SMH

Siamo stati noi. Ci siamo presentati e gli abbiamo detto che dovevano andarsene. Siamo stati noi perché la nostra fame cannibale è più forte del loro desiderio di sopravvivenza. Siamo arrivati in moto: pochi chilometri di strada veloce e poi nei vicoli di polvere. Abbiamo parcheggiato nel garage di Alvaro e proseguito a piedi.
Erano molti anni che non attraversavamo la barriera di cemento per passare dal visibile all’invisibile. Ormai i profumi e i colori di quei luoghi erano coperti da una patina opaca che avvolgeva i ricordi della nostra infanzia.
Anche noi siamo nati con un dato anagrafico incerto, ma appena nostro padre ci ha trasferito nelle case bianche di cinquantasei metri quadri, subito siamo stati iscritti ai libri della società. Dei pochi anni vissuti nell’invisibile rimanevano alcune istantanee consumate: immagini di cucinotti separati da tende fiorate, grovigli di cavi elettrici sopra le nostre teste e sciami di bambini che corrono nei vicoli calciando un pallone.
Ad attenderci c’erano quelli della Ação Social. Sorridevano tutti. Li abbiamo incontrati su una terrazza che dall’alto domina la distesa di tetti in lamiera oltre i quali si apre l’oceano. Una decina di sedie di plastica mangiate dal sole erano disposte in circolo all’ombra di un telo sgualcito ai bordi. Poi uno di loro ci ha invitato a guardare giù, in basso, verso la baia. E allora tutti ci siamo alzati e in silenzio abbiamo guardato, come in una preghiera collettiva. «Vedete come siamo in alto?» ha detto uno di loro. «Siamo noi i primi a veder sorgere il sole».
Dall’altro lato della terrazza c’era un carretto, apparentemente gestito da un bambino: avrà avuto dodici anni e indosso una canottiera gialla con Ronaldo scritto a pennarello sulla schiena. Quando noi ci siamo seduti lui si è avvicinato reggendo tra le braccia un catino pieno di bibite in lattina; qualcuno ha pescato una bevanda e lasciato cadere qualche moneta nella tasca del piccolo.
E poi c’era la Senhora Nenê. La gatta. Era appisolata dentro a quello che rimaneva di un televisore, tolto il vetro e il tubo catodico. Ce l’hanno presentata come fosse anche lei un membro della comunità, come fosse venuta per partecipare alla riunione. «Lei è la madre di tutti noi» hanno detto «nessuno l’ha vista nascere e probabilmente nessuno la vedrà morire».
A noi è sembrata una che sa già come andrà a finire.
Dalla cartella abbiamo estratto il raccoglitore con la comunicazione ufficiale della Secretaria Municipal de Habitação: l’elenco delle persone (e delle case) e il prospetto delle nuove abitazioni che stavano già costruendo a pochi chilometri di distanza. Abbiamo aperto sul tavolo i mappali e la planimetria del nuovo quartiere e illustrato il piano di riconversione urbanistica, mentre loro ascoltavano in silenzio, facendo lievi cenni con il capo. Poi hanno parlato e sono bastati pochi scambi per rendersi conto che non c’era alcun punto di incontro. Le loro richieste erano all’estremo opposto di quanto scritto sui nostri fogli.

Qualche settimana più tardi eravamo di nuovo lì. Alvaro teneva la testa dentro ai motori ma quando ci ha sentito arrivare si è voltato verso di noi, giusto il tempo necessario per dirci di salutare nostro padre. Abbiamo risposto con un cenno e ci siamo incamminati mentre ci toglievamo la camicia dai pantaloni. La luce del mattino scaldava i tetti arrugginiti e faceva risplendere le tinte sgargianti delle magliette stese ad asciugare. Lungo la strada la polvere rimaneva a mezz’aria e poi andava ad accumularsi sulle ginocchia dei bambini. Ci correvano intorno. I loro volti lucidi di sudore.
Quando siamo arrivati alla terrazza, alcuni uomini e donne si stavano passando delle fotografie dopo averle estratte da un grosso raccoglitore. Uno svizzero, un fotografo – come poi ci hanno raccontato – aveva trascorso qualche giorno con loro e aveva scattato delle foto. Era venuto apposta da Zurigo per ritrarre i loro volti e raccontare le loro storie. Avrebbe poi organizzato una mostra, da qualche parte in Europa, per sensibilizzare il mondo in favore della battaglia che stavano combattendo. I loro volti sarebbero stati visti da centinaia o forse migliaia di persone in Europa, anche se chiaramente non avrebbe fatto alcuna differenza. Gli uomini e le donne, seduti sulle sedie di plastica, sorridevano riconoscendosi nelle foto mentre la Senhora Nenê, sempre nel televisore, fintamente assonnata, ascoltava tutto. Lo svizzero li aveva fatti posare davanti alle loro case con il braccio destro alzato al cielo e in mano una torcia accesa. Il fuoco della speranza, la celebrazione della propria identità – questo doveva essere il messaggio che il fotografo voleva trasmettere. Il fuoco della resistenza.
Le cose per noi non andavano granché bene. Le riunioni in terrazza ormai consistevano in amichevoli chiacchierate. Sorseggiavamo il mate che ci veniva offerto e insieme guardavamo il panorama della baia e della città più in basso e ci divertivamo a riconoscere i quartieri e le zone nella marea di cemento. I membri della Ação Social mostravano il sorriso e l’ospitalità di chi è abituato a cavarsela con poco ma riguardo alla nostra offerta non avevano alcuna intenzione di fare un passo indietro.
Lasciavamo sempre la moto al garage prima di incamminarci e ogni volta sembrava che al nostro arrivo Alvaro estraesse la testa dal motore per qualche secondo in più rispetto alla volta precedente. Ci aveva già chiesto di salutargli nostro padre, poi ha cominciato a chiederci come stava, anche se subito nascondeva il suo testone color petrolio sotto il cofano di un furgone e riprendeva a fischiettare. Era una melodia lenta la sua, ci è sembrata familiare. Era una melodia di note lunghe ma aveva un ritornello allegro, ed è proprio quello che sembrava trovare posto nelle cavità dei nostri ricordi. Forse l’avevamo cantato da bambini, in cerchio, tenendoci per mano. Poi, mentre salivamo ancora, la melodia di Alvaro scemava tra le voci delle donne e le grida dei bambini.
Intanto il Municipio ci teneva il fiato sul collo visto che non eravamo ancora riusciti a portare a termine il nostro compito. La maggior parte dei giorni ci svegliavamo nelle nostre case incolori e andavamo al bar del quartiere, oppure ci muovevamo nei centri commerciali e spendevamo i pochi soldi che avevamo in tasca per comprare cose inutili. Soldi che avevamo guadagnato svolgendo piccoli lavoretti altrettanto inutili.
Il nostro era uno dei quartieri nuovi, costruiti per noi. Le vie avevano il nome di alberi ma non ancora gli alberi. Come i membri della Ação, parlavamo seduti su sedie di plastica e ci dissetavamo con bevande ghiacciate. Diversamente da loro però, noi non avevamo niente per cui lottare.
Quando ci convocavano al Municipio per sapere come procedeva il lavoro, salivamo adagio i gradini del palazzo infilandoci la camicia nei pantaloni. Alle riunioni erano tutti giovani come noi. Alcuni consapevoli del proprio ruolo, altri ottusamente ingenui. Di fronte a noi c’era una prima fila di funzionari, tutti con una camiciola a maniche corte e una penna infilata nel taschino. Dietro a loro uomini più corpulenti con camicie stirate la sera prima e sciupate dal sudore della giornata. Questi ultimi parlavano per lo più fra di loro e intanto mangiucchiavano qualcosa o intingevano la mano in un sacchetto di patatine.
Una mappa dell’intera area urbana era affissa al muro e un assistente continuava a mettere croci e a circondare zone, ogni volta che uno di quelli in prima fila gli dava l’ordine. Il nostro rapporto era pieno di note e resoconti di conversazioni ma la casella per la firma del responsabile della Ação Social rimaneva ancora vuota.
Intanto la zona di nostra competenza era passata a un nuovo livello di classificazione: ancora due settimane e poi sarebbe scattata la confisca delle proprietà e l’invio delle ruspe scortate dalle forze dell’ordine. Il nostro ruolo ci era ben chiaro fin dall’inizio: la decisione era stata già presa, era solo una questione di tempo e di modalità.

I membri della Ação si sono battuti finché hanno potuto ma alla fine è arrivato il momento di consegnare la notifica ufficiale e comunicare le modalità di pagamento del rimborso che, grazie alla loro tenacia, era stato aumentato dell’1%. E con quello, il nostro lavoro era terminato. Loro ci hanno guardato senza parlare. Non c’era rancore nei loro occhi. In fondo era stato come averli accompagnati verso un destino già scritto. Qualcuno ancora sorrideva, forse non aveva capito. Qualcun altro è scappato via per vedere se la propria casa era ancora in piedi.
Tutti gli altri, tutti quelli che non sono stati sfrattati, rimarranno lì, pieni della loro fame di pancia e di dollari. Fame di coca-cola e telefoni cellulari. Fame di sole e di futuro. Così era e così sarebbe stato per sempre. Lo sapevano le melodie di Alvaro e lo sapeva la Senhora Nenê. Lei aveva visto le case costruite a mano, pezzo dopo pezzo. Aveva visto bambini nascere e con loro aveva visto l’unità della gente, persone che si aiutavano l’un l’altro. Aveva visto nostro padre partire, altri cacciarsi nei guai, altri ancora scomparire o morire in strada.

