Cover di La festa nera

Realtà non alternativa

Se «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» come afferma Mark Fisher nel piccolo pamphlet Realismo capitalista, prenderei per buona anche la visione del nuovo: una realtà bifronte che risponde al vecchio mentre questo cerca di riconfigurarsi. Più complesso è raccontare la fine del mondo dall’intero, pienamente consapevoli e immersi nelle regole del capitalismo fino a diventarne un ingranaggio.

È il caso dei tre protagonisti di La festa nera di Violetta Bellocchio, secondo atto della collana Altrove di Chiarelettere dedicata alle narrazioni che indagano il futuro. Prima che la loro fama si trasformasse nella parabola preferita di hater e troll Ali (la voce narrante del romanzo), Misha (una youtuber volto e voce del progetto) e Nicola (il cameraman compagno di Misha) realizzavano video dove andavano a caccia della stranezza, dello scandalo e del facile commento a vicende incredibili e particolari. A distanza di qualche mese dal video che ha scatenato l’odio del web, i tre decidono di fare un tentativo per recuperare la fama perduta: partono per le terre desolate da epidemie e carestie della Val Trebbia per realizzare un documentario sulle comunità che vi dimorano.

È facile individuare i tre protagonisti all’interno di un meccanismo perfettamente rodato che va dalla creazione di una novità feticcio con uno sguardo al passato – per cui il mezzo audiovisivo perde connotati della poetica implicita e diventa una rappresentazione apodittica – fino all’apice e al declino insiti nel funzionamento stesso del nuovo. E, infine, il successivo ritorno, la riconfigurazione in funzione delle esigenze del mercato: l’ossessione per le storie, poco importanti per l’approfondimento dei contenuti, che vanno alla ricerca dello «shock facile, la ferita di superficie, l’applauso casuale di un pubblico privo di qualsiasi gusto o sensibilità».

Siamo nel 2026 e c’è stata la fine del mondo che, invece di catastrofi ambientali, ha portato solo alla consapevolezza di vivere già «in mezzo alle macerie», dove il perdere tutto diventa una disperata rincorsa alla vendibilità della propria storia. Tra Ali, Misha e Nicola si stabilisce quel legame che fa della convenienza la base della socialità: nelle loro azioni non si riconosce un vero talento o una vera passione, sono individualità disperate alla ricerca di facili sentimentalismi. Alla fine del mondo sopravvive una dualità obbligata: chi sviluppa l’arte del cinismo e chi quella dell’oblio.

«Noi facciamo documentari. Filmiamo il reale in tempo presente. La nostra specialità è tutto quanto sta all’incrocio tra lo strano, il triste e l’oscuro. Andiamo a cercare le vite delle persone diverse da noi, le vite di quelli che fanno cose squallide, bizzarre antisociali e degradanti, ma in fondo anche curiosamente umane, no?»

Reale e presente non sono la stessa cosa. Perché la realtà, persino “dal vivo”, non è mai neutrale e apparterrà sempre a chi guarda. Qui il medium non è il messaggio – perché la riproduzione della realtà non è legata solo alle possibilità tecniche come estensione del corpo umano –, il medium è una mutazione che ha le sue profonde origini nella consapevolezza di essere guardato. Da qui spiegata l’ossessione per le immagini insieme alla loro preparazione («Le immagini hanno tutto il potere. Niente voce fuori campo all’inizio. Punta la telecamera su una persona, non ti muovere, e stai tranquillo che presto o tardi ti racconta cose che non avrebbe pensato mai di dire a voce alta»). Le immagini diventano un simulacro molto vicino alla parabola di una fenice: dalle ceneri di un’immagine distrutta (come quella di Misha umiliata dal popolo del web) si potrà sempre rinascere costruendone una nuova, facendo leva sulla celerità del consumo, sulla dimenticanza e sulla creazione di una nuova confezione che risponda al gusto prevalente. Ma di chi?

La realtà di La festa nera ha la distopia della provincia italiana e l’andamento di un canale YouTube: comunità estremiste che condividono una visione e creano la coda lunga di seguaci. Società-stato con leggi interne stabilite dalla collettività: la libertà o la sua simulazione passa per l’utopia democratica e l’approvazione della maggioranza. C’è la setta dei misogini che ha regolamentato l’odio per la donna, ci sono quelli che rinunciano alla tecnologia, ci sono gli adoratori del dolore perché è «l’unica cosa vera che ci è rimasta».

Un narratore dell’attualità che inserisce continui riferimenti e rimandi alla cultura pop rischia di diventare quello che Wallace ha eloquentemente definito «scrittore guardone» in E Unibus Pluram. Gli scrittori americani e la televisione. «La televisione è diventata capace di inglobare e neutralizzare ogni tentativo di cambiamento o anche di denuncia degli atteggiamenti di passività e di cinismo che la televisione stessa richiede dal Pubblico per poter essere commercialmente e psicologicamente efficace in dosi di parecchie ore al giorno» è chiaro che il saggio di Wallace deve essere letto nell’ottica del tempo in cui è stato scritto, tuttavia, condivide alcuni aspetti comuni col clima di sagace cinismo e di superiorità ai fenomeni popolari del web: un organismo che si autoalimenta continuamente per cui i fatti passano sotto lenti di populismo, scetticismo, passività, aggressività generano a loro volta altrettanti contenuti. Il discorso comunicativo ha raggiunto un nuovo livello di complessità e per questo chi intende scriverne rischia di rappresentare la realtà invece di creare una visione alternativa.

Nel caso della Bellocchio l’appiattimento critico non sussiste. Lo stile si muove tra la velocità di un piano sequenza, l’instabilità del pensiero multitasking, che avvicina il romanzo a un hard-boiled, e lo sforzo immaginifico che elimina la caduta nello sterile commento al mondo dei social network. L’accostamento di battute di film e strofe di canzoni mormorate nella desolazione della fine del mondo crea una sorta di nuova lingua che fa della cultura popolare l’unico baluardo a cui aggrapparsi pe il culto della personalità. È come se l’osservazione ironica fosse andata oltre la ribellione del postmoderno: il processo di «precorporazione» a cui si riferisce Fisher ingloba il «potenziale sovversivo» nel capitalismo in modo da perdere ogni valenza critica o estraneità alla cultura dominante. Il sovversivo nel capitalismo è quasi fisiologico. Eppure, a uno sguardo attento, il romanzo della Bellocchio non vuole porsi nell’ottica della singolarità rivoluzionaria, vuole invece suggerire un’evoluzione in divenire: persino in un mondo dove tutto è ormai perduto i valori futili, delle semplici conseguenze esclusivamente interne al mondo del web, si sono invece diffusi fino a prevalere, fino a regolare la socialità.

Il ritmo sincopato e imprevedibile della voce narrante di Ali è la perfetta rappresentazione della trasformazione in atto: l’adesione incerta all’equazione vita e presenza online, l’importanza dell’immagine, il consumismo delle idee usa e getta («Hai fatto tutto tu, hai fatto quello che volevamo. adesso non ci servi più. Adesso puoi andare»), la priorità di una storia da raccontare per rimanere leggenda e, forse, illudersi di sorvolare tutti i meccanismi di cui si è vittime.

 

(Violetta Bellocchio, La festa nera, Chiarelettere, 2018, pp. 160, euro 15)

Music From Big Red

Big Red Machine, il frutto della collaborazione tra Justin Vernon, Aaron Dessner e centinaia di altri musicisti, è uscito online a fine Agosto, al termine di un mese di lavoro del collettivo antiautoriale P-E-O-P-L-E.

Ma Big Red Machine non è un album, né una raccolta; non è un best of, né una scelta di b-side singolari. Si tratta, piuttosto, di una testimonianza multiforme, travagliata e complessa, e tuttavia estremamente coerente. A far da guida c’è poco o niente, data la frammentarietà dei generi e la parzialità di alcune composizioni.  Eppure, il risultato è qualcosa di straordinario, qualcosa che, alleluia, si spinge oltre la ricerca del gusto e della compiutezza,  che tenta di percorrere il flusso anziché contenerlo.

L’eterogeneità degli artisti fa capo alla regola compositiva: il bisogno creativo della trasformazione del reale tiene insieme un formidabile equilibrio di contraddizioni, praticato tra posture classiche e continui sbalzi schizofrenici. «È stato un po’ difficile», dice il polistrumentista dei The National, «decidere quando le canzoni fossero finite in una prospettiva in cui non le si voleva terminare».

