La borghesia esitante

Nel suo romanzo di debutto Un’altra cena. O di come finiscono le cose (effequ, 2018), Simone Lisi ha scelto di raccontare la storia di un indeciso: Doriano Scuri, 32 anni, con un lavoro part time alle poste e un secondo impiego come sottotitolatore di serie televisive, è un uomo esitante e confuso, deluso dalla vita e incapace di cambiarne la forma. Ma, come ci ha insegnato Kant, forma e sostanza coincidono, tanto da permettere all’autore di scorgere nella fisionomia dei luoghi e delle circostanze la fragilità degli uomini. Una cena tra due coppie di trentenni (Livia e Doriano, i padroni di casa; Maddalena e Andreas, gli ospiti) è solo un alibi, una scappatoia rapida per svelare il vuoto di una generazione, ormai vittima e carnefice di sé stessa.

La nuova borghesia ha i tratti esitanti del precariato, dei lavori fittizi e malpagati, incapaci di restituire un’identità certa ai suoi figli. L’universo privato della coppia è soffocato dalle mura di una casa che a volte è un rifugio sicuro, altre volte una prigione da cui si possono spiare le vite altrui, o sognare altri scenari.

Le azioni quotidiane diventano involontarie ripetizioni di un vuoto interiore, talmente esteso e tenace da non essere neppure più colpevolizzato. Come ci ha mostrato il regista Claude Sautet, l’indecisione non ha sempre la forma del caso, ma talvolta assume i tratti di una volontà ostinata: «c’è un’intera parte di te a cui piacerebbe cambiare», dice Livia al protagonista in un raro attimo di consapevolezza, ma l’immobilità dei personaggi è avvelenata da un’etica inconsistente, che vede nella libertà effimera e astratta il fondamento stesso dell’esistenza.

Una cena tra amici in cui il cibo è pressoché assente, quasi mai nominato, se non per sottolinearne pigramente i difetti o la meccanica preparazione: nel piccolo appartamento non c’è traccia del desiderio, della convivialità, del gusto. Anche le donne sono presenze mancate: non sono compagne, amiche o amanti, ma ancore a cui aggrapparsi per fuggire dalle scelte, figure intangibili, che vagano seminude nelle stanze, per diventare all’occorrenza corpi ossessivamente curati («Liscio i capelli come vuole il Capitale. Più sono lisci e più lui è contento») o proiezioni di una sessualità maschile aspra, che sovrappone la femminilità alla retorica della figura materna. Altre volte assumono la forma di conniventi discrete, in grado di placare le inquietudini dei loro uomini con rassicurazioni bisbigliate in camera da letto,  prima di dormire.

Non esiste neppure il piacere della parola: i dialoghi sono solo la traduzione di pensieri, emozioni e ricordi, come in un flusso incontrollato (che a volte sconfina nel non senso), ansioso di rendere visibile l’inconscio. Ma a spaventare non è ciò che alberga nella parte più oscura dell’anima, bensì l’assenza di profondità: gli intenti rivoluzionari raccontati e mai concretizzati, i fallimenti evidenti, le false scelte mascherate da infinite possibilità.

L’insostenibile leggerezza della borghesia ha perso la geometrica consapevolezza che tanto fascino esercitava su di noi fin dai tempi di Buñuel, per lasciare spazio a un caos emotivo e identitario.  La coppia, da sempre microcosmo privilegiato di passioni e crudeltà, come ci ha descritto Paula Fox, è diventata solo l’ombra di affettività esitanti e disemozioni.

L’impermanenza delle cose, richiamata già dal titolo, è solo evocata, come una presenza di cui, però, non riusciamo a scorgere i segni ostensivi: la fine è vicina, eppure non se ne avverte la tragedia, troppo immersi nelle parole egotiche che, in questo libro, sovrastano qualunque azione. Non basta parlarne: il dolore necessita sempre di un atto preciso, in grado di interrompere l’incessante mormorio del nulla.

 

 

(Simone Lisi, Un’altra cena, effequ, 2018, pp. 172, € 12.00)

#Alvolo: i risultati del micro-contest per effe #9

Ci siamo, anche effe #9 ha i suoi autori (a cui a breve si aggiungeranno gli illustratori).

A cominciare da Emidio Clementi e Andrea Tarabbia.

Il primo, classe 1967, oltre che scrittore – l’ultimo libro, L’amante imperfetto, è stato pubblicato da Fandango/Playground nel 2017 – è fondatore, cantante e bassista dei Massimo Volume.

Il secondo, classe 1978, è autore di romanzi come Il demone a Beslan (Mondadori, 2011) e Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie, 2015) e di saggi come il meraviglioso Il peso del legno (NN Editore, 2018) di recente uscita.

A loro si uniscono gli autori provenienti dal micro-contest #Alvolo lanciato lo scorso giugno. In dieci giorni abbiamo ricevuto 417 racconti da 347 autori.

Sono stati 34 i racconti selezionati dal nostro comitato di lettura*; da quelli abbiamo poi estrapolato i 6 nomi che seguono:

* Sara Gambolati
* Angela Giammatteo
* Luca Giommoni
* Andrea Herman
* Raffaele Notaro
* Andreea Simionel

 

L’uscita del volume è prevista per la fine dell’anno. Alcuni dei racconti più validi non inclusi in effe #9 saranno pubblicati nei prossimi mesi sul nostro sito, in alternanza con quelli del contest dedicato alla disobbedienza.

 

Come sempre ringraziamo tutti gli autori che hanno partecipato al contest e allo Speed date letterario dell’8 luglio scorso.

 

Per rimanere aggiornati su effe – Periodico di Altre Narratività potete seguirci sulla pagina facebook di Flanerí o scriverci all’indirizzo e-mail: redazione@flaneri.com.

Sul sito www.42linee.it trovate i volumi precedenti e l’elenco delle librerie in cui è possibile acquistarli.

 

* Il comitato di lettura di Flanerí è composto da: Alessio Belli, Alessandro Chiappanuvoli, Valentina Di Biase, Giada Ferraglioni, Luigi Ippoliti e Gabriele Sabatini.

La fantasia permette di sfuggire alla tirannide

Il prossimo 8 settembre lo scrittore e traduttore editoriale György Dragomán dialogherà con il giornalista e scrittore Wlodek Goldkorn al Festivaletteratura di Mantova, e il giorno successivo sarà con Federico Taddia per parlare del classico di Jaroslav Haŝek, Le avventure del bravo soldato Ŝvejk nella grande guerra (Mondadori, 2016), nell’ambito della serie di incontri intitolati “Il libro più divertente che ho letto”. Dragomán è noto in Italia grazie a due suoi romanzi pubblicati da Einaudi, Il re bianco (traduzione di Bruno Ventavoli) e Fiamme (traduzione di Andrea Rényi), entrambi tradotti anche in numerose altre lingue. Fiamme concorreva anche nella Long list del premio von Rezzori di quest’anno. Nel 2016, dal Re bianco è stato tratto un film in coproduzione inglese, svedese, tedesca e ungherese, che però non è riuscito a restituire sullo schermo la magia del romanzo.

György Dragomán è nato nel 1973 in Romania, in una Transilvania multietnica. Nel 1988 si trasferisce con la famiglia in Ungheria, dove si laurea in lingua e letteratura inglese, e ancora giovanissimo sposa la poetessa Anna T. Szabó. La coppia si stabilisce a Budapest e ha due figli. Nel 2002 esordisce con il romanzo Il libro della distruzione, per il quale gli viene assegnato il premio Sándor Bródy; i sucessivi due romanzi, noti anche nella traduzione italiana, gli valgono il premio Tibor Déry e il premio Sándor Márai. Nel frattempo Dragomán si distingue anche come eccellente traduttore di Samuel Beckett, James Joyce e Irvine Welsh.

Autore e traduttore molto apprezzato, in Ungheria Dragomán è anche un punto di riferimento: per migliaia di persone la giornata inizia con la lettura di un suo post su Facebook, dove offre piccoli scritti inediti, ricette pratiche e ben collaudate, pubblica interviste e articoli usciti sui media in cui espone le proprie ragioni (sempre con rispettoso garbo) anche con brevi estratti con i quali cerca di avvicinare i lettori ai suoi romanzi.