L’ultima volta che siamo andati al Municipio ci siamo fermati lo stretto necessario per prendere l’assegno e i biglietti. Erano rimasti in pochi nella sala operativa. Le mappe penzolavano dai muri e grondavano di inchiostro rosso. C’erano fogli abbandonati a terra, puzza di sudore e un generale senso di smobilitazione. Sbrigate le poche formalità ci hanno congedato frettolosamente, come si fa con i soldati quando la guerra è finita.
Usciti in strada il sole ci ha colpito forte in testa. Per un attimo il paesaggio ci è apparso assurdo e spaventoso, incomprensibile. Accecati dal riflesso dei palazzi di vetro, i nostri occhi erano impreparati ad accogliere i colori bruciati dalla sovraesposizione e le forme sghembe e traballanti. Un improvviso corto circuito nella nostra mente, una finestra attraverso la quale, per un istante, ci è sembrato di avere capito tutto o forse, più verosimilmente, di non avere capito niente. Poi abbiamo proseguito a piedi, lungo il marciapiede, ed è bastato un leggero scatto – il collo che si inclina appena, su un lato – a farci ritrovare l’equilibrio. Un cambio di prospettiva per tornare alla verticalità delle cose, l’orizzontalità dei nostri passi. Ed ecco le case, i palazzi, i lampioni, gli alberi tornano a erigersi dritti verso il cielo, e anche noi riprendiamo quella postura che ci coccola e ci permette di camminare orizzontale, senza attrito, in fila, come tutti.
Abbiamo continuato con i nostri passi e poco lontano abbiamo raggiunto un campo da pallacanestro, color mattone e recintato di verde. Al suo interno un bambino si spingeva sulle punte per tirare a canestro: suo padre gli passava la palla e lui provava il tiro. Sono andati avanti per parecchi minuti e noi siamo rimasti a guardarli senza parlare per tutto il tempo. A ogni tiro il piccolo gridava il nome di un campione di basket, entusiasta celebrava il suo mondo semplice fatto di eroi da collezionare nell’album di figurine.
A un certo punto, dopo molti tiri e pochi canestri, si sono fermati per bere da una borraccia e si sono avvicinati. Noi abbiamo sorriso, pensando che il nostro mondo non era poi così diverso dal loro, e prima di andarcene gli abbiamo lasciato due dei biglietti che ci avevano dato al Municipio.

È passato un mese, o forse di più. Stavamo girando in moto senza motivo e senza destinazione e la strada ci ha portato al parcheggio: una spianata lucida di catrame senza colori né polvere, senza sole né occhi di speranza. Siamo scesi dalla moto nel piazzale deserto, ancora pochi giorni e poi si sarebbe riempito di automobili, pullman e furgoni. A un’estremità c’erano ancora le baracche dei cantieri e i mucchi di sabbia con la quale erano state riempite le cicatrici della terra. A monte la visuale era coperta da un hotel e dai residence per gli atleti. Odore di asfalto, gli aromi delle cucine e le grida dei bambini erano ormai un ricordo lontano. Siamo rimasti a guardare i palazzi e le centinaia di finestre come bocche aperte, come occhi di un mostro, come urla disperate in cerca di aiuto.
Allora ci siamo voltati, lo spettacolo era già cominciato. Il cielo nero di Rio era sfregiato dalle luci della cerimonia di apertura della XXXI edizione dei Giochi Olimpici. Nello stadio la sincronia delle coreografie, i megaschermi a milioni di led, le aste per gli spazi pubblicitari. Le storie di sport e di casi umani da gettare in prima pagina sui giornali del mondo. Sotto il cielo di Rio la marea melmosa avanzava in silenzio ed era già salita ben oltre le nostre caviglie. E come noi, tutti, sotto il cielo del mondo, continuavano ad avanzare con gli occhi coperti dalla patina opaca che offusca i pensieri e uniforma i nostri desideri. Tutto si omologa e si scolora, si diluisce e si fonde e non ci saranno più confini, non ci saranno limiti perché non ci sarà diversità.
Fuochi d’artificio. Migliaia di piccole esplosioni e scintille terminavano la loro parabola discendente nel mare. Cadevano sulle nostre teste come i numeri gettati sul mondo dai telegiornali: i paesi partecipanti, le discipline rappresentate, gli spettatori paganti, le ore di diretta televisiva.
Noi però avevamo passato gli ultimi mesi a leggere altri numeri, i numeri invisibili: le famiglie sfrattate, le case demolite, le comunità distrutte. Migliaia di persone costrette a spostarsi. Ancora prima di ufficializzare le operazioni di sfratto, il Municipio lanciava segnali intimidatori per quelle famiglie che non si piegavano al loro volere. Senza preavviso marchiavano le abitazioni: SMH. Cominciavano a demolire le case disabitate e in quel modo mettevano in pericolo le strutture adiacenti. Le distruggevano un pezzo alla volta e abbandonavano i detriti sul posto e così facendo mutavano il paesaggio, aggiungevano disperazione, rendevano le comunità invivibili. I detriti si accumulavano e diventavano territorio di animali e malattie. La vita un passo più vicina alla morte.
Poi abbiamo notato che lungo un lato del parcheggio avevano lasciato una piccola lingua di verde. Ci siamo avvicinati, attratti da una fila di lucine fioche ed eccolo, in fondo, sopra una base di pietre e cemento, il televisore. Led colorati lungo i bordi e al suo interno piccoli oggetti e peluche, bambolotti di plastica e, sul fondo, una foto della Senhora Nenê appisolata dentro al televisore. Aveva aspettato che venisse demolita l’ultima casa e poi si era lasciata morire.
Siamo rimasti in piedi insieme ad altre persone che si erano avvicinate, incuriosite da quel piccolo mausoleo kitch. Dietro al televisore, su un’asse di legno, qualcuno aveva scritto: In memoria di Nostra Senhora Nenê, che ha combattuto insieme a noi ed è morta insieme a noi. Proteggici dal nostro mondo.
Infine, quando ancora gli ultimi fuochi facevano brillare il cielo, siamo risaliti sulla moto, abbiamo raggiunto lo stadio, e ci siamo messi in fila.

 

Marco Piazza (1973) Nato a Como, vive a Roma. Lavora come forestale su progetti in ambito internazionale. Ha pubblicato come autore e traduttore su riviste e online. Si è classificato terzo all’edizione 2013 del concorso 8×8. Ha pubblicato il racconto “Maschio alfa” nell’antologia L’amore ai tempi dell’apocalisse – Racconti da un futuro prossimo curata da Paolo Zardi per Galaad Edizioni (2015). Cura il blog Country Zeb.

Con il passo di chi impara dai luoghi

Alla fermata della metro Giulio Agricola, riemergendo al livello dell’asfalto ci si trova proiettati su un vialone alberato con in fondo una chiesa. È un quadrilatero di Roma densamente urbanizzato ma a due passi dal Parco degli Acquedotti e, in una traversa, si incontra un negozio dalla vetrina sgombra e gli infissi bianchi. È la sede di Exòrma, casa editrice nei cui libri sempre è presente – da protagonista o di quinta – il viaggio. Ho appuntamento alle sei di pomeriggio con l’editore Orfeo Pagnani, che mi stringe la mano mentre tutto intorno le sue collaboratrici raccolgono ciascuna le proprie cose scambiandosi i cosa fai stasera e gli a domani: mi sembra di aver messo piede in un luogo intimo, violandolo forse un poco. Quando rimaniamo soli, Orfeo si prepara una sigaretta che non accende, ma la posiziona sulla scrivania a due dita dal mio registratore. È un uomo dagli occhi mori e profondi; mentre parla ti guarda e prima di rispondere alle domande che gli pongo, riflette un attimo. «Immagino che Exòrma non sia il tuo primo lavoro», gli dico. Risponde che no, non è il primo lavoro, ma che viene comunque dal mondo editoriale.

 

Ovvero?

La costola da cui nasce Exòrma è quella di un service grafico-editoriale e di editing, una struttura che si occupava anche di progettazione di collane e di attività di comunicazione, lavorando soprattutto per clienti istituzionali come università, enti di ricerca, editori e organizzatori di mostre. È una storia che inizia oltre trent’anni fa, ma a un certo punto – era il 2009 quando sono stati dati i primi si stampi di questa casa editrice – abbiamo cominciato a sentire limitativi i vincoli della committenza e abbiamo deciso di mollare gli ormeggi: Exòrma è infatti l’italianizzazione di una radice greca che significa prendere il largo.

 

Verso quale direzione?

Tra i primissimi titoli pubblicati c’erano quelli della collana TAC – Tomografie d’Arte Contemporanea. Lo spunto ci venne dalle esperienze accumulate in precedenza, quando abbiamo avuto occasione di curare alcuni eventi espositivi, soprattutto di arte contemporanea. I volumi erano dedicati a grandi artisti viventi e venivano tradotti in inglese. Libri bilingue per evidenziare la caratura internazionale degli artisti considerati.

 

Immagino fossero illustrati.

Sì, ma con un taglio particolare. Soprattutto ci premeva proporre ricercatezza nelle soluzioni grafico-tipografiche, perché questa è una delle caratteristiche che sentiamo proprie della casa. Lo scopo è quello di alimentare la tattilità, l’ergonomia del libro cartaceo: è un fatto funzionale, non solo estetico. L’ergonomia facilita la fruibilità, l’accesso ai contenuti. Questo avveniva per le collane di esordio, ma l’abbiamo mantenuto costante nel tempo.

 

Nonostante ciò incida sui costi di produzione. Voglio dire, una collana che coniughi proposte culturali specifiche e ricerca nel materiale tipografico ha costi di produzione elevati.

TAC ha infatti rallentato molto, e in questo momento è ferma proprio perché un editore come noi, indipendente e piccolo anche se tenace, deve tener sempre bene in conto la sostenibilità economica. Senza contare che i libri d’arte contemporanea hanno dei limiti intrinsechi nella loro capacità di penetrazione nel mercato.

 

Cosa avete affiancato a questo primo esperimento?

Nella strutturazione del catalogo abbiamo cercato di restituire un disegno preciso, che desse anche all’esterno l’idea del progetto culturale. A partire dal nome della casa editrice, che come dicevo dà il senso di una partenza. Con le prime uscite abbiamo inaugurato la collana Scritti Traversi: è la nostra ammiraglia.

 

Qual è la caratteristica?

Quella di essere un contenitore trasversale. Scritti Traversi è un luogo dove confluiscono riflessioni di natura antropologica, geografica, cinematografica o letteraria in senso stretto, eccetera. Tutte hanno nel viaggio la scaturigine, ma sono anche l’occasione per delle infilate trasversali in temi particolari. Sono libri quasi sempre scritti da specialisti della materia: l’antropologo che narra la vita tra i popoli dei ghiacci (Matteo Meschiari, Artico nero, ndr) oppure la fotografa che si mette sulle tracce dei luoghi attraversati dai capitani Meriwether Lewis e William Clark (Emanuela Crosetti, Come ti scopro l’America, ndr).

 

Connessioni raffinate, che però vi costringono a suscitare l’interesse di lettori già in possesso di un retroterra solido. Mi chiedo quante nuove uscite facciate ogni anno.

