Copertina di "La parte migliore"

Alla ricerca della nostra parte migliore

Qual è la nostra parte migliore? Come si esprime? Quando riusciamo a esprimerla? E, non da ultimo, siamo proprio sicuri che quella cui pensiamo sia proprio la nostra parte migliore?
Due donne sono una famiglia. Leda, la madre, è una psicologa, una donna forte che lavora con i malati terminali. Laura, sua figlia, è un’adolescente come tanti, scuola, amici, tormenti giovanili, ribellioni acerbe; è intelligente, Laura, ha la passione per la poesia. A incrinare il loro equilibrio è una gravidanza indesiderata: un rapporto occasionale con un coetaneo dopo una serata di festa e Laura rimane incinta. Attorno alla crisi del loro rapporto, attorno al rapporto tra la vita che nasce e la vita che muore, si sviluppa la trama di La parte migliore (Einaudi, 2018), l’ultimo romanzo di Christian Raimo, scrittore, giornalista, editor e politico, attivo da anni sulla scena romana e non solo.

Giuseppe e Riccardo sono le figure maschili. Figure quasi evanescenti, poste a margine della storia, che però premono per tornare a incidere, a contare nell’universo femminile. Giuseppe è il padre di Laura, l’ex marito di Leda: chiamato casualmente in Questura per tirare fuori dai guai sua figlia, cercherà di ricostruire un rapporto con Laura, non tanto di colmare un vuoto scavato negli anni, quanto per seguire l’urgenza di spiegare quel vuoto. Riccardo è il compagno di Leda; lui, reclamando più spazio per la loro vita di coppia, ha il ruolo indisponente del paternalista, del “buonista” a tutti i costi.

Ma altri due personaggi, trascendenti quanto immanenti, arricchiscono la storia. Adriano, figlio di Leda e Giuseppe, morto a cinque in un misterioso incidente e causa diretta della loro separazione, è una presenza stabile nella vita della donna, una sorta di confidente immaginario, uno specchio. E poi infine c’è Roma, non la Roma della Grande bellezza o della Banda della Magliana che in questi anni si è imposta al nostro immaginario, ma la Roma dei quartieri periferici, grigia, quotidiana, la città del parcheggio selvaggio, del pizzicagnolo e del kebabbaro, degli allagamenti e degli autobus che non arrivano mai; una sorta di personaggio che s’impone come scenario imprescindibile, reale.

Questi i principali ingredienti che Raimo intavola per il lettore, in un romanzo che rivela l’intento di porre dubbi, continue domande più che risposte, sulla vita e la morte, sul rapporto contemporaneo tra il mondo femminile e quello maschile, sulla relazione complessa tra generazioni in una società che subisce mutamenti a una velocità mai così rapida. La parte migliore è un romanzo che non colpisce in modo diretto allo stomaco, punta alla mente, è un testo che vuole e che sa far riflettere; soltanto poi torna alla pancia, smuove all’emotività. Ed è una ricetta genuina, quella elaborata da Raimo, come le pietanze fondative, tradizionali che si preparano pazientemente con materie prime semplici alle feste comandate: quei sapori che accompagnano i momenti importanti della nostra vita in famiglia, che costruiscono una parte decisiva della nostra identità, che plasmano le nostre capacità relazionali.

Di come si prepara tale pietanza, di come si amalgamano tanti ingredienti diversi, verso quale esperienza di gusto vuole condurci il romanzo, ne abbiamo discusso al telefono con l’autore.

 

La parte migliore è, in apparenza, un romanzo semplice, lineare ma che al suo interno tocca invece molti temi, mette a confronto emotività diverse, nonché generazioni, personaggi eterogenei; quando hai iniziato a scriverlo qual era la tua principale urgenza?

Guarda, l’idea fondamentale era di esplorare un tema che negli anni aveva occupato una parte importante della mia riflessione, quello del tempo che sta prima e dopo la vita. E questo sia per ragioni personali, famigliari, sia perché mi continuavo a struggere nel riconoscere un dibattito pubblico che invece spesso è molto polarizzato. Io faccio parte di una generazione che riflette molto sull’idea di fare figli, molti dei miei amici non hanno figli, io non ho figli, e al contempo abbiamo genitori anziani, a volte da accudire, quindi i temi dell’aborto e dell’eutanasia sono cose su cui riflettiamo, ma purtroppo sembrano diventare argomenti da chiacchiera politica. A me è capitato di riflettere molto su questi temi nel periodo in cui mio padre stava male, in ospedale, poi è morto, ed erano gli stessi giorni in cui si discuteva di Eluana Englaro in tv. Mi sembrava che quel modo di discutere, della Englaro, del caso Welby, fossero una forma riduttiva e sciatta di pensare alla condizione umana oggi. Ho pensato quindi di esplorare questi grandi interrogativi attraverso un romanzo per dargli una “polifonia”, per dirla alla Bachtin, in modo da non ridurre questioni tali a temi da sondaggio, da dibattito politico, nel migliore dei casi, ma provando a incarnarlo con degli stati d’animo, con delle situazione personali, con i punti di vista di un prisma fatto di visioni diverse, che poi è quello che accadde alle persone. Mi sembrava giusto occuparmi di cose così grandi restituendo la pluralità e la complessità delle scelte personali. Ci tenevo moltissimo. Le persone spesso sono incagliate in determinazioni sociali, in rappresentazioni, schieramenti, mentre la letteratura è invece lo spazio della libertà, è lo spazio che ci fa da educazione etica. I romanzi ci pongono di fronte a una pluralità di azioni possibili, morali, che determinano poi le nostre emozioni e quindi le nostre scelte.

 

Le protagoniste Leda e Laura si trovano a confrontarsi, l’una per un verso l’una per l’altro, con la nascita e la morte ed è come se fossero chiamate dagli eventi a essere posseditrici di una risposta se non definitiva, almeno rapida, efficace. Si sta riducendo a una performance il nostro rapporto con la vita?

Penso di sì. In fondo, io prendo una famiglia composta da due donne, una madre e una figlia, poi c’è un padre ma lontano e c’è la figura di questo ragazzino morto in un incidente, all’inizio, non si sa perché. Questa famiglia è cresciuta cercando di superare questo lutto. L’ha fatto in un modo progressista, intelligente, laico. Sia Leda che Laura non sono due personaggi squilibrati, non sono fragili, nella mia idea sono due persone che sanno affrontare bene la morte. Al momento però in cui devo avere a che fare con un problema apparentemente più semplice rispetto al trauma della morte di un bambino, quello, appunto, di una gravidanza indesiderata, sembrano andare nel pallone. Questo per me ha a che fare – ma forse è una mia idea – con una vocazione che noi, come civiltà, abbiamo: cioè il pensare di esserci attrezzati di più nei confronti della morte. Progressivamente le malattie si cronicizzano, i lutti perdono la loro dimensione di mistero e adottiamo pratiche sociali riconoscibili per affrontare la morte. Queste cose per me sono sconvolgenti, superano la mia comprensione umana. Io invece penso che oggi non ci sia una buona educazione alla morte e affrontarla passa attraverso una sorta d’insipienza. Cioè abbiamo una possibilità sempre più ampia di avere a che fare con ciò che riguarda la cronicizzazione della malattia, della vecchiaia, abbiamo delle capacità operative migliori rispetto alla questione della morte, ma al contempo ci formiamo in una cultura che non ha al centro la morte, l’interrogazione sulla morte, che invece è il cuore della civiltà umana. Penso alle cose che scriveva Philippe Ariès o Michel Vovelle, o anche Jankélévitch, Atul Gawande. Di fatto, il tragico oggi è osceno, è fuori dalla scena. Io, in questo libro, ho voluto invece che il tragico entrasse in scena, soltanto così è possibile avere una catarsi, una forma di rielaborazione che porti poi anche a una riflessione sulla condizione umana. Ho voluto provare a rovesciare questa sensazione. In questi anni siamo stati abituati agli attenti in diretta, ai filmati dell’Isis, ai lutti su Facebook, abbiamo aumentato la narrazione delle tragedie, questo però non ha accresciuto una sapienza sulla morte; cosa che per me invece è fondamentale. Rovesciando il piano narrativo ho provato a far sì che un evento meno irrimediabile, come appunto una gravidanza indesiderata, potesse portare a una riflessione più profonda. La vera domanda è: cosa c’è oltre la vita? Da dove vengono i nati e dove vanno le persone quando muoiono?

 

Papa Francesco di recente ha dichiarato che abortire è «come affittare un sicario». Nei giorni scorsi invece, a Verona, il Consiglio Comunale ha approvato quasi all’unanimità una mozione contro l’aborto. Tu, da cattolico e uomo impegnato in politica, come interpreti questi segnali?

Credo che si discuta di questa questione come si fosse una tifoseria. Io sono convinto che il femminismo, ma anche il cattolicesimo in realtà, condividano una prospettiva: quella di parlare di questioni politiche, cioè di questioni che riguardano tutti, a partire da sé. Io che mi ritengo cattolico e femminista al tempo stesso penso che non si possa ridurre un dibattito del genere a qualcosa di astratto. C’è stato un referendum importante e penso che questi tentativi di ridurre la dottrina cattolica a espressione di una morale tradizionale siano sbagliati. Siamo la prima generazione a non fare più figli. Il vero, nuovo problema è la questione del generare.

 

Molto spesso si individua la causa nell’individualismo…

Io penso che qualunque spiegazione, la crisi sociale, la mancanza di strutture sociali adeguate, oppure il narcisismo, il prolungamento della vita, la realizzazione delle donne in ambito professionale, non riesca a esaudire la domanda. Sono tutte cose sensate, ma per me sono anche false piste. Le più grandi narrazioni distopiche di questi ultimi anni pongono questo come tema: prendi il film I figli degli uomini di Alfonso Cuarón. Cosa ne facciamo di un mondo in cui non nascono figli? D’altra parte siamo chiamati a scegliere su questa cosa. È una scelta molto strana, per certi versi è contro la condizione umana. Per me ha un che d’inquietante. Ridurre la riflessione sull’aborto, sull’eutanasia, anche attraverso simili esposizioni da parte del Papa, a una diatriba di cattolici contro anticattolici è una cosa che toglie mistero perfino all’interrogazione che mi posso fare da persona credente. Non è più una questione politica per me. L’eutanasia, il testamento biologico, possiamo fare leggi per ogni situazione. Per me la questione è più grave. Cioè, e se veramente Dio non c’è? E se quel grido che fece Welby dal letto di ospedale non lo ascolta nessuno? E anche qui la domanda che mi viene è più ampia: e se davvero stessimo cominciando a far parte di una generazione che non avrà più figli? Se l’umanità intera decidesse di non fare più figli, di autoestinguersi? Questa mi sembra una domanda più vertiginosa. A me interessa questo piano, un piano vertiginoso.

 

La parte migliore mi è sembrato, anche grazie all’ottimo uso che fai della lingua, una sorta di mappa emotiva e razionale che tenta di orientare il lettore nel complesso rapporto tra la nostra generazione e quella dei “nostri figli”, i millennials. Spesso si parla di incomunicabilità intergenerazionale. Da uomo e professore come vedi, come vivi questo rapporto?