In vista degli appuntamenti di Festivaletteratura, Dragomán sta studiando l’italiano (che un poco conosce già), perciò ho deciso di intervistarlo in italiano. Ha risposto in ungherese, ma soltanto per timore di qualche fraintendimento.

Inizierei con una domanda che spero non troverà indiscreta: il suo cognome in italiano significa dragomanno, che come dice la Treccani è la «denominazione europea degli interpreti fra gli europei e i popoli (di lingua araba, turca e persiana) del Vicino Oriente, che svolgevano la loro funzione nelle ambasciate e nei consolati, al seguito delle missioni politiche e commerciali, nei porti e nelle dogane, nelle corti europee e presso i sovrani orientali». Per caso, aveva un dragomanno fra i suoi avi?

La parola dragomanno è presente in molte lingue e si trova anche in qualche classico ungherese come termine indicativo di un mestiere. La mia famiglia ha origini armene, insieme ad altre cento si è stabilita nel 1680 in Transilvania, dove pian piano si è trasformata in famiglia ungherese. Dicono che il nonno di mio nonno parlasse ancora l’armeno, ma mio nonno si considerava già pienamente di madrelingua ungherese. Probabilmente c’erano dei veri e propri dragomanni fra i miei avi, infatti nella mia famiglia tutti sono attratti dalle lingue straniere per tradizione. Uno dei miei primi ricordi è l’immagine di mio padre studia il francese. Anch’io attribuisco molta importanza alla traduzione e all’interpretariato, i primi soldi li ho guadagnati a quindici anni come interprete alla frontiera fra l’Austria e l’Ungheria, dove sfruttavo la mia conoscenza del romeno per fare da interprete alle guardie di confine. In seguito ho fatto il traduttore editoriale, traduco dall’inglese all’ungherese, e sono particolarmente orgoglioso di essere riuscito a tradurre Watt di Samuel Beckett, un romanzo giovanile famoso per le difficoltà di traduzione.

Abbiamo in comune l’infanzia e parte della gioventù trascorse in una dittatura, io in Ungheria e lei in Romania, e forse anche la sensazione che chi ha vissuto sempre in uno stato libero non riesce a immedesimarsi veramente nello stato d’animo e nelle limitazioni che quell’ordine delle cose comportano. Conserva il ricordo del momento, di un episodio in particolare, di quando ha preso coscienza di non vivere in uno stato libero?

La Romania della mia infanzia era una dittatura piuttosto selvaggia. Ricordo chiaramente il momento in cui presi coscienza del posto in cui vivevamo: avevo quattro anni, mio padre mi portava alla scuola materna spiegandomi che non avrei dovuto raccontare nulla di quello che si diceva a casa, e che non avrei dovuto credere a nulla di quello che mi avrebbero insegnato a scuola. Disse che se non avessi tenuto la bocca chiusa, loro sarebbero finiti in prigione e io in un riformatorio. Disse tutto questo con una tale naturalezza come se avesse voluto insegnarmi a non sputare o a non entrare nelle pozzanghere. Da quel momento in poi mi era chiaro che il regime fortemente militarizzato in cui vivevo (già alla scuola materna ci proclamavano “falchi della patria” e dovevamo indossare l’uniforme) mentiva e voleva distruggerci.

Che cosa significa far parte di una minoranza linguistica? Al suo arrivo in Ungheria – se non sbaglio era un ragazzo di quindici anni – ha trovato delle differenze fra l’ungherese della sua nativa Transilvania e l’ungherese dell’Ungheria? 

In quella fase storica la dittatura assumeva tinte fortemente nazionaliste, avanzò di nuovo il concetto dello stato nazionale omogeneamente rumeno che rendeva un atto politico l’appartenere alla minoranza linguistica, parlarne la lingua, pensare o anche sognare in quella lingua. Essendo la lingua un elemento fortemente identitario, vennero gradualmente ristrette le possibilità d’uso della lingua madre della minoranza. Non fu un processo rapido, perché in quell’area geografica la tradizione del multilinguismo, la disponibilità di comprenderci reciprocamente e parlare più lingue erano ancora forti. Il potere fece di tutto per invertire questa tendenza. Da questo punto di vista posso dire di essere cresciuto sul fronte: a Marosvásárhely (nome ungherese di Târgu Mureş) abitavamo in un quartiere misto, e nel marzo del 1990 in tutto l’ex-blocco dei Paesi dell’Est in questa città ci furono i primi scontri sanguinosi tra le etnie.

Per rispondere alla seconda parte della domanda, l’ungherese che parlavo non presentava differenze importanti rispetto alla lingua parlata in Ungheria. Era interessante osservare invece l’ungherese parlato subito dopo il confine con l’Austria, le sottili influenze dell’austriaco, le non molte e non sostanziali difformità nel lessico.

Finora Einaudi ha pubblicato due suoi romanzi, Il re bianco e Fiamme. In una vecchia intervista a “VS”, la bella rivista ungherese, ha raccontato dell’immagine che ha dato il via alla composizione di Fiamme: il giardino di sua nonna in cui da bambino ha trascorso molto tempo. Qual è stata l’immagine di partenza per Il re bianco?

L’avvio di Il re bianco è dovuto non a un’immagine ma a una frase: «a noi portieri consigliavano di non tuffarci dietro la palla, di evitare di toccarla, perché la palla raccoglie tutta la radioattività dell’erba». Lessi questa frase terribile e brutalmente assurda in un’intervista al portiere della Steaua Bucarest, che raccontava come si erano preparati dopo Černobyl´alla finale dei Coppa dei Campioni. L’assurdità di questa frase mi scosse a tal punto che mi sembrò di udire la voce di un bambino, e appena mi misi a scrivere sentii la voce del protagonista che mi avrebbe permesso di raccontare in questo libro tutte le paure della mia infanzia.

Come tutti, suppongo che anche lei avrà un certo numero di libri che hanno determinato, o almeno influenzato, il suo percorso intellettuale, e forse anche la sua carriera di scrittore. Non oso domandarle i titoli, so che è una domanda con qualche pericolo insito, ma mi piacerebbe sapere se crede di aver subito qualche influenza, o se invece il suo mondo, la sua tecnica, si sono formati in un modo almeno apparentemente indipendente.

Gli autori più importanti per me sono stati Orwell, Kafka, Haŝek, Beckett, Hrabal, Faulkner, Singer e Géza Ottlik, senza di loro non sarei quello che sono, ma credo che la loro influenza non sia percettibile direttamente. Ho più voci, e i romanzi tradotti in italiano possono trarre in inganno in quanto entrambi sono monologhi di bambini, anche se i protagonisti parlano in modi completamente diversi. Scrivo cose molto diverse fra loro, la voce del mio primo libro, Il libro della distruzione, è totalmente differente, e anche le mie novelle vanno in direzioni diverse. Tuttavia credo che in tutto quello che ho scritto ci sia un’atmosfera tipicamente e solamente mia, che però non saprei definire. E forse sarebbe meglio non provarci nemmeno.

Lei è felicemente sposato a una poetessa di grande talento, Anna T. Szabó, anche lei proveniente dalla Transilvania magiarofona, e siete genitori di due ragazzi, uno dei quali è affermato traduttore editoriale fin da giovane età. Suppongo che in famiglia ci sarà un forte sodalizio letterario, può parlarcene?

Viviamo dalla mattina alla sera fra libri e testi. Le giornate iniziano spesso con Anna che legge ad alta voce quello che ho scritto all’alba, oppure legge ad alta voce una poesia. (Lei spesso si sveglia con qualche verso in mente che annota rapidamente, se sono suoi, o cerca di capire di chi siano se sono citazioni o loro storpiature). Una volta i bambini scesero quatti quatti perché ci avevano sentito parlare ad alta voce nel soggiorno dopo mezzanotte. Scoppiarono a ridere quando trovarono Anna che stava leggendo poesie di Sándor Weöres. Lavoriamo entrambi a casa, scriviamo e traduciamo a casa e condividiamo il lavoro, perché stiamo insieme da quando eravamo adolescenti, e in realtà siamo diventati uno il revisore dell’altra. I ragazzi sono cresciuti in quest’officina ed era naturale che cominciassero a tradurre, a parlare le lingue e a leggere. Per noi la letteratura è una sorta di casa dove poter vivere in libertà, felicemente, e in ricchezza.