L’estrema varietà dei sottogeneri attraverso i quali si articola Big Red Machine è chiara già nell’inquietudine di “Deep Green”, traccia d’apertura del lavoro, e in “Lyla”, dove percussioni, archi, sonorità bleep e scratches si tengono insieme in virtù dell’assenza di baricentro. L’energia del suono si ordina nella prospettiva della continuità e del dinamismo, fuori dall’ottica del limite propria della canzone tradizionale.

Sleep Well Beast fa la sua comparsa (inevitabile) in “Gratitude”, squisitamente contaminato dal gusto gospel e hip hop di Justin Vernon, che è forse la più potente intuizione artistica degli ultimi anni. Restituendo all’hip hop quella dimensione comunitaria della testimonianza, propria già del metodismo gospel originario, le composizioni di Vernon ricostruiscono un massiccio filo rosso tra arte e emarginazione, tra l’esistenza e la resistenza. Una costruzione teorica e artistica all’incrocio tra pratiche pagane e bisogni cristiani: dopo i cantici dell’ordinario di 22, A Million, in Big Red Machine si riscopre la necessità di una pratica eucaristica giocata tra le persone, un processo di ricerca e riconoscimento di e nell’altro attraversato dall’esperienza della condivisione di fatica e dolore, esclusione sociale e sconfitte politiche. Sia dal punto di vista del risultato che della metodologia (quella di P-E-O-P-L-E, in questo caso), non c’è nulla a oggi che si avvicini alla capacità che ha avuto e sta avendo Vernon di fare avanguardia musicale.

A metà dell’album c’è “Hymnostic”, una gemma raw, espressione di ciò che vuol dire da sempre fare folk. Traccia che sembra uscita intatta dal live recording Rock of Ages, “Hymnostic” ricorda a tutto tondo la dimensione bootleg e jam dei Basament Tapes di Bob Dylan e The Band registrati nel sottoscala della Big Pink di Byrdcliffe. D’altronde, è nella logica del bootleg l’intera distribuzione, non solo di Big Red Machine, ma di tutta la produzione artistica derivata dagli incontri alla Funkhaus di Berlino. Eppure, nonostante il legame con la tradizione ponesse il rischio della trivialità, “Hymnostic” diventa il corpo attraverso il quale quel tipo di atmosfera torna a vivere nella pienezza della sua carica espressiva.

Un misticismo riproposto nei sette minuti e quarantadue di “OMDB”, brano più lungo dell’album, e che trova respiro nei ritmati elettronici appoggiati sulle dentali dei versi «Over my dead body / Through the rock / Over your dead body / Wanna live again».

Senza farsi troppi problemi, sul finire dell’album arriva la ballata “People Lullaby”, la quale, nonostante la ribadita fluidità autoriale del collettivo, deve forse troppo al salto in avanti segnato due anni fa da 22, A Million – album che, bisognerà allora ammetterlo, ha permesso se non la nascita quantomeno la riuscita finale del progetto. Il country pop acustico di “We Won’t Run From it”, arricchito da accenni di fiati durante i cori, stona un po’, invece, con il resto delle tracce, qualora si volesse tentare (erroneamente) di restituire una logica tematica alla raccolta di brani.

Big Red Machine si chiude con “Melt”, un’estasi condivisa nella ripetizione in loop del verso «Well, you are who you are», lì a ennesimo tentativo di sciogliere i confini fisici e artistici dell’esperienza, di creare rapporti e di costruire legami.

La collaborazione tra Dessner e Vernon compie oramai dieci anni – dieci anni in cui i due musicisti non hanno mai smesso di sperimentare una composizione al di fuori delle loro stesse costruzioni e dei loro nomi. Lungi dall’essere la fortunata conclusione di un tentativo alla cieca, Big Red Machine arriva a compimento di un percorso consapevole di ricerca che ha ancora tutto davanti a sé.

 

La casa è sotto la superficie della Terra

Occorre un certo coraggio per entrare in casa d’altri. Permesso? Disturbo? Ci si toglie il cappello, si indugia sullo zerbino, cercando non tanto di pulirsi le scarpe, ma di simularne il gesto, nel tentativo di apparire innocenti. Si resta sulla soglia con l’aria colpevole di chi sa che sta per violare l’anima altrui. E una volta invitati a entrare ogni cosa appare diversa: non siamo più estranei, ma ospiti. O quantomeno intrusi educati. Cercheremo avidi le tracce dell’accoglienza, illudendoci di trovarle nei cenni rassicuranti di chi ci tende la mano, nei soprammobili sfacciatamente esposti, nei piatti non lavati rimasti dalla cena.

Ma ciò che troveremo sarà ben diverso dalle aspettative: le pareti ci ricorderanno che abbiamo abbandonato la nostra vita per insinuarci in luoghi stranieri, ostili, capaci, talvolta, di soffocare le nostre idee e il nostro corpo. Cammineremo sui pavimenti appena puliti, guarderemo fuori dalle finestre e penseremo di aver trovato il nostro posto, di essere finalmente al sicuro. Ma le abitazioni sono creature vulnerabili e mutevoli, esattamente come gli uomini.
«Le case sono in noi come noi siamo in loro» ci ricorda Matteo Meschiari nel suo Disabitare. Antropologie dello spazio domestico (Meltemi, 2018): e quando rivelano la loro fragilità non possiamo far altro che chiederci cosa significhi abitarle. Quanto la dimora sia capace di costruire la nostra stessa percezione del mondo è un’idea tanto radicata da aver contagiato gran parte del pensiero antropologico. Oltrepassando gli insegnamenti di Claude Lévi-Strauss, Meschiari si sofferma sulla relazione tra casa e ambiente nella contemporaneità. Il viaggio comincia tra le strade di New Orleans, a pochi giorni dall’uragano Katrina, per poi avventurarsi nelle esperienze abitative più antiche e in quelle più estreme, laddove il confine tra intimità ed esteriorità si fa più tenue.

C’è stato un tempo in cui la casa non era il sintomo ossessivo del desiderio di controllo sull’ambiente: caverne e capanne, infatti, condividevano con il paesaggio molto più di quanto facciano i nostri appartamenti. La rimozione della natura come luogo originario dell’abitare è un processo lento che coinvolge anche il linguaggio: dare un nome alle cose è un’azione talmente potente da riuscire a creare o ridefinire i nostri stessi spazi. E le nostre identità. Catalogare le forme della natura ci ha paradossalmente allontanato da essa. L’ambiente battezzato, controllato e indebolito si è trasformato in un’estensione delle nostra casa, ossia di quel posto in cui cerchiamo accoglienza e protezione, da un altrove che noi stessi abbiamo creato. Come spiega Tim Ingold, in uno dei tre saggi che concludono il libro, viviamo immersi in una rappresentazione diffratta della natura: ci aggiriamo tranquilli nelle nostre case curando piante contenute in vasi, spolverando sculture a forma di animali, chiudendo finestre che sono solo schermi attraverso cui guardare il fuori alla giusta distanza. Circondati da potenze ctonie acquietate e controllate, non sopportiamo l’idea che qualcosa dall’esterno possa turbare la nostra vita: allontaniamo animali che non sono stati addomesticati; viviamo nel terrore che un incendio distrugga la nostra abitazione e che un’inondazione porti via tutto ciò che possediamo.

Contenere le forze della natura, conclude Ingold, significa dimenticare che il mondo non è un palcoscenico: noi non viviamo sulla superficie della Terra, ma dentro di essa.

 

 

(Matteo Meschiari, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, 168 pp., € 14.00)

Tre famiglie, la storia e il mito di Battisti

Le canzoni immortali del grande Lucio Battisti e la Roma del secolo scorso – e dagli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Novanta – fanno da sfondo agli intrecci di vita di tre giovani e delle loro famiglie in L’ultimo singolo di Lucio Battisti di Adriano Angelini Sut (Gaffi, 2018). Il romanzo si divide in tre sezioni: L’apparenza, Vento nel vento, La sposa occidentale. In apertura, quello che colpisce del romanzo è subito il testo tratto da una nota canzone di Battisti, Innocenti evasioni che, come un preambolo, ci accompagna in quello che sarà il filo conduttore: i cambiamenti sociali e di una comunità registrati a gruppi di anni, passando per la musica del carismatico Lucio, i movimenti politici e la voglia di riscatto, il mondo della comunicazione in trasformazione, il lavoro e il sacrificio delle famiglie.

I grandi valori come l’amicizia, le alleanze, gli ideali e le lotte emergono pagina dopo pagina, in una narrazione fluida e fotografica che segue i destini dei tre giovani: Natale De Santis, Saul Leoni e Romano Antinei.