Una dozzina. Pensiamo di incrementare un poco, ma io sono sempre prudente. È una valutazione di tipo generale che riguarda anche l’assorbimento delle librerie: un editore come noi deve saper considerare quale spazio di mercato ha, quale spazio sugli scaffali ha a disposizione. Non solo, deve tenere conto di quanto riesce a comunicare dei libri per farli arrivare in mano al lettore, quindi deve seguire un criterio di equilibrio, perché non ha senso fare dieci libri in più di quelli che si possono accompagnare nelle mani del lettore. Si tradirebbero gli autori, perché i libri – come sappiamo tutti – spariscono se vengono abbandonati nel meccanismo della distribuzione; si tradirebbero i lettori, oltre a far del male alla casa editrice. Quindi, pur avendo la possibilità di aumentare il numero delle uscite, preferiamo stampare di meno per poter curare meglio tutti gli aspetti, per questo alcune nostre collane sono molto lente. E a tali motivi aggiungo la scelta di perseguire un reale criterio di coerenza nell’inserimento di titoli all’interno di una collana, anche per questo le uscite sono commisurate.

 

Più di recente avete pubblicato una serie di volumi marcatamente di narrativa: quisiscrivemale. La domanda è d’obbligo, quanto male?

Te lo racconto tramite un aneddoto, che è quello di un amico che si trova in una campagna italiana, in un luogo sperduto. All’ora di pranzo arriva davanti a una trattoria un po’ sgarrupata che espone un cartello: qui si mangia male. Ovviamente entra e ovviamente mangia benissimo. Ecco, questo è un po’ il senso di quisiscrivemale: intendiamo sfidare il lettore con questo trucco nel nome della collana, e selezionare scritture che non si appiattiscano nel plot, manoscritti dove la ricerca nella prosa vada oltre la categoria della normale fiction.

 

Quasi tutti i libri hanno un apparato di immagini, magari minuto, ma c’è; retaggio non invadente della vocazione artistica da cui siete partiti. Vorrei sapere come lavorate su questo aspetto.

Il linguaggio delle immagini mi sembra ormai imprescindibile, sotto vari punti di vista, e noi – come editore – proviamo ad attribuirgli funzioni diverse in ciascun libro: talvolta le immagini sono didascaliche, talaltra autoriali, con l’auspicio che possano essere un racconto nel racconto. Per reperirle preferiamo sempre guardare al materiale che possiede l’autore. Abbiamo una serie di volumi di giornalismo narrativo e in quel caso ovviamente la foto è anche cronaca o spesso citazione di situazioni. Per questo ci rivolgiamo agli autori, perché dai loro viaggi riportano sicuramente delle immagini che possono rappresentare un punto di vista diverso rispetto a quello raccontato con le parole. Un’aggiunta di contenuto, appunto. Talvolta capita persino che il materiale fotografico o di illustrazione provenga non dagli autori ma dai protagonisti dei libri, cioè dalle persone, dagli intellettuali, dagli artisti che gli autori incontrano strada facendo.

 

Hai accennato a libri di giornalismo narrativo, non quindi dei reportage.

Sono libri che vogliono portare all’interno di un’esperienza personale, diretta. Il Grande Iran ed Egitto Democrazia Militare, per esempio, sono entrambi di un autore, Giuseppe Acconcia, che si è occupato sul campo lungamente di questi due paesi e, oltre alla competenza critica, ha un’esperienza diretta e perciò immersiva nella realtà. Questo consente di avere dei volumi sfaccettati, profondi, che raccontano una realtà da dentro, con uno sguardo che va molto oltre l’osservatorio europeo e le sovrapposizioni di categorie interpretative dell’occidente su quelle parti del mondo.

 

Si sono fatte le sette, parliamo da quasi un’ora. Orfeo Pagnani maneggia frequentemente la sigaretta che è rimasta spenta sulla scrivania. Mi sembra che sia ora di andare e spengo il registratore. Mi chiede da quale parte di Roma vengo; da Primavalle, gli dico, praticamente dall’altro capo della città. Ma con i mezzi pubblici si può viaggiare, mi fa notare. E allora capisco che l’intervista non è finita e mi mostra i libri della collana I viaggi senz’auto, di Paolo Merlini e Maurizio Silvestri. Sono due viaggiatori, o forse meglio dire due viandanti: con passo lento, su mezzi pubblici, raccontano a doppia voce città o regioni d’Italia. «Quello che caratterizza la collana – dice Pagnani – è che il territorio emerge attraverso le storie delle persone incontrate. Gli autori vanno, incontrano, fanno parlare e raccontano. E questo è un modo per far venire fuori l’attualità dei luoghi».

“Works”
di Vitaliano Trevisan

«Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace?», e poi, al contrario: «Io, in fondo, volevo solo un lavoro, e che magari anche mi piacesse». Su tale altalena psicologica di ricerca e repulsione, di necessità e istinto di fuga, si costruisce per accumulo un oggetto letterario sorprendentemente restio a farsi incasellare, l’ultima fluviale opera di Vitaliano Trevisan, Works (Einaudi Stile Libero, 2016), un imponente memoir che ripercorre la sterminata carriera lavorativa dell’autore dagli anni Settanta fino agli anni Zero.

Prima di accostarsi a queste oltre 600 pagine di considerazioni, ricordi, aneddoti, scenette, monologhi e riflessioni esistenziali e metaletterarie, occorre premettere che il libro non è stato sottoposto ad alcuna operazione di editing per espresso volere dell’autore, che accenna più volte nel corso dell’opera al suo personale punto di vista sulla questione, per esempio dove dice, riferendosi a tre racconti da lui scritti attorno al ’93, che erano «tutti già chiusi, per così dire, cioè compiuti, cioè non sottoponibili a qualsivoglia editing», e che «o la nostra scrittura è cosa solo ed esclusivamente nostra, oppure è altro. Se è altro, non vale la pena». Idee molto precise, non solo sulla letteratura, ma anche – ci si accorgerà addentrandosi in questa materia magmatica dove ritrovare uno spaccato molecolare del nostro Paese – sulla politica, sulle dinamiche sottese a ogni storia familiare, sui meccanismi del potere, sulle contraddizioni del mondo della cultura, un sottobosco al quale Trevisan dedica alcune delle proprie osservazioni più taglienti.

Sembra ovvio affermare che questo libro parli di lavoro: lavoro cercato, lavoro incontrato per caso, lavoro iniziato e non portato a termine, lavoro provato, corteggiato, abbandonato, ripreso, lavoro come fatica e come palestra mentale, lavoro come abilità delle mani e come dimensione psicologica, come realtà che imprime e modifica i significati preesistenti oppure al contrario come anestesia rispetto al troppo pensare.

Ma Works non è solo questo. Non è solo la carrellata di professionisti ritratta dall’instancabile racconto di Trevisan, e non è solo la rievocazione di una “carriera” multiforme e sconclusionata che accoglie le esperienze più disparate, dal manovale al tagliatore di lamiere, dal geometra al cameriere al commesso in Germania, dal portiere di notte al muratore, dall’apprendista designer allo spacciatore di droga, e sì, ovviamente, anche lo scrittore: ma è anche e soprattutto la trascrizione nero su bianco di una vita, il percorso frastagliato e costellato di false partenze di un ragazzo che cerca se stesso, e che si cerca in tutti i modi possibili, senza tralasciare le amicizie borderline, i periodi di solitudine volontaria, gli acidi e i viaggi di esilio all’estero, le esperienze fondamentali della musica, della lettura vorace di chili e chili di letteratura e dell’amore, quest’ultimo in grado di trasformarlo in un vero e proprio sopravvissuto dopo la crisi causatagli dalla fine del proprio matrimonio.

Forse per questa quantità di materiale “intimo” Works è stato definito un romanzo autobiografico, eppure potrebbe essere letto anche come un manuale tecnico, vista la precisione e il numero di dettagli legati alle applicazioni dei mestieri, o ancora si potrebbe dirlo una invettiva narrativa contro i potenti e i padroni direttamente riesumati dagli anni ’70, assieme alle luci e alle ombre della periferia diffusa del Nord-Est, Vicenza e dintorni, un microcosmo stretto tra il boom economico, l’eroina che fa strage di giovani e i maneggi di piccoli e grandi imprenditori democristiani, sindaci e burocrati.

Procedendo in questo libro si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a un’entità mentale vastissima, capace di rinomimare la realtà e darle forma attraverso le proprie strutture, a loro volta filtrate grazie a un bagaglio culturale del quale non si intravede la fine: dalla citazione lettraria, alla proposizione secca, teatrale, in inglese, allo slang dialettale, alla coloratissima bestemmia in vicentino, tutto si fa elemento narrabile, tutto concorre a mantenere coesa la mole estenuante delle “cose da dire”, riprese e troncate a metà senza apparente criterio nel corso del libro, con continui salti temporali e un periodare di respiro amplissimo.

Ci sono delle evidenti manie, addirittura confessate, in questa iper-dilatazione del fatto personale, in questa attenzione quasi ossessiva a sè, a tutte le cose pensate dal sè, esperite dal sè, ricondotte al sè: ma una voce così sicura, così riconoscibile, così ironica e conversatrice fa rientrare a pieno titolo Works nel novero delle opere letterarie, e ricorda la veracità sanguigna di certe “vite” di artisti, come quella di Benvenuto Cellini.

Del resto, e lo dice Trevisan in persona, «scrivere un libro è un po’ come cantarsi una canzone, a quale tonalità e tempo non importa; l’essenziale è essere intonati e a ritmo con se stessi».

 

(Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi Stile Libero, 2016, pp. 664, euro 22)
Copertina di Mostri che ridono su Flanerí

“Mostri che ridono”
di Denis Johnson

C’è da credere alle cose che racconta Denis Johnson in Mostri che ridono (Einaudi, 2016), sicuramente è un mondo che conosce bene. Non perché abbia vissuto direttamente la vita del suo protagonista Roland Nair, ma perché comunque la sua fetta di esperienze in giro per il mondo l’ha fatta. Nato a Monaco di Baviera, Johnson è cresciuto tra le Filippine, il Giappone e Washington seguendo il padre, un impiegato del Dipartimento di stato statunitense. A un certo punto, poi, i viaggi ha iniziato a farseli in un altro modo, con le droghe e l’alcol che l’hanno portato a un passo dalla disintegrazione.