Ringrazio György Dragomán per la disponibilità e per le risposte sincere e aggiungo una notizia curiosa, un dettaglio non piccolo e non insignificante, qualcosa che lui ha sottolineato in più interviste ungheresi e che ho avuto il modo di verificare: i due romanzi tradotti in italiano funzionano anche come novelle, brevi racconti. Possiamo aprirli in un punto qualsiasi e vi troviamo una storia che oltre a comporre la trama può avere anche vita autonoma.

libri che la redazione consiglia

Libri per l’estate 2018

I consigli di lettura funzionano solo se sono veri consigli, quelli che uno darebbe a un amico davanti a una birra, quelli che vengono in mente all’improvviso come letture del passato da recuperare, quelli che durante l’anno fanno parte delle liste di libri da acquistare in un futuro prossimo che si chiama luglio o agosto.
Di seguito ne trovate di vario genere, direttamente dalla nostra “amichevole” redazione.

 

Alessio Belli
Per il periodo estivo, fatto di viaggi e scoperte verso posti nuovi, in maniera più o meno inconscia alla fine scelgo sempre libri che parlano di casa, di Roma. Il primo è una novità, il secondo un recupero doveroso. Arsenale di Roma distrutta di Aurelio Picca (Einaudi Stile Libero) evoca con una prosa potente e suggestiva la bellezza di una Roma del passato da usare come arma per difendere la città dalle problematiche del presente: tra De Pedis, il Califfo, Emanuela Orlandi e Pasolini, uno scorrere clamoroso tra luoghi e protagonisti della Capitale.
La scuola cattolica di Edoardo Albinati (Rizzoli) ha vinto il Premio Strega e partendo dal quartiere Trieste arriva ai drammatici fatti del delitto del Circeo. 1300 pagine che molto probabilmente dureranno più del periodo estivo.

 

Claudia Cautillo
Quest’agosto, tra i libri che per primi metterò in valigia, ci saranno: Sogno di una notte di mezz’estate di Shakespeare e il romanzo immaginifico – in cui saggio e narrazione si fondono in un brillante omaggio alla grande letteratura – che Filippo Tuena ne ha tratto, tessendo dal testo originale un’armonia fiabesca e a tratti perturbante di riprese, alternanze e mutazioni: Com’è trascorsa la notte (il Saggiatore). Il primo, tra le commedie del passato che più hanno inciso sull’immaginario contemporaneo – basti solo pensare al serbatoio di ispirazioni di cui si è giovato perfino l’universo dei fumetti, da Dylan Dog a Corto Maltese – serve da traccia al secondo, che ne trasfigura la notte incantata, popolata di fate e folletti, nell’emblema di una superiore condizione universale in cui bellezza, amore e morte tornano a farci sentire “finalmente, non una parte ma un tutto”.
Per contiguità, bellezza, amore e morte mi fanno venir voglia di tornare a leggere l’ipnotico Lolita di Nabokov, forse l’ultima, folgorante apparizione del mito nel mondo moderno, dove ninfe e satiri rimettono in gioco le nostre categorie morali e di giudizio. Non ultimo, porterò con me Il principe di Giulio Leoni (Nord), romanzo seducente in cui finzione narrativa e attenta ricostruzione storica ci spingono a interrogarci, senza alcuna affettazione, su due apparentemente opposte concezioni della bellezza: quella di Cesare Borgia, nella forma di un grandioso progetto politico di unificazione dell’Italia, e quella di Leonardo da Vinci, nell’incessante ricerca della perfezione artistica. Due facce di una stessa medaglia, paradigma di una fenomenologia delle passioni quanto mai attuale. Buona estate e buone letture.

 

Alessandro Chiappanuvoli
Da qualche mese sto cercando di essere sincero, con me stesso non con gli altri. Ho cavato dalla libreria i libri che ho comprato e mai letto, quelli iniziati e mai finiti, quelli che ho abbandonato per mancanza d’interesse. Eccezion fatta per questi ultimi, è da quella pila che continuerò ad attingere. In ordine di priorità ci sono: Luce d’agosto di William Faulkner (comprato circa cinque anni fa), Dalia Nera di James Ellroy (regalo di una cara amica e mai aperto), Exit strategy di Walter Siti (preso in prima edizione e lì rimasto), Parigi è un desiderio di Andrea Inglese (che vergogna se penso al mio amico Andrea…) e Città distrutte. Sei biografie infedeli di Davide Orecchio (edizione Gaffi di cui non lessi le ultime due biografie). Così dovrebbe andare la mia estate. Spero. Perché giusto ieri ho fatto un ordine online di altri dieci libri. Sincerità, dicevo. Ne ho bisogno.

 

Davide Coltri
Il mio proposito per l’estate è uno solo: sopravvivere al traffico di Beirut. Meglio: al traffico e al caldo. D’altro canto, sono due buoni incentivi a uscire di casa il meno possibile e dedicare le sere alla lettura. Nelle prossime settimane ho in programma cinque percorsi: una graphic novel, una guida, un libro di interviste, la rilettura di un romanzo scoperto durante l’adolescenza e una raccolta di racconti che sto centellinando da più di un anno.
La mia cosa preferita sono i mostri: vol. I, di Emil Ferris, traduzione di Michele Foschini (Bao Publishing).
Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto di Leonardo G. Luccone (Laterza).
Perdersi è meraviglioso. Interviste sul cinema, di David Lynch, a cura di Richard A. Barney, traduzione di Francesco Graziosi (minimum fax).
Pian della Tortilla di John Steinbeck, traduzione di Elio Vittorini.
The complete short stories of Hernest Hemingway: The Finca Vigía Edition.

 

Dario De Cristofaro
Non provo simpatia per i preamboli né per agosto quindi sarò diretto: Cina e altri Orienti di Giorgio Manganelli (Adelphi), che mi consigliò Carla Vasio qualche anno fa. L’incipit è magnetico: «L’uomo è un animale viaggiante; mi pare che codesta peculiarità sia più bizzarramente significativa, più specifica di molte altre, raramente nobili, qualità che l’animale uomo è in grado di sfoggiare».
Uomini e cani di Omar Di Monopoli (Adelphi) – l’esergo tratto da Arcipelago Gulag di Solženicyn fa ben sperare: «Quando si vive in un cimitero non si può piangere su tutti» –, perché è uno degli italiani su cui sta puntando Adelphi e non avendolo letto prima pubblicato da Isbn edizioni, mi rimetto in pari.
Le mille luci di New York di Jay McInerney (Bompiani) invece per la tecnica della narrazione in seconda persona, che trovo molto interessante.
Porto con me anche Città distrutte di Davide Orecchio nella nuova edizione pubblicata da il Saggiatore e Change di Watzlawick, Weakland e Fish (Casa Editrice Astrolabio).

 

Veronica Giuffré
«Ogni estate, i preparativi più laboriosi prima della partenza per il mare, erano quelli della pesante valigia dei libri»: come per Amedeo – in L’avventura di un lettore di Italo Calvino – che pregusta una vacanza da trascorrere appollaiato sopra uno scoglio a leggere, così per ogni lettore torna puntuale al congedo dalla città il dilemma dei libri da portare in viaggio.
È vero che la tecnologia ha semplificato il problema degli ingombri, eppure occorre sempre ponderare le scelte perché il tempo dell’ozio libresco non ci sfugga via prima ancora di essere arrivato. Cercando un compromesso tra il bisogno di riposare e il desiderio di stimoli, ecco qualche titolo che non può mancare nella valigia delle vacanze:
Un libro per staccare la spina: Il mastino di Baskerville di Arthur Conan Doyle, il classico intramontabile del mistero da risolvere. Imprescindibile in doppietta con l’alter ego moderno di Sherlock, se – come me – siete abbastanza in ritardo sulle cose da averla appena scoperta.
Un libro per andare lontano: Sabbie bianche di Geoff Dyer, un’esplorazione degli spazi del mondo nella dimensione incantatrice della parola, in una forma che sfugge a qualsiasi definizione.
Un libro sul potere dei libri: L’educazione di Tara Westover, una storia incredibile nella sua autenticità, sui legami familiari e le possibilità di riscatto attraverso il dono salvifico della conoscenza.
Un antidoto al luogo comune: Questione di virgole di Leonardo G. Luccone, un manifesto in difesa della punteggiatura e uno strumento per imparare ad affinare lo stile, senza tralasciare il piacere della letteratura.
Un libro per le grandi ambizioni: Gödel, Escher, Bach. Un’eterna ghirlanda brillante di Douglas R. Hofstadter, un’immersione tra arte, scienza e linguaggio musicale. Perché non c’è niente di meglio che tenere sveglia la mente quando si è sopito il brusio fastidioso delle sciocchezze di tutti i giorni.