Tre personaggi provenienti da tre famiglie molto differenti tra loro: quindi con un dna culturale profondamente diverso l’uno dall’altro. Ma questo non impedirà loro di interagire, di mescolarsi, di contaminarsi quasi. I tre corrispondo a una precisa identità che nella Roma raccontata erano quelle “per la maggiore”: il figlio del proletariato, il figlio della casata ebraica, il neofascista. Ma l’autore è abile attraverso il racconto a farli interagire in un unico intreccio come a dimostrare che la società è mobile e la propria appartenenza a un gruppo politico, o l’essere cresciuti in un determinato contesto sociale, non è sinonimo di limite. Anzi. Roma si presta – o come Angelini Sut fa notare si prestava – a essere la cornice di questa interazione profonda: la capitale accogliente e operosa, la sua vita di cortile, le esperienze dei giovani nei licei e nelle piazze. E poi la forza dei sogni: Natale a un certo punto del romanzo, prima di dare la sua maturità classica, decide di andare personalmente con i suoi pezzi nel neo studio di registrazione messo in piedi da Mogol in persona, e una volta giunto lì si sente onorato almeno di poter conoscere la discografia preferita del suo mito, nell’attesa di concludere altro. Saul invece sceglie una vita apparentemente più sacrificata e già tratteggiata dalla sua famiglia: il matrimonio con una ragazza creativa e determinata e il lavoro come certezza fondante della sua vita.

Romano invece è pervaso dal furore politico: «I peggiori stanno a Bologna e a Milano, li vedi spavaldi seduti ai caffè, figli di ricchi altoborghesi, le barbe sfatte, la sciatteria dei compagni che si sentono superiori perché hanno letto Marcuse» scrive sui suoi coetanei di sinistra, desideroso di credere ancora negli alti ideali di ordine e giustizia. Si passa dall’adrenalina della lotta politica a quella di Natale che finalmente può guardare la sua esibizione musicale all’interno di Domenica in condotta da Corrado e alla scoperta di essere tra i dieci 45 giri più venduti nella hit parade di Lelio Luttazzi.

Angelini Sut ci ricorda che la musica in quegli anni era un impegno: attraverso le vicende del raggiungimento del sogno per Nat c’è la voglia di dire qualcosa, esprimersi, trasmettere. La stessa enfasi che esisteva nei movimenti politici o nelle conquiste del mondo del lavoro. Il romanesco cede il passo di tanto in tanto all’italiano e rende le storie più vive, popolari: la quotidianità si intinge nella grande Storia narrando dei palestinesi dell’Olp, delle bombe contro la comunità ebraica, di referendum, televisione e moda, delle domeniche allo stadio e di matrimoni dai quali nascono e crescono i figli. E poi Battisti che apre e chiude il ciclo di questo libro che ripercorre cinquanta anni di storia della musica non solo italiana: viene quasi da creare una colonna sonora di Spotify che accompagni il lettore alla scoperta di pezzi memorabili.

 

 

(Adriano Angelini Sut, L’ultimo singolo di Lucio Battisti, Gaffi, 2018, 530 pp., € 22.00)
copertina di Cereali al neon di Sergio Oricci

La mappa del nostro tempo

Nel 1984 William Gibson definisce il cyberspazio come: «Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati», si tratta dell’apertura di uno spiraglio nel campo della letteratura, una luce che si accende sul ponte di comando delle possibilità della fantascienza. Nel 2010 Don DeLillo sceglie di aprire il suo libro più criptico – Punto Omega – con la descrizione di 24 Hour Psycho, un’installazione di Douglas Gordon in cui il capolavoro di Hitchcock è rallentato in modo tale che la proiezione duri ventiquattro ore. Fra questi due punti si muove Cereali al neon, il romanzo di Sergio Oricci che ingloba schegge di contemporaneità per ricreare una narrazione onirica, in grado di mappare la nostra realtà sfuggente. Il virtuale e il mondo dell’arte sono i gli architravi da cui Oricci fa pendere i suo arazzi fluttuanti, intessuti nella trama del nostro tempo – o almeno nella volontà di indagarlo.

Oricci cerca di mettere a sistema il mutamento delle categorie cognitive nell’era del visuale, e per questo si interessa alla permutabilità di reale e virtuale, che vede il suo momento finale nella crasi fra i molti mondi che sperimentiamo ogni giorno e in cui usciamo ed entriamo senza soluzione di continuità, tanto che la nostra realtà multi-livello risulta agglutinata in una unico piano di esistenza liquefatto, composto da reminiscenze di vari segmenti del reale di cui intuiamo la complessità senza riuscirne ad afferrare la totalità. Per questo la narrazione del giovane autore si muove in direzioni impreviste, contrastanti, non riconducibili a uno sviluppo lineare. Più che di trama si dovrebbe parlare di mosaico, o silloge di istantanee prese dalla vita dell’io narrante, in cui le messinscene e i vicoli ciechi del ricordo si confondono con gli episodi realmente accaduti. Non si ha dunque un terreno solido e univoco in cui intraprendere il carotaggio dell’io, perché l’io non può dirsi neanche alienato, bensì frammentato, e ogni frammento racchiude una percentuale di verità, in un processo di moltiplicazione – e atomizzazione – della propria identità. Così il racconto di Oricci scorre piano, ovattato, teso fra momenti epigrammatici e minuziose descrizioni che sembrano sogni filmati con telecamere in alta definizione.

Da una parte c’è il tentativo di raccontare il cammino verso l’astrazione della nostra civiltà, attraverso la resa dei pensieri di un personaggio che sembra chiuso in una camera di deprivazione sensoriale, interfacciato con una sorta di gioco-social network. Dall’altra vediamo l’io narrante alle prese con la quotidianità della vita d’artista, spinto a modellare nel linguaggio dell’arte i concetti che lo muovono. Nell’impossibilità di trovare una forma espressiva onnicomprensiva si sperimenta l’ostacolo dell’arte contemporanea: troppo ancorata al valore astratto del proprio patrimonio simbolico, impossibilitata a mostrarsi al mondo in maniera tale da comunicare altro da sé, eppure schiava della comunicazione stessa, del sistema chiuso in cui l’arte acquista valore in quanto arte per l’arte.

Nell’epopea dell’io-artista raccontata da Oricci si distinguono tre movimenti che scandiscono la vita dell’uomo moderno: in primo luogo c’è la nascita e l’espansione delle proprie categorie cognitive, per l’uomo ipercontemporaneo si tratta della celebrazione del battesimo virtuale: «Il corpo si espande e si contrae al ritmo di questa città fatta di poligoni nudi. Disegno fiori che si dissolvono in polveri luminose». Il secondo movimento investe il campo delle relazione, e descrive l’incontro con l’Altro, la problematicità dei legami in un realtà in cui è la categoria rarefatta del simulacro a scandire i bioritmi del consesso sociale: «Con Andrea all’inizio ero ok al 35%. Poi siamo arrivati fino al 75%. Una percentuale davvero alta. Ma non è questo il punto. Era lei, il punto. La linea. La superficie». Consumare una storia d’amore significa interrogarsi sulle potenzialità del proprio corpo, scontrandosi con le antinomie di un universo immateriale – quello della mente – che deve convivere con il (o che vede il suo limite nel) piano della materialità. Il terzo movimento si pone come la sintesi dei primi due: dallo scontro fra io e Altro nasce il trauma della perdita, poiché il tempo accade sempre e tutte le cose vanno verso la disgregazione – e dunque anche nella nostra realtà totale, che fa dell’evanescenza dell’immagine l’elisir per l’immortalità, non si può evitare al tempo di scorrere. La fine della Storia nasconde la Storia della fine: questo sembra testimoniare il narratore di Oricci che si interroga sulla solitudine, sulla morte, sul compimento dei propri legami e sulla rottura con l’Altro: «Oggi la morte del corpo non è un’opzione, mentre volare nello spazio lasciandosi dietro una cometa di scintille sì. Potrei diventare un frame in uno zootropio, deformato, ripetuto e sottile. Oggi il processo è iniziato, ed è irreversibile: c’è la mia bara di plexiglass in attesa di accogliermi ancora una volta, anche se non sarà più lo stesso gioco: niente più REZ, rinascerò in My second birthday, e sarà per sempre».