Io vorrei raccontare i ragazzi attraverso il loro linguaggio, dandogli la parola, credo sia il minimo che si possa fare. Hanno diritto a ottenere la parola, hanno diritto al fatto che gli adulti lascino loro la parola. Questo però non accade. Ho scritto un pezzo qualche mese fa su quello che chiamavo “un backlash paternalista”, cioè su una serie di libri usciti quest’anno che raccontano le generazioni, il rapporto tra generazioni, la scuola, a partire però dalla visione da sessantenni, settantenni, benestanti, ricchi, buona famiglia, eterosessuali, che in qualche modo pensano di raccontare la crisi dei giovani. Mettevo nel calderone Cazzullo, Polito, Floris, Battista, Crepet, Galimberti. Io penso che questo sia la cosa peggiore che possa accadere nel rapporto tra generazioni, cioè un affetto paternalista. Il paternalismo non è altro che pensare di sapere quali siano i desideri di qualcun altro o quale sia il bene per lui. In questo libro penso di aver cercato di raccontare il disastro etico e perfino estetico del paternalismo. E l’unico modo per farlo, secondo me, è rovesciando il tavolo, dando la parola direttamente ai ragazzi, che a questo punto facciano pure piazza pulita di qualunque visione che il mondo degli adulti fa su di loro. Quando ascolto Galimberti o leggo un suo libro che dice che i ragazzi di oggi sono tutti nichilisti, ecco, mi viene voglia di parlare con Quentin40.

 

La Roma, desueta, marginale, profondamente reale, che accoglie la trama del tuo romanzo è un personaggio a tutti gli effetti, hai dichiarato in un’altra intervista. Ma questa “tua Roma” cosa incarna? È metafora della società italiana? Di che cosa vuole parlarci?

Io non sono mai vissuto più di 15-20 giorni consecutivi fuori da Roma. Con Roma ho un rapporto edipico, ed è una realtà che conosco. In questo romanzo ho provato a raccontare due cose che conosco bene, ossia la fragilità del maschile e la mia città, e due cose che volevo andare a esplorare, ossia la complessità del mondo femminile e il mondo giovanile, due realtà diverse da me. Io non sono uno che scrive di viaggi, difficilmente potrei ambientare un romanzo nella Roma antica o in Svezia, perché non sono uno che riesce ad andare nei posti e a interpretarli in maniera immaginifica. Riesco invece a pensare di poter andare in mondi inesplorati che però mi sono molto vicini, per esempio quello femminile o quello di un’altra generazione. Roma a me entusiasma e non piace. Roma è una città che diventa subito museo, cartolina, un simbolo in mano agli scrittori. Negli ultimi anni, appunto, si è lasciato che la Roma periferica diventasse la Roma pasoliniana, oppure la Roma di Moretti, di Verdone, di De Cataldo; non appena c’è uno scrittore che riesce a trovare un’immagine di Roma ecco che subito quell’immagine si stereotipizza, diventa quasi vecchia. E Roma viceversa non ha un immaginario legato alla fantascienza, o un immaginario legato a qualcosa che non si museifica e resta plastico. E allora a me piaceva raccontare una Roma che non fosse estetizzante, che non fosse un fermo immagine. M’interessava una Roma plastica, una Roma ordinaria, una Roma che assomiglia a tante altre città del mondo, potrebbe essere Mumbai, Il Cairo, ma anche Madrid, Città del Messico, cioè una Roma informale, indifferente, non la Roma che una volta è stata l’Impero, una volta è stata Repubblica, la Roma del Palazzo. E questa cosa, secondo me, Roma ce l’ha perché è una città in cui si vive difficilmente e si sopravvive facilmente.

 

La passione di Laura è comporre sonetti. Sonetti privati, impregnati di dolore, rabbia, dubbi. Cosa rappresenta per lei la poesia? Cosa nella logica di La parte migliore? Quale spazio ha la poesia nella vita così social dei giovani d’oggi?

Per me la poesia è il luogo dell’ambivalenza. Oggi abbiamo una letteratura piena di esplicitezza, penso per esempio al grandissimo successo del noir, dei romanzi di denuncia, dei romanzi di non fiction. Per me sono l’annullamento di una delle grandi prerogative che ha la letteratura, cioè essere un grande inno all’ambivalenza. Noi siamo immersi in una produzione che continuamente sa quale effetto emotivo vuole produrre. Le serie tv sono fatte apposta per produrre certi effetti nello spettatore. Quindi, diciamo, noi siamo abituati a un consumo narrativo. La poesia questa cosa la impedisce perché, di fatto, lascia uno spazio di libertà totale all’interpretazione del lettore, rompe quell’idea merceologica della letteratura, quella categorizzazione che troviamo per esempio su Netflix, dove sono presenti narrazioni “per fare una serata tra amici”, “per ridere”, “per commuoversi”: ti è piaciuto quello e allora puoi vedere quest’altro. Fare questo con la poesia sarebbe insensato. Ti è piaciuto Paul Celan che parla della morte e allora forse devo leggere Grünbein che parla della malattia? Come facciamo a catalogare quella roba lì? E quindi questo spazio di ambivalenza, di assoluta apertura all’interpretazione personale, e anche di una relazione vera in un territorio che viene costruito insieme, questa è la cosa che mi interessa della poesia. Poi sono d’accordo con il personaggio la Laura che a un certo punto dice «dalle elementari fino all’ultimo anno del liceo noi leggiamo tantissima poesia, ci formiamo come esseri umani attraverso la poesia e dopo, finita la scuola, la cosa non esiste più». Di fatto, se tu chiedi a delle persone che scrivono, a degli intellettuali, quale libro di poesia italiana recente hanno letto, non ti sanno citare un poeta italiano vivente, spesso. E questo per me è un grande buco, è un grande problema, perché credo che la poesia sia lo spazio centrale di una relazione dell’intimità.

 

È uno spazio centrale, anche nella logica di La parte migliore, nella costruzione dell’identità e quindi della libertà.

Sì, esatto. Cioè, come dire, per me il romanzo umilia la libertà dell’uomo. E la libertà passa, appunto, dalla possibilità dell’interpretazione, di emozione che noi diamo alla letteratura. Come diceva Nabokov – adesso sono uscite le sue meravigliose Lezioni di letteratura –, a proposito del messaggio contenuto nei romanzi: «Se avessi voluto mandare un messaggio, avrei fatto il postino», non scrivevo un romanzo. Ecco per me l’idea che la letteratura si possa ridurre all’espressione di un messaggio è il male assoluto.

 

 

(Christian Raimo, La parte migliore, Einaudi, 2018, pp. 216, euro 18,50)

Sinéad O’Connor, se una non vale mille

Roma, novembre 2018. La città è in  stato di agitazione permanente, i movimenti nelle strade fanno bruciare le idee e i visi di migliaia di ragazze e ragazze. A poche settimane dalle dichiarazioni di Pillon sulla famiglia e sul corpo delle donne, in prossimità dell’uccisione di Desirée Mariottini nel quartiere di San Lorenzo, sono già decine le iniziative che nascono nelle piazze, nei punti di ritrovo, negli angoli familiari dei cittadini e delle cittadine più e meno giovani. Le compagne di Non Una Di Meno, la manifestazione italiana del movimento femminista argentino Ni Una Menos nato nel 2015, sono impegnate costantemente nell’organizzazione di incontri e mobilitazioni per dare freno, in massa, alla nuova ondata repressiva messa in moto a spese dei corpi femminili e delle conquiste nel campo LGBTQ+ . Da due anni a questa parte, a Roma e sul territorio italiano più in generale, non si è lasciato un centimetro scoperto alla successione casuale degli eventi. L’attivismo ha vestito pienamente l’accezione propositiva e creatrice che il termine stesso porta con sé.

Le singolarità sono innumerevoli e la moltitudine impegnata è la più eclettica di sempre. La potenza collettiva è ai massimi storici.

USA, ancora novembre 2018. Le elezioni di medio termine del mandato più enigmatico della storia della nazione, rivelano, già da prima del risultato finale, la medesima febbricitante urgenza. Un’agitazione che si è mostrata inesauribile all’interno della proposta neoliberal-democratica di Hilary Clinton, lontana anni luce dall’incarnare tanto una sinistra popolare che rompesse con la logica imprenditoriale, quanto un femminismo dell’intersezionalità di matrice tipicamente statunitense. L’attuale vittoria nel Congresso della democratico-scialista Ocasio-Cortez è la dimostrazione di un percorso inverso a quello che Clinton pensava di proporre: non è una leader a trascinare i movimenti, ma è il movimento a creare i presupposti per una determinazione politica. È l’ondata di attivismo, come la definisce Kate Zerenike sul New York Times, esplosa popolarmente nel 2018 ma partita negli USA già due anni fa con la vittoria di Trump, a costituire il gesto di presa di parola che ha permesso il superamento della risoluzione della rivolta femminile (e coloured nel suo insieme) nel raggiungimento di quote di rappresentanza. Piuttosto, è in gioco la riforma radicale e inappellabile dell’intero assetto politico ed economico.

Non sarebbe stato possibile, e lo dimostra la storia, senza l’esistenza di una forza collettiva partita dalle fondamenta della struttura sociale, e di cui le rappresentanti ufficiali ( si pensi anche alle superstar del pop impegnate nelle copertine per il #metoo e per il #wetogether) disegnano solo la punta dell’iceberg. Il percorso, che trova nel novembre del 2018 un momento di attualità del suo futuro, è costellato però da momenti genealogici di confitti solitari, esplosi dall’alto e senza un riscontro e una comunione con il sentire comune. Piccoli slanci coraggiosi attuati in periodi meno maturi, benché sempre ostinatamente adatti alla presa di parola; meteore destinate a passare incomprese e a bruciare come le streghe sul rogo.

Lo sa Sinéad  O’Connor, artista della quale si parla con morbosa insistenza in questi giorni a causa della sua conversione all’islam. Lo sa forse più di tutte, e davvero molto di più di Taylor Swift o di Uma Thurman, cosa significhi pagare il prezzo dell’avanguardia socio-politica. Cosa significhi parlare senza alle spalle un uditorio recettivo e benevolo. Ancora oggi, O’Connor sconta la pena di aver mosso da sola i suoi primi passi.

Si sa: la storia della musica leggera racconta a mo’ di specchio la storia più generale. Sono gli anni Novanta, e il grunge, proprio perché nato su un terreno già fertilizzato dai decenni precedenti, sporca l’esperienza artistica in maniera più profonda di quanto non lo avessero fatto lo psichedelico negli anni Sessanta, il punk nei Settanta e il glam negli Ottanta (quel glam che aveva saputo raccontare e rivendicare l’esistenza di scenari e pratiche di genere alternativi al binarismo eteronormativo). Sono gli anni dell’esistenzialismo puro, dei suicidi d’autore e delle depressioni da primo momento di maturata coscienza neoliberale nel mondo post Reagan e Thatcher.

Alle porte del decennio, nel 1990, una personalità nuova, una singolarità femminile, irrompe nella scena pop internazionale con l’album I Do Not Want What I Haven’t Got, album contenente quella che resterà la canzone più famosa, “Nothing Compares 2 U” (tra l’altro, cover di Prince e in conflitto contenutistico inconciliabile con la volontà d’autonomia espressa nell’album nella sua interezza). Il lavoro di Sinéad  O’Connor, e soprattutto la canzone particolare, è perfettamente in linea con il gusto comune, tanto che l’artista irlandese viene nominata per i Grammy Awards e invitata dall’Accademia a esibirsi durante la cerimonia. Ma O’Connor, che ai tempi aveva appena ventiquattro anni, rifiuta categoricamente la proposta: «loro» , spiegherà in una lettera alla National Academy of Recording Art & Sciences, «riconoscono e apprezzano [solo] il lato commerciale dell’arte. Rispettano soprattutto il guadagno materiale, che è la condizione principale della loro esistenza, e hanno contribuito a creare lo stesso rispetto tra gli artisti – onorandoci ed esaltandoci quando lo raggiungiamo, ignorando per la maggior parte quanti di noi non lo hanno fatto».