 

Ulderico Iorillo
Di sicuro, Tiro al piccione di Giose Rimanelli, in una vecchia edizione Einaudi. Perché: ha una storia editoriale controversa che chiama in causa grandi nomi della letteratura italiana del dopoguerra; è scritto da un mio corregionale emigrato morto di recente; descrive la seconda guerra mondiale da un punto di vista poco trattato in letteratura. Poi c’è un libro Edizioni Italo Svevo, Praz, su Mario Praz scritto da Raffaele Manica. Conosco la figura di Praz marginalmente, più per i suoi interessi che per la sua produzione saggistica, e vorrei saperne qualcosa in più. Mi piacerebbe mettere le mani su Il cielo è rosso di Giuseppe Berto – non è facile da reperire – perché ne ha parlato un mio amico in un suo libro in cui indaga alcuni casi editoriali del Novecento. Lo stesso amico mi ha consigliato Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt e spero di riuscire a leggere anche questo, ma in fondo un mese passa in fretta e «…ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere» e, soprattutto, divani da dormire e caciocavalli da mangiare.

 

Luigi Ippoliti
In quel che resta di quest’estate non esagererò: il progetto di cosa e quanto leggere sarà bilanciato e fattibile. Dopo Le nostre ore contate di Marco Amerighi (Mondadori), mi sposterò per un paio di tappe in Cina: prima sarà il turno di Città di confine di Shen Congwen (Stampa Alternativa), poi inizierò la serie dell’ispettore Chen Cao scritta da Qiu Xiaolong, La misteriosa morte della compagna Guan (Marsilio). Infine tornerò in Italia, andando ad attingere dalla scapigliatura milanese: con Vita di Alberto Pisani (Garzanti) dovrei concretizzare le mie ambizioni.

 

Martina Mantovan
La parentesi estiva si apre con un testo dal titolo rivelatore e perfettamente calzante: Il tempo concesso di Rodrigo Rey Rosa (Mondadori). Parto dal Guatemala con questo testo composto da due racconti lunghi di rara luminosità. Nel primo racconto, Carcere di alberi, l’autore ricrea tra le fronde tropicali un esperimento parascientifico di coercizione e violenza, una parabola sull’obbedienza e la natura del linguaggio che lascia cicatrici profonde. Nel secondo racconto, Il salvatore di navi, militarismo e follia sono il terreno su sui costruire un sistema di efficienza e impeccabile funzionalità. Accettando il classico adagio di non cambiare spiaggia o mare, resto fedele al mio continente d’elezione e proseguo verso sud facendo tappa in Cile e in Uruguay: sulle tracce di detective e manoscritti a me assai cari, mi immergo in Lascia fare a me di Mario Levrero (laNuovafrontiera), il quale, con la prosa ipnotica di sempre ci mette sulle tracce di un autore dall’identità misteriosa. Niente di meglio da chiedere per bolañani assetati. Per concludere, un salto doveroso in Cile dove mi aspetta Francisco Ovando con Tutta la luce del campo aperto (Edicola ediciones): un correttore di bozze è il personaggio attorno a cui l’autore costruisce un caleidoscopico romanzo fatto di frammenti colorati e cangianti come gli indizi che semina lungo la narrazione, tra riti divinatori ornitologici e pittori avanguardisti e bistrattati.

 

Antonio Merola
Una volta, si diceva, l’estate era il tempo per i cruciverba. Ora, anche se mi ha chiesto di rimanere anonimo per ragioni del tutto evidenti, il vecchietto della piazza di Passoscuro ci tiene a dirmi che niente è cambiato: lui però usa Google, così le risposte diventano solo il pretesto per prendere dimestichezza con ciò che cambia. Visto che mi chiede che cosa stia facendo, gli spiego che devo suggerire un libro per la bella stagione: Il sarto di San Valentino di Iuri Lombardi (Ensemble – questo non gliel’ho mica detto). Che ha di speciale? Glielo racconto, ci provo almeno. Pensa, gli faccio, che c’è anche una sezione in cui le poesie sono dei cruciverba. Mica scherzo, leggi: «DIO ALLA FINE – IO […] INIZIO DELLA FINE – FI», e via dicendo. Non c’è solo questo, sia chiaro: Iuri Lombardi viene da Firenze, lì ora fa un caldo bestiale. Però nella raccolta, Firenze è una città avvolta dalla nebbia… diventa la Lucania, poi torna a essere una città. Hai presente le leggende che raccontano i pescatori di Passoscuro? Esatto, Lombardi ha una nostalgia simile. Si è messo sulle sue tracce, poi si è preso e si è gettato in un cestino – o nel mare, fa lo stesso. Ma ci sta su Google?, mi fa lui. Dovrebbe esserci, certo. Chissà a che gli serve saperlo. Glielo chiedo, senza remora: perché lo hai cercato su Google? Giovane, hai visto una stronza di libreria da queste parti per caso? Me lo faccio spedire, aggiunge: per una volta, preferisco cominciare dalle risposte.

 

Federico Musardo
Cerco sempre contemporaneamente di leggere almeno un libro di narrativa e uno di saggistica. Questa estate ho incominciato La protesta silenziosa. Evoluzione e significati dell’astensionismo elettorale di Ferrarotti, una raccolta di saggi per capire cos’è che ci porta alla solitudine sociale che mi ha incuriosito anche per il vago ricordo del Discorso sulla lucidità di Saramago, perché ora, come d’altronde sempre, per non dimenticare l’umanità che ci contraddistingue, bisognerebbe pensare criticamente, coltivare la propria agentività e abitare il mondo senza tacere verso le cose con cui non siamo d’accordo. Leggerò ancora Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale di Foscolo , una conversazione radiofonica di Carlo Emilio Gadda, uno dei miei scrittori preferiti, soprattutto perché seppe interpretare l’autore dei Sepolcri attraverso il filtro della sua critica salace, cercando di secolarizzare quella che nella nostra storia letteraria fu una vera e propria religione foscoliana, dove la virilità dell’eroe romantico e intrepido viene degradata a frivola e pettegola chiacchiera da salotto. Leggerò poi Handke, credo I calabroni, oppure i Racconti di Dürrenmatt, perché sono entrambi maestri della prosa breve (per giunta di lingua tedesca). Le loro sono quasi sempre storie che vale la pena di conoscere. Leggerò infine, ormai alla vigilia del periodo autunnale, credo, Gli animali che amiamo di Antoine Volodine (66thand2nd) , perché di suo mesi fa ho quasi finito Terminus radioso e ancora non ho capito se mi piace. Pennac, in un suo pensiero abusato tratto da Come un romanzo, ci spiega che ogni lettore ha il diritto di interrompere la lettura di un libro, forse anche di un autore, se finisce la pazienza e non entra nel cuore della storia che gli viene raccontata. Perciò voglio accertarmi delle mie perplessità prima di salutare Volodine, prematuramente, ancora una volta.