Più che come un romanzo, il lavoro di Oricci dovrebbe essere letto come l’antologia di un poeta zen. La direzione intrapresa si distende parallela a quella di Tom McCarthy in Satin Island, lo scopo è quello di pervenire a un qualche tipo di ontologia del presente. Se per l’autore inglese lo strumento adoperato – almeno in forma di escamotage narrativo – è il campo dell’antropologia, Oricci traffica con gli strumenti dell’arte. In entrambi casi lo spaesamento diviene meditazione, il presente non si palesa più come momento di massimo caos, ma come fitta trama di geometrie complesse che abbagliano per l’infinità di intersezioni. Sta allo scrivente – e anche al leggente – ingegnarsi per abbozzare una mappa.

 

(Sergio Oricci, Cereali al neon, Effequ, 2018, pp. 154, euro 13)

Il Presente dei The National e il passato dei Franz Ferdinand

Per raggiungere l’area concerti dalla fermata metro Rho bisogna percorrere un lunghissimo viale che taglia in due i resti dell’Expo2015. Sulla destra i vari padiglioni, lo scorrere lento dei nomi dei paesi che hanno aderito e, in lontananza, sulla sinistra, l’Albero della Vita. Una volta arrivati, ci si trova di fronte a quello che oramai è il classico design dei grandi concerti internazionali: al centro l’area svago, ai lati i vari chioschetti dove mangiare e bere, il merchandising delle band, il servizio Token. Una voce dagli altoparlanti spiega dove sono i bagni e i servizi di soccorso. Aggiunge poi che lo show che sta per cominciare sarà ripreso da un drone. In fondo, il palco, dove alle 20 precise entrano i Franz Ferdinand.

Guardare Alex Kapranos e immediatamente pensare che abbia fatto un patto con il diavolo per essere rimasto fisicamente uguale agli esordi, è un campanello d’allarme: nonostante la performance sarà notevole, il pensiero di assistere a un qualcosa che appartiene a un’altra epoca è costante e, in qualche modo, tenero. Perché i Franz Ferdinand sono un determinato periodo storico, si allacciano a un momento che è sicuramente qualcosa che non c’è più. Per la musica e, chiramante, per chi è lì ad ascoltare. E ci si trova lì ricordando, facendo i conti con il proprio rapporto con ciò che è stato, con gli intrecci che legano quagli anni a quel preciso momento: non esiste, infatti, un’idea di presente che possa ruotare intorno alla band scozzese. Quantomeno è superflua. L’ultimo album, Always Ascending, infatti, seppur buono, è solo l’ultimo album dei Franz Ferdinand. Non c’è traccia dell’Oggi.
Ed è tutto questo – oltre, e non sarebbe potuto non essere così, all’ultra precisione con cui hanno suonato – che rende il loro concerto emozionante. Da “Take Me Out” a “No You Girls”, passando per “The Dark Of The Matinée” e “This Fire”, gli scozzesi hanno riproposto un repertorio che è una pietra miliare dell’indierock di metà anni 00.

Ma la sera piano piano si posa su Milano. L’Albero delle Vita, bellissimo, inizia a illuminarsi sullo sfondo: un grande Alex Kapranos – cantante, chitarrista, mattatore e intrattenitore infallibile per un’ora – saluta tutti e i Franz Ferdinand escono di scena.

È tempo di cambiare il palco. Alle 21.40 salgono sul palco i The National. A differenza dei colleghi scozzesi, la band di Cincinnati è costantemente contaminata di presente. Nonostante siano due band coetanee, la differenza è palese: ogni produzione dei The National è una costruzione del presente verso il futuro, mentre quella di Kapranos scorre come un viaggio a ritroso.

E c’è lui, Matt Berninger. Ciò che fa di Matt Berninger un performer eccezionale e sui generis risiede in una serie di aspetti che sembrano in contrasto tra di loro: la sua aria seria da professore universitario e l’essere sbronzo, le discese verso il pubblico, nella folla e con la folla, alternate a momenti di chiusura, dolore e rabbia accovacciato sul palco. Atteggiamenti che riesce a calibrare con sporca eleganza. Matt Berninger calca i palcoscenici del mondo con la grazia e la coscienza di una rockstar che ritrova se stesso e i suoi demoni durante i suoi concerti.

Questo Venerdì di inizio settembre non può non iniziare con questo piglio: la carica di intimità e disperazione con cui canta “Nobody Else Will Be There” e la rabbia di “The System Only Dreams In Total Darkness” creano istantaneamente un legame con il pubblico. Un calore che, nonostante il contesto dispersivo, accompagna per tutta l’ora e quaranta l’esibizione. Perché dietro a un Berninger che a volte dimentica le parole, a volte non è preciso nell’intonazione, a volte dà l’idea di non voler far altro di voler sparire dal palco perché l’esistenza è veramente troppo dura da sopportare – ma che come i grandi riesce trarre forza da tutto questo  –, c’è una band che suona in maniera superba e con un cuore enorme: dai fratelli Dessner alla chitarre e al piano, ai fratelli Devendorf al basso e alla batteria, ai fiati, siamo di fronte ad artisti che riescono a disegnare intelaiature melodiche, armoniche e ritmiche sensazionali.

C’è molto Sleep Well Beast, ma si torna anche indietro nel tempo, da Trouble Will Find Me, High Violet e Boxer fino a Alligator e Cherry Tree. I The National si confermano uno dei giganti della musica di oggi, in studio come dal vivo: l’intrinseca capacità nel saper fare delle cose belle, per loro, per la musica e per il pubblico; la dose di sensibilità nel riuscire a spostare l’onda che tratteggia le varie sfumature emozionali da una parte all’altra nel modo più delicato possibile: perché quello che succede nel finale, da “Fake Empire” a “Mr. November”, chiudendo con il dittico che potrebbe essere un trattato sulla letteratura di tutto ciò che è l’amore tra due esseri umani, “Guilty Party” e “About Today”, è una materia che solo i grandissimi sanno possedere.

Il concerto si chiude con l’ormai classica versione unplugged di “Vanderlyle Crybaby Geeks”. I The National escono dal palco. La notte inizia a farsi largo mentre l’Albero della Vita continua illuminarsi: il lungo viale per la metro ora è un altro posto: non si capisce se più familiare o più alieno. Sicuramente più fragile.

 

Scaletta

 

FRANZ FERDINAND:

“Do you want to”
“The dark of the matinée”
“Glimpse of love”
“Always ascending”
“Walk away”
“No you girls”
“Lazy boy”
“Michael”
“Feel the love go”
“Love illumination”
“Ulysses”
“Take me out”
“This fire”

THE NATIONAL:

“Nobody else will be there”
“The system only dreams in total darkness”
“Don’t swallow the cap”
“Walk it back”
“Guilty party”
“Bloodbuzz Ohio”
“I need my girl”
“Slow show”
“Light years”
“Day I die”
“Carin at the liquor state”
“Graceless”
“Rylan”
“Fake empire”
“Mr. November”
“Terrible love”
“About today”
“Vanderlyle crybaby geeks”

cover del nuovo romanzo di Massimiliano Governi: Il superstite

Il realismo astratto di Massimiliano Governi

La definizione dell’autore stesso intorno alla sua narrativa e nello specifico a questo romanzo breve risulta oltremodo azzeccata: realismo astratto. Per chi non abbia strumenti adeguati per tenere al laccio una materia simile, da scrittore sarebbe obbligatorio evitare pastoie e trabocchetti che il genere comporta; ma, da lettore, a un certo punto di Il superstite (Edizioni e/o, 2018) appare nitido che i pensieri i sentimenti le azioni compiute e mai compiute dei protagonisti sono più verosimili di quelli ricomposti nelle tante trasmissioni televisive dedicate al macabro.

L’orrore posteriore alla carneficina, l’inestinguibile autistica solitudine del superstite ci appaiono quasi familiari ma “incomprensibili”: un orrore che cova qualcosa che non si vede, che fa deragliare quel che rimane degli affetti e dei rapporti sociali (lui si trasferisce nella casa dove sono stati trucidati padre madre sorella e fratello; moglie e figlia si trasferiscono in America). Il superstite ha paura? Ha pensieri di odio, di vendetta? Progetti per sé e la sua famiglia? Certo che sì, ma sono contenuti e trattenuti all’interno della sua anima: emergono attraverso il non detto; attraverso i gesti e la descrizione di ciò che i personaggi compiono o non compiono. Emergono ancora più chiari e perentori che se fossero espressi direttamente.