Nell’autunno dello stesso anno, Sinéad  si esibirà scalza e in reggiseno al concerto di Amnesty International a Santiago. I capelli rasati resteranno una costante della sua immagine pubblica fino ai giorni più recenti.

Di certo né il rifiuto delle istituzioni, né tantomeno lo sfoggio di un reggiseno di pelle nera, potevano destabilizzare troppo le aspettative di un senso comune abituato agli eccessi delle rock star  ̶  sebbene la rabbia e l’ostilità espresse da Sinéad  si mettessero di traverso anche alle più familiare e confortanti ballate antagoniste messe in campo tempo addietro da Joan Baez e Janis Joplin.
Lo scarto non esita troppo a manifestarsi: nel 1992, O’Connor viene invitata come ospite al Saturday Night Live per esibirsi live durante la messa in onda del programma. L’artista, dietro a un microfono decorato con ceri da Chiesa, inizia a intonare “War” di Bob Marley, modificando senza preavviso i versi sul colonialismo e sull’apartheid per riferirli alla questione dell’abuso sui minori da parte degli esponenti clericali: «Until the ignoble and un happy regime / Wich holds all of us through / Child-abuse, yeah / Child- abuse, yeah / Sub-human bondage has been toppled».

 

 

Lo scandalo, che in Irlanda era già stato reso noto, era ancora totalmente ignorato negli Stati Uniti. Sul finire della canzone, O’Connor fa in pezzi una fotografia raffigurante la figura di Papa Giovanni Paolo II intento a benedire la folla. Subito dopo grida:«Fight the real enemy!»

Da quel momento in poi, l’irriducibilità della protesta di O’Connor ai modelli antagonisti femminili precedenti diventava impossibile da camuffare. La sua furia metteva a bando ogni rassicurazione, le sue espressioni severe mettevano a disagio tutti e tutte, incapaci di gestire quel gesto di rifiuto e condanna tanto radicale.

A seguito della performance, non si faranno attendere le critiche da parte di esponenti emeriti del mondo delle arti accademiche, su tutti quella di Frank Sinatra, che la chiamerà «stupid broad», quella dell’attore Joe Pesci, che scherzerà in una trasmissione sul prenderla a sberle sul viso, e quella di Madonna, che si professerà «aghast», inorridita.

Due settimane dopo, Sinéad  viene invitata a esibirsi durante l’evento dedicato ai trent’anni di carriera di Bob Dylan. Kris Kristofferson la introduce sul palco riferendosi a lei come a una nuova artista il cui nome era recentemente diventato sinonimo di coraggio e integrità. La scena è la complicata figlia degli eventi di pochi giorni prima al SNL: Sinéad lì in piedi davanti a una folla che, tra fischi, rumori e urla, non riesce a quietarsi per farla cantare. Kristofferson torna sul palco e le sussurra, autocitandosi, «don’t let the bastards let you down», non lasciare che i bastardi ti buttino giù; una frase che a oggi ci riporta alla mente l’atwoodiano motto de Il Racconto dell’Ancella, Nolite Te Bastardes Carborundorum, oramai visibile su braccia e spalle di migliaia di giovani lettrici. Ai tempi, però, la moltitudine compatta e femminista non aveva ancora preso forme  nelle strade, né tantomeno nel sentire popolare.

O’Connor risponde fredda «I’m not down». Toglie gli auricolari e inizia a cantare, senza l’accompagno acustico, la stessa cover di Bob Marley portata in scena al SNL, con le stesse identiche modifiche di due settimane prima. Da sola, illuminata dalle luci del palco e ostacolata dai rumori della folla, Sinéad  porta a termine la performance, scansando le opposizioni acustiche con grida sempre più decise. Al termine di “War”, O’Connor si lancia a grandi passi fuori dal palco, crollando finalmente non appena Kristofferson le offre un appoggio fisico. Uno dei commenti che si sentirà di fare pubblicamente, sarà che le persone avevano buttato fuori tanta ferocia in primo luogo «perché non se lo aspettavano da una ragazza».

 

 

Poco più tardi degli eventi al SNL e al 30th Anniversary Concert Celebration, O’Connor tenterà di arginare l’ondata di furia scatenatasi contro di lei precisando che la sua protesta non voleva essere indirizzata all’uomo Wojtyla nello specifico, ma all’enorme sistema di abusi al quale le istituzioni lasciano in pasto i bambini e le bambine. Lei stessa confesserà di aver subito violenze fisiche e psicologiche da parte della madre, che la picchiava, la insultava, la chiudeva a chiave in camera, e a volte la costringeva a dormire in giardino. Come scriverà in una lettera aperta al Times di Londra, «l ‘unica ragione per cui ho sempre aperto bocca per cantare è stata quella di raccontare la mia storia e di far sì che venisse ascoltata. La mia storia è la storia di innumerevoli milioni di bambini le cui famiglie e le cui nazioni sono state lacerate nel nome di Gesù Cristo».

Nei decenni successivi, la produzione strettamente musicale di O’Connors non riuscirà più a vivere di luce propria, condannata a rimanere perennemente incastrata nell’opinione pubblica della Sinéad  politica.

La solitudine nella quale si è mossa, lo specchio che non ha ritrovato nelle reazioni dell’opinione popolare, hanno stroncato nei decenni la fermezza e la lucidità di Sinéad  donna e artista. Nel 2011, reduce da una vita adulta costellata da disturbi psichici indotti dal mancato riconoscimento nell’Altro (e nelle altre, in primo luogo), Sinéad  registra in video su YouTube nel quale, in preda a  un crollo emotivo in un Motel del New Jersey, chiede disperatamente di essere aiutata, definendosi ancora una volta «one in a million». Il bisogno della collettività, di potenziarsi tramite la solidarietà e la comprensione di chiunque altro, in virtù dell’essere in primis un «chiunque di voi», si manifesta ancora una volta come la grande costante, e insieme il grande assente, della vita di O’Connor e del suo operato, tanto artistico quanto politico (se mai le due cose possano mai stare divise).

Una manciata di anni dopo, Papa Francesco ammetterà le colpe della Chiesa nell’abbandono dei più piccoli;  nel 2016, il film Il caso spotlight farà luce sulle vicende criminali dell’arcidiocesi di Boston. Il film sarà premiato dall’Academy per la miglior fotografia. I tempi cambiano, qualcuno resta atrocemente indietro.

Non è un’opinione personale. È ampia la letteratura, scientifica e antropologica, che riconosce agli stati depressivi e ai disturbi del comportamento una relazione diretta con l’isolamento dal contesto sociale. Non è che Sinéad  abbia contestato la Chiesa e il paternalismo perché fosse pazza; al contrario, l’instabilità ha preso piede perché non ha trovato, in chi riceveva il suo messaggio, lo stesso coraggio e la stessa lucidità.

Nel settembre dello scorso anno, Sinéad  annuncia il cambio di nome in Magda Davitt ( «Sinéad è morta e una donna più felice è nata. Libera dai nomi schiavi del patriarcato. Libera dalle maledizioni dei genitori»), e poi ancora, a ottobre di quest’anno, annuncia un’ulteriore modifica dettata dalla sua conversione all’islam, in Shuhada’ Davitt. O’Connor, già da tempo vittima di un disturbo bipolare, si è frammentata, ha cercato la molteplicità in sé stessa. Relegata ai margini della società, non le restava altra scelta se non inventare singolarità con le quali poter fare i conti.

La fine delle religioni

La vita è sempre avvelenata dal dolore. E dal desiderio, che si nutre di forme inattese, tortuose, talvolta oscure. Esso ci appare come una forza inarrestabile, se non fosse per un particolare: il desiderio è un potere maldestro, incerto, troppo fragile per governare le vite degli uomini. Eppure non smettiamo di desiderare: cose, persone, vite altrui, momenti passati, futuri immaginari, dimenticando che il prezzo da pagare è solo la sofferenza. «C’è un limite al dolore», scriveva in alcuni versi Ennio Flaiano. Ed è esattamente in quel limite che cerchiamo Dio. Lo abbiamo trovato a lungo nelle profezie, nelle liturgie, nelle religioni, nelle parola scritta, nelle immagini tramandate da secoli, dimenticandoci che Dio si è sempre nascosto anche altrove.

A spiegarci dove, è Hervé Clerc nel suo A Dio per la parete nord (Adelphi, 2018). Amico di Carrère, questo giornalista di “France Presse”, scrisse nel 2011 un libro per spiegare il buddismo ai profani d’Occidente, il cui titolo conteneva già la risposta agli interrogativi del mondo, Le cose come sono (pubblicato in Italia sempre da Adelphi). Clerc non si definisce né ateo né credente, piuttosto un osservatore attento degli eventi, per comprenderne meglio la forma. E quindi la sostanza. Le cose sono come sono, la realtà è ciò che è: non possiamo cambiare nulla, forse solo noi stessi. Eppure restiamo ciechi e incatenati all’interno della nostra caverna, come ci insegna Platone da secoli, incapaci di guardare. La via per la conoscenza è crudele e aspra, quanto la parete nord di una montagna, ma Clerc sembra scalarla con naturalezza, a volte persino con ingenuità, inciampando apparentemente per caso nell’islam, nel buddismo, nell’induismo e nella filosofia occidentale, senza dimenticare esperienze personali e momenti intimi.

Dio è morto, ci aveva detto Nietzsche, e Clerc non sembra di parere diverso. Per superare il più grande dei lutti occorre accettarlo, elaborarlo e poi volgere lo sguardo altrove: è vero che siamo rimasti orfani di un dio umano, con il volto uguale al nostro, ma possiamo sempre rifugiarci tra le braccia di quel dio che l’Oriente ha già accolto, quello infinito e totale, senza mani né occhi, che risiede ovunque, anche in noi stessi. Perdere un padre significa ritrovarlo dentro di sé: ce lo insegna la religione, la psicoanalisi e probabilmente anche il buonsenso. Forse siamo cresciuti e non abbiamo più bisogno di abbracci paternalistici o di giganti della montagna a cui mostrarci,  ma di fare i conti con ciò che alberga nella nostra anima, per la prima volta davvero sola. La perdita di un genitore è sempre straziante e sostituirne l’ombra non è mai facile. Clerc ci accompagna con fare rassicurante nell’Occidente fatto di confessionali vuoti e di banchi di legno duri e scomodi, dimostrandoci che la nostra paura è in realtà la nostra unica consolazione.

Dio non ha più la forma di un uomo, ma quella dell’infinito che prima si insinua ovunque, per poi ritornare a sé: non è un caso che nelle religioni orientali c’è uno stato spirituale chiamato “il reale”, in cui esiste una coincidenza perfetta tra dio e l’uomo, tra chi è al di sopra e chi vaga su questa terra nel dolore.