 

Matteo Pascoletti
Ero finora riuscito a evitare la faccenda dei libri da consigliare, anche con delle tecniche abbastanza elaborate che solo uno sguardo superficiale ed estraneo alla bolla editoriale potrebbe catalogare alla voce “misantropia”. Poi però qualcuno di Flanerí mi ha inviato a giro mail alcune foto abbastanza imbarazzanti che mi ritraggono in diverse violazioni del codice penale; la consapevolezza che a nulla sarebbe servito contestare il palese e grossolano ricorso a Photoshop mi ha portato a guardare tra i libri letti di recente, scegliendone alcuni che, alla fine, valgono tutto il tempo che dedicherete loro.
Sangue giusto di Francesca Melandri (Rizzoli). Le vicende di una famiglia diventano allegoria del rapporto tra un popolo – il nostro – e un passato che preferiamo reprimere collettivamente e rimuovere privatamente – le leggi raziali, l’Italia coloniale, i suoi orrori e crimini. Melandri, come in Eva dorme e Più alto del mare non solo sa scegliere temi importanti, ma li affronta con un accurato lavoro di ricerca a monte; mentre sulla pagina li tratteggia con uno stile in cui, per esempio, negli aggettivi, in come rivelano aspetti e sfumature quasi nascoste dei sostantivi, o nell’espansione cognitiva offerta dalle similitudini, si coglie il passo della grande scrittrice, la capacità di sintetizzare squarci su quella complessità che le retoriche quotidiane livellano o cercano di azzerare. Il tutto cementato da un’empatia che si rivela una forma di elevata, preziosa intelligenza.
L’inferno è vuoto di Giuliano Pesce (Marcos y Marcos). Siccome ogni tanto, dall’università ai dibattiti estivi (quando non c’è il nuovo capolavoro italiano o l’ennesimo romanzo dell’anno da incensare), esce fuori un qualche dibattito sul “genere”, e sul valore della “letteratura di genere”, la cosa più sensata a riguardo (a parte ignorare tali dibattiti) è consigliare un libro di genere a mo’ di esempio.  Il romanzo di Pesce inizia col il suicidio del Papa, per cui il lettore si trova di fronte a due possibilità: o l’autore punta alto perché è consapevole dei propri mezzi, o cerca la partenza a effetto perché deve mostrare a tutti i costi quanto è bravo, alzando fin troppo fumo da un arrosto che sarebbe stato meglio non addentare. Pesce si rivela della prima caratura: padroneggia i generi senza scadere nel metanarrativo o nel citazionismo, tratteggiando una storia pulp e un’umanità grottesca, irredimibile. Costruisce un congegno narrativo preciso, modellato con brevità e concisione, e non sbava di una virgola. E scusate se è poco.
Quando siete felici, fateci caso di Kurt Vonnegut (minumum fax). Il libro raccoglie i commencement speeches – i discorsi ai laureandi alla fine dell’anno accademico – di Kurt Vonnegut, e niente: mentre lo leggevo non potevo fare a meno di immaginare la faccia del pedante professore che aveva invitato lo scrittore famoso, e già verso metà discorso si era pentito, o il benestante genitore repubblicano intento a strabuzzare nevroticamente. gli Alla fine del libro, invece, ho avuto quell’epifania salingeriana per cui vorresti che l’autore fosse tuo amico e chiamarlo al telefono e berci qualche volta un whisky insieme (ok, l’ultima non c’era nell’originale). Vonnegut nei suoi discorsi condensa verità semplici ma potenti, animato da una saggezza folle e un umorismo folgorante, e non c’è dubbio che per quegli studenti abbia rappresentato ogni volta il momento più alto del periodo universitario.

 

Gabriele Sabatini
Cerco sempre di trovare nell’estate un momento di riconciliazione, con la vita, con il lavoro, con sé stessi e, en passant, con Dio. E allora, quando qualche settimana fa mi hanno suggerito A Dio per la parete nord di Hervé Clerc (Adelphi), non ho avuto molti dubbi di metterlo in valigia. Promette di essere un libro in cui il lato meno accogliente di un eventuale Signore viene scalato attingendo da diverse tradizioni religiose. Insomma, me l’ha suggerito una persona di cui mi fido; è pubblicato da un editore che seguo; Emmanuel Carrère lo rilegge spesso: proviamoci. Sono certo che preparerò la mia vacanza istriana e quarnerina leggendo La miglior vita di Fulvio Tomizza, in cui si parla di un’Italia di frontiera e della rimodulazione di confini geografici e culturali. Ma poi, chissà, magari entrambe queste letture vanno male e mi sconforto. Allora tengo a portata di mano un Simenon: lo considero, un bene rifugio, o se vogliamo un Polase letterario. Quest’anno tocca a La casa dei Krull, in cui una minoranza diventa capro espiatorio…

 

Cristiana Saporito
Non importa molto. Per cosa stiate partendo o in cosa stiate restando. Se le secchiate di sole vi inabissano dove avete sperato o dove non potete fare a meno di essere. Esistono sempre, e voi lo sapete, viaggi che sopravvivono ai nostri vorrei. Pulsazioni di storie possibili, distanze indifferenti alle miglia. E titoli pronti a salvarci, scivolando nelle crepe. O riparando qualche ustione. Questa scorta di trame è il corredo che proponiamo per ogni tipo di vacanza. Anche quella a km 0.
Storie di alberi e bonsai di Alejandro Zambra (Sellerio). Due romanzi stretti in un pugno. Essenziali e vastissimi. Nel primo, un uomo aspetta il ritorno della sua compagna. La notte si allunga, la bimba si addormenta e la porta resta chiusa, mai varcata. Nel buio diluviante la sua assenza si fa macchia. Contagiosa, affamata. Lei non c’è, lei non ha avvisato, e la mente di chi attende si avvita nei ricordi. Ondeggia, ipotizza, e poi raggiunge il futuro. In Bonsai, mentre aiuta un anziano autore a trascrivere il suo racconto, Julio rievoca un primo amore d’incastro assoluto, nato all’età della scuola. E in quelle stesse righe ritrova i semi di un mondo mai sfiorito. Scrittura nodale, capace di costruzioni illuminanti e sortilegi inconsapevoli.
I formidabili Frank di Michael Frank (Einaudi). Autobiografia in forma altamente letteraria. Michael è figlio di quattro persone. I suoi genitori e i suoi zii, coppia di sceneggiatori della più prospera Los Angeles. Tra i due la zia Hank, sorella del padre, accentra e assorbe qualunque sua attenzione. Bella, colta ed egoista, incorpora il nipote nella sua sfera affettiva, indottrinandolo su bene e male di ogni scelta, artistica e vitale. A dispetto di qualsiasi intromissione. Maestra e carnefice. Ipnotica e ingabbiante. Michael cresce sotto il suo influsso, come il più forte dei pianeti e ne racconta le schegge e le ossessioni. Un’esistenza che si legge come un copione.
L’estate del ’78 di Roberto Alajmo (Sellerio). Un libro per rovesciarsi dentro. Alajmo comincia da un addio inavvertito, quello a sua madre, che incontra per strada durante l’estate della maturità, una volta fuggevole, imbarazzata . Una volta che sarà l’ultima, anche se lui lo ignora. Da quella pietra di memoria, l’autore tratteggia il suo ruolo di figlio e di padre. Dell’entropia di emozioni durante il passaggio. Con una lingua nitida e sincera, che sa concedersi intimità e ironia. E che in quell’autoanalisi restituisce abilmente uno specchio molto più ampio.
Anime Inquiete di Isabella Cesarini (Haze). Un arcipelago di creature sul filo. Turbate e perturbanti. Da Diane Arbus a Bruno Lauzi, da Leonor Fini ad Ágota Kristóf, Isabella Cesarini attraversa un giardino di piante rare e dolenti. Con un approccio insolito, che scavalca la critica o il semplice ritratto, ci offre una visione poetica e raffinatissima del loro modo di scalfirsi nel mondo, di incarnare il travaglio e trasformarlo in arte.
A questo punto, non c’è altro da aggiungere. Oltre alla vostra scelta.

 

Francesco Vannutelli
Nel corso di questa estate ho già avuto modo di leggere alcune cose interessanti, ma è per agosto che conservo la parte più nutrita della mia ambizione da lettore. Ho messo da parte un bel po’ di titoli, l’obiettivo è leggerli tutti, conto sui treni che dovrò prendere . Sto recuperando alcuni autori del Novecento della letteratura italiana. Dopo aver letto Paesi tuoi di Cesare Pavese e Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi punto a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg e Una spina nel cuore di Piero Chiara. Da anni più recenti ho pescato I segnalati di Giordano Tedoldi, La futura classe dirigente di Peppe Fiore e Le attenuanti sentimentali di Antonio Pascale. Sempre di autore contemporaneo, Ballard e Il condominio. In mezzo ci infilerò un po’ di letture di quei gialli rassicuranti di cui in Sellerio sono dei grandi esperti: L’anello mancante di Antonio Manzini, Il metodo Catalanotti di Camilleri e Come una famiglia di Giampaolo Simi. Non possono mancare dei racconti, e quindi recupererò L’amore sporco di Andre Dubus III.

NELLA STANZA CON SCOTT

Questa storia comincia dove l’altra finisce. Nel senso che per parlare del romanzo incompiuto di Francis Scott Fitzgerald è bene tornare per un attimo a Festa Mobile, libro del quale ci siamo occupati nell’ultima tappa del nostro percorso. Nel suo memoir parigino Hemingway parla di Fitzgerald con il barman dell’hotel Ritz: «ha scritto due libri molto belli», gli spiega, «e uno mai finito che i migliori conoscitori delle sue opere dicono sarebbe stato molto bello».