Ed ė qui che risiedono l’abilità e le qualità di chi scrive: uno sguardo “esterno”; un linguaggio essenziale nelle strutture, rastremato, con scelte lessicali all’apparenza corrive, che cementificano il plot intorno ai momenti che il lettore non scaltrito considererebbe forse meno topici. Quello che spaventa di più, infatti, sono le azioni che preannunciano che qualche forma di imprevedibile cataclisma sta per accadere, e che poi non accadrà; quella sorta di compostezza nell’attesa della vendetta (come per esempio nella scena finale) per la quale il lettore già si agita sulla sedia o nel letto gonfiando il petto e socchiudendo gli occhi per non leggere oltre.

In esergo, la frase di Primo Levi – «Non è colpa mia se vivo e respiro / E mangio e bevo e dormo e vesto i panni» – giganteggia in tutta la sua forza antifrastica. Poiché la riflessione che sorge spontanea è se il superstite si possa considerare davvero superstite, quando neanche la cattura e il conseguente processo in Serbia del colpevole sembrano rianimarlo più di tanto. Se, piuttosto, non sia un morto che cammina, non avendo il superstite neanche una colpa da espiare, se non quella di essere per l’appunto sopravvissuto.

Fin dal primo libro, Massimiliano Governi ci ha abituato a questo sguardo in tralice, a questa prosa netta e acuminata priva di fronzoli. E seppur diversi tra loro, è impossibile non riconoscere in tutti i suoi testi il suo marchio di fabbrica. Mi viene in mente la splendida scultura di Boccioni Uniche forme di continuità nello spazio: il movimento – nello spazio, nel tempo – della sua idea di letteratura, che si riconduce sempre a forme cesellate, “uniche”, che emergono dal “realismo astratto” del suo immaginario. Ma è impossibile non vedere gli occhi di Massimiliano Governi mentre seguono di soppiatto i personaggi “reali” dei suoi libri. I quali agiscono naturalmente, all’oscuro di tutto.

 

(Massimiliano Governi, Il superstite, edizioni e/o, 2018, pp. 144, euro 14)

IL PUNTO SULL’ACCOGLIENZA #4

Sono già uscite le prime indiscrezioni sull’imminente decreto Salvini che, se venissero confermate, punta alla revoca del riconoscimento della protezione umanitaria. Nel nostro primo articolo avevamo descritto le tre possibilità al quale un richiedente asilo può aspirare: asilo politico (status di rifugiato), protezione sussidiaria e, appunto, la protezione umanitaria.

Quest’ultima è quella che consente alla commissione territoriale, e al giudice in un eventuale ricorso, ampi margini di discrezionalità nel caso il richiedente non fornisca (o non riesca a fornire) motivazioni tali da consentirgli il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria. Volendola semplificare un po’, la commissione o il giudice non ritengono sussistano i presupposti per rilasciare un permesso di soggiorno di cinque anni ma stabiliscono che il richiedente meriti una possibilità dal punto di vista, appunto, “umano”. Possono essere tanti i motivi che inducono l’organo giudicante al riconoscimento della protezione umanitaria, e vanno dalle fragilità di ordine psicologico dovute a traumi pregressi o post-migratori o al comprovato impegno del migrante nel volersi integrare nel tessuto sociale.

Lo scorso febbraio la Cassazione ha inoltre stabilito che l’integrazione sociale è uno dei motivi che concorrono a determinare la situazione di vulnerabilità personale rilevante ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. E che in particolare va fatta una «valutazione comparativa per verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza».

Secondo quanto si legge nello schema del decreto legge, diffuso da Adnkronos, il permesso di soggiorno per motivi umanitari verrebbe sostituito da un permesso di soggiorno rilasciato in «casi speciali per esigenze di carattere umanitario» che dà diritto alla possibilità di un “soggiorno temporaneo”.

Questi casi speciali sono:

Stranieri che versano in condizioni di salute di “eccezionale gravità”. Permesso di soggiorno (valido solo nel territorio nazionale) per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria ma comunque non superiore a un anno e rinnovabile finché persistono le condizioni di salute di eccezionale gravità.

Permesso di soggiorno per calamità naturale. Valido sei mesi. Non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Qualora lo straniero abbia compiuto “atti di valore civile” su proposta del prefetto viene rilasciato un permesso di soggiorno della durata di due anni.

Stop. Secondo quanto si legge dalla bozza, dunque, solo in questi tre casi la commissione può rilasciare un permesso di soggiorno qualora non venissero riscontrati motivi per riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Tutto questo si ripercuoterebbe anche sul sistema di accoglienza che allo stato attuale tutela anche i titolari di permesso umanitario; su tutte le disposizioni in materia di accoglienza, dunque, verrebbe sostituita la dicitura «tutela dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei destinatari di altre forme di protezione umanitaria» con «dei titolari di protezione internazionale e dei minori stranieri non accompagnati». Quindi, a quanto pare, anche i tre casi speciali, compresi quelli con gli eccezionali motivi di salute reterebbero esclusi dal sistema di accoglienza.

Inoltre il decreto prevederebbe:

Il raddoppio della durata massima del trattenimento dello straniero nei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio) da novanta a centottanta giorni e un aumento di fondi destinati ai rimpatri.

In sostanza il migrante, dopo i mesi (in alcuni casi anni) di dura traversata, dopo aver subito violenze nei paesi di transito e successivamente allo sbarco aver passato un lungo periodo a sperare nel riconoscimento di uno status, a studiare la lingua italiana e a frequentare corsi di formazione per costruirsi un futuro, corre il rischio di ritrovarsi recluso per centottanta giorni in un Cpr in attesa del rimpatrio.

Rigetto della domanda di reiterata (sul significato di reiterata rimando al mio primo articolo) qualora presentata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento. Domanda considerata inammissibile «in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso».

E qui lo schema di decreto legge considera come oggettivo un dato al quale non è possibile in alcun modo attribuire un’oggettività: dà per scontato che la domanda reiterata presentata dopo un provvedimento di allontanamento venga presentata «al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso». In realtà possono essere tanti i motivi secondo i quali uno straniero può ritrovarsi nella condizione di presentare una domanda reiterata dopo essere stato raggiunto da un provvedimento di allontanamento e possono attenere o all’inefficienza del legale che ne ha seguito in prima istanza la pratica, o all’emergere di nuove comprovate motivazioni, non analizzate in precedenza, che gli consentirebbero il diritto di presentare una nuova domanda di richiesta di protezione o a una non effettiva conoscenza delle possibilità di presentare una nuova istanza prima del provvedimento di espulsione.

Insomma, il decreto, almeno nelle premesse, punta a decapitare un diritto del quale fino a questo momento hanno goduto circa il 25% dei richiedenti asilo (a fronte di un 60-65% di dinieghi e di un 7% di attribuzioni della protezione sussidiaria o dello status di rifugiato).

Ognuno la pensi come vuole, ma l’abolizione della protezione umanitaria rappresenta, a nostro avviso, al di là delle implicazioni, appunto, umanitarie, e dei diritti civili negati, un errore “tecnico”.

Bisognerebbe pur tener presente che da quando viene inoltrata la domanda di richiesta asilo fino all’ottenimento dello status (o al diniego) passano almeno sei mesi (anche se i tempi sono in media molto più lunghi) ai quali si aggiunge il periodo di un eventuale ricorso in tribunale. Durante questo periodo al migrante viene concessa la possibilità di imparare la lingua italiana e di poter svolgere corsi di formazione in vista di un impiego professionale. Sono tanti i richiedenti asilo (la maggior parte) che durante l’attesa intraprendono dei percorsi di formazione con la sincera intenzione di costruirsi una vita. Negargli la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario significherebbe di fatto annullare inesorabilmente tutto l’impegno profuso nonché vanificare la dedizione professionale di molti operatori del settore.

Insomma, il rischio è quello di incrementare in un colpo solo demotivazione, clandestinità, sfruttamento lavorativo sommerso e illecito. Esattamente il contrario al quale mira, almeno nelle intenzioni, il decreto stesso.

Prontuario di letteratura neogreca

Δίψα ζωής, Sete di vita! declama un gigantesco graffito dalla parete di un ampio edificio di Atene, e sentiamo subito pulsare millenni di vita e cultura, e un’irresistibile nostalgia per la Grecia, la sua gente, il suo mare, il luogo mitico. Viviana Sebastio coltiva questa passione e la condivide con i lettori italiani grazie alle sue traduzioni editoriali e ai suggerimenti che da ottima conoscitrice può darci sulla letteratura, sul cinema e sulla storia della Grecia contemporanea. In quest’intervista fa la somma e fornisce i mezzi ai lettori interessati: da principianti quali siamo, possiamo provare ad avvicinarci di più a quel paese splendido che è la Grecia.