Viviamo nel migliore dei mondi possibili, come diceva Leibniz? O nel peggiore, come sosteneva Nietzsche? Viviamo in un’eterna illusione, come ci raccontano gli induisti? Nessuno ha torto, perché questo, in fondo, è l’unico mondo possibile. «Il mondo è uno. Noi però lo vediamo pieno di differenze», scrive Clerc, che con una ragionevole dose di saggezza occidentale, analizza uno dei testi sacri dell’India, in cui si afferma che chi raggiunge l’unità sconfiggerà la morte: «Non so se sia vero, ma ho voluto verificare». Ebbene, uno dei tanti meriti di questo libro, scritto con accattivante limpidezza, è quello di scovare dio e le inquietudini umane ovunque abbiano lasciato una traccia, più o meno evidente, più o meno comprensibile. E di farlo senza pregiudizi razionalistici e senza vuote ingenuità.

 

 

(Hervé Clerc, A Dio per la parete nord, Adelphi, 2018, pp. 286, € 15.00)

Aspetta primavera, Forgione!

«Mentre la baciavo, pensai che forse la povertà era quella cosa lì: essere felici, ma sapere che quella felicità non sarebbe durata a lungo, perché mentre durava ed esisteva c’era già qualcosa di nocivo, nel resto del mondo, nel resto della propria vita, nell’aria e anche nella felicità, che minava la felicità stessa». Così, a pagina centotrentotto del suo primo romanzo, Napoli mon amour (NN editore, 2018), Alessio Forgione riassume lo stato d’animo di un ventinovenne disoccupato, con una predilezione per la birra scadente e una teoria giustissima sul riscaldamento estivo della Peroni grande; con un amore mal corrisposto per Napoli e per il Napoli (ndr l’elenco non va necessariamente inteso nell’ordine qui proposto); innamorato di un’aspirante assistente alla fotografia in cappotto color cammello. Con Napoli mon amour esordisce un autore dallo stile essenziale, che scompone la trama in un itinerario affettivo attraverso la sua città. Amoresano – che dei guappi di Gomorra ha soltanto il nome – trascorre le serate assieme all’amico Russo, bartender appassionato di modellismo e serie televisive, facendosi i conti in tasca del disoccupato – quelle odiosissime sottrazioni e addizioni conosciute dagli studenti e da chi ha avuto fame. Smette con le ragazze perché costano troppo e vagheggia l’espatrio ma non lascia Napoli, dove campa esaurendo i risparmi e appoggiandosi saltuariamente all’obolo genitoriale.

Si aggira per la città alla ricerca di lavoro, riceve proposte grottesche che rifiuta con un certo sdegno, si iscrive a un concorso pubblico ma procrastina. Vorrebbe scrivere – scrive –, stronca mentalmente un brutto romanzo di Nick Cave e pensa a Ferito a morte di La Capria come molto vicino alla perfezione.

«Pensai che dovevo scrivere racconti mentre aspettavo l’idea giusta per un romanzo. Considerai che ne avevo già cinque e che fosse giusto continuare […] Pensai che passare tutto il giorno in casa a scrivere era più o meno il solo lavoro che m’interessasse fare».

Amoresano incontra La Capria durante una trasferta romana assieme alla succitata aspirante assistente alla fotografia, più giovane abbastanza da fraintenderlo, fastidiosamente distratta e abbastanza bene da non tenerne in conto la precarietà. Nina – che per molte pagine chiede a prestito il nomignolo alla Lolita di Nabokov (parrebbe per ammantarsi di mistero, e agitare Amoresano che Nabokov non lo ha mai letto) – è una studentessa di filosofia di ventun anni, con una domanda irrisolta per l’Erasmus e un cappotto alla Don Raffaè.

«Vengono in mente Il giovane Holden in lotta contro il mondo adulto e le sue convenzioni […] e i monologhi terminali e vitalistici di Céline» ha scritto Filippo La Porta di questo romanzo; si capisce allora cosa intendono certi recensori assimilando Forgione a Céline: nel dipanarsi progressivo della relazione il romanzo assume un tono sentimentale ma non lezioso, che a tratti ricorda uno dei capitoli più intensi di Viaggio al termine della notte, l’incontro fra Bardamù e Molly durante la parentesi America. Nina ha poco o niente dello spirito di Molly ma Forgione sa essere onesto nel delineare i suoi personaggi. Forgione/Amoresano e Bardamù/Céline s’assomigliano nel trattamento inclemente riservato a se stessi; in una tendenza all’esasperazione e alla deformazione – in Forgione addolcita da uno stile medio ma ugualmente implacabile – che è forse la voce stessa che il personaggio La Capria riconosce all’autore.

Capita, leggendo il resoconto dell’incontro fra La Capria e Amoresano di sentirsi tristi, per la piccola gioia che Forgione concede al suo personaggio, che è esattamente quello che chi scrive vorrebbe per se stesso: il parere o – meglio – l’incoraggiamento del più vivo fra i propri modelli.

La bella giornata di Forgione/Amoresano, come a seguito di un’immersione, riemerge nel ricordo di giorni d’infanzia trascorsi a mare, in un’impressione di felicità disattesa che Amoresano è persuaso di poter rivivere nel rapporto con Nina. Quella cultura dell’ozio, l’attitudine a dilatare la bella giornata dei personaggi di Ferito a morte in Forgione parrebbero sostituiti da una vergogna, dalla percezione indelebile di una catastrofe, che guastano ogni principio di spensieratezza. Amoresano somiglia a e si sposta come una larga ferita: sembrerebbe cercare col dito di provocarsi infezione. Si sforza di nascondere la propria miseria, ma si scialacqua e si abbandona per qualche tempo alla grande occasione. Non si comprende appieno l’attitudine della ragazza di cui Amoresano si innamora con troppa leggerezza, o, per meglio dirlo con le parole di Céline: per cui prova fin da subito «quello specialissimo sentimento di fiducia che nelle persone impaurite prende il posto dell’amore».

Si direbbe che il personaggio di Forgione non ami – non ne sarebbe capace – la ragazza col cappotto color cammello e che ci sia, fin da principio, una distanza inconciliabile fra loro due, dovuta a specifiche e, almeno nel primo caso categoriche, visioni del mondo: romantica, in senso larochelliano la visione di Amoresano; progressista, più concreta la visione di Nina.

Pur non entrando – eccezion fatta per l’episodio di La Capria – nel merito del racconto di una formazione letteraria, Forgione si riallaccia al canone di Chiedi alla polvere di John Fante o del Martin Eden di Jack London. La letteratura è, per Amoresano, l’unico vero interesse e riusciamo, prestando ascolto alla sua voce, a ricostruirne le simpatie, spesso dichiarate altrove sottese, e a immaginare che scrittore sarebbe stato se Forgione non gli avesse imposto un epilogo – se la ferita di Amoresano avesse suppurato e dal dolore fosse germinato un romanzo.

 

 

(Alessio Forgione, Napoli mon amour, NN editore, 2018, pp. 223, € 16.00)

I vestiti nuovi dell’Imprenditore

Oscar Farinetti, imprenditore e scrittore, ora è anche poeta dopo la pubblicazione di Quasi (La nave di Teseo, 2018). Esordio che quanto meno smuove in noi curiosità verso le prossime uscite della casa editrice, e spinge a chiederci di quali nuovi talenti impaginerà lo strimpellare di cetra.

Finito di leggere la raccolta di Farinetti, pratica che richiede tutto sommato poco tempo (le poesie sono accompagnate dai dipinti di Marco Nereo Rotelli e dalla postfazione di Massimo Donà), lo sguardo torna sulla fascetta dell’opera medesima, che mostra la faccia quasi sorridente del poeta e la dicitura «Celebriamo la meraviglia dell’imperfezione umana (La nave di Teseo)». Di solito la fascetta è quello spazio in cui si spara alto, possibilmente cercando la firma di una voce autorevole che dica al potenziale acquirente: «Questo è un signor libro, e non te lo dice l’editore, te lo garantisco io, una persona importante». Una pratica spesso abusata e che fornisce copioso materiale per il blog Fascetta nera. Invece, bardato nella sua fascetta giallo limone bio, Quasi proclama: «Questo libro non è poi ’sta gran cosa, proprio come te e me, che bello! – Firmato: quelli che l’hanno pubblicato».

Celebrazioni a parte, il testo ha in effetti molto da dire sull’imperfezione umana. È fuor di dubbio un’opera dilettantesca, di chi ha frequentato poco e male la poesia, o si concede ogni tanto un Rino Gaetano («Perché il cielo è sempre più blu? // Eh già, perché? / Non piove: governo ladro?»; ), della musica leggera («Togliamoci il fango dagli occhi // E insieme cantiamo stonati / La mia banda suona il rock»). Mentre quando Farinetti prova l’aforisma o la massima di spirito, più che veggente il poeta appare vessato dalla cataratta, oscillando tra tautologie e banalità:

«Il mio mondo è il mondo
il tuo mondo è il mondo
il suo mondo è il mondo

Ognuno vive nel suo mondo
… che è il mondo»

 

«Il poi dell’infinito
l’eterno poi
il poi… che poi c’è sempre un poi»

 

«Trincee di pace

Son meglio di quelle di guerra»

 

«Tutto ciò che ha un inizio
ha anche una fine
è solo questione di tempo»

Tra tanto verseggiare pallido e distorto, ciò che normalmente dovrebbe essere lo stile – allontanamento consapevole da norme e tradizione, motivazione linguistica degli intenti – si palesa perlopiù come esplorazione neanche troppo approfondita della forma poesia. Del resto il dilettante scrive per piacersi; di un’arte padroneggia quel poco che basta per esercitarla o per coltivare l’illusione di farlo. Diventa perciò una sproporzione di mezzi applicare un qualsivoglia approccio critico al testo – ci si sentirebbe un critico d’arte che fa la disanima ai disegni del nipotino.

Nell’introduzione lo stesso autore gioca ad abbassarsi agli occhi del lettore, una captatio benevolentiae dove riecheggia il clangore dello storytelling e la retorica mostra i segni del collare padronale. Così quando scrive:
«Chi mi conosce veramente sa che sono quasi un uomo grande, quasi un marito, quasi un padre, quasi un nonno, quasi un imprenditore, quasi un politico, quasi uno che scrive, ma quasi tutti ignoravano che fossi quasi un poeta. Questo è stato per anni un segreto tra me e la mia scimmietta».

Ci sfiora il pensiero che Farinetti voglia un attimo – come dire – sfotterci, quanto basta per piazzarsi come prodotto, e che l’imperfezione sia il tratto in comune su cui far leva col potenziale acquirente; oppure siamo in presenza di una visione del mondo da “Qoelet de’ noantri”. Nella postfazione Massimo Donà sceglie questa seconda ipotesi, portando in soccorso di Farinetti tutta una serie di rimandi colti, dalla Genesi alla Ginestra leopardiana passando per Apollo ed Hermes; acrobazie ermeneutiche da Cesare Garboli col mutuo che incombe.

Ma se leggiamo i versi prodotti dalla «scimmietta» assecondata, chiaro rimando a un archetipo diminuito d’intensità, quindi addomesticato, cogliamo l’autore in controtempo. Così concentrato sul sorridere per la foto di copertina e sull’anticipare le critiche («La gente per bene non giudica, aiuta»), l’autore non presta piena attenzione a ciò che la «scimmietta» rivela. Ovvero un quasi rancore da «Io so’ io, e voi non siete un cazzo», una quasi superbia da leone che decide le parti, una quasi invidia da ricco corvo che non riesce a comprarsi piume da pavone. Nessuna patina bonaria sa sofisticare tempestiva certi ghigni:

«Con il vostro metro in mano
nel pensier fingete
di esser me

E mi giudicate

Ma grazie!