Il libro in questione è The Love of the Last Tycoon, che Fitzgerald lasciò incompiuto morendo per un attacco cardiaco il 21 dicembre del 1940. Più che un romanzo è la promessa di un romanzo: l’eredità di Scott consiste nell’inizio di una storia e in una serie di appunti sparsi, materiale utile per arrovellarsi su un potenziale capolavoro. Sarebbe stata vera gloria? Le premesse ci sono tutte. Matthew Bruccoli, biografo di Fitzgerald, definisce il romanzo «il più promettente e il più frustrante frammento della narrativa statunitense». A meno di un anno dalla morte dell’autore, il critico letterario J. Donald Adams scriveva sul New York Times che «bisognerebbe essere ciechi per non accorgersi che [The Love of the Last Tycoon] sarebbe stato il miglior romanzo di Fitzgerald, o comunque un’opera molto valida».

Approcciando il racconto, l’autore sembrava ottimista: «non c’è niente che mi preoccupi, niente che appaia incerto». Ma questo è tipico delle storie ancora allo stato embrionale. Andando avanti le cose si complicarono, come si deduce dalle incertezze e dai ripensamenti evidenti negli appunti di lavoro. Fitzgerald vuole «confondere e in un certo senso irritare quei pochi lettori» che gli sono rimasti, ma l’operazione è «difficile come cavare un dente». Deve scegliere se raccontare la storia in terza persona o affidare la narrazione a uno dei personaggi, Cecelia, ma non si decide, e così l’intreccio si svolge in un rimpallo di voci che fa calare sulla vicenda un’atmosfera di lieve incanto. Nella fase di definizione dei personaggi, forse la più importante, la stanza di Scott si riempie di diagrammi, come se l’autore aspirasse a riprodurre la realtà in scala uno a uno: una mimesi perfetta.

La verità, a ben guardare, è che quasi tutte le opere di Fitzgerald hanno rischiato di rimanere incompiute. «La storia della mia vita», scrisse una volta l’autore di St. Paul, «è la storia della lotta tra il prepotente impulso di scrivere e un insieme di circostanze volte a impedirlo». Quello di Fitzgerald è l’esempio di come la vocazione artistica si scontri spesso con gli intoppi della vita quotidiana. L’alcolismo, una situazione finanziaria altalenante, il successo precoce precocemente svanito e l’invidia più o meno inconscia della moglie Zelda hanno cospirato per impedire a Fitzgerald di diventare quello che era: un maestro della letteratura mondiale. Il sabotaggio è fallito, ma Scott è morto troppo presto per saperlo.

Se il Grande Gatsby è stato composto sulle ali dell’entusiasmo, tra la riviera francese e Roma, L’amore dell’ultimo milionario viene scritto nelle peggiori condizioni possibili: Fitzgerald è economicamente in affanno, deve pagare la retta del college della figlia e la costosa clinica in cui è ricoverata Zelda. Vive a Hollywood, dove scrive per il cinema, un lavoro che lo attrae ma in cui non brilla, e che dunque finisce per odiare. È arrivato in California pieno di entusiasmo: è convinto che il grande schermo possa fargli riconquistare il “tocco”. Negli anni Venti era stato considerato un mago delle parole, ma con la crisi del ’29 i gusti dei lettori erano cambiati e lui non sembrava più in grado di intercettarli. A Hollywood lo pagavano bene, ma non era solo questo: Fitzgerald sapeva che il cinema può fare arrivare la narrativa alla massa, eppure cadde nell’errore di considerare romanzo e sceneggiatura come prodotti intellettuali sostanzialmente assimilabili. Sul New Yorker Arthur Krystal ha scritto che Fitzgerald «non seppe compiere il passaggio dalle parole alle immagini. I suoi soggetti erano inutilmente complicati, i dialoghi involuti o enfatici e il tono troppo grave, a volte addirittura cupo». Le sceneggiature di Fitzgerald erano eccessivamente dettagliate, un peccato fatale quando si scrive per il cinema, e questo nonostante Fitzgerald sia l’autore della frase «l’azione è il personaggio», primo comandamento di qualsiasi sceneggiatore. Secondo Billy Wilder, Scott era come «un grande scultore chiamato a fare un lavoro da idraulico»: a Hollywood videro tutti l’artigiano maldestro, ma in pochi riconobbero l’artista di talento.

The Love of the Last Tycoon nasce in questo clima: un romanzo che parla di cinema ma con lo sguardo di un estraneo. Il protagonista del libro è Monroe Stahr, figura dichiaratamente ispirata a quella di Irving Thalberg, golden boy della MGM dal 1924 al 1936. Stahr è un self made man autoritario ma illuminato, geniale nelle intuizioni che guidano il suo lavoro. Ha la patina dell’eroe romantico, non tanto per il modo in cui sopporta il peso delle responsabilità, quanto perché una malattia fatale allunga su di lui l’ombra della tragedia. Vedovo della diva Minna Davis, s’innamora di una donna umile e sensuale, mentre sullo sfondo della depressione economica combatte una battaglia cruenta per il controllo della casa di produzione in cui lavora. Svelare il seguito è un errore che non rischio di commettere, visto che Fitzgerald non ha fatto in tempo a scriverlo (negli appunti dell’autore, in realtà, c’è quello che avrebbe dovuto essere il finale, ma chi può dire che non sarebbe cambiato?).

Dopo la morte di Fitzgerald l’editor Maxwell Perkins affidò il manoscritto a Edmund Wilson, un vecchio amico di Scott che curò una discutibile edizione uscita di lì a poco. Diversi anni dopo il già citato Bruccoli diede alle stampe una versione del romanzo filologicamente più affidabile, arricchita da appunti originali dell’autore che costituiscono un vero tesoro nascosto. In Italia la Alet ha pubblicato una traduzione dell’opera ricalcata sulla versione di Bruccoli, ma la fine precoce della casa editrice ha reso il volume quasi introvabile.

Spiare un romanziere al lavoro è il sogno proibito di molti lettori e l’edizione di Bruccoli ci consente di dare una sbirciatina al sancta sanctorum. Sul magazine online Electric literature Kristopher Jansma ha notato che «un romanzo incompiuto finisce sempre per essere frustrante e prezioso nello stesso tempo. Forse pubblicare una bozza è sbagliato, ma sull’altro piatto della bilancia c’è l’opportunità di dare un’occhiata al modo in cui viene insaccata la salsiccia. Gli incompiuti smontano le nostre illusioni e ci ricordano quanto in fondo siano umani i nostri eroi letterari». Grazie agli appunti di Scott scopriamo lo sforzo necessario per cesellare una frase ben riuscita. Ha ragione Nabokov: solo ciò che viene scritto con fatica si legge con facilità. Scrivere bene è nuotare sott’acqua trattenendo il fiato, diceva Fitzgerald, che a Los Angeles perse ogni cosa tranne l’audacia di rischiare. Mise tutto sul piatto, conservando lo stile consueto, ma affrontando temi per lui del tutto inediti: la West Coast, il cinema, la crisi economica. Lo sforzo è ripagato da pagine che, anche in bozza, suonano perfette.

Come questa: «seduti sugli alti sgabelli, presero minestra di pomodoro e toast. Era la cosa più intima che avevano fatto, ed entrambi sentirono una pericolosa sensazione di solitudine, che avvertivano ognuno nell’altro. Condivisero i vari aromi del locale, amaro e dolce e aspro, e il mistero della cameriera con i capelli tinti, ma neri sotto e, quando ebbero finito, la natura morta dei loro piatti vuoti: una fettina di patata, una di sottaceto e un nocciolo di oliva.

Faceva sera, fuori, e le fu facile sorridergli, adesso che risalivano in macchina.

“Grazie davvero. È stato un bel pomeriggio”.

Non erano lontani da casa sua. Si intuiva il principio della salita, e sapevano che il rumore più forte della macchina in seconda era l’inizio della fine».

L’inizio di un amore è un tema frequente nei romanzi, nonostante sia tra i più difficili da affrontare: farlo e uscirne vincitori è roba da maestri. Fitzgerald indubbiamente lo era, e come Hemingway inanellava lampanti verità: cose come «quello di cui la gente si vergogna, in genere è un buon materiale per una storia», o «le case hanno una strana immobilità quando non c’è chi ci abita».