Cara Viviana, comincio con la solita, inevitabile richiesta: ti vuoi presentare ai nostri lettori?

Non nascondo un certo disagio nel dovermi presentare in prima persona. Se dovessi compilare una breve nota biografica direi: Viviana Sebastio è traduttrice dal neogreco e dall’inglese verso l’italiano. Nata a Taranto, vive a Roma, dove si è laureata in Lingue straniere e traduzione alla Sapienza. Durante l’anno, trascorre lunghi periodi in Grecia, sua patria elettiva e faro che guida molte delle sue rotte e dei suoi approdi, negli studi e nel lavoro.

Un’altra domanda banale eppure imprescindibile: come e perché ti sei avvicinata alla professione di traduttrice editoriale?

La lingua greca esercita un forte potere su di me, arriva nell’intimo e mi rapisce l’anima, prima con il suono e poi con i suoi significati e significanti. Risuona in me come un richiamo archetipico, un’eco che giunge da un tempo e da un luogo lontani.

Il suo fascino è anche nell’alfabeto, che è un tutt’uno con la bellezza e la morfologia di questa piccola terra. Il poeta Odysseas Elytīs esprimeva perfettamente questa coesione, esistente in «un’ortografia, dove ogni omega, ogni ipsilon, ogni accento acuto o ogni iota sottoscritta non sono che un golfo, un declivio, una roccia a picco sulla linea curva di una poppa che emerge» (Il metodo del
dunque, traduzione di Paola Maria Minucci, Donzelli Editore).

Tradurre mi è, quindi, necessario per immergermi quanto più posso nella profondità di questa antica e pur sempre rinnovata lingua, per cercare di godere appieno della sua poesia e, non in ultimo, per condividerne la ricchezza e il potente fascino, perché la gioia se condivisa si moltiplica.

Anche per questo motivo, oltre a dedicarmi alla letteratura, realizzo, quando posso, rassegne di cinema greco contemporaneo e laboratori ludico-didattici, finalizzati ad avvicinare i partecipanti alla lingua greca, attraverso la lettura di favole, in mia traduzione.

Nei primi mesi di quest’anno hai avuto due belle soddisfazioni: la presentazione di Stampalia. Perla del Dodecaneso. Avamposto dell’Europa, di Athinà Tarsuli che la casa editrice Aracne ha pubblicato nella tua traduzione, e il primo premio InediTo assegnato all’ateniese Thomas Tsalapatis per la raccolta di poesie Circostanze, da te tradotta. Posso chiederti di tratteggiarci il ritratto dei due autori e parlare di queste opere?

Entrambe le traduzioni sono state portatrici di grande gioia e soddisfazione. Il lavoro su Astypàlea (Stampalia), mi è stato proposto nella primavera del 2017 e la ricchezza di quest’opera mi si è rivelata già al primo sguardo. Si tratta di un diario di viaggio che Athinà Tarsuli scrisse nel 1948, durante la sua esplorazione delle isole del Dodecaneso. Tarsuli, oltre a raccontare la sua esperienza personale di viaggiatrice, raccoglie un buon numero di testimonianze folcloriche dell’isola. Sfogliando le pagine, si incontrano canti della tradizione popolare greca, come mantinades (versi in rima baciata intonati soprattutto nel corteggiamento), mirologhia (lamentazioni funebri), distici d’amore, filastrocche e altri canti demotici.

Tradurre quest’opera è stato un viaggio nel tempo, nei luoghi e nelle mie emozioni. Per tradurre, ad esempio, il capitolo sugli abiti tradizionali, mi è sembrato di partecipare attivamente alla vestizione della donna astipaliota, in una procedura complessa dovuta alla ricchezza degli elementi che compongono il sontuoso abito tradizionale – ne approfitto per invitare il lettore che si recherà ad Atene, a visitare il museo Benaki, dove sono esposti questi, e altri, magnifici abiti tradizionale greci.

Ammetto di essermi, anche, commossa nel leggere alcuni canti, mi riferisco in particolare a quelli funebri, i quali con una lingua semplice, popolare, quotidiana riescono a trasmettere il dolore profondo e straziante di chi ha visto portar via un suo amato da Charos, il traghettatore dell’Ade.

Grazie a Stampalia ho, inoltre, approfondito la figura dell’autrice che è stata di sicuro una donna interessante. Nata a fine Ottocento, si è dedicata alla scrittura dopo un tragico evento familiare. Ha realizzato biografie, raccolte poetiche e diari di viaggio, che lei stessa ha finemente illustrato. Tarsuli si è dimostrata anche una sostenitrice dei diritti delle donne e ha partecipato attivamente alla Resistenza greca. Mi ritengo fortunata di aver potuto darle voce attraverso la mia traduzione.

Thomas Tsalapatis è, invece, un poeta del terzo millennio, ed è considerato dalla critica, non solo greca, uno degli autori più rappresentativi e promettenti della sua generazione. L’ho incontrato per la prima volta qualche anno fa, in un festival letterario ad Atene, e ho subito notato il suo talento. Dopo vari miei tentativi di farlo conoscere anche in Italia, è finalmente arrivato il riconoscimento alla sua opera, grazie al premio InediTo. Presto Tsalapatis arriverà anche in libreria, con una sua silloge in mia traduzione.

La sua opera, che fa slalom fra i generi letterari, è già stata pubblicata in Francia e in Inghilterra. È un giovane uomo dalla grande sensibilità artistica, alimentata da un duro lavoro sul testo e una profonda conoscenza della letteratura greca e internazionale. È, inoltre, un attento osservatore degli eventi socio-politici nazionali e mondiali, infatti scrive anche per quotidiani e periodici greci.

Ho solo qualche vaga idea della letteratura greca contemporanea, conosco i nomi più gettonati a cominciare da Petros Markaris, ma mi piacerebbe saperne di più. Potresti abbozzare una breve guida e fornirci qualche suggerimento riguardo ai libri essenziali per avvicinarci alla Grecia?

Premesso che, a mio avviso la letteratura neogreca in Italia non ha lo spazio che merita, ritengo che i titoli pubblicati siano più di quelli che si creda. A cominciare dalle eccellenti pubblicazioni di Crocetti nella vasta collana Aristea, per proseguire con Donzelli, e/o e altre case editrici più piccole come Bulzoni, Stilo, Argo, EmmeTi.

Riporto alcuni dei titoli esistenti in traduzione italiana, anche se l’elenco potrebbe essere ben più lungo. Consiglio la lettura del romanzo Elena Nessuno, di Rea Galanaki (traduzione di Gabriella Macrì, Crocetti Editore, 2003), ispirato alla storia vera della prima pittrice greca Elena Boukouras Altamura, vissuta a fine Ottocento e sposa, tra l’altro, del noto pittore foggiano Francesco Saverio Altamura.

La fidanzata di Achille, di Alki Zei (traduzione di Lucia Marcheselli, Crocetti Editore, 1998). Anche in questo romanzo, autobiografico, la protagonista è una donna che attraversa i decenni dolorosissimi della storia greca: la Seconda guerra mondiale, la Guerra civile, per arrivare fin dopo la Dittatura dei colonnelli.

E ancora Madre di cane, di Pavlos Màtesis (traduzione di Alberto Gabrieli, Crocetti Editore, 2012), dove lo sfondo della narrazione è l’occupazione italiana in Grecia, durante la Seconda guerra mondiale, e protagonista è una ragazzina di tredici anni, che sogna di diventare una grande attrice di teatro.

E consiglio la lettura di Le streghe di Smirne, di Mara Meimaridi (traduzione di Luigina Giammatteo, Edizioni e/o, 2006), un romanzo voluminoso, ma scorrevole, ironico e a tratti divertente. È ambientato in Asia Minore tra Otto e Novecento, tra intrighi, segreti e stregonerie.

Facendo un passo indietro nel tempo, suggerisco la lettura di un gigante della letteratura neogreca, Nikos Kazantzakis, che finalmente è stato tradotto senza passare da lingue ponte. Mi riferisco a Rapporto al greco (2015) e a Zorba il greco (2011), tradotti e pubblicati da Nicola Crocetti.

E se capitate in Grecia, sugli scaffali delle librerie potrete trovare vari libri di letteratura greca in traduzione italiana, pubblicati dalla casa editrice Aiora.

Per la letteratura dell’ultimo decennio, segnalo, inoltre, FONES. Voci dalla Grecia (2017), una breve raccolta di racconti di autori greci contemporanei, da me curata e pubblicata in e-book, peraltro gratuito, da I Dragomanni. E per sorridere, infine, consiglio la lettura dei fumetti del sarcastico e ironico Arkàs, pubblicati da Lavieri.