Si è ripreso, ed è diventato uno degli scrittori più importanti della narrativa contemporanea. Almeno, così è ritenuto negli Stati Uniti, in Italia siamo più in ritardo nel rapporto con la sua produzione. Allievo di Raymond Carver, si è imposto all’attenzione generale con la raccolta di racconti Jesus’ Son nel 1992, storie della provincia statunitense nella più classica delle tradizioni, poi è passato alla forma lunga. Nel 2007 è stato finalista al Pulitzer e ha vinto il National Book Award con Albero di fumo (Mondadori, 2009), romanzo di guerra ambientato in Vietnam. La sua opera, sparsa tra le ambientazioni più disparate in giro per il mondo, lo ha fatto accostare dalla critica – per quel bisogno di paragoni eccellenti che c’è per legittimare dignità individuali – a nomi come Joseph Conrad e Graham Green, o John Le Carré, Wilbur Smith, Michael Crichton, a seconda di quale aspetto della sua scrittura si voglia sottolineare, se quello più colto o quello più vicino all’intrattenimento d’avventura.

Mostri che ridono è ambientato in Africa, lungo una linea che unisce Sierra Leone, Congo e Uganda. Roland Nair è il capitano di un’unità di intelligence della Nato. È statunitense, di origini danesi. Dopo undici anni torna in Sierra Leone, a Free Town, chiamato dal vecchio amico Michael Adriko, un ugandese con un passato e presente da contractor, il modo più elegante per definire i mercenari. Adriko è ricercato dall’esercito degli Stati Uniti per aver disertato il suo incarico di istruttore militare e ha voluto Nair in Sierra Leone per un motivo privato: sta per sposarsi con Davidia, una ragazza americana conosciuta prima di scappare dalla base a cui era assegnato. Michael però sembra nascondere qualcos’altro, qualcosa che coinvolge dell’uranio, dei criminali russi e i servizi segreti israeliani. E anche Nair è lì per qualcosa di più delle nozze dell’amico.

È una storia di intrighi e di avventura, quella che racconta Johnson, pronta per essere trasformata in un film alla Blood Diamond, magari proprio con Leonardo DiCaprio a fare Nair. Mostri che ridono, al di là dei paragoni più o meno utili, riesce in quel tipo di scrittura che racconta un’avventura e nello stesso tempo descrive un mondo, in questo caso quello degli interessi occidentali nel continente africano. Johnson non rinuncia mai a una certa vena dissacrante e cinica che alimenta le sue storie e qui ne trova una bella ricca in cui scavare.

Forse è vero, come si dice da più parti, che nella forma lunga Johnson tende un po’ a perdere il controllo di quello che sta raccontando, e Mostri che ridono tende a disfarsi a un certo punto, ma la qualità della narrazione è innegabile.

(Denis Johnson, Mostri che ridono, Einaudi, trad. Silvia Pareschi, 2016, pp. 222, euro 19)

“La baia”
di James A. Michener

«Era ancora di mirabile bellezza, con vedute ineguagliabili su tre lati e un caldo senso di sicurezza offerto dai pini altissimi e dalle solide querce. Su quel promontorio, ci si sentiva parte del vasto panorama delle baie, fiumi e insenature e al tempo stesso parte di un piccolo mondo ben protetto».

Quando si studia Storia del cinema all’università, un film imprescindibile è Nascita di una nazione di David W. Griffith. Il nome di questa pietra angolare della cinematografia sarebbe il sottotitolo perfetto per l’opera in questione: La baia (Edizioni e/o, 2016), monumentale romanzo di James A. Michener sulla nascita – e crescita – degli Stati Uniti d’America. Quanto monumentale? Qualche dato: poco più di 1200 pagine e un arco temporale che va dal primo viaggio del 1583 al 1978. Genesi e sviluppo narrati da Michener in maniera unica. Una cura del dettaglio e della veridicità storica accurata fino al maniacale, innestata in un’avvincente e profonda vicenda umana: un’unione perfetta e appagante in grado di creare un romanzo davvero prezioso.

Michener sceglie di raccontare questi secoli a stelle e strisce plasmando dei personaggi le cui storie e percorsi si intrecceranno con la storia con la S maiuscola. L’incedere di La baia è coinvolgente fin da subito. Abituati come siamo ai tempi scanditi dalle serie tv sulle grandi vicende familiari o storiche (vedi Il Trono di Spade, anch’esso tratto da monumentali romanzi), molti lettori “cadranno nella tentazione” di associare l’evolversi dell’opera a quello di varie puntate di una serie tv kolossal. Ecco allora la telecamera di Michener zoomare sul primo personaggio: l’indiano Pentaquod. È in fuga: la sua tribù nativa lo ha condannato e l’unica via di salvezza è il fiume Chesapeake. Il vero protagonista è proprio il fiume – non a caso il titolo originale è Chesapeake –, l’attore che partecipa a tutte le scene giocando un ruolo basilare. Esiti infausti e fortunati, infatti, avranno come sfondo il “Grande Fiume”: sarà lì che gli indiani ammireranno sconvolti l’arrivo della gigantesca imbarcazione con all’interno degli “esseri luccicanti”. La nuova tribù di Pentaquod non riesce a capirlo, lui sì: quella visione segnerà la fine del suo popolo – «Perchè ci uccidono?» «Siete indiani».

Mechener ci racconta in questo inizio, con caparbio fare documentarista, usi e costumi indiani: cosa che farà in maniera ancora più esaustiva ed enciclopedica riguardo alla nascita dei quaccheri o alle atroci persecuzioni dei primi inglesi cristiani sbarcati in Massachusetts, avvicinandoci così all’arrivo di un altro grande patriarca di La baia: Edmund Steed. È in fuga anche lui: l’Inghilterra ne perseguita il culto, tortura orribilmente la sua famiglia e l’unica possibilità di sopravvivenza è quella di assecondare nei suoi viaggi il Capitano John Smith (sì, quello di Pocahontas: non bello come ve lo immaginate) verso il Nuovo Mondo. Sarà la scelta giusta: da reietto a signore del tabacco, Steel incrocerà le sue sorti con quelle del saggio Pentaquod e della sua bellissima figlia, e del terzo – depravato e scellerato – personaggio in fuga: Timothy Turlock. «Un furetto». Così lo vede il giudice che sta per condannarlo alla forca. Eppure anche Turlock – e la sua discendenza – troverà nuova vita lungo il Chesapeake. Questa è solo la “trinità” iniziale che appare nelle fittissime pagine di Michener che arriveranno al Watergate passando per Lincoln.

Quale modo più intrigante per conoscere la storia americana? Lo scrittore in alcuni momenti ricorda molto l’Umberto Eco di Il nome della rosa. Emblematico il passo in cui si descrive minuziosamente la costruzione di una nave a opera di un altro personaggio fondamentale: Edward Paxmore. Michener si prende tutte le pagine necessarie per cesellare le ambientazioni (tra Revenant e Gangs of New York, per continuare con gli esempi cinematografici), la vita e i processi delle sue creature ed è davvero impossibile non legarsi agli sviluppi dei protagonisti, alle loro ambizioni, agli amori, ai tormenti.

L’obiettivo dell’opera (perfettamente raggiunto) non è la mera cronaca storica ma mostrarci la vera e viscerale anima americana. Ogni famiglia ne rappresenta un aspetto: gli Steed sono gli uomini di fede, retti e puri, votati al sogno in tutto e per tutto; i Paxmore sono la laboriosa e umile working class; i Turlock gli ambiziosi e senza scrupoli, disposti a tutto pur di guadagnare.

Leggete i giornali e le news di questi giorni e vedrete come Michener abbia fatto centro. Buon viaggio, l’America vi aspetta.

 

(James A. Michener, La baia, trad. di Grazia Lanzillo, Edizioni e/o, pp. 1232, euro 19,50)
Poster italiano di Split su Flanerí

“Split”
di M. Night Shyamalan

Dopo The Visit, un found footage horror a basso budget, M. Night Shyamalan dirige l’attore scozzese James McAvoy in Split, thriller claustrofobico in cui il protagonista soffre di disturbo dissociativo dell’identità. Ispirato in parte alla vera storia di Billy Milligan, colpevole di aver sequestrato e violentato tre studentesse americane alla fine degli anni Settanta – poi assolto per infermità mentale – il film del regista di Il sesto senso e Unbreakable – Il predestinato mette in scena un elaborato confronto tra vittime e carnefici.

Il plurale è d’obbligo perché sono ventitré le personalità che vivono nel corpo di Kevin Wendell Crumb. Una di loro, “Dennis”, tiene in trappola Casey, Claire e Marcia in una stanza senza finestre. Le ragazze, spaventate e confuse dai comportamenti ossessivi-compulsivi del loro rapitore, conoscono ben presto anche “Patricia”, l’altra identità responsabile del loro sequestro. Dennis e Patricia, le personalità aggressive, intendono ottenere l’egemonia su quelle benevoli. Tra queste c’è “Barry”, uno stilista omosessuale in costante contatto con la dottoressa Karen Fletcher, psichiatra di Kevin, convinta che lo squilibrio psicologico determinato dal disturbo dissociativo possa arrivare ad apportare dei cambiamenti fisiologici nel paziente. Solo una delle personalità, ad esempio, è affetta da diabete.

Sebbene il protagonista di Split possieda ventitré identità, Shyamalan preferisce dare rilevanza solo ad alcune di loro, tra cui quella di “Hedwig”, un bambino di nove anni che rappresenta la parte infantile di Kevin. La sua voce si alterna a quelle di Dennis e Patricia per dare vita a un grottesco teatrino della psiche. L’innesco drammaturgico di un inconscio gravemente alterato da un passato di abusi permette al regista di esplorare, sfruttare e sovvertire i canoni di un genere spesso rinchiuso in banali convenzioni. Il rapporto tra psichiatra e paziente è il motore narrativo di una pellicola dallo stile hitchcockiano, in cui ogni dettaglio viene sapientemente dosato con il contagocce da uno dei pochi registi contemporanei in grado di sintetizzare in un’unica inquadratura il maggior numero di informazioni.

Split è un microcosmo di parallelismi tra individui apparentemente diversi tra loro, ma che in realtà condividono la stessa condizione di prigionia e di sofferenza, la cui soluzione dovrebbe essere la deflagrazione liberatoria della ventiquattresima identità, ovvero la tanto temuta “Bestia”.

L’intensa prova attoriale di James McAvoy, pienamente all’altezza di un ruolo così impegnativo, è il perno attorno al quale ruota il successo di un thriller solido e asciutto, che non disdegna una deriva orrifica. Anche la giovane attrice Anya Taylor-Joy, nota per l’horror autoriale The Witch, ha trovato lo spazio adatto in cui esprimere il proprio talento.