Sembra incredibile, ma scorrendo gli appunti di Fitzgerald ci si imbatte in questa frase: «sono sicuro di essere abbastanza avanti da conquistare un pezzettino di immortalità, se continuo a star bene». Un pezzettino di immortalità? Fitzgerald? L’autore del Grande Gatsby e di Tenera è la notte? Aveva già conquistato la sua parte di immortalità, e ben più di un pezzettino. Ma non lo sapeva e non lo seppe mai. Mentre scriveva The Love of the Last Tycoon la sua stella era talmente in declino che alcuni lettori pensavano fosse già morto. Si adeguò in fretta, morendo per davvero. Spesso mi trovo a sperare che ci sia un al di là da dove gli scrittori defunti possono assistere allo spettacolo del tempo che rende loro giustizia.

Copertina di Visto si stampi

Nove backstage editoriali per riassaporare grandi scritture

Uno dei grandi meriti di Visto si stampi di Gabriele Sabatini (ItaloSvevo, 2018) è riportare alla luce le storie dietro ai capolavori della letteratura del dopoguerra (con un antefatto situato negli anni venti): l’autore ci accompagna nelle opere, che al principio sono manoscritti e che, via via, si circondano di numerose figure prima di essere pubblicati e magari diventare dei best seller. Un viaggio affascinante che dipana il rapporto tra editore e autore, tra critici e giornalisti di allora, tra grafici e censori.

 

Da dove nasce l’idea di un libro così particolare?

Da una domanda. Un quesito che mi ero posto e al quale, benché il libro sia terminato e pubblicato, non so dire se abbia trovato una risposta esauriente: quali erano state le prime recensioni, la prima accoglienza critica di libri che diamo – tra virgolette – per scontati, perché ormai entrati nel canone? E come avremmo scoperto questo o quell’autore? Oggi il primo incontro con un libro che non conosciamo avviene magari tramite qualche social, o tramite la radio o – certamente – attraverso le recensioni: quali voci ci avrebbero fatto scoprire all’epoca questo o quel libro?
Poi, come sempre, i progetti mutano in divenire, e mi sono imbattuto in una certa messe di materiale che raccontava i fatti antecedenti alle pubblicazioni. E siccome mi divertivo a leggere quelle lettere, quei diari, e tutto ciò che raccontava il lavoro sul libro prima della stampa, allora ho deviato il mio percorso.

 

Nove vicende piene di interessanti retroscena che fotografano il mondo editoriale di un momento storico di “ricostruzione intellettuale”, dalla pubblicazione all’accoglienza della critica. Come hai proceduto per scovare aneddoti e circostanze?

Se ci penso, posso dire di aver proceduto seguendo tre canali: il primo è stato quello di lavorare in emeroteca per trovare gli articoli apparsi sui giornali dell’epoca; ma molto utili si sono rivelati gli atti di convegno, in cui spesso convergono testimonianze e ricordi di persone che sono state vicino o hanno lavorato con gli autori. Se esistono gli atti di convegni organizzati per il decennale della morte di un autore, lì qualcosa in cui pescare c’è di sicuro. Poi, naturalmente, un debito a vario titolo l’ho contatto con i molti autori di biografie, e con i curatori di carteggi e diari, fonti inesauribili per ricostruire il “percorso” di un libro.

 

Quale è la vicenda editoriale a cui sei più legato?

Tendo a rispondere quella di Il cielo è rosso di Giuseppe Berto (ma poi se mi rifai questa domanda tra una settimana magari ho cambiato idea). Il romanzo narra la storia di quattro giovani sopravvissuti al bombardamento americano di Treviso, quattro destini segnati terribilmente dalla guerra. Berto lo elabora quando era prigioniero in Texas: una storia immaginata e scritta nella baracca di un campo di prigionia, buttata giù a migliaia di chilometri dall’Italia.
La vicenda della pubblicazione è poi ricca di episodi: Comisso consiglia a Longanesi di pubblicarlo, ma il dattiloscritto che gli aveva spedito non giunge mai a destinazione, perché sulla busta era stato segnato l’indirizzo sbagliato (con la conseguenza che Berto, stufo di aspettare una risposta che non sarebbe mai potuta arrivare, va a Milano e scopre che la sede della casa editrice era da un’altra parte). Il titolo viene cambiato dall’editore senza che l’autore sapesse come, e Berto lo scopre solo entrando in libreria ma non se ne dispiace. L’0pera è poi soggetta a quello che Berto stesso proclama come un inconsapevole approccio neorealista. Ma ci troviamo di fronte a un testo che allegorizza la storia; e così non importa più se i pensieri e le azioni di Daniele – il protagonista – siano o meno plausibili con quelli di un suo coetaneo dell’Italia di allora.

Dulcis in fundo: Il cielo è rosso si è piazzato ultimo nella prima finale del Premio Strega prendendo solo 7 voti. Insomma, c’è di che innamorarsi…

 

A vincere il premio Strega quell’anno fu un altro romanzo edito da Longanesi.

Esatto: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Il capitolo dedicato a Flaiano inizia con un aneddoto che di nuovo chiama in causa i titoli: l’autore lo aveva intitolato Il coccodrillo, ma Longanesi aveva già pubblicato La vita del camaleonte di Fernand Angel e Parliamo dell’elefante dell’editore medesimo. Suggerì un nuovo titolo per non correre il rischio di trasformare il catalogo in un «giardino zoologico».
La storia narra le vicende di un tenente dell’esercito italiano in Abissinia, ma i fatti bellici sono sullo sfondo. In realtà, quello di Flaiano – un unicum nella sua carriera di testi brevi – è un romanzo sul caso, sul senso di colpa e sulle responsabilità guerrafondaie degli italiani. L’accoglienza critica non fu delle più entusiaste (sebbene il testo avesse vinto lo Strega realizzando l’ambizione longanesiana di battere Moravia) e mi pare esemplare di un modo di fare critica la stroncatura che arrivò dalla penna di Giacomo Debenedetti, e che forse vale la pena di citare: «Prima Flaiano aveva seguito il suo inquietante protagonista come si sorveglia un sonnambulo sul cornicione, soffrendo le vertigini per lui. […] In un romanzo come Tempo di uccidere bisogna che l’autore rimanga fino all’ultimo infettato dal personaggio: è la sola maniera di partecipare alla sua avventura e di far partecipare chi legge. Flaiano, viceversa, conduce lo sperduto e ignaro tenente attraverso un labirinto di cui egli conosce le giravolte, le cattive e le buone strade, gli ingannevoli incroci e le uscite. [Ma] ha dovuto scrivere un ultimo capitolo per chiudere i buchi che le troppe combinazioni, simmetrie, coincidenze, avevano finito con l’aprire. Che sarebbe come, per un cultore di enigmistica, ricorrere alla rubrica: soluzione del gioco precedente».

 

Esiste un filo conduttore che è quello della letteratura che nasce dopo la guerra e la dittatura e cerca di raccontarla attraverso chi, ciascuno con un ruolo diverso, l’aveva vissuta direttamente.

Il filo conduttore esiste e mi sono concentrato su quella fetta di letteratura e di casi editoriali che ci mettono di fronte al come si è vissuto. Perché una domanda che mi pesa spesso sulle spalle è appunto: cosa avrei fatto io? Come mi sarei comportato e come mi comporterò domani, quando arriverà un nuovo fascismo? E cosa sto facendo ora per contrastarne la sua manifestazione più efferata? E, sai, non è detto che la risposta mi conforti. In questi libri, la vita viene messa di fronte a scelte irreversibili che riguardano sé stessi e la collettività tutta, un cosa che oggi possiamo immaginare solo facendo uno sforzo di concentrazione.