Farei cambio?

No grazie»

 

«E la mia invidia cresce per questi fortunati mocciosi
[…]
Ma se mai fossi nato laggiù
e nel mare fossi caduto
per venire quassù

giuro che li afferrerei
per trascinarli con me
e farli sentire uguali»

 

«Adoro la pizza
ma m’infurio ad aspettare
[…]
Sono strano lo so
mi meraviglia l’incompiuto»

 

«Il Che
ma quanto era figo il Che
quanto è figo
[…]

E quando guardo
certi giovani un po’ arrabbiati
li comprendo, vorrei abbracciarli

Ma non posso
perché loro non vogliono
e mi dispiace tanto»

 

«È cinismo
essere ideologico»

Deposti gli strumenti critici, permane il dubbio: perché pagine schiccherate di simili versi hanno trovato collocazione editoriale? Ci viene in soccorso l’intelligenza poetica, quella facoltà immaginifica che, nel falsificare, apre al nostro sguardo significati profondi. Immaginiamo allora una variante di I vestiti nuovi dell’imperatore, con al posto del monarca un Imprenditore, e una raccolta di poesie a sostituire i vestiti nuovi. Immaginiamo cene trimalcioniane offerte dal benevolo Imprenditore, che ama la compagnia e il calore umano. Ecco il commensale di turno – un poeta, o un pittore o un filosofo: ha accettato l’invito con l’entusiasmo di chi ha svoltato, e un piattino da mendicante nell’animo. Immaginiamo il commensale durante la cena, mentre annuisce ai discorsi banali e trivi dell’Imprenditore o si sforza di ridere a battute bagaglinesche. In realtà sta cercando il momento migliore per tendere il piattino, per accennare a quel suo progettino che non avrebbe nemmeno bisogno di tanto. Quand’ecco che l’imprenditore, tra il caffè e il nocino, proclama: «Sai, ho una sorpresa per te».

Il commensale sobbalza: non solo il destino gli ha offerto un posto a una tavola così prestigiosa, ha persino tolto al suo orgoglio l’odioso impiccio della questua. Pensa: «Ha detto per te, è qualcosa di specifico. È l’occasione della vita». Così dissimula l’euforia pre-orgasmica, trepidante ascolta l’Imprenditore: «Ogni tanto, rubando tempo al lavoro, scrivo delle poesie. Poca roba eh, dei pensierini, però mi piace recitarle ai miei ospiti, per ripagarli del tempo concesso, dei bei momenti condivisi». Ben presto l’euforia lascia spazio a un sinistro orrore, mentre l’Imprenditore recita con enfasi domestica versi postvogoniani, così privi di qualsivoglia lirismo che viene da guardare sotto il tavolo in cerca dei corpi smembrati delle Muse:

«L’egoismo è come
l’odor della merda

Dentro il tuo
ci stai pure bene

In quello altrui
ci stai…
di merda»

Appena il supplizio termina, l’Imprenditore guarda il commensale, e con un quasi sorriso dice: «Oh, se è una merda puoi dirmelo, ah ah!» Magari il commensale di turno è un poeta, assai più tonino che guerresco, e per togliersi dall’impiccio – mica può dire cosa pensa davvero! – se ne esce con una frase eloquente ma vuota, generica ed elegante, come: «Eh, la poesia è la parte più bella della vita, ognuno di noi può metterne un po’ vicino a quello che fa». Oppure, sudando freddo, si nasconde dietro una citazione: «Mi ha fatto pensare ai versi di Wisława Szymborska, “Preferisco il ridicolo di scrivere poesie / al ridicolo di non scriverle”». Al che il nostro imprenditore, cena dopo cena, a botte di vili commensali, pure se dall’inizio era animato da sincero pudore nel condividere i versi, pian piano subisce una mutazione psicologica ben precisa. Inizia a crederci. La dissonanza cognitiva si amplia nello spazio e nel tempo, fino alle letture pubbliche dove l’Imprenditore comunque giura che quei versi sono un hobby, che mai saranno pubblicati. Ma gli applausi della folla sono moneta più preziosa e più seducente delle lodi private, e così le poesie del nostro arrivano proprio sugli scaffali delle librerie; proprio con quei versi di Wisława Szymborska in esergo e col ricordo toninoguerresco nell’introduzione. Da lì naturalmente il loro corso si dipana tra televisione e festival letterari. Forse la raccolta raggiungerà il vostro albero di Natale.

A questo punto della fiaba, ovvio che in rete, sui giornali, oppure dal pubblico durante una lettura, un bambino, un ingenuo o un pazzo si alzerà per proferire: «Ma è una merda!». Forse solo allora qualcuno arrossirà di vergogna, specie se nel frattempo si è prestato alla ben poco nobile arte della marchetta. Ma non sarà certo il nostro Imprenditore ad arrossire; anzi, con torva furberia da contabile, seduto sul cesso guarderà i resoconti delle copie vendute, e si dirà: «Vabbè, chi se ne frega delle critiche, tanto i poeti muoiono poveri. Piuttosto, devo pensare alla cena di sabato prossimo. Niente scrittori: sono una noia, se la tirano troppo. Potrei invitare quel regista là, come si chiama, quello con la moglie bona, eh eh eh…»

 

(Oscar Farinetti, Quasi, La nave di Teseo, 2018, pp. 270, euro 17)
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Storia di un abbraccio muto

Euforia è il racconto di due vite antitetiche, lontane, all’apparenza incompatibili. Due vite che, nel momento in cui ci viene narrata la storia (un breve lasso di tempo di pochi giorni), sono costrette a sfiorarsi, a toccarsi. Ad assorbirsi reciprocamente.Matteo (Riccardo Scamarcio) è un giovane di successo, narcisista e dedito, in egual misura, al lavoro e alle distrazioni che cerca (e trova) forsennatamente. Ettore (Valerio Mastandrea) è suo fratello maggiore, il fratello “che non ce l’ha fatta perché non ha nemmeno provato a farcela”. Vive ancora in provincia, fa l’insegnante, ha un’amante più giovane e i suoi abiti sono ordinari così come è ordinaria (e priva di lampi) la sua espressione quando osserva inerme il suo matrimonio sfaldarsi sotto le macerie di gesti abituali, silenzi prolungati e lacrime trattenute. Ha un tumore al cervello, ma (almeno inizialmente) non lo sa.

«E’ una cosa da niente, si risolverà tutto in fretta, vedrai»

Quando Matteo scopre che Ettore è malato, decide di ospitarlo a casa sua, a Roma, per qualche giorno e, al contempo, decide di negare al fratello la verità, sminuendo e irridendo quel «piccolo tumore» perché tanto si sistemerà tutto, appunto. Lo fa per preservare Ettore, certo. Ma, probabilmente, lo fa anche per preservare se stesso, per sentirsi utile. Per espiare una colpa. La colpa di essere più ricco, più bello, più giovane del fratello.

E quando Matteo dice che si sistemerà tutto, spinto da un insensato entusiasmo (da una sconclusionata euforia) sembra quasi crederci davvero. «Si sistemerà tutto» ripete Matteo ad Ettore, alla cognata, a sua madre, al mondo intero. «Si sistemerà tutto».

Ed Ettore, poco a poco, sembra farsi travolgere dalla contagiosa vitalità di Matteo, fratello alieno, sceso da un altro Pianeta, cresciuto in un altro Universo. Ma Matteo non è Ettore, e Ettore non sarà mai Matteo, e la distanza che i due hanno provato a colmare, riaffiora prepotente quando si affrontano in un duello verbale che ha il retrogusto della resa dei conti.

Matteo accusa Ettore di essere un vigliacco, un uomo insignificante che non ha mai saputo rischiare. E Ettore controbatte sputando in faccia a Matteo frasi affilate come lame, nelle quali vengono messe in discussione le presunte buone intenzioni del fratello.

«Perché mi tieni qua con te? Per chi lo fai? Ancora ti devi far perdonare il fatto d’essere frocio?» E la voragine si riapre sotto i loro piedi. Un abisso che risucchia le paure (fino a quel momento celate goffamente) di Ettore e le frivolezze di Matteo.

«Ma quando muori?», urla disperato Matteo, oramai stanco di fingere, e di fingersi forte, nel momento probabilmente più ‘alto’ del film, quello che vede i due protagonisti naufragare verso l’ineluttabilità del destino.

Complici, nemici, rivali, confidenti, avversari. Matteo ed Ettore sono tutto questo. Due fratelli come tanti, che la vita (o le loro scelte) ha separato e poi ha ricongiunto nel momento più importante, più difficile. Nel momento della ‘verità’. Quella verità sottaciuta da Matteo, e tenuta a debita distanza  (per quanto possibile) da Ettore.

Euforia di Valeria Golino è, sopratutto, una storia d’amore e di paura di vivere, di morire e di dirsi «ti voglio bene»; una storia che non può non essere considerata ‘crepuscolare’ (d’altronde Matteo e Ettore sono come il giorno e la notte, e giorno e notte possono sfiorarsi e fondersi solo al momento del tramonto); una storia che racconta – senza svolazzi, fronzoli o virtuosismi di sorta – un qualcosa che sta finendo e che, paradossalmente, non finirà mai, come il sentimento sincero che i due fratelli esprimono in maniera così differente.

Nonostante i temi trattati dal film (malattia, disgregazione familiare, invidia sociale, omosessualità) siano la base portante di molte pellicole contemporanee, non si possono non apprezzare la delicatezza, lo sguardo acritico, la trasparenza e l’originalità con le quali la regista disvela i pensieri, i turbamenti e le contraddizioni dei suoi protagonisti, interpretati mirabilmente da un Riccardo Scamarcio ridondante e incontenibile (forse qui nella parte più totale e totalizzante della sua carriera) e da un Valerio Mastandrea asciutto come non mai.

Senza scivolare in facili “inviti al melodramma”, Euforia racconta con pulizia ed eleganza quasi documentaristiche un lungo addio.

Un addio che si risolve con un abbraccio muto.

Perché in quel momento, sotto quel cielo azzurrissimo, Matteo ed Ettore si stanno salutando per l’ultima volta. E le cose che dovevano dirsi oramai (e finalmente) si sono esaurite.

 

(Euforia, di Valeria Golino, 2018, drammatico, 115’)

 

John Grant e la persistenza del synth

Il 2010 è stato illuminato da quella perla rarissima che è Queen of Denmark, prima opera solista dell’ex The Czars, John Grant: seguito ideologico di un’altra opera totemica, ma precedente di qualche anno, The Trials of Van Occupanther dei Midlake, ne prende in qualche modo l’eredità andando a smussarne ogni spigolosità rock, facendone un capolavoro pop. La voce profonda, piena di grazia e toccante del cantante americano esplodeva in composizioni melodiche struggenti, dove veniva cantata la sofferenza, l’amore, il disagio, la difficoltà assurda nell’accettare la diversità di ciò che è altro da sé. Dopo altri due album, Pale Green Ghosts e Grey Tickles, Black Pressure, il ritorno in questo fine 2018 con Love Is Magic.

Da Queen of Denmark in poi, Grant ha insistito fortemente sull’uso massiccio dei synth, spostando il fuoco dalla purezza melodica (per esempio “Caramel”) verso quel misto di glam-subindustrial che oramai è la sua impronta sulla musica di oggi. Spesso la sensazione che trasmette il John Grant post-Queen of Denmark è quella di un volontario soffocamento della bellezza melodica (che a primo impatto fa gridare allo scandalo), impigliata in ritmiche ossessive e quasi monotone che, poi – qui l’enormità del suo genio –, fanno da contraltare a ghirigori armonici e melodici che attingono dagli insegnamenti dei Queen (basti pensare a “Grey Tickets, Black Pressure” o alla nuova “Love Is Magic”).

Bisogna infatti provare a scostarsi dall’idea che John Grant ci ha dato di sé con Queen Of Denmark per riuscire a capire cosa è John Grant oggi, perché in ogni album si percepisce il fantasma del suo album di debutto: in una melodia, nella scelta di un passaggio da maggiore a minore, nella struggente inclinazione che prende la sua voce. Non è da biasimare chi vorrebbe che certa pesantezza data dall’elettronica, da quei synth ingombranti, fosse presa e spazzata via. Queen of Denmark è John Grant ma contemporaneamente non lo è.

La sua ricerca è inserita in un modo nuovo di fare cantautorato. St.Vincent con Masseduction e Bon Iver con 22, A Million. Tutti e tre cercano oggi di declinare il cantautorato verso un nuovo tipo di cantautorato. Non è cantautorato in quanto tale, non è rock, non è pop, non è rap. È qualcosa in divenire e che prenderà forma grazie a loro. Pionieri in un epoca in cui ci si ferma sempre prima, si rischia poco, si cerca di trovare appigli sicuri.

Love Is Magic rientra in quest’ottica, nonostante – paradosso – si allacci più a Queen of Denmark rispetto ai suoi nuovi predecessori. Forse, rispetto a tutto quello che è venuto prima, Love Is Magic è l’album in cui John Grant è stato meno in grado di proporre le sue anime: quella reazionaria di Queen of Denmark e quella progressista di Gray Tickles, Black Pressure. O meglio: le presenta, ma non sempre nella loro versione migliore.

Love Is Magic, nonostante sia pieno di brani preziosi (“Metamorphosis”, “Love Is Magic”, “Smug Cunt”, “Is He Strange”su tutti), sembra non avere il coraggio dei due precedenti, ma neanche quella bellezza intrinseca di Queen of Denmark.

Non è un passo indietro, è la difficoltà con cui devono confrontarsi i grandi: opere precedenti difficilmente superabili.

Copertina di Poesie di Rainer Maria Rilke

La libertà nell’orizzonte poetico-esistenziale

A settantacinque anni di distanza dalla prima pubblicazione delle Poesie di Rainer Maria Rilke tradotte da Giaime Pintor (Einaudi, 1942), le Edizioni Ensemble ripropongono questa esile ma interessante raccolta a cura del famoso letterato e germanista, morto appena ventiquattrenne dilaniato da una mina durante un’azione partigiana sulle rive del Volturno. Dalle liriche tratte da Il libro delle immagini, Nuove poesie, Sonetti a Orfeo e Ultime poesie, per finire con i due estratti dello splendido romanzo Quaderni di Malte Laurids Brigge – intenso viaggio esistenzialista di notevole modernità strutturale – l’edizione del 2017 si arricchisce della prefazione di Carlo Ferrucci (saggista, poeta, drammaturgo e traduttore, figlio della sorella maggiore di Giaime Pintor, Silvia) che ne sottolinea la bellezza e lo spessore soprattutto per la scelta di una decisa libertà espressiva nella traduzione dal tedesco all’italiano. Infatti, poeta egli stesso, Pintor evita il tranello di una trasposizione letterale, ben consapevole che i calchi troppo fedeli agli originali agiscano sì in favore dell’aderenza al significato ma, inevitabilmente, anche in quello di una deprivazione delle irrinunciabili caratteristiche musicali, ritmiche e di timbro del componimento poetico, snaturandone così il cuore stesso.

Libertà che ritroviamo anche nella selezione delle opere, tra le quali non può sfuggire l’assenza delle Elegie duinesi (1923), certamente tra i vertici più alti del Rilke maturo, lamento e lutto eppure canto che celebra l’esistente tuttavia, grandioso affresco della fragilità umana e al contempo della magnificenza dell’essere al mondo. Ma, come ammette lo stesso Pintor, non era sua intenzione dare ai lettori un compendio delle opere del grande poeta praghese, quanto una raccolta «di quello che per me, in un particolare momento o in una particolare circostanza, è stata scoperta o occasione di poesia». Ecco allora che la sua personalissima scelta cade innanzitutto su due dei quarantacinque componimenti del Libro delle immagini (prima edizione 1902), che già segnano uno sviluppo rispetto al periodo precedente, distaccandosi dal gorgo esaltato della pura eufonia in direzione di un’autonomia delle cose dall’ossessione di armonia e musicalità del poeta.

Proseguendo con tre delle centottantanove Nuove poesie (1907) – ulteriore evoluzione di un talento facile e accattivante dotato di straordinaria versatilità espressiva, in cui Rilke si riscatta dalle suggestioni e le mode del suo periodo per raggiungere finalmente una compiutezza tecnica e filosofica di grande respiro – Pintor ce ne offre gli episodi della mitologia classica con le celeberrime “Apollo primitivo”, “Alcesti” e “Orfeo Euridice Hermes”, per passare di seguito a una selezione di poesie dalla sua opera forse più compiutamente gioiosa, quei Sonetti a Orfeo che cantano la festa dei sensi e l’incondizionato assenso alla vita, sia pure se concepiti come monumento funebre a una ragazza morta di leucemia a diciannove anni. Tragico destino quello della famosa ballerina Wera Ouckama Knoop che affascinò Rilke bambino, e da lui eletta a creatura orfica emblema della caducità del mondo, che per ironia della sorte toccherà anche al poeta il 29 dicembre del 1926, quando all’età di cinquantuno anni morirà vittima dello stesso male incurabile.

L’antologia di Pintor continua con le Ultime poesie, in cui la concezione rilkiana dell’inseparabilità di morte e vita è più che mai presente e si colora dell’alternarsi di intimismo, pianto e grido: «E vorrei farti male, / Signore, ma mi manca / l’animo: se sollevo / verso te la mia pena / subito ricade mite/e fredda come neve», per concludersi con i brani tratti dalla prosa dei Quaderni (1910) nei quali è evidente una forte componente nietzschiana – strutturati come un diario senza riferimenti cronologici o di luoghi (per quanto si capisca che si svolge nel Quartiere Latino di Parigi), lunghissima descrizione di fatti, ricordi ed emozioni il cui protagonista Malte, ignoto straniero con vocazione di poeta, è un ragazzo perso nella dolorosa e ostile realtà del mondo, la cui insensatezza impossibile da cambiare non concede riscontri né risposte.

Eppure, a dispetto di tutto, il giovane flâneur non si arrende e racconta, scegliendo di continuare attraverso le parole, che si espandono le une dalle altre ed evocano un caleidoscopio di immagini di potente impronta espressionista, nella sua ricerca incessante del significato della vita che passa per la sofferta consapevolezza della morte. Ancora una volta dunque potente e ineludibile affermazione – da parte del poeta Malte/Rilke/Pintor – della propria libertà di essere e agire, immerso nel mondo delle esperienze umane, libertà che sola può offrire un riscatto alla vanità di tutte le cose.

 

(Rainer Maria Rilke, Poesie, trad. di Giaime Pintor, Edizioni Ensemble, 2017, euro 12)

Kerouac contro tutti

Credo che sia giusto concludere questa serie di articoli sull’isolamento del romantico americano con la frattura più significativa della storia letteraria degli Stati Uniti del Novecento: il processo per oscenità ai danni della casa editrice City Lights nella persona di Lawrence Ferlinghetti, a causa della ristampa del poema Howl di Allen Ginsberg. Potremmo tornare indietro al 1955, sostenendo che una tale frattura sia cominciata con la lettura pubblica di Ginsberg alla Six Gallery di San Francisco, ma sarebbe probabilmente una tesi romanzata. Chiariamoci: il movimento Beat era nato da un bel pezzo e non era neppure nuovo alle pubblicazioni. E nemmeno a episodi processuali ben più gravosi per l’opinione pubblica, come l’omicidio di David Kammerer perpetuato dal giovane Lucien Carr; peccato originale che tocca l’intero gruppo primigenio della Beat Generation. Eppure, quel processo significò per ognuno di loro il lancio ufficiale nella grande editoria. Chiariamoci meglio: la City Lights non era certo allora alla pari di una Scribner. Voglio dire che, in seguito all’assoluzione di Ferlinghetti, non solamente si ottenne una vittoria simbolica (e concreta) dal punto di vista sociale; ma seguirono anche degli articoli su papers come il “Time”, “Life” ed “Evergreen”.

Qualcosa a dire il vero si era già mossa: nel 1956 ci fu una replica della lettura di Howl, questa volta in un teatro di Berkeley. Il New York Times mandò a fare un sopralluogo Richard Eberhart che dopo essersi trovato davanti a un pubblico delirante, firmò un emozionato articolo intitolato West Coast Rhythms dove affermava che quello dell’esordiente Ginsberg fosse «il miglior poema del giovane gruppo». Torniamo ora alla vicenda della pubblicazione di Howl: Ferlinghetti sapeva di avere tra le mani un testo pericoloso, così cercò uno stratagemma; il libro infatti fu stampato dapprima in Inghilterra presso l’editore Villiers, per poi essere spacciato dalla City Lights come una qualunque ristampa. Sottolineo questo perché non voglio affatto sostenere che Ferlinghetti avesse previsto il processo, o meglio le conseguenze mediatiche che seguirono l’assoluzione; dal punto di vista commerciale insomma quel grande successo arrivò per caso, non tanto per l’epoca, quanto per la piccola forza della casa editrice.

E allora che cosa ha a che fare la Beat Generation con il romanticismo americano? Ora possiamo una volta per tutte fare davvero un salto indietro nel tempo. Abbiamo evidenziato come il dato principale del romanticismo di stampo americano fosse quello del trasformare la scrittura in una professione e, in secondo luogo, l’idealizzazione della propria biografia come struttura narrativa portante dell’idea stessa del fare letteratura. Tutto questo viene troncato dalla Beat Generation, che porterà poi a una rottura storica ben più importante quale i movimenti del ’68. E viene troncato perché la Beat Generation ha essenzialmente due anime: una, che potremmo definire spirituale, nasce già alla Columbia University con la teorizzazione della New Vision di Lucien Carr. Per sbrigarcela, basterà dire che dove viene ripresa la poesia di Rimbaud, va da sé il rifiuto in nuce di ogni idealismo. L’altra, che invece potremmo definire formale, viene teorizzata da Jack Kerouac: «Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio» scrive in apertura alla raccolta Mexico City Blues (1959). Dare vita cioè a una nuova forma di scrittura, che abbia il marchio indelebile della musicalità jazz.