Come da tradizione per i migliori lavori di Shyamalan, sono numerosi i finali (e i flashback) rivelatori in chiusura della vicenda, così tanti per un unico film da aprire addirittura le porte a un probabile sequel. La percezione di una conclusione che non risolve la trama, ma che al contrario la proietta già in un’altra storia, potrebbe sollevare dubbi sulla completezza di Split, oppure risultare il suo punto forte. Sicuramente l’omaggio che Shyamalan fa al pubblico sarà apprezzato, se non da tutti, almeno dai suoi fan.

(Split, di Michael Night Shyamalan, 2017, thriller, 147’)

“È stato errore umano”
I Santi Bevitori

Ti ritrovi alle cinque di domenica mattina seduta in macchina, finalmente sola, finalmente in direzione casa, ad ascoltare È stato errore umano (2016), album d’esordio de I Santi Bevitori. Non si può dire che sia stato un primo ascolto pienamente lucido ma divertente sì, senza dubbio. Attivi sulla scena romana dal 2013, I Santi Bevitori sono un gruppo eterogeno dalla forte impronta folk, in cui l’ironia dei testi viene addolcita da piacevoli richiami blues.
Il disagio a cui ci ha abituato Calcutta nell’ultimo periodo è un brutto ricordo – grazie a dio: I Santi Bevitori, infatti, non si lagnano ma tirano fuori una leggerezza disarmante ed intelligente che rende sopportabile qualunque realtà stiate vivendo.

Comincerei con qualcosa di semplice. Chi sono I Santi Bevitori? Come nasce questo progetto?

Questa probabilmente è la domanda più difficile. Tutto quello che possiamo dire è che siamo cinque incoscienti che da tre anni non possono fare a meno di fare ciò che fanno. C’erano delle canzoni e delle persone che dovevano suonarle, i particolari nessuno se li ricorda bene.

È stato errore umano è un album che arriva immediatamente, ti entra in testa e senza rendertene conto ti ritrovi a canticchiarlo per tutto il giorno. Merito sicuramente del senso di spensieratezza che trasmette, eppure, un ascolto più accurato rivela una grande attenzione, non vorrei utilizzare il termine professionalità, so che potreste prenderla come un’offesa personale. Quanto tempo e impegno ha richiesto la registrazione dell’album?

Come abbiamo già avuto modo di osservare in altre occasioni, la gestazione dell’album ha avuto la durata di quella dell’elefante africano. L’idea del disco era stata menzionata poco tempo dopo l’Ep, circa due anni fa, ma nel frattempo ci siamo imbarcati in una serie di imprese (con esiti tra il glorioso e il fantozziano) che hanno assorbito molte delle nostre energie. Abbiamo registrato questo lavoro senza mai smettere di esibirci dal vivo, investendo fino all’ultima goccia del nostro tempo, del nostro (pochissimo) denaro e della nostra salute.
Prima citavi Calcutta. Lui è uno che magari si lagna sul palco, ma quando scende ha sicuramente motivo di ridere. Per noi è esattamente il contrario.

Oltre che goliardici intrattenitori di folle siete anche dei musicisti navigati. A chi sentite di esservi ispirati maggiormente? In altre parole quali sono i vostri punti di riferimento nel panorama musicale?

Come musicisti siamo cinque persone completamente diverse tra loro. Ognuno di noi ha i propri riferimenti fondamentali, perciò quello che produciamo insieme è una mistura – si spera –bilanciata di elementi lontani l’uno dall’altro. Mark Twain diceva che ogni scrittore al lavoro sente sul collo il fiato di tre individui: la propria maestra di scuola, Shakespeare e Dio. Personalmente, come autore, scrivo come se dovessi esser giudicato da Ivan Graziani e De Gregori e, salendo in alto, da Paul Simon, da Lennon e McCartney, da Dylan, da Johnny Cash. Poi finisce che racconto di una partita di calcetto e sento il dolore dei calci in culo che mi invierebbero tutti questi artisti.
Allo stesso modo, gli altri quattro si confrontano con il peso delle loro influenze e della loro formazione. Walter (batteria) ha un approccio viscerale e istintivo molto vicino al mio, è un grande ascoltatore di musica ma credo che il suo cuore batta principalmente al ritmo di Black Sabbath e Muddy Waters. Lucio (chitarra acustica, cori e arrangiamenti) ha una conoscenza pressoché enciclopedica della produzione cantautorale italiana, una padronanza assoluta e naturale dell’armonia e una competenza ingegneristica in materia di suono. Yuri (basso) e Alessandro (chitarra elettrica e cori) hanno alle spalle una formazione musicale disciplinata, caratterizzata da grande consapevolezza tecnica e da un calderone di ascolti eterogenei in cui convivono Alain Caron, Scott Henderson, Dave Matthews Band, i Queen, Gary Moore.
Il terreno di incontro su cui nasce la nostra musica è un amore comune per l’intelligenza (ma lungi da noi affermare di essere intelligenti), per la parola e per le cose ben fatte.

In pochi anni siete cresciuti molto sia in termini di maturità musicale che in quelli di notorietà. Avete mai pensato di collaborare con altri artisti della scena indie romana?

In tutta onestà abbiamo provato a coinvolgere qualcuno in È stato errore umano. Poi non se n’è fatto nulla. Un po’ perché ognuno ha il suo bel da fare ed è difficile conciliare gli impegni, un po’ perché collaborare con noi non è ancora abbastanza prestigioso, un po’ perché la scena romana non esiste. C’è un giro in cui si entra quando cominci a combinare qualcosa di buono e se sei presente a certi eventi, ma questo ha poco a che fare con uno stile musicale comune. Noi siamo pigri, poco mondani e molto impacciati nelle relazioni pubbliche, caratteristiche che possono comprensibilmente suscitare antipatia. In realtà vogliamo solo fare musica e, con grande sincerità, auguriamo a tutti fortuna e successo.
Personalmente, dovessi fare dei nomi, Lo Spinoso e La Malastrada sono due realtà che percepisco più vicine a questo modo di intendere la musica; un altro che stimo onestamente e che mi piacerebbe portare sul palco con I Santi è Emilio Stella e, so per certo, che almeno Yuri la pensa come me.

“Un giorno alle poste” è sicuramente la canzone che vi ha fatto conoscere a un pubblico più ampio. Il 27 gennaio avete presentato il nuovo singolo “Esterina” in anteprima al Traffic Live. Quali sono le date in programma per i prossimi mesi?

Se abbiamo un nucleo di ascoltatori a Roma lo dobbiamo principalmente a Radio Rock. “Un giorno alle poste” è il nostro biglietto da visita, ci ha portato a Musicultura, su Radio Capital e su qualche bel palco e speriamo che “Esterina” faccia altrettanto. In questi giorni è uscito il videoclip, ripartiamo con i concerti il 25 febbraio e, chiudendo con abile mossa di marketing, vi invitiamo sulla nostra pagina facebook https://www.facebook.com/ISantiBevitori/ per tenervi aggiornati sulle prossime date.

Tutte le direzioni di Exòrma

«Ora il titolo [ovviamente] non mi salta in testa, ma la casa editrice ha un nome strano, tipo esoterico…». Non nego che questo avventore, nella nebbia prometeica della sua richiesta, abbia trascorso con me almeno tre quarti d’ora, semi-appollaiato sul punto informazione di letteratura, rischiando di essere inglobato dalla stampante e sguinzagliando un’indagine al buio che neanche uno sciamano avrebbe saputo espletare con un guizzo di speranza. Ma alla fine il risultato è spuntato. E la misterica casa editrice in questione si è rivelata essere Exòrma edizioni.

Poi pensandoci bene, in quella fucina dell’assurdo che sono le richieste del cliente medio, qualcosa di vero c’è sempre. Perché Exòrma, fondata a Roma nel 2008, deve il suo battesimo al verbo greco έξορμάω, che consacra l’atto di salpare, mollare gli ormeggi e scegliere l’altrove.

E “l’esoterico” progetto della casa editrice è proprio strutturalmente legato al viaggio. Che sia etereo o sotterraneo, poco importa. La mèta è attraversare. Prendere e andare, cominciare a raccontare, disancorare gli occhi e camminare tra le storie.

«Divulgazione di alto profilo, di ergonomia grafica e tipografica, di artigianato delle suggestioni. Arte, letterature, letteratura di viaggio, saggistica, fotografia. Particolare attenzione alla fusione dei generi, agli aspetti antropologici, estetici, all’attualità dei temi sociali, ai temi della storia, della scienza e dell’arte». Sono queste le intenzioni programmatiche dichiarate da Exòrma sul proprio sito e ribadite dal direttore editoriale Orfeo Pagnani.

Ma la conferma più nitida è quella scagliata dal suo catalogo (che conta una decina di uscite all’anno), nutrito di collane profilate con mestiere:

Scritti Traversi, Molto più che semplice narrativa di viaggio. Contaminazioni di percorso, scavi e umori di passaggi, dove l’avventura è il canale dei saperi in transito. «Piccole storie vere spalancano finestre su grandi orizzonti della geografia, della fantasia, dell’esperienza, della contemporaneità»;

quisiscrivemale, collana di narrativa coraggiosa;

Perimetrie, collana ibridata, terra di mezzo tra narrativa e saggio, per veicolare contenuti scientifici e attuali;

– TAC – Tomografie d’Arte Contemporanea, curata da Michela Becchis, la collana è il frutto di un incontro speciale: quello fra un artista e un critico. Critici noti e artisti di rilievo internazionale. Dove il viaggio si fa scambio di visioni;

– Asterischi, pillole saggistiche a tematica sociale;

I viaggi senz’auto, sentieri inerpicati fino alle profondità del palato e delle sue suggestioni. Spostarsi a bordo dei mezzi pubblici per un piacere gustativo tutto privato;

Immagini. In movimento, diretta da Marco Maria Gazzano e rivolta a un’idea estesa di cinema, come modalità espressiva dell’era del “panvisualizzabile”.

Inoltre, a sigillo della sua identità plastica e sempre in flusso, Exòrma è casa editrice del Festival della letteratura di viaggio, ospitato ogni fine settembre a Roma, nello spazio di Villa Celimontana. E FestBook è la pubblicazione ufficialmente figlia di questa iniziativa.

Determinante attenzione è riservata anche alla grafica editoriale, atmosferica e impattante, e ogni libro è un invito alla partenza che si delinea fin dalla copertina, definita da Pagnani «una promessa da mantenere», una mano che sbuca dalla favola, per trascinarti dentro.