 

E poi c’è un grande romanzo sul dopoguerra in cui una storia d’amore è diventata un classico da studiare a scuola…

So a cosa ti riferisci perché ne stavamo parlando prima di cominciare l’intervista: La ragazza di Bube di Carlo Cassola. È una bella storia d’amore, ispirata a vicende vere, che hanno stupito lo stesso autore. Non tanto per i fatti narrati, ma proprio per la forza dei sentimenti espressi dalle persone reali che hanno ispirato il romanzo. Ambientato negli anni del dopoguerra racconta di Bube, un ragazzo reduce dalla Resistenza e del suo amore per Mara, una giovane semplice che attenderà il suo amato anche dopo la lunga condanna in carcere.
È un libro che suscita non poche critiche soprattutto a sinistra (e ricordiamoci che già con Fausto e Anna, Cassola aveva provocato l’intervento di Palmiro Togliatti che su Rinascita lo accusò di vilipendio alla Resistenza); ma soprattutto è famosa l’accusa di Pasolini, che attacca Cassola per aver ucciso il neorealismo, e lo fa alla maniera shakespeariana, parafrasando il discorso funebre che Marco Antonio dedica a Giulio Cesare.
Eppure, tutto questo non ferma la fortuna di La ragazza di Bube, basti pensare che quando nel 1965 la Mondadori inaugura gli Oscar, subito dopo Hemingway con Addio alle armi, spunta proprio Cassola: primo titolo italiano in quella fortunatissima collana.

 

Hai colto anche il trasformismo dell’Italia che passa dall’essere interamente fascista a disconoscere il Ventennio e poi il cambiamento: l’editoria che stava nascendo, l’intuito di Longanesi per esempio, come racconti sul finire di Visto si stampi.

Uno dei capitoli si intitola proprio L’Italia che si ricicla ed è dedicato a Il vecchio con gli stivali di Vitaliano Brancati. È un racconto lungo che esce in raccolta sotto l’insegna di Bompiani nel 1946. Il tema di fondo è appunto questo: gli italiani si sono lavati dalla lordura del loro essere stati fascisti semplicemente cambiando il distintivo all’occhiello della giacca. Occorre però fare attenzione, perché l’accusa che brancati lancia non è a una generazione specifica, ma a un popolo tutto, e certamente riguarda anche noi oggi. Il vecchio con gli stivali rappresenta, per dirla con Marco Dondero, la prima azione di una «vera e propria battaglia intellettuale» intrapresa da Brancati contro i sedimenti del ventennio.

 

È vero che Longanesi non leggeva i libri ma sapeva annusarli?

Sì, è Indro Montanelli, che con Longanesi collaborava, a raccontare di questa capacità – diciamo così – olfattiva. Longanesi, al principio della sua avventura editoriale, aveva necessità di stampare molto per dare sostanza al catalogo della casa editrice, fu un animatore culturale potente, che scelse di lavorare a Milano perché, diceva, «Milano ti viene incontro, ti fa fido, ti apre il conto in banca. In compenso, ti chiede soltanto di ammirare Toscanini, di credere all’articolo di fondo di Mario Borsa, di rispondere alle lettere e di essere puntuale agli appuntamenti».

 

Visto si stampi in apparenza sembra un libro per gli “addetti ai lavori” ma si scopre immediatamente per la narrazione fluida e i racconti che non è affatto così…

Sarebbe bello se questo piccolo libro riuscisse a parlare a addetti e non addetti ai lavori. Se così fosse, ne sarei molto contento.

 

(Gabriele Sabatini, Visto si stampi. Nove vicende editoriali, ItaloSvevo, 2018, pp. 88, euro 12,50)

IL PUNTO SULL’ACCOGLIENZA #3

Avevo promesso che in questo articolo avremmo parlato di scuola, ed eccovi accontentati. E lo faremo da due punti di vista, quello dello studente e quello dell’insegnante.

 

Iniziamo col fare una panoramica, spero il meno noiosa possibile, sulle possibilità che ha uno straniero (richiedente asilo, con permesso di soggiorno o minore non accompagnato). Ma prima, una piccola parentesi: quando sentite parlare di italiano L2 si intende “lingua seconda”, ovvero una lingua non materna appresa al di fuori del paese d’origine. Di norma i corsi di italiano L2 si riferiscono al Quadro comune Europeo di riferimento per le lingue, che stabilisce sei livelli linguistici, dall’A1 al C2].

Se sei un richiedente asilo, e hai avuto accesso al circuito di accoglienza, dovresti avere un insegnante specializzato all’interno del tuo centro che ti garantisca almeno 8 ore di lezione a settimana (se avete pazienza di seguirmi, tra poco vi spiego anche le modalità). Nel frattempo puoi anche iscriverti presso un Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti), la scuola pubblica, per intenderci, dove puoi accedere a corsi di italiano di livello A1 – A2 o alla licenza media (un anno di corsi con le classiche materie: italiano, inglese, storia, scienze e una piccola parte di educazione civica). Importante: puoi iscriverti a un Cpia anche se ancora non hai uno status. I Cpia adottano una metodologia squisitamente frontale, spesso poco centrata sulle esigenze reali di un richiedente asilo, per questo, come vedremo poi, l’insegnante di italiano all’interno del centro di accoglienza deve trovare necessariamente un altro approccio.

Se sei un migrante con regolare permesso di soggiorno adulto puoi accedere anche tu ai corsi di italiano A1 – A2 dei Cpia o alla preparazione per la licenza media. Generalmente il corso più gettonato è quello A2, il livello minimo per poter ottenere la Carta di soggiorno (permesso di soggiorno di lungo periodo: 5 anni). Qui bisogna fare una precisazione: la carta di soggiorno si può richiedere solo dopo cinque anni di regolare permesso di soggiorno. Se allo scadere dei cinque anni ancora non hai un certificato A2 niente panico, potrai comunque rinnovare il permesso di soggiorno ma non potrai ancora avere accesso alla Carta di soggiorno (che ti dà maggiori vantaggi tra cui la possibilità di espatrio).

Negli ultimi anni si riscontra una sorta di frenesia per l’ottenimento del certificato A2. Qualche tempo fa le associazioni di territorio riuscivano a stipulare degli accordi piuttosto interessanti con i Cpia di riferimento (i quali riconoscevano il percorso didattico svolto dalle associazioni dando la possibilità di svolgere un corso combinato o direttamente l’esame). Da un paio d’anni a questa parte, almeno a Roma, i Cpia hanno iniziato a manifestare una certa insofferenza per questo tipo di accordi; la Rete scuolemigranti del Lazio ha mollato la presa (peccato) e si è rivolta ad altro ente certificatore (a pagamento con prezzi agevolati). Oltre ai Cpia, infatti, gli enti certificatori ufficiali riconosciuti dal Miur sono quattro: le Università per stranieri di Perugia e Siena, l’Università di Roma Tre e la Società Dante Alighieri.

Se sei un minore straniero non accompagnato (la stragrande maggioranza nella fascia di età 16-18) dovresti avere un insegnante all’interno della struttura di accoglienza (ma purtroppo non sempre è così) e puoi essere iscritto a un Cpia. L’anomalia che riscontriamo in questo caso è quella di inserire un minore all’interno di un’istituzione nata per l’educazione degli adulti (come dice il nome stesso). Molto spesso all’interno dei Cpia non sono previsti percorsi specifici rivolti ai minori, le classi sono miste e il materiale didattico, tarato su un profilo adulto, è poco interessante per un sedicenne. Sono pochi i percorsi scolastici ad hoc per minori stranieri non accompagnati: si segnala il metodo Clio elaborato da Save the children presso i centri a bassa soglia Civico Zero e la piattaforma e-learning “Studiare migrando” dell’Università di Palermo. Speriamo in futuro il Miur elabori delle strategie efficaci affinché i minori stranieri non accompagnati possano integrarsi al livello scolastico con i coetanei italiani.

In ogni caso, se sei uno straniero, non importa sotto quale forma, puoi anche rivolgerti alle tante associazioni del territorio che al loro interno svolgono corsi di italiano, il cui numero negli ultimi nove anni è cresciuto esponenzialmente. Basti pensare che quando è nata la Rete scuolemigranti del Lazio, nel 2009, gli organismi proponenti erano undici, adesso quasi cento.

 

 

Ma ora veniamo al punto di vista dell’insegnante prendendo come riferimento il “maestro” di un centro di accoglienza (Cara, Cas, Sprar). Prima di tutto, fissiamo quattro punti fermi: insegnare italiano L2 a richiedenti asilo è un’attività che non si può improvvisare; insegnare italiano L2 a stranieri e insegnare italianoL2 a stranieri richiedenti asilo sono due attività molto diverse; per insegnare italiano L2 a richiedenti asilo è necessaria una preparazione (evidentemente non solo glottodidattica) e tