ritrovò a fare come loro, nonostante non avesse mai creduto a quello che si diceva, e cioè che la Porta avrebbe aperto all’alba, o forse, addirittura, nel cuore della notte».

Al di là della fila, il romanzo è incentrato su Yahya, la cui ricerca della verità sul suo ferimento rappresenta il nucleo centrale del racconto. Egli, per testimoniare la violenza perpetuata verso i manifestanti durante gli sciagurati eventi, cerca disperatamente le radiografie che fece una volta arrivato all’ospedale. Da lì incomincia un susseguirsi di speranze vane, documenti manomessi, alterazioni della realtà, crude disillusioni, intercettazioni telefoniche e ambientali, amara rassegnazione. La mente dei cittadini è eterodiretta, prima anestetizzata, lobotomizzata e poi plasmata. Lo Stato controlla la stampa, la televisione, i telefoni, perfino i discorsi più futili di ogni giorno. I burocrati legiferatori della Porta impediscono a tutti di vivere serenamente. Resta viva tuttavia una fiacca speranza di scoprire la verità.

In una città palesemente egiziana anche se i luoghi sono senza nome, attorno al protagonista ruota un universo di personaggi più o meno secondari: Mahfouz, stupratore di una donna sconosciuta e malata che avrebbe dovuto sorvegliare, poi asceso a martire dalla folla; Nagi, ex compagno di scuola e migliore amico di Yahya, giornalista che cerca ostinatamente di denunciare le ingiustizie del governo invisibile; Amani, finita in un’alienante e allucinante stanza bianca, scompare dalla civiltà compromettendo per sempre il suo rapporto col mondo; Inès, una fanatica radicalmente plagiata alla ricerca di proseliti per la religione della burocrazia invisibile,  incarnata da uno Stato che arriva dovunque; questo per fare solamente alcuni esempi.

Basma Abdel Aziz, attraverso questo romanzo, tra le cui fonti figurano probabilmente sia l’Orwell di 1984 che i romanzi kafkiani, ci insegna anche che la verità non è oggettiva, non è una e per sempre tale, e dipende sempre dal punto di vista di chi pensa: quando tutti concepiscono una cosa come vera, o si lasciano plasmare dalle menzogne altrui, bisogna cercare di resistere. Non importano la sofferenza, le ingiustizie sociali, il tradimento della memoria. Il punto di vista degli altri diventa il nostro, ciò in cui crediamo non esiste più: è questa forse la prospettiva più angosciante del mondo distopico creato dalla scrittrice egiziana.

 

(Basma Abdel Aziz, La Fila, Traduzione di Fernanda Fischione, Nero Editions, 2018, pp. 214, € 17.00)
Copertina di Emil Cioran Itinerari di una vita

Al culmine della stanchezza

In questa recente pubblicazione curata da Antonio Di Gennaro, il lettore appassionato di Cioran troverà un resoconto esaustivo e ben documentato della vita di questo controverso intellettuale, portato alla ribalta in Italia grazie alla pubblicazione delle sue opere e di alcuni epistolari. Ma non solo, anche chi non avesse mai avuto occasione di scoprire o approfondire il suo pensiero, troverà in Emil Cioran. Itinerari di una vita (Mimesis, 2018) un’utile guida alla lettura, un percorso tematico e non solo strettamente biografico che lo aiuterà a orientarsi nell’ampia produzione dell’autore.

Non volendomi soffermare troppo sulle vicende strettamente biografiche di Emil Cioran, soprattutto quelle relative alla sua “fanatica” giovinezza, credo sia comunque utile individuare il fattore che ha innescato tutto un filone di pensieri e di riflessioni, che trovano la loro collocazione non già in un sistema di principi astratti, ma in una condizione di spirito autenticamente vissuta: l’episodio dell’insonnia, tra i più emblematici della biografia del pensatore rumeno.

Avendo sperimentato, o meglio subìto sulla propria pelle, gli effetti di un flusso ininterrotto della veglia, della coscienza deprivata dell’intermittenza del sonno, Cioran si ritrovò spinto ai confini di una lucida disperazione priva di qualsiasi appiglio, filosofia compresa: «È durante quelle notti infernali che ho capito la futilità della filosofia» – e catapultato allo stesso tempo nel clima arido di una negazione estrema dell’esistenza, che caratterizzerà in maniera costante tutti i suoi scritti.

Ha ragione, dunque, Gabriel Liiceanu, quando afferma che: «L’opera prende le mosse da questa attitudine negativa verso l’esistenza, dal male prescritto, che realizziamo per il semplice fatto di essere nati».

Questa tensione negativa, ben lontana dall’essere espressa in una posa intellettualistica o in una “maniera” di essere e di pensare, costituisce, insieme alla sua caratteristica lucidità, il centro di irradiazione di tutta la vita e il pensiero di Cioran. Essa non trova valvole di sfogo se non nella scrittura, dove può quasi totalmente esprimersi, senza tuttavia esaurirsi. Il destino di tale tensione costante, infatti, potrà solo attenuarsi: ogni libro è per Cioran una sorta di dilazione, ma il termine di questo reiterato processo non si risolve in qualcosa di estremo come il suicidio o di scontato come la morte, bensì nella quasi naturale e fisiologica stanchezza dell’autore: egli non si libera della sua tara, le cede quasi per sfinimento.

Riferendosi al concetto di scrittura come terapia, infatti, egli afferma: «Non sono guarito, sono solo stanco […]». E più avanti: «Ho cominciato ad avvertire una certa stanchezza, un disgusto per l’espressione […]». Parole che rievocano quelle già espresse nel 1949, in una delle sue opere più incisive, il Sommario di decomposizione: «A vent’anni ci si scaglia contro il cielo e il lerciume che esso copre; poi ci si stanca».

Cioran ha tenuto in ostaggio la sua esistenza entro un recinto di riflessioni e fulcri tematici in cui argomenti quali la morte, la sofferenza ontologica della condizione umana, l’inanità di ogni sforzo legato all’intento di redimerla, si ripropongono e si richiamano ciclicamente nel corso della sua opera, più o meno stilizzati, ritratti ora sopra l’abisso di una condanna irrevocabile, ora sotto il velo di una sferzante ironia, ma sempre proiettati in un raggio di radicale lucidità. Egli accede così a una condizione esistenziale che, seppur marcatamente soggettivistica, riflette gli stati d’animo della civiltà occidentale, a cui non resta, dopo aver oramai dissipato ed esaurito le proprie “riserve di assoluto”, che guardarsi spietatamente allo specchio prima di capitolare definitivamente.

Perfino nell’ultima intervista riportata in questo libro di Gabriel Liiceanu, nelle parole di Cioran vi è come una lontananza dalla vita comunemente intesa nel suo susseguirsi di eventi causali, a partire da quello capitale dell’«inconveniente di essere nati», e il lettore si sente così trascinato a tratti in un colloquio esistenziale con se stesso e con Dio, nonostante le domande dell’interlocutore siano spesso tutt’altro che metafisiche e mirate piuttosto a porre in evidenza eventuali discordanze tra la vita e il pensiero.

Accolto in passato dalla stampa italiana con epiteti quali: «Cavaliere del malumore» o «Grande apocalittico» – quasi che il lettore neofita si sentisse istintivamente indotto a volgari gesti di scongiuro prima di accingersi ad aprire un suo libro – a Cioran è stato erroneamente attribuito un nimbo di tristezza e angoscia di vivere, di visione cupa e monocolore che non lascerebbe scampo, laddove invece anche i più disgraziati della terra e tutti gli apolidi e gli sradicati dell’esistenza, più o meno acculturati, si sentirebbero compresi e troverebbero un po’ di ristoro nella salutare desolazione del suo corroborante scetticismo, un po’ di pace in seno alla sua “saggezza pestilenziale”: terrore mortale di ogni ideale storico e umano.

Sottraendosi a ogni definizione e avversando ogni ruolo che a mano a mano hanno tentato indebitamente di accollargli, Cioran, alla domanda: «Lei è dunque un nichilista?», affermando di non essere «nulla», restituisce al nichilismo la sua irriducibilità e alla disillusione il suo valore positivo di affermazione della vita così come nudamente si dà, priva del carico di un senso ingombrante ma soprattutto libera dall’assillo di pesanti aspettative.

 

(Gabriel Liiceanu, Emil Cioran. Itinerari di una vita, a cura di Antonio Di Gennaro, Mimesis, 2018, pp. 154, euro 15)
l’altra grace, copertina del libro su Flanerí

Tra “L’altra Grace” e “The Handmaid’s Tale”, ci siamo noi

Se si ha già avuto a che fare conThe Handmaid’s Tale, L’altra Grace – miniserie prodotta da Netflix e trasposizione di un romanzo di Margaret Atwood del 1996 – risulterà sinistramente familiare. È infatti la storia, liberamente ispirata a fatti reali, di una giovane donna, immigrata irlandese in Canada, dichiarata colpevole dell’omicidio dei signori nella cui casa prestava servizio come cameriera, e per questo incarcerata a vita.

Dopo quindici anni, il Dottor Jordan, giovane medico americano studioso di malattie della mente, viene chiamato a cercare di comprendere se Grace Marks sia davvero colpevole, poiché, dopo il clamore mediatico causato dal processo, diverse autorità sono ancora convinte della sua innocenza e cercano di ottenere la sua scarcerazione.

La serie ripercorre la vita di Grace – l’arrivo in Canada, il rapporto con il padre alcolizzato, il primo lavoro e l’amicizia strettissima con una cameriera in servizio nella stessa casa, e poi la morte di questa per via di un aborto mal riuscito, fino a un lavoro diverso in una nuova casa e al momento oscuro dell’omicidio dei padroni di casa, di cui Grace ha ricordi confusi, contraddittori – proprio attraverso le conversazioni con il Dottor Jordan. Il medico finisce tuttavia per essere sempre più coinvolto nella vicenda, in un vortice di sentimenti e intuizioni contrastanti che portano a un epilogo misterioso, molto attraente anche se forse non interamente riuscito, che lascia molti enigmi irrisolti – e che fino all’ultimo farebbe sperare in una improbabile seconda stagione.