A proposito di consigli di lettura: qualcuno per conoscere la storia della Grecia moderna?

In qualche modo, alcune delle letture suggerite in precedenza raccontano la storia della Grecia del secolo passato. Potrei aggiungere Neve e fango per dissetarmi, di Silvia Calamati (Socrates, 2014), ovvero il diario del partigiano della Guerra civile greca Sotiris Kanellopoulos. Il volume, oltre a essere una toccante testimonianza di questa guerra fratricida, è arricchito da un’attenta analisi del periodo 1936-1949, curata da Richard Clogg, studioso inglese di storia greca moderna e contemporanea. E ancora, Istanbul nella memoria di Mario Vitti, pubblicato da Bulzoni, per la Collana Saggi di greco moderno, diretta da Paola Maria Minucci. L’eminente studioso racconta la città, suo luogo natale, un tempo emblema di convivenza pacifica fra più culture. Qui vivevano, come in altri luoghi dell’Asia Minore, corpose comunità greche, fiere eredi dell’impero bizantino.

E per letture sulla storia più attuale, si possono prendere in considerazione i saggi curati da Dimitri Deliolanes e da Patrizio Nissirio.

Ben due Nobel sono andati ai poeti greci del Novecento, a Seferis nel 1963, a Elitis nel 1979, e gli amanti delle poesie non possono fare a meno di Kavafis, Ritsos, per citarne solo un paio. Chi sono i tuoi poeti preferiti e quali sono i tuoi versi di riferimento?

I poeti che hai menzionato sono tra quelli da me più amati, e certo tra i più noti in Italia. A loro aggiungerei Kikì Dimoula, Nikos Gatsos, Michail Ganàs, Katerina Angelaki-Rouke – che fortuna averla conosciuta di persona! –, Miltos Sachtouris, Nikos Kavvadias e tanti altri ancora, ma anche Kikì Dimoula, Michail Ganàs (pubblicati rispettivamente da Crocetti e Donzelli, nella traduzione di P. M. Minucci).

A tal proposito, consiglierei la lettura della ricca e voluminosa antologia Poeti greci del Novecento (Mondadori, 2010), curata da Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani. I miei versi di riferimento sono diversi. Alcuni provengono dalle bellissime poesie erotiche di Kavafis, si veda Torna, o di Ritsos: vado a memoria: «Le parole sono vene, dentro di esse sangue scorre», o di Elitis che nel suo Il piccolo marinaio scrive: «Dal poco arrivi ovunque prima».

Anche il nuovo millennio è portatore di tanta e bella poesia, che spero di vedere presto pubblicata in Italia. È una poesia che ascolta il sussurro ininterrotto della tradizione e che si respira nelle strade di Atene, quando ti imbatti, per esempio, in un gigantesco graffito che dalla parete di un ampio edificio declama: Δίψα ζωής, Sete di vita!

Ringrazio Viviana Sebastio per questa guida ragionata ricca di approfondimenti, curiosità e consigli utili ricordando anche che il suo blog, META frasando, in cui poter approfondire ancora.

Poster del film Sulla mia pelle su Flanerí

Viaggio al termine delle botte

Film d’apertura della sezione Orizzonti della settantacinquesima Mostra del cinema di Venezia, Sulla mia pelle di Alessio Cremonini racconta gli ultimi sette giorni della vita di Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre 2009 nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma a seguito del pestaggio subito dai carabinieri dopo l’arresto, una settimana prima, per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.

Stefano Cucchi aveva un passato di tossicodipendenza da eroina che lo aveva portato in comunità e a un lungo percorso di recupero. Nell’ottobre del 2009 faceva sport, lavorava nella società di suo padre, aveva una sua casa, ma non aveva chiuso del tutto con la droga. Una sera, la sera del 15 ottobre 2009, mentre era fermo in macchina con un amico, viene fermato da una pattuglia dei carabinieri per un controllo. Gli trovano addosso delle dosi apparentemente già pronte per lo spaccio di hashish e cocaina e viene portato in caserma per la custodia cautelare. Da quel momento inizia per Cucchi una notte lunga sette giorni da cui non si risveglierà più.

Cremonini, scrivendo il film con Lisa Nur Sultan, ha deciso di concentrarsi sui fatti senza spingersi più in là. Partendo dalle testimonianze e dagli atti ufficiali dei procedimenti giudiziari, senza sostituirsi ai giudici o agli investigatori, Sulla mia pelle racconta la storia di un uomo, della sua famiglia e della serie di abusi e negligenze che hanno portato alla sua morte in carcere senza che potesse incontrare mai il suo avvocato o i suoi genitori.

Si potrebbero scrivere pagine intere sulla colossale interpretazione di Alessandro Borghi, dimagrito di diciotto chili per diventare Stefano Cucchi, capace di comunicare con tutto il corpo la sofferenza e di occupare il centro della scena anche con il silenzio o coprendosi il volto con le coperte. Borghi non è il solo merito del film. La famiglia Cucchi viene interpretata da Jasmine Trinca nei panni della sorella Irene, da Milivia Marigliano madre sofferente e da un sorprendente e bravissimo Max Tortora nei panni del padre. Cremonini, attento a prendere il meglio dai suoi interpreti, a lasciarli esprimere con disperata naturalezza, accompagna con uno sguardo ravvicinato i corpi senza retorica. Ha l’intelligenza di non mostrare il pestaggio subito da Cucchi – ancora oggetto di indagine, tra le altre cose – per non fare del sensazionalismo fine a se stesso.

A rendere, però, Sulla mia pelle un film da ricordare è l’assoluta mancanza di indulgenza nei confronti della vittima. Stefano Cucchi aveva un passato difficile, un presente complicato e un futuro da determinare. Quando i genitori ricevono la notizia dell’arresto con una perquisizione in casa non sono increduli, sono rassegnati. Continuano a ripetersi che le cose dovranno cambiare quando uscirà. Provano a stargli vicini, a capire, ma sono pieni di rabbia, della rabbia disperata di chi sopporta da troppo tempo. Lo Stefano Cucchi del film sceglie di non parlare, di non dire a nessuno – agli agenti, ai paramedici, ai dottori – cosa gli è successo, come si è fatto davvero quei lividi, come si è rotto le vertebre, perché ha vissuto abbastanza da sapere che è più rischioso dire la verità che tenersi il dolore. È complice del suo stesso destino perché non si fa aiutare, non denuncia, aspetta solo che passi. La responsabilità, però, non è sua. Nei sette giorni tra l’arresto e la morte, Cucchi è entrato in contatto con circa 140 diverse persone tra carabinieri, medici, agenti carcerari e altri detenuti. Nessuno è sembrato volersi fare carico fino in fondo di quel corpo martoriato, rimbalzandolo lontano per evitare ogni coinvolgimento.

Confrontarsi con la cronaca contemporanea non è semplice. Il caso Cucchi ha catalizzato in questi nove anni l’attenzione dell’opinione pubblica in vario modo e a varie riprese. La ricerca della verità sulle cause che hanno portato alla morte di Cucchi è ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Sulla mia pelle ha l’intelligenza e il merito di lasciare da parte ogni connotato politico della vicenda per concentrarsi su una ricostruzione che senza denunciare vuole solo fare rumore su un dato intollerabile: il numero di morti in carcere. Nel 2009 si contarono 176 decessi complessivi negli istituti penitenziari (Cucchi era il numero 148). Andando oltre le responsabilità della vicenda, Cremonini sposta, con una didascalia finale, l’attenzione sul dato generale per parlare di quello che è un problema sociale troppo spesso trascurato.

 

 (Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini, drammatico, 2018, 100’)

 

Cercando il proprio posto nel mondo

Chiunque sia alla ricerca di un classico happy ending non può certo trovarlo in Più veloce dell’ombra (Fandango, 2018), il nuovo romanzo di Federica Tuzi, già vincitrice del Premio John Fante con Non ci lasceremo mai: qui, al contrario, è possibile trovare il senso autentico di un riscatto di una preadolescente che cerca il suo posto nel mondo. Ed è cercando questo posto che Alessandra, la protagonista del libro, compie un percorso di formazione e di riscoperta del valore di sé, che all’inizio sembra quasi non esistere.