Girovagando per le proposte orbitanti, questa è la nostra selezione, le escursioni di trame dove è stato interessante sentirsi trattenuti:

La strage dei congiuntivi di Massimo Roscia. Romanzo multistrato, macedonia narrativa, paradosso brillante sulla penuria linguistica imperante. E poi altro e altro ancora.

Neve, cane, piede di Claudio Morandini. Un uomo alpino e burbero, che permette solo a un cane di bucare la sua solitudine. Montagna ruvida e oblio bollente. Romanzo comico e amarissimo.

Se Roma è fatta a scale, di Alessandro Mauro. Saliscendi semiserio sullo scroscio di gradini della nostra città. Settantasei testi per osservare Roma dall’alto e dal basso.

Ma tutto questo è solo un pretesto. Per leggere ancora, fermarsi quando serve e riprendere a marciare.

 

“Tokyo transit”
di Fabrizio Patriarca

Anno 1997. Una band canadese chiamata Strapping Young Lad pubblica il suo secondo full-lenght. Si intitola City e fra i musicisti che danno vita a quel capolavoro della musica estrema ci sono il terremotante Gene Hoglan (alla batteria) e l’indiavolato Devin Townsend (alla voce). L’album è un concentrato di furia allucinata, un torrente ininterrotto di riff, campionamenti e linee vocali sofferte, rabbiose. Dai testi, tutti scritti dal frontman della band, erompono diverse richieste d’aiuto. Qualcuno sta male: un uomo, forse l’umanità intera. E tutto fa presagire che sia proprio la società nella sua forma materiale, il conglomerato urbano – la metropoli o, meglio, la megalopoli del nuovo millennio – a causare tanto caos e tanto sgomento. La prova sta nel libretto dell’album: le foto di una Tokyo notturna, lisergica e sfocata, sono lì a dimostrare che la fonte dei nostri mali è difficilmente percepibile perché ci viviamo dentro. È l’intrico della copertina del disco: nero, confuso, tecnologico.

Circa dieci anni dopo Tokyo è rimasta, almeno nell’immaginario, la stessa città di City. A mostrarcela è uno scrittore italiano: Fabrizio Patriarca. Il suo romanzo, Tokyo transit, pubblicato da 66thand2nd, è largamente ambientato nella capitale nipponica e ne descrive l’anima eccentrica che erompe una volta squarciato il velo dell’apparenza. A guidare il lettore nei recessi notturni della metropoli è Alberto Roi, protagonista spiantato di una storia che ne descrive, grazie ad alcuni flashback, la crescita e la rovinosa caduta: da rampollo italiano con tante speranze a guida turistica per facoltosi occidentali in cerca di sesso, droga ed esperienze al limite in estremo Oriente. Fra una sniffata e un love-hotel, Roi diventa il cicerone di un lettore che, catturato dalla prosa barocca di Patriarca, non può esimersi dal visitare in lungo e in largo la Tokyo turistica, la Tokyo nascosta e la Tokyo di tutti i giorni. Flâneur contemporaneo, l’anti-eroe di questa opera osserva i locali al neon controllati dalla Yakuza di Roppongi (il luogo dove «succede sempre qualcosa»), le aree residenziali di Shinagawa e la bizzarria della grande isola artificiale di Odaiba. La città, potremmo dire, è il co-protagonista del romanzo: un personaggio dai tratti assai misteriosi, che concede molto al riparo da occhi indiscreti e che in altri momenti si veste di serietà, dedizione e riserbo. Tokyo è «come la cameretta di un adolescente corale, fissato con mille gingilli, mascherato da Pokémon».

Tokyo transit è, per certi versi, un romanzo picaresco alla cocaina. Non contento di un set così zeppo di luci al neon com’è la capitale giapponese, Patriarca ha dopato il suo narratore. Per andare sul sicuro. Per evitare che laddove l’incedere del racconto rallentasse troppo, l’asticella dell’attenzione non s’abbassasse più di tanto grazie agli arabeschi letterari e alla prosa su di giri. Il risultato? Il romanzo è lungo trecento pagine, ma la densità di ognuna di queste è altissima. In Tokyo transit non accade più di tanto, questo è vero, tuttavia è impossibile restare indifferenti di fronte alla ricchezza lessicale di Patriarca e alla sua abilità nel descrivere anche l’azione più insulsa nel minimo dettaglio, con una dedizione che rasenta il feticismo letterario. È doveroso sottolineare che la grande forza del romanzo è anche la sua debolezza (l’unica, forse). A volte si ha l’impressione che in alcuni passaggi l’autore, preda di un raptus, abbia voluto esaurire pagine e pagine di vocabolario, utilizzando anche il più impesabile e alieno dei lemmi. Malgrado ciò, una volta giunti al termine del libro si perdonano all’autore tutte le verbosità. Perché, in fin dei conti, non fanno altro che valorizzare l’affresco drogato che l’autore ha composto a partire da una condizione esistenziale borderline e una società allucinata ed eccessive.

Nel disco City gli Stapping Young Lad urlavano al mondo la disperata condizione del cittadino moderno, costantemente osservato da mille occhi ma al tempo stesso abbandonato da tutti. Solo in una delle più grandi città del mondo. Oggi Patriarca aggiunge una narrazione alle tante che Tokyo ha ispirato nella sua storia secolare. In questo romanzo dalla trama impalpabile viene descritta una nuova modalità di viaggio, un modo di interagire con i moloch metropolitani della contemporaneità che è arrendevole e subdolo in partenza, distante anni luce dalla Lonely Planet: «Le città non si espugnano, puoi solo depredarle». Dunque, la città come conglomerato di anime, relazioni e attività da spremere per poter sopravvivere. Non si può fare altrimenti, perchè se il mostro di cemento ti schiaccia, non puoi che rispondere in modo altrettanto duro, pur sapendo che la verità innegabile è una sola: «la vera ecologia del nostro tempo è una scienza dell’infelicità».

 

(Fabrizio Patriarca, Tokyo transit, 66thand2nd, 2016, pp. 308, euro 18)
Poster italiano di Moonlight su Flanerí

“Moonlight”
di Barry Jenkins

A questo punto manca solo l’Oscar. Moonlight, il secondo film di Barry Jenkins è il film ad aver ottenuto il maggior numero di premi nel corso della cosiddetta award season 2016-2017. Sono centocinque – 105 – infatti i riconoscimenti complessivi raccolti da questo romanzo di formazione nella Miami povera e nera, che vanno dai premi più “indie” al Golden Globe per il miglior film drammatico. E con otto nomination agli Oscar, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura non originale, è il grande favorito dietro La La Land di Damien Chazelle.

Che fosse un film destinato a far parlare di sé era chiaro già dalle prime presentazioni in giro per i festival di tutto il mondo. Ovunque sia andato – Telluride, Toronto, New York, prima di essere scelto come film d’apertura per la passata edizione della Festa del Cinema di Roma –, Moonlight è stato acclamato più o meno all’unanimità come capolavoro. Ecco, più o meno.

Perché c’è qualcosa nella storia di crescita del giovane Chiron che non funziona fino in fondo. Diviso in tre capitoli, ognuno che segue un breve periodo della vita del protagonista – infanzia, adolescenza, inizio dell’età adulta –, Moonlight racconta la vita difficile di un ragazzo solo nella periferia degradata di Miami. Perseguitato dai bulli, incapace di difendersi e con una madre tossica, il piccolo Chiron, chiamato da tutti “Little”, trova un’inattesa guida in Juan, uno spacciatore arrivato da Cuba che lo prende sotto la sua protezione offrendogli consigli e riparo. Crescendo, Chiron continua a essere perseguitato e solo. L’unico legame che ha, dopo la morte di Juan, è con l’amico di sempre Kevin, a cui forse lo unisce un rapporto più profondo di quello che i due ragazzi vogliono ammettere. È quando ormai è diventato un giovane uomo, pieno di gioielli, di muscoli e di soldi guadagnati vendendo droga ad Atlanta, che Chiron sente ancora una volta forte il richiamo di Kevin e il bisogno di capire, una volta per tutte, chi è veramente.

Barry Jenkins è partito da un breve testo teatrale di Tarell Alvin McCraney, In Moonlight Black Boys Look Blue (è una cosa che viene detta anche nel film) per la sue opera seconda a otto anni di distanza dall’esordio Medicine for Melancholy. Il modello è sempre Richard Linklater. All’esordio – la storia di una coppia di ragazzi di San Francisco che si conoscono e si frequentano per un giorno – più vicino alla trilogia del “Before” – Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight –, con Moonlight Jenkins guarda soprattutto a Boyhood nel tentativo di raccontare una vita attraverso i momenti.

Il merito principale del trentottenne nato e cresciuto, come il suo protagonista, a Liberty City, Miami, è nella capacità di mostrare il mondo interiore di Chiron attraverso il silenzio e quello che non si vede. Il racconto di formazione, che è anche scoperta della sessualità, passa molto più per il volto dei tre diversi attori che interpretano Chiron (sono Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes), nel loro sguardo, nelle loro spalle, che in tutto quello che viene inquadrato. La solitudine radicale di Chiron, incapace di adattarsi a un mondo che non gli appartiene mai, in nessun momento, è la forza drammatica che alimenta le prime due parti del film. Fa una tenerezza autentica, il “Little” Chiron, sempre solo a osservare gli altri, spaventato e allo stesso tempo incuriosito, e fa rabbia l’inutile violenza della persecuzione dello Chiron adolescente. È nel rapporto speciale con Kevin che Chiron trova una sua dimensione, in ogni fase della vita. Kevin è l’unico che gli dice di alzare la testa contro i bulli, l’unico che capisce le sue richieste di aiuto in silenzio, l’unico che ha il coraggio di criticare la sua nuova vita ad Atlanta.

Moonlight è un’opera complessa, capace di descrivere una vita e allo stesso tempo uno spaccato di società senza cedere a tentazioni di psicanalisi o sociologiche. Allo stesso tempo, però, il film di Jenkins paga una certa tendenza allo scorso approfondimento, che sia dei personaggi o delle situazioni. C’è qualcosa, nella sua ricerca di realismo, che finisce per renderlo poco credibile, quasi manieristico nel suo procedere per situazioni ben definite. Sono difficili da accettare lo spacciatore dal cuore d’oro, la madre tossica, il gay represso che parla di donne tutto il tempo, il bullo cattivissimo senza un motivo apparente. Sono figure bidimensionali. Lo stesso Chiron finisce per essere un insieme di suggestioni più che un personaggio compiuto, un pugno di tessere sparse, più che un mosaico.

Molto probabilmente, viste le polemiche degli anni passati per l’assenza di varietà etnica nelle candidature all’Oscar, Moonlight si porterà a casa altri premi la notte del 26 febbraio. Mahershala Ali dovrebbe vincere come non protagonista per il suo Juan, Naomi Harris come attrice non protagonista per la madre. Visto il clima politico che si vive a Hollyhwood dopo l’elezione di Trump non ci sarebbe da stupirsi se dovesse vincere anche come miglior film.

(Moonlight, di Barry Jenkins, 2016, drammatico, 110’)

Letteratura come allucinazione

Non credo che la letteratura possa vivere senza un qualche commercio con l’infimo.
Giorgio Manganelli

 

Nei quindici ritratti di scrittori di I difetti fondamentali (Rizzoli, 2017) Luca Ricci inaugura una seconda fase della sua produzione letteraria e, per farlo, si libera di una grande quantità di luminose scorie radioattive – ricordi, fantasie, condensazioni, invenzioni narrative, sceneggiature possibili – legate al mondo della produzione editoriale, attingendo anche a una delle sue passioni (l’agiografia di scrittori, l’aneddotica letteraria) e trasgredendo implicitamente, così, al famoso monito pavesiano post-mortem: la vita è pettegolezzo, ciarla e la letteratura è un immenso circo, o gioco, dove il grottesco della realtà viene semplicemente esibito, ritagliato, sbalzato a rilievo. Questi sbalzi a rilievo, come le lettere della sovraccoperta del bel volume rizzoliano, sono i quattordici racconti che compongono la raccolta, uno per ogni scrittore-tipo numerato nell’indice, più uno (l’autore dei quattordici tipi) che è, banalmente e almeno da Flaubert in poi, disciolto un po’ in tutti i quattordici tipi tratteggiati o, meglio, da lui “fecondati”. Non sono degli “alter-ego”, ma dei pluri-ego finzionali e variamente intrecciati, o sovrapponibili (Il manierista, l’affittacamere e il velleitario si somigliano, il suggestionale e il solitario potrebbero capirsi, lo scomparso e l’eccitato potrebbero andare insieme in vacanza in nome della comune erotomania, e così via…) poiché tratti che attraversano trasversalmente l’esperienza di “essere scrittore”. Ed essere scrittore, come ci ha insegnato Manganelli è, in definitiva, qualcosa di indecidibile se non nello stesso “dirsi scrittore”.1

Questo consente ai racconti di non rimanere invischiati in un meccanismo autoreferenziale (la scrittura che parla della scrittura degli scrittori agli scrittori) ma di proporsi come veri pezzi di “intrattenimento”, con variazioni stilistiche, come giochi modulari condotti su registri diversi. I quattordici tipi costituisco, allo stesso tempo, anche un unico scrittore-mostro che disintegra, per diffrazione, lo stereotipo dello scrittore come personaggio “mitico”. Ed è un libro, per questo, che allude a molti altri libri e cita, esplicitamente, molti libri fattuali e potenziali (vedi in nota un’intra-bibliografia dei fattuali).2

Detto questo I difetti fondamentali si presenta come un implacabile campionario di maschere deformate di scrittori, e fa pensare, nel tipo di lente usata, più al film I mostri di Dino Risi, che non al censimento di Gli scrittori inutili di Cavazzoni. L’iperrealismo di cui si serve Ricci non ha nessuna volontà sociologica ma muove da una semplice responsabilità morale della scrittura: la realtà è grottesca. La realtà dà l’asma (come dice Cioran, nell’aforisma che sta in esergo al racconto “Il suggestionabile”). Se il poeta è, nella catena alimentare editoriale, il pesce più debole («E i poeti cosa sono?», «Sono pesci», risponde il cumenda al figlioletto nel racconto/omaggio bianciardiano “L’adultero”, p.58) è pur vero che lo scrittore di racconti viene, nella stessa catena, appena un gradino prima; è, cioè, anch’egli un animale in via d’estinzione. In fondo questo è Luca Ricci: un “animale da scrittura” che si oppone pervicacemente, e su molte piattaforme diverse (quella della didattica, quella del dibattito pubblico, quella dell’autonomia dalle “cordate” del potere editoriale, rimanendo di fatto un “cane sciolto” lievemente selvatico e anarchicamente toscano) all’estinzione di uno spazio espressivo che è la “forma-racconto”.3

Per questo il libro di Ricci si presenta come un manifesto di difesa di uno spazio di scrittura (rivendicato fin da una copertina sfrontatamente autopromozionale in cui la classica “fascetta”, diventata ormai orpello ridicolo, è sostituita direttamente da un sopratitolo impegnativo e programmatico: “L’arte del racconto al suo meglio”). Il racconto più “militante” e – per me – riuscito è, in questo senso, “L’invidioso”, dove Ricci (che pure mette in parodia proprio qui, e per tratti, se stesso nello scrittore che insegue  «storie complicate di uomini e donne che si amavano e si odiavano, roba esistenzialista, trame fiacche, situazioni sospese tra dramma e mélo che suscitarono l’entusiasmo di qualche critico rimasto invischiato nel modernismo più abietto e radicale», p.116) espone la sua più volte manifestata teoria sulla cannibalizzazione best-selleristica del mercato editoriale (i libri-panettone da vendere sotto Natale, l’incubo della libreria che non vende più libri, «l’illusoria orizzontalità di internet») constatando che ormai, in libreria, «certa narrativa subiva lo stesso trattamento della poesia» (p. 119), i poveri pesci-poeti di cui sopra.

Ma Ricci continua a essere un “pesce grosso”, e ingombrante; le 352 pagine di I difetti fondamentali, formato 23 x 16, tipologia: CARTONATO, finito di stampare nel mese di dicembre 2016 dalla benemerita Grafica Veneta di Via Malcanton 2 a Trebaséleghe, comune italiano di 12.840 abitanti della provincia di Padova (dove, mi permetto di consigliare, organizzerei una lettura/presentazione del volume, perché il luogo di nascita “fisico” dei libri andrebbe rivalorizzato) assemblano racconti che vogliono, di più, devono manifestare questa volontà di ingombro. Quasi che, plasticamente, questo cartonato segnalasse fin dalla forma una distanza netta dalla morbida e bianca discrezione dei tascabili da 100 pagine che hanno “lanciato” Ricci come originale autore di short stories giusto una decina di anni fa. Brevità per brevità, invece, stilisticamente si può osservare che la sua prosa ha preso a mostrare oggi, da un lato, più evidenti tratti di scrittura aforistica; questa innerva infatti molti passaggi dei racconti, che inglobano spesso frasi epigrammatiche, ritagliabili dal contesto ed egualmente memorabili/utilizzabili: «Le case erano cloache di piccoli dettagli in grado di annientare i reciproci misteri» (“L’adultero”, p. 54); «Nella vita di uno scrittore c’è un momento in cui tutto cambia,e quel momento arriva quando il talento (la voce, la scrittura) si confronta con il mercato» (“L’invidioso”, p.115); «Agli scrittori interessa l’eccitazione, non il sesso» (“L’eccitato”, p.144). Ed è attraverso questi spiragli aforistici che i racconti di I difetti fondamentali rivelano aperture filosofiche e riflessioni esistenziali, soprattutto sullo stato delle relazioni amorose, sui rapporti di forza che reggono le relazioni, la coniugalità, il sesso, la famiglia. Dall’altro, i racconti custodiscono altri racconti potenziali, narrazioni che gemmano altre narrazioni (vedi i racconti del personaggio Corrado nella serata di premiazione del Premio Strega di “Lo stregato”, o il finale del racconto di strada di “La canonizzata”) e sfondamenti di natura saggistica, come il monologo sull’amore coniugale che il personaggio bianciardiano tiene in “L’adultero”.4

Il “materiale da costruzione” scritturale e narrativo di Ricci, quindi, si è con I difetti fondamentali ampliato, esteso. Rimanendo fedele, però, a un’idea di letteratura come “allucinazione” («È sempre tutta un’allucinazione, hai capito?», dice Corrado, p.176). La letteratura come trasferimento in pagina delle proprie allucinazioni agli altri, attraverso le parole più esatte possibili per esprimere quell’allucinazione. «Io credo che se una qualsiasi cosa viene scritta automaticamente perde il suo statuto di realtà, e accede a una dimensione onirica, visionaria, che è appunto quella della letteratura», dice lo scrittore “scomparso” Xavier Bellini in “Lo scomparso” e rimane questa, credo, una dichiarazione di estetica, o di poetica, che Ricci condivide con il suo personaggio. Questa poetica, la priorità della “storia”, nel senso di narrazione-racconto, sull’indistinta massa di “storie” di cui si ciba la comunicazione («Ancora comunicazione, comunicazione dappertutto», sbotta lo scrittore di “Il solitario”reclusosi in casa per sfuggire dalla “realtà” in cerca di ispirazione) è un’asse portante della raccolta di Ricci.

Vi è, infine, in tutti questi racconti, una dialettica interessante dell’urbanità tra centro e periferia che è tipica dei destini biografici ma anche, molto spesso, tematici di buona parte dei narratori italiani del secondo Novecento. Quanti tra questi suoi quattordici scrittori tratteggiati sono dei “provinciali inurbati”? E quanto questa condizione costituisce uno spaesamento e, al tempo stesso, un’accelerazione, un acuirsi delle capacità descrittive o della voglia di autoaffermarsi? Oppure, al contrario, il motivo della sconfitta, della frustrazione più cocente, come accade al ragazzo provinciale, sosia di Flaiano, quando approda in una missione “criminale” a Roma (“Il manierista”). Certo, le geografie sono funzionali al tratto del tipo di scrittore raccontato (la Torino antonomastica dell’editoria nobile in “Il rifiutato”) ma c’è qualcosa di più, qualcosa di ricorrente nella produzione di Ricci, considerandola oltre questo I difetti fondamentali. Allora in questa sua geografia ritroveremo sempre presente la nativa e provinciale Pisa, madre/matrigna, eterno teatrino universitario (“Il rothiano”), ma anche sfondo biograficamente implicito del B&B di “L’affittacamere”5 o dello studente sosia di Flaiano di “Il manierista” o l’aspirante attore e poi scrittore di “Il velleitario”; troviamo, poi, la Capitale delle terrazze, con la sua afa e il suo umidore ottobrino, una Roma manganelliana (“Lo stregato”, “Il suggestionabile”, “Il folle”, “La canonizzata”); la Milano del “lavoro culturale” dell’alienato Bianciardi (“L’adultero”) e poi troviamo un arcipelago di località marine (il Golfo dei Poeti, il litorale romano, la costa francese, il porto di Civitavecchia, la Versilia) che rappresentano sempre, e funzionalmente nei rispettivi racconti, evocando l’ignoto dell’orizzonte marino, un momento di “perdita” di sé, di messa in discussione dell’identità provvisoria che si pensa di avere, o di modificare.

In definitiva I difetti fondamentali di Ricci contiene una linea di malinconico livore, un retrogusto rancoroso e, insieme, fortemente vitalistico, che ricorda Delfini, ma anche un amore per questi «scrittori meschini», per usare un’immagine di Giorgio Manganelli6 che piacerebbe a Ricci, come traccia più propria della letterature e che lo allontana dal minimalismo rarefatto – carveriano – di alcuni suoi racconti degli esordi. Vi è continuità tematica nella discontinuità stilistica: abbonda ora nel gusto dell’onomastica letteraria, crea “personaggi”, cita libri potenziali, straborda nella narratività pura, esibita contro l’indistinta massa di comunicazione corrente dove tutto si mescola sotto l’insegna dello storytelling.

I difetti fondamentali è, per tutti questi motivi, un libro importante – mi verrebbe da dire con una frase da fascetta che non significa più nulla – proprio perché prende posizione (teorica) e, allo stesso tempo, diverte istituendo nessi tra esperienza ed espressione, tra realtà e allucinazione, che è uno dei compiti attraverso i quali la Letteratura perpetua la natura del suo mistero.

 

(Luca Ricci, I difetti fondamentali, Rizzoli, 2017, pp. 352, euro 20)

 

 

 

NOTE

1 «Lo “scrittore giovane” infatti comincia ad essere davvero uno scrittore solo quando capisce che è impossibile sapere se si è o no scrittori. Ma a quel punto si è già vecchi». (Giorgio Manganelli, La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990, a cura di Roberto Deidier, Roma, Editori Riuniti 2001 p. 167)

 

2 Elenco incompleto dei libri e degli scrittori citati in I difetti fondamentali:
La nausea, Jean-Paul Sartre; Lo straniero, Albert Camus (“Il rothiano”);
Gli indifferenti, Alberto Moravia; Il Gattopardo, Giuseppe Tommasi di Lampedusa, Silvio D’Arzo, Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Cesare Pavese, Guido Morselli; Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino (“Il rifiutato”);
– Luciano Bianciardi, Emily Dickinson, Jack London, William Faulkner, Francesco Petrarca, P.B. Shelley, George Byron, Eugenio Montale (“L’adultero”);
– Aldo Busi, Gesualdo Bufalino, Philip Roth, Saul Bellow, Roberto Bolaño (“L’affittacamere”);
– Giacomo Leopardi, Dante Alighieri, H.G. Wells (“L’eccitato”);
– Dacia Maraini; Sessanta racconti, Dino Buzzati (“Lo stregato”);
Casa “La Vita”, Alberto Savinio, Omero, Dante Alighieri, Miguel de Cervantes (“Il suggestionabile”);
– Ennio Flaiano, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini (“Il manierista”);
L’Aleph, Jorge Luis Borges (“Il solitario”);
– Gustave Flaubert, Guy de Maupassant, David Foster Wallace, Bertold Brecht, Virginia Woolf, Charles Bukowski, Walt Whitman, Charles Baudelaire, Francis Scott Fitzgerald (“Il velleitario”);
The entertainer, John Osborne, Pagine sparse, Benedetto Croce, San Pantaleone, Gabriele D’Annunzio, Karl Kraus (“Il folle”);
– Anna Banti, Virginia Woolf, Cristina Campo, Anna Maria Ortese, Elsa Morante (“La canonizzata”).

 

3 Sullo stesso tema Andrea Cortellessa sintetizzava così la questione in La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), L’Orma Editore, 2014 : «Una tradizione che viene però scientemente occultata dalla monocultura del romanzo propagandata, in modo sempre più tambureggiante, dall’industria editoriale. Basti pensare alla forma-racconto: nella quale i narratori italiani – da Boccaccio a Landolfi – hanno sempre dato il meglio di sé, ma che editorialmente viene considerata non meno che una iattura (sicché, quando proprio ci si arrende a pubblicare una raccolta di racconti, sempre più spesso ci si spinge a scrivere in copertina – anche di fronte all’evidenza contraria – “romanzo”)». Vedi Le parole le cose.

 

4 Traccia degli stessi materiali che compongono il monologo si trovano pubblicati precedentemente, come pezzo autonomo, su Nazione Indiana nel 2015, con il titolo di Il sesso tra marito e moglie.

 

5 Una versione contratta di questo racconto era apparsa su Minima&Moralia nel 2015 con il titolo di “Il B&B del raccapriccio”. Di particolare interesse sociologico i commenti rancorosi di alcuni lettori, incapaci di cogliere la letterarietà del testo.

 

6 «E lo scrittore meschino può essere estremamente interessante. Cosa intendo dire con meschinità? Direi, il gusto di qualche cosa di marginale, l’amore per qualche cosa che è marginale e che è amabile solo perché è tale, qualche cosa anche che è infimo. Ecco, io non credo che la letteratura possa vivere senza un qualche commercio con l’infimo. Questo credo che sia permanentemente vero». (Giorgio Manganelli, La penombra mentale, p. 187)

“Il demone meridiano”
di Andrea Morstabilini

Romanzo eccezionale, che spiazza e disorienta: questo è Il demone meridiano di Andrea Morstabilini (IlSaggiatore, 2016). Un esordio, anche, e “di lusso”, perché, ancora una volta, nonostante tutto e contro molte evidenze, si afferma un nuovo autore che ha qualcosa da dire e sa come dirlo.

Il demone meridiano ha una fabula semplice ma, in se stessa, non svela niente del carattere straordinario del testo. È la storia di un furto. Sono state rubate le mummie che Paolo Gorini realizzò nella seconda metà del 1800 e che sono custodite nel Museo Gorini di Lodi. È il mistero intorno al quale si snodano i diversi piani narrativi che si collocano in realtà separate sia nello spazio che nel tempo.

La lettura del romanzo mi ha spinto a visitare il Museo Gorini e a scoprire i contatti che Gorini ebbe con un altro scienziato visionario (di cui Gorini è stato allievo) che fu Gerolamo Segato, le cui mummie sono conservate in alcune sale (chiuse al pubblico) dell’ospedale di Careggi a Firenze.

Accanto a un piccolo viaggio geograficamente limitato (la visita a Lodi) il romanzo mi ha stimolato verso un viaggio anamnestico verso le mummie di Ruysch e la relativa operetta morale di Leopardi.

Dicono le mummie di Leopardi: «Cosa arcana e stupenda oggi è la vita al pensier nostro, e tale Qual de’ vivi al pensiero L’ignota morte appar. Come da morte Vivendo rifuggia, così rifugge Dalla fiamma vitale Nostra ignuda natura; Lieta no ma sicura, Però ch’esser beato Nega ai mortali e nega a’ morti il fato».

La morte è la fine dei dolori e corrisponde all’acquisizione di una nuova prospettiva a partire dalla quale la vita appare come «cosa arcana e stupenda», diremmo come uno spettacolo da osservare con distacco perché ormai non procura più alcuna sofferenza. I morti, comunque, «rifuggono» dalla vita come i vivi dalla morte. I morti hanno raggiunto una tranquillità propria e non sentono alcuna nostalgia della vita.

La morte non sarebbe, allora, (come nella concezione cristiana) una condanna e una pena che seguono al peccato di Adamo e Eva, bensì una liberazione.

I morti di Il demone meridiano processano Gorini perché sono stati risospinti verso la vita ma di essa sembra abbiano conservato solo l’aspetto più mostruoso, e se la vita fu sempre dolore, adesso, le mummie, pietrificate da Gorini, non possiedono né la pace della totale estinzione né i pur labili e momentanei piaceri che alla vita potevano connettersi.

Il romanzo di Morstabilini ha molte chiavi di accesso e la complessità che lo contraddistingue non dà adito a una perfetta e univoca decodificazione. Restano ipotesi interpretative che avranno la fortuna di coincidere o no con quelle che l’autore ha seguito nella composizione del testo.

La scelta di porre sulla copertina del romanzo il retro della scultura di Wildt (1929) rimanda, credo, alla richiesta di abbandonare i confini certi misurati dall’agrimensore e invece di accettare il rischio inquietante di un naufragio nelle riorganizzazioni gestaltiche del senso e del significato. La scultura Wildt rappresenta l’aviatore Arturo Ferrarin e, vista dalla parte opposta (dal retro concavo), rappresenta un informe volto ectoplasmatico.

L’ultimo capitolo del romanzo è intitolato “Psicolalia” e termina con la frase: «e per dire di vita che fu, e morte, non ci resta che questa, morta, di lingua».

La vita è raccontata dal suo versante opposto, la morte, e cambia la gestalt in cui è collocata e analizzata. E la morte si riferisce non solo e tanto alle povere mummie di Gorini ma piuttosto alla lingua che, morta per essenza, è chiamata a parlare e di se stessa, in quanto morte, e della vita.

Morstabilini usa una lingua arcaica, ricca di mimetismi colti e volutamente inattuali. È una lingua morta perché non più quotidiana (se mai quotidiana lo fu), decorticata dal suo legame con le più semplici funzioni comunicative. Di nuovo si rivela la concomitanza con la prosa leopardiana che, come la sua stessa poesia, cerca nel termine desueto un vago alone di indeterminatezza e di volatilità incorporea. La lingua di Morstabilini è la vera mummia, morta che è chiamata a significare le realtà vive, morta e rivitalizzata per mezzo delle sostanze pietrificanti di Gorini. Oppure mummia e mummie sono tutte le lingue e tutti i linguaggi che si trovano in un orrido intermedio tra il dire, che è necessità, e l’impossibilità di dire, che è pure necessità. Davanti allo iato tra parola e vita, le parole si trasformano in elenchi a cascata, in effluvi ininterrotti di gergo e di tecnicismi specifici che, con le loro iterazioni ipnotiche, aggrediscono e affondano il lettore disorientato e lo persuadono che qualcosa da capire c’è benché non si sappia bene cosa sia.

 

(Andrea Morstabilini, Il demone meridiano, IlSaggiatore, 2016, pp. 196, euro 19)