Ciò accade tuttavia perché l’obiettivo non è arrivare a una sentenza, risolvere una volta per tutte il mistero, quanto piuttosto mettere in luce il mondo in cui Grace, e le donne che attraversano la sua vita, si trovano a vivere.

È qui che la distanza apparente di L’altra Grace con The Handmaid’s Tale si accorcia. Se quest’ultima racconta di un futuro distopico in cui le pochissime donne fertili sono usate come schiave per dare figli alle famiglie di una nuova aristocrazia di fondamentalisti religiosi arrivati al potere negli Stati Uniti con un colpo di stato che ha cancellato i diritti fondamentali e tolto ogni libertà di scelta agli uomini, ma soprattutto alle donne, anche Grace Marks si trova a vivere in un mondo simile. È l’età vittoriana, vissuta da uno dei punti di vista più svantaggiati della società: le ragazze di bassa estrazione sociale, mandate a servizio in casa di famiglie ricche, sempre a rischio di diventare vittime di maltrattamenti e abusi, con l’aggravante di non essere mai considerate vittime, ma piuttosto colpevoli di aver attirato su di sé l’attenzione degli uomini. È il destino di Mary Whitney, l’amica di Grace, così come della sua futura padrona di casa, Nancy, la donna che la protagonista verrà accusata di aver assassinato.

È l’ingiustizia creata da un maschilismo profondo, la sopraffazione brutale e senza rimedio di una parte della società su un’altra, il collante tra le due serie – una rivolta a un passato non così distante, l’altra a un futuro non così incredibile (perché più volte, nell’osservare le vicende che giorno dopo giorno portano, in The Handmaid’s Tale, alla presa del potere della dittatura di Gilead, si è portati a pensare che si tratti di qualcosa di assolutamente possibile, che potrebbe cominciare ad accadere domani, senza che noi neanche ce ne accorgessimo).

Un’ingiustizia di cui sono soprattutto le donne a pagare le conseguenze, ma di cui sono vittime anche gli uomini, educati a essere sempre predatori e a vivere imbrigliando i propri sentimenti in convenzioni sociali, costretti in un abbrutimento emotivo che non lascia spazio all’amore, o anche alla semplice gentilezza – se non a quella rigidamente normata della galanteria maschile, altra faccia di un maschilismo che vede le donne sempre come deboli e bisognose di aiuto.

Il risultato è che, in entrambi i casi, nessuno si salva davvero. Tutti i personaggi, resi emotivamente instabili dagli abusi subiti, o da un’educazione che impedisce ogni possibilità di vera empatia, si ritrovano loro malgrado a vivere vite che non hanno voluto anche nei casi in cui l’epilogo non sia così tragico, o a compiere atti moralmente deplorevoli, a volte crudeli, per riuscire a sopravvivere – o anche solo a salvare la propria reputazione, più importante persino della vita.

La storia di Grace Marks, così come quella dell’ancella Difred, privata del suo nome e della sua identità per diventare solo produttrice di figli per il paese, ci ricordano il mondo da cui veniamo, e mostrano all’orizzonte quello a cui epoche oscure, situazioni di crisi profonda potrebbero portarci. E di conseguenza ci mettono di fronte alla fragilità della nostra libertà, mai data per scontata, sempre oggetto di contesa in politica come nella società.

Ma non solo. Come in uno specchio distorto, Grace e Difred ci mostrano il mondo in cui viviamo: le discriminazioni sottili, i modi in cui si può svilire o umiliare una donna descrivendola come debole, o stupida – o al contrario irruenta e aggressiva – solo in quanto donna; o brutta e inadatta, letteralmente inutile, perché non corrispondente agli standard dominanti. O, ancora, l’interiorizzazione del maschilismo da parte delle stesse donne, quando si criticano e infangano l’un l’altra, interpretando come ambiguo ogni atteggiamento non immediatamente comprensibile, per replicare e diffondere gli stessi schemi di pensiero: che una donna è solo santa o puttana – e sbagliata in entrambi i casi. Salvo poi essere colpite tutte come un boomerang dalle stesse accuse, in un gioco in cui perdono tutte.

L’altra Grace, così come The Handmaid’s Tale, sono storie di epidemie, ma i virus che le scatenano li conosciamo bene, li abbiamo davanti ogni giorno. Le storie di Margaret Atwood ce li rendono solo più visibili, più semplici da riconoscere – e ci offrono forse qualche antidoto con cui combatterli.

 

L’altra Grace è una miniserie in sei puntate diretta da Mary Harron disponibile su Netflix. The Handmaid’s Tale è una serie ideata da Bruce Miller per il network Hulu e disponibile in Italia su Tim Vision. Nel maggio del 2018 è stata annunciata la terza stagione dello show. I due romanzi da cui sono tratte le serie tv sono pubblicati in Italia da Ponte alle Grazie