Siamo nella Torino anni Ottanta, in un quartiere residenziale definito Mattel per una intuibile vicinanza al mondo delle villette di Barbie: i passatempi preferiti sono l’aerobica, la ricerca di un abbigliamento griffato, l’ostentazione di un benessere oltre misura, la perfezione estetica. Alessandra ha undici anni e due genitori; Magnum – come Magum P.I – e Kelly che sono allineati col mondo patinato in cui vivono e che, essendo bellissimi e perfetti, devoti all’immagine e alla forma, desidererebbero una figlia che con con quella toccata loro in sorte non c’entra nulla. Alessandra è grassottella, adora mangiare, sua nonna è il suo unico punto di riferimento, non si adegua alla moda paninara e rifugge dai cliché ai quali la sua famiglia è invece asservita.

I suoi sogni sono invece quelli di una ragazzina diversa dai coetanei: «Se il genio della lampada mi avesse chiesto di esprimere tre desideri, avrei detto: E.T (quello vero, non di peluche), una tavoletta di cioccolata che se la mordi si ricrea all’infinito, un flipper». E poi i sentimenti, dolci e incomprensibili, come quello provato – e descritto con abilità stilistica semplice e profonda dall’autrice – per Elena, una ragazzina più grande, con i capelli biondo cenere come le principesse delle favole, la grazia dei movimenti, l’aria intelligente. Una specie di sollievo anche solo pensarla, quando il mondo intorno diventa troppo spietato: infatti a scuola Alessandra è costantemente presa in giro per i suoi tic, il suo aspetto esteriore, la sua salopette. Alessandra è una diversa con cui si entra subito in empatia: perché la sua quotidianità ci porta inevitabilmente a pensare ai gruppi di appartenenza, che si trasformano a seconda dell’ambiente famigliare e della sua cultura e alla sfida che dobbiamo ingaggiare con noi stessi per essere appunto individui liberi, con le nostre caratteristiche.

La stessa cosa vale per i modelli maschile e femminile e per chi vorrebbe indirizzare le scelte più intime: non a caso Alessandra si chiede «cosa avevo che non andava?» quando si sente rifiutata da Elena e non sa gestire quel suo primo forte interesse per una coetanea dello stesso sesso. Sua madre inoltre non riesce a parlare davvero con lei: è più preoccupata di fissarle un appuntamento alla Weight Watchers, «un posto orribile con luci al neon e poster di modelle appesi alle pareti». Alessandra è una pura: questo si capisce, quando pagina dopo pagina, descrive il mondo esteriore e quello interiore. Ha dei valori, è ironica, intelligente e quando arriva Frida, un cagnolino determinato come lei, la narrazione prende un altro ritmo e la protagonista acquista una nuova sicurezza.

Fino a una specie di rito di iniziazione: aggirarsi alla stazione di Porta Nuova dove incontra Detlef, un piccolo outsider col quale baratta la sua giacca alla moda per una molto più vecchia, e instaura un’amicizia con Dario, compagno di banco brillante col quale dà avvio ad un album di figurine con mille curiosità sul mondo animale.

La Tuzi sa strappare molti sorrisi al lettore, ma sa anche trasmettere l’amarezza e l’angoscia di non sentirsi capiti, in una preadolescenza in cui la voglia di essere accettati e amati per come si è si infrange con sciocche presunzioni di “normalità”. Ma alla fine, Alessandra impara a guardare oltre e a trovare se stessa.

 

(Federica Tuzi, Più veloce dell’ombra, Fandango Libri, 2018, pp. 254, € 17.00)

Disperata, allegra brigata

Piccoli suicidi tra amici (titolo originale Hurmaava joukkoitsemurha, 1990) edito da Iperborea nel 2006 è un romanzo grottesco e irriverente dello scrittore finlandese Arto Paasilinna. Ogni anno, mediamente, millecinquecento finlandesi arrivano al suicidio. Pensando a questa tragica rinuncia dei suoi connazionali, Paasilinna ha voluto scrivere un romanzo che già dalle prime pagine è contraddistinto da un’atmosfera tragicomica di morte.

Così, grave e amaro, comincia il suo libro: «Il più formidabile nemico dei finlandesi è la malinconia, l’introversione, una sconfinata apatia. Un senso di gravezza aleggia su questo popolo sfortunato, tenendolo da migliaia di anni sotto il suo giogo, tingendone lo spirito di cupa seriosità. Il peso dell’afflizione è tale da indurre parecchi finlandesi a vedere nella morte l’unico sollievo».

Onni Rellonen, in un fienile dove si era recato durante la festa di san Giovanni per suicidarsi, incontra casualmente il colonnello Hermanni Kemppainen, lì per la stessa ragione: «Mi era appunto venuto in mente questo», scrive il primo, «e se cercassimo di mettere assieme una truppa del genere, voglio dire, di aspiranti suicidi? Potremmo parlare di cose di interesse comune e scambiarci opinioni. Ritengo che molti rimanderebbero il suicidio se potessero parlare liberamente delle proprie angosce ad altri che sono nelle stesse condizioni». Nascerà quella per cui Paasilinna conierà i sinonimi più vari: aspiranti suicidi, suicidandi, candidati suicidi, suicidi ambulanti, viaggiatori suicidi, fino alla fondazione della Libera Associazione Morituri Anonimi.

Dopo un appello sul giornale, infatti, Rellonen e Kemppainen, a cui si affianca subito la vicepresidente Puusaari, riuniscono una schiera di adepti e iniziano a viaggiare verso il Sud dell’Europa. «Ma poi convennero che guidando in stato di ebbrezza rischiavano, alla peggio, di morire». L’ironia dell’autore pervade il libro dovunque, e mitiga le derive inquietanti insite nell’idea secondo cui un gruppo di finlandesi senza voglia di vivere abbia ancora la latente curiosità di scoprire il mondo attraverso un viaggio picaresco. Questa tensione verso la morte rappresenta un pretesto narrativo di grande efficacia per rendere imprevedibili le sorti della piccola e stramba comunità, i cui elementi sopravvivono amabilmente anche se sono accomunati dal fatto che tutti loro anelano al suicidio.

Una volta terminato l’irriverente seminario di suicidologia in cui speculano su come morire, i suicidandi intraprendono una rocambolesca fuga dall’ultimo giorno: «Il colonnello Kemppainen mise in guardia contro gli abusi. Non faceva bene alla salute, i reni e il fegato non sopportavano l’eccesso di alcol. A Kemppainen fu allora fatto notare che non aveva granché importanza in che condizione sarebbe stato il fegato di chiunque al momento del suicidio, stavano andando comunque verso la tomba». Altri finlandesi si uniscono alla combriccola, alcuni al contrario si perdono per strada: «Il gruppo doveva ancora raggiungere in fretta parecchie località, in posti disparati, e radunare gli aspiranti suicidi che mancavano onde evitare altri decessi». Ma anche se il loro obiettivo è quello di uccidersi, cordialità e altruismo non abbandonano il loro orizzonte di vita. Scrive Paasilinna all’inizio della seconda parte del libro: «Si può scherzare con la morte, ma con la vita no. Evviva!».

Il tema della morte, naturalmente, scandisce tutte le tappe del loro cammino e accompagna questi curiosi viandanti. Dalla Finlandia alla Norvegia, dalle Alpi svizzere al Portogallo, il suicidio collettivo viene sempre posticipato. Vivere è un ostacolo grande per chi teoricamente è accomunato dalla voglia di morire. Nel frattempo, una goffa task force composta da forze dell’ordine e servizi segreti indaga invano su quello che viene considerato un piano eversivo e pericoloso, anziché un turismo eccentrico.

E nelle menti dei suicidandi affiora, dopo ogni tentativo fallito, il felice sentore di un pentimento: il loro viaggio verso la fine è intervallato da momenti gioiosi di condivisione e dal racconto di aneddoti sulle loro esistenze. Anche se questa storia pare la cronaca di una morte annunciata, si infatuano, si corteggiano, ridono, vivono appieno le nuove esperienze e insomma finiscono per sperimentare un’insperata felicità. Un’avventura sostanzialmente inverosimile viene resa possibile dai dettagli puntuali con cui Paasilinna struttura il suo romanzo. Le perplessità sul morire tutti insieme si accrescono, e il momento di farla davvero finita viene sempre procrastinato scoprendo che, sotto all’insoddisfazione per le loro vite, sopravvive ancora – arrivati a un finale piuttosto aperto – una nuova e fertile speranza: «I suicidandi arrivarono unanimemente alla conclusione che, fosse pure la morte la cosa più seria di questa vita, neanche quella lo era più di tanto».

 

(Arto Paasilinna, Piccoli suicidi tra amici, Iperborea, 2006, pp. 272, € 17.00)