Queste due anime vengono poi a coincidere: Kerouac e Ginsberg ritenevano che porre le basi per una simile ritmicità della scrittura potesse liberare l’inconscio, portare il narratore cioè a un grado di sincerità estrema. Ma Ginsberg non scrisse Howl in un giorno; il poema fu anzi veduto e riveduto più volte. A ogni modo, la maggior parte di loro seguì questa via… quasi tutti, eccetto che uno: Jack Kerouac. Per lui le cose andarono molto diversamente. Mi sono già occupato di On the Road in un articolo precedente, ciò che però mi preme sottolineare, riprendendo qui quel romanzo che al pari di Howl segnò la popolarità della Beat Generation, è che nel gruppo Kerouac è quello che rimane indietro. Jack Kerouac era in via definitiva un romantico.

A differenza degli altri, Kerouac cercò dapprima di pubblicare con un grande editore. E non scelse di certo a caso: quando propose a Scribner (protagonista della letteratura romantica americana) il romanzo La città e la metropoli ottenne un rifiuto, per pubblicarlo in un secondo tentativo con la Harcourt Brace. Seppure questa potrebbe sembrare una tesi insufficiente, On the Road dissiperà ogni dubbio: ci troviamo di fronte al biografismo, ma a un biografismo idealizzato, romantico appunto. Il Keoruac maturo (se mai ci sarà) rinnegherà a più riprese quel testo, divenuto il manifesto della Beat Generation: il motivo è che On the Road è una storia di idealismo, una speciale forma di idealismo che ha anche un nome e un cognome: Neal Cassady (in arte, Dean Moriarty). Ancora: l’intera esperienza biografica di Kerouac (per cui rimando all’articolo citato sopra) fa dello scrittore il fallimento personificato dell’esperienza beat. E però ne fa anche, a mio avviso, il lato più umano. Si ripete cioè per Kerouac ciò che già era successo al romanticismo europeo: se Ginsberg è il Rimbaud americano, il primo invece pare più simile a Verlaine. Come lui, Kerouac rimane intrappolato tra una più alta teoria del sentire e il proprio sentire personale, non riesce cioè a raccontare dalla cima della montagna, ma dalle pendici, senza mai riuscire a scalarla. Chiariamoci (e prometto che è l’ultima volta che abuserò di questo orribile termine): il romanticismo americano non termina a tutti gli effetti con l’ascesa editoriale della Beat Generation, basti pensare alla scrittura di Buwkoski. C’è tuttavia l’innegabile ruolo di cesura che la Beat Generation ha per la letteratura statunitense, uno scossone tanto più forte nel momento in cui si propone al tempo stesso nella forma più naturale della chiusura di un anello che comincia a partire dalla tradizione e dalla poesia di Walt Whitman. Ecco, Kerouac non è altro che il dito, un dito troppo gonfio per entrare in quell’anello, il bambino che affronta la montagna come fosse uno scivolo, ma che poi non riuscendo a scalarla, si gode la scivolata ribaltandosi.

Fanfiction preraffaellita

Donne eteree dai volti trasognati, rossi e blu sgargianti, un iperrealismo esasperato per restituire vita e luce a temi antichi, biblici, medievali: sono gli elementi che caratterizzano le opere della Confraternita dei preraffaelliti, corrente artistica che si sviluppa in Inghilterra a metà Ottocento. Lizzie (Neri Pozza, 2017), romanzo di Eva Wanjek, pseudonimo degli scrittori olandesi Martin Michael Driessen e Liesbeth Lagemaat, si propone di raccontare la loro storia, dal punto di vista di colei che più ne incarnò gli ideali: Elizabeth Siddal, musa della confraternita e compagna di vita del loro fondatore, Dante Gabriel Rossetti.

Proprio l’amore intenso e distruttivo tra Elizabeth e Dante diventa molto presto il centro del romanzo, assieme alla fragilità mentale della protagonista, che la porta a sprofondare nella follia e nella dipendenza dal laudano. Resta invece appena sulla superficie la vicenda artistica dei personaggi coinvolti, ed è proprio questo a rendere Lizzie un romanzo che non mantiene le sue promesse, non all’altezza delle aspettative.

Se infatti tutti i personaggi trascorrono il proprio tempo dipingendo, circondati da un’aura bohémien fatta di vino e case fatiscenti, sembrano farlo senza una vera riflessione, carichi di ambizione e desiderio di riconoscimento sociale, ma senza una vera sensibilità estetica.

È questo che consente a Rossetti di pensare che «temeva che la sua opera di una vita fosse superata prima ancora di cominciare. Ma non aveva scelta. Ciascuno doveva fare ciò che gli riusciva meglio, e perciò lui avrebbe continuato a dipingere le donne irraggiungibili che vedeva nei suoi sogni», o a John Millais, pronto con il cavalletto a dipingere la sua opera più famosa, Ophelia, di guardarsi intorno estasiato dalla bellezza dell’ambiente, senza avere però una percezione più profonda di forme e colori, e di concedersi di pensare che «se sarò bravo […] (e sapeva che lo sarebbe stato), verrà un capolavoro». O, ancora, a Walter Deverell, colui che per primo scopre Elizabeth, di guardarla quasi esclusivamente in termini di una generica bellezza: «Era troppo bella. Non ci si poteva rivolgere a una bellezza simile come se niente fosse […]. Lo stupiva che il mondo intorno a lei non si fermasse, tanto era bella»; «Walter sentì una fitta al cuore e pensò: perché la grande bellezza ci fa male?», così come Dante, che la incontra e pensa: «Era bella, tutto qui».

Dall’uso delle parole, e in particolare di parole generiche come bello, passa la profondità di percezione di un personaggio. La confraternita descritta dagli autori sembra così avere poco a che fare con il gruppo di artisti che rifiutò e sfidò con decisione le convenzioni artistiche del proprio tempo, con l’intento di riportare nell’arte un modello visto come più puro, quello pre-rinascimentale, e che nel farlo lasciò una traccia profonda nell’arte di tutto il secolo. I protagonisti di Lizzie dipingono, sembra a volte, perché non trovano un modo migliore per passare il tempo, e anche la frustrazione che di tanto in tanto mostrano nel non raggiungere il risultato sperato non è mai duratura, non li scalfisce mai davvero: è più quella di un pittore della domenica insoddisfatto dell’esito del suo lavoro.

A guardare più in profondità, però, la ragione sembra essere una mancata riflessione sulla psicologia dei personaggi, e un’immedesimazione approssimativa in loro, così come nel mondo che li circonda. Così, pur se discretamente ben documentati sulle principali vicende delle loro vite, e sugli eventi più rilevanti del tempo, gli autori falliscono, se non in rari frangenti, nell’obiettivo di restituire vita ai loro protagonisti: essi parlano, agiscono, pensano anche molto, ma sempre a partire da due, tre tratti salienti dei loro caratteri, privi di sfaccettature.

Questo vale per tutti: per John Millais che appare per lo più come un ricco sempliciotto, e per sua moglie, Effie Gray, non la donna forte e consapevole che sceglie di lasciare un matrimonio agiato per amore, quanto piuttosto una sorta di vacca grassa sempre incinta del prossimo foglio. Ma soprattutto vale per i due protagonisti, Elizabeth e Dante Gabriel Rossetti.

Lizzie non smette mai di essere una ragazza dell’East End, colta e sensibile a dispetto della sua umile condizione sociale. A detta di tutti bellissima, «nata per essere ritratta», vive guardandosi sempre dall’esterno, pensando se stessa esclusivamente come un oggetto, desiderabile o meno allo sguardo maschile – e l’intuizione è anche molto interessante, ha la possibilità di aprire una porta sul modo delle donne dell’epoca vittoriana, ma si disperde in atteggiamenti patologici quando non francamente irrealistici, e si ha a volte la sensazione che la voce in campo non sia quella di una Lizzie sensibile alle pressioni esterne, quanto quella degli autori, che la giudicano con i canoni estetici del ventunesimo secolo. Della pittrice e poetessa apprezzata, della donna consapevole del proprio talento quale la vera Siddal era, non c’è traccia: la Lizzie del romanzo si affaccenda a tratti con pennelli e colori, ma sembra farlo più per emulazione che non per una reale spinta creativa, e fallisce sempre lasciando le proprie opere incompiute, derisa blandamente dai membri della confraternita. È un personaggio affascinante solo quando la sua eccessiva sensibilità sfocia nella depressione e nella follia, quella sì, a tratti ben raccontata negli infiniti sbalzi di umore che cambiano la sua percezione e la sua risposta alle persone che la circondano, isolandola in un silenzio che si fa mortale.

Quanto a Rossetti, lascia a tratti sgomenti il contrasto tra la delicatezza delle sue poesie, che aprono ogni parte del romanzo, e il personaggio che emerge dalla narrazione. Il Dante del romanzo non è il fine poeta, non l’intellettuale che traduce la Vita nova in inglese, non il colto pittore di Astarte Syriaca o della Beata Beatrix, che dipinge episodi della Bibbia, del mondo classico, della Commedia. Appare piuttosto come un gretto piccolo borghese, desideroso solo di fama e successo, le cui azioni non sono guidate mai da un affetto sincero, ma esclusivamente dai bisogni del momento: passa il tempo con gli altri membri della confraternita solo per giudicare il loro lavoro e confrontarlo col suo; ama Elizabeth solo finché le è utile, e non esita a sfruttare la morte del proprio padre per dirle che non vuole usarla come modella per una commissione importante, impedendole così di mostrarsi offesa o arrabbiata; si abbandona senza senso di colpa ai propri vizi, arrivando a uccidere per non pagarne le conseguenze, e a una sgradevole lascivia che sembra il suo vero tratto distintivo: tradisce il grande amore della sua vita con ogni donna che gli si offra, per poi dilungarsi in analisi spietate – davvero poco vittoriane e molto contemporanee – sulla propria vita sessuale, e desiderare Elizabeth solo «la sera in cui lei si era ricoperta di garze e si era finta una mummia. La scena lo aveva eccitato moltissimo».

Non è chiaro cosa tutto ciò abbia a che fare con le vicende di Elizabeth Siddal e Dante Gabriel Rossetti, ma scegliere di approcciarsi in questo modo a un racconto storico, seppure romanzato, non può che avere delle conseguenze sul piano della forma, così come del contenuto.

Da una parte, la lingua usata è piana, ingenua, carica di cliché e frasi fatte, inadatta a restituire la voce alle persone chiamate in causa e alla sensibilità che le loro opere mostrano, ma semmai solo alla versione scolorita che ne emerge dal romanzo. Dall’altra, nel tentativo di caricare il racconto di passione e tragedia, gli autori inseriscono nel racconto numerosi personaggi ed episodi ininfluenti, che li espongono al rischio di imprecisioni: evidenti ma poco gravi, come quando Dante «se ne stava con i palmi appoggiati sul tavolo come per farsi prendere le impronte così da potersi dimostrare innocente»; quasi imbarazzanti e non si sa quanto consapevoli, come nel caso della gita a Parigi.

Dante pensa infatti di consolare Elizabeth per il figlio nato morto portandola nella capitale francese. L’accompagna in cima all’Arco di trionfo, dove le mostra la città dall’alto, e si compiace di sapere che Haussmann prevede di cambiarne l’assetto («Tanto di cappello, Monsieur Haussmann! Chapeau!»), circondato da turisti tedeschi che salgono e scendono – quasi una versione ottocentesca della Tour Eiffel di oggi. Decide poi di mandarla a farsi preparare un vestito su misura al «famoso Atelier Printemps» – forse un riferimento ai Grandi Magazzini Printemps, che aprono nel 1865, mentre Elizabeth muore nel febbraio 1862? – per poi portarla a sera all’Opéra vedere un nuovo balletto, Le Papillon. Il ruolo della farfalla, la protagonista, è coreografato apposta per Emma Livry, famosa ballerina del balletto romantico, che però, quando compare sul palco, non incontra il gusto di Dante: «Secondo me la fata arrabbiata è un bel po’ più giovane di lei», dice a Lizzie, «E a dirla tutta, ha anche delle gambe più belle», allo stesso modo della musica e della drammaturgia. In compenso, il pittore si prende il tempo di far notare a Lizzie che il compositore, che dirige l’orchestra, «è ebreo […] Non che abbia niente contro gli ebrei, in generale». Ma tutto rientra nella consueta sgradevolezza del personaggio di Dante, fino a quando non accade l’impensabile: al passaggio della Livry accanto alle lampade a gas sul palco, il suo costume prende fuoco e, nello spavento generale, lo spettacolo viene interrotto.

L’episodio è, in effetti, realmente accaduto, ed Emma Livry è morta proprio per via delle ustioni, ma non durante una messa in scena di Le Papillon, bensì durante le prove di La muette de Portici, a novembre del 1862, quando la Siddal era morta già da mesi.

L’unico obiettivo del viaggio a Parigi, e di questo impegnativo rimescolamento della realtà, sembra quello di sconvolgere la già fragile Lizzie, e farla sprofondare in una prostrazione che la porterà alla follia e alla morte per overdose di laudano – anche se, anche in questo caso, vi è un elemento quantomeno dissonante: non si tratterebbe infatti, secondo gli autori, di suicidio, ma Lizzie sarebbe istigata da Charles Augustus Howell, agente di Dante, per nessuna altra ragione se non una inusitata indole malvagia, con tratti evidentemente psicotici, che rendono l’apparizione di questo personaggio – misterioso e ambiguo, questo sì, anche nella realtà – a dir poco disturbante.

Non c’è dubbio, però, che la necessità di caricare in questo modo personaggi e vicende sia data dalla sensazione da parte degli autori che il vissuto reale dei protagonisti, per come è stato sviluppato in Lizzie, non sia sufficiente per portare la storia al suo finale – alla morte di Lizzie e alla depressione e reclusione in comportamenti sempre più eccentrici e solitari di Dante, raccontati nel dénouement del romanzo. E almeno su questo non si può che dar loro ragione.

È per via di tutto questo che un libro di quasi cinquecento pagine fallisce nell’intento di cogliere qualcosa di più dell’apparenza sulle vite e sul percorso artistico dei preraffaelliti, e sul legame complesso, conflittuale ma non per questo meno reale tra Dante Gabriel Rossetti ed Elizabeth Siddal. Resta invece, alla fine della lettura, come un sapore di fanfiction, e la sensazione che le vite di persone reali, che hanno sofferto, amato e lasciato dietro di sé tracce così importanti siano state profanate per scrivere poco più di un romanzo di intrattenimento solo in apparenza ben documentato.

(Eva Wanjek, Lizzie, Neri Pozza, 2017, pp. 489, € 18.00)

Kurt Vile, la carne e le ossa

Kurt Vile vive ancora a Philadelphia, in un casa di pietra a pochi passi dal Wissahickon Valley Park – area naturale  di circa 1.800 acri. È all’adolescenza a Philly che Kurt deve la passione per il bluegrass e il banjo, al pari di quella, maturata negli stessi anni, per il timbro e la chitarra alla Stephen Malkmus. Questo è quanto basta anticipare per una premessa a Bottle It In, lungo settimo lavoro solista dell’ex The War on Drugs.

A volo d’uccello sui tredici brani che compongono Bottle It In, c’è da riconoscere da subito che “Bassackwards” è sicuramente il momento più compiuto dell’album, nonché primo singolo estratto.  Formalmente cugina di “Thinking Of A Place”, traccia composta dall’ex socio Adam Granduciel in A Deeper Understanding, le si oppone nella sostanza: non è volontà di creazione o di comprensione profonda del reale, ma semplice (perché informale e subitanea) reazione al mondo e agli eventi. Dieci minuti di uno psichedelico folk-rock a descrizione di uno stato mentale totalmente in balia del suo momento ricettivo.
La sensazione del puro rapporto umano-natura si percepisce in tutto il lavoro di Vile. La vita viene riportata come un’esperienza diretta con la prossimità, segnata solamente dal susseguirsi climatico delle stagioni, e in cui la connessione globale (ma anche nazionale) non ha trasformato la trama locale. “Come Again”, dove il bluegrass primeggia sull’indie-rock, conferma  l’impressione:  «Autumn come and winter go / Then spring sprayed all over, all we know  / Then summer come in raging, brought my blood right to a boil / But even the heat too turned around and went / But it was a long one».
Una corporeità presente anche nei versi composti sulle ritmiche alt-blues di “Skinny Mini”, canzone strutturata come una panacea di sensazioni che restituiscono il primo e comune livello della manifestazione amorosa ( «She’s a skinny little, scrappy little, wild talking, all good, always means well, baby girl, dandelion, flower child / All substance, no jive talkin’, fast walkin’, girl babe / You might wanna, roll her up in a ball / And eat her in a sandwich»).

L’immediatezza percettiva va facilmente di pari passo con la forma del flusso di coscienza. Così come era stato Waking on a Pretty Daze nel 2013 e …b’lieve I’m going down nel 2015, anche Bottle It In si regge sul filo rosso del non-concettualismo a favore della spontaneità esperienziale. Le canzoni di Vile restano, deliberatamente o no, fuor di metafora: il parallelismo tra esterno e interno, tra stagioni e sentimenti, ha più a che fare con la meteoropatia che con la costruzione semantica di un’immagine. Ed è, al pari del suo opposto, una modalità poetica dalle enormi potenzialità. Incastrandosi inevitabilmente con un’ipersensibilità nei confronti del mondo reale, compare il sentimento e prende forma la poesia. La capacità lirica di Vile emerge ancora in parallelo al suo gusto compositivo  che, sebbene abbia poco a che vedere con l’allungo avanguardista, resta in grado di rifondare accuratamente la comfort zone del pattern alt-country rock alla Neil Young.

Il ricorso all’indie rock / alt-country  (“One Trick Ponies”, con le sue armonie corali alla The Byrds, ne rappresenta uno degli esempi più lampanti) appare dunque un irrinunciabile strumento performativo. Costantemente tentato dal blues, ma senza esserne mai realmente imbottigliato,  l’album  sottende la tipica immotivata serenità della vita in campagna, derivata unicamente dalla sinergia dei ritmi vitali. È così in “Rolling With the Flow”, dall’impianto testuale classicamente dixie  («So, I keep on rollin’ with the flow / I ain’t ever growin’ old / If I keep on rollin’ with the flow») e dall’architettura sonora tipicamente vileiana, ma anche  nella più rock “Check Baby”, organizzata dalla chitarra elettrica, dalla batteria e dalle distorsioni elettroniche.

Musicalmente parlando, è chiara l’eredità lasciata dal’indie-rock alla Sonic Youth, esplicitata ulteriormente dalla collaborazione di Kim Gordon al progetto. Ma ugualmente chiaro è il marchio di fabbrica che Kurt Vile ha saputo costruire e confermare nel corso di tutto il percorso solista da Smoke Ring For My Halo, passando per “it’s a big world out there (and I’m scared)”, fino a Bottle It In, un marchio distintivo che molto deve alla cultura grunge del rifiuto e a quella country della rappacificazione.

 

Copertina di "Miden" di Veronica Raimo

Un mondo dove la felicità è solo un abbaglio: fino alla rivoluzione individuale

Esiste un decalogo per essere felici? Un posto ideale dove vivere e sentirsi al sicuro? Così potrebbe essere a Miden, uno stato ideale, chiaramente ispirato alle realtà nordeuropee, dove la struttura umana è posta al centro e dove la comunità è coesa e protettiva. La realtà di Miden (Mondadori, 2018) è sintetizzata e dislocata come quella che si produce nei sogni e l’intero romanzo attraversa il filone distopico che l’autrice, Veronica Raimo, tesse con grande abilità narrativa procedendo attraverso un dialogo a due voci tra i due protagonisti – e a volte anche tra gli altri membri della comunità “perfetta” – la compagna, incinta, e il professore: l’alternanza tra i capitoli si snoda in un crescendo di flashback e situazioni presenti, partendo dalla mattina luminosa in cui succede tutto. E la bolla perfetta di Miden e del suo schema ideale si rompe.

Si infrange contro la trama del controllo puntiforme che questo Stato ideale mette in atto: aprendo una riflessione profonda sul benessere fisico e psichico da preservare con regole ben precise e uno spirito quasi corporativo, che tende a escludere il diverso, l’altro da sé.

Come ha raccontato l’autrice il romanzo ha avuto una gestazione di cinque anni ed è uscito in un momento storico particolare: quello successivo agli abusi e ricatti sessuali perpetrati dal produttore statunitense Harvey Weinstein, denunciati da numerose attrici. La denuncia “retroattiva” è il nodo di Miden: la ragazza che bussa alla porta della casa del professore e della sua compagna ha già subito le violenze, è passato del tempo, ma solo due anni dopo ha trovato la lucidità di rendersi conto che quello che ha vissuto non era una relazione, ma una forma di abuso.

«A Miden esisteva una Commissione apposita, atta a creare e a valutare la pertinenza di un determinato trauma, suddivisa in sottocommissioni a seconda dell’ambito clinico».

Così lei, la ragazza che denuncia, diviene la “subente” e il professore il “perpetratore” e inizia un processo vero e proprio in cui tutta la comunità e i suoi membri sono chiamati a esprimersi.

L’autrice si sofferma sui racconti dei protagonisti – entrambi forestieri, emigrati a Miden e provenienti da un mondo dominato dal “Crollo” – e sulla loro “ricostruzione” degli eventi, dall’inizio della loro storia d’amore, alla inadeguatezza in una comunità chiusa che si autopreserva ma che non garantisce assolutamente un equilibrio: «La mia vita prima di Miden. La mia vita al di là del mare. Una naufraga. Da dove venivo? C’era più bellezza in quella domanda che nel Sogno di Miden».

Il punto nevralgico dell’intero romanzo è proprio questo sguardo tagliente e analitico sul concetto di comunità, in un momento storico-politico in cui ha assunto significati contrastanti. In cui aggrapparsi all’auto-disciplina e al decoro sembrano le risposte “giuste” e chi non è capace di rispettarle, di integrarsi diviene spurio.

Il tutor, l’istruttrice di nuoto, l’insegnante di fotografia, il parrucchiere, la preside si alternano nelle dichiarazioni del loro questionario per valutare se il professore “perpetratore” presunto sia o meno all’altezza di continuare a vivere a Miden e insegnare. Tra i dubbi, i confini sottili e il desiderio di scappare dal clima di inquisizione i personaggi sono vivi: «Così come quando avevo letto la lettera della Commissione. Mi sentivo destinataria di un’altra domanda: “Amiamo davvero la persona che conosciamo?”».

Il finale, o meglio il verdetto, è la svolta: perché apre all’accettazione del conflitto e alla necessità di rimettersi in gioco, che soprattutto la compagna metterà in atto, nel segno di una nuova vita.

 

(Veronica Raimo, Miden, Mondadori , 2018, pp. 200, euro 18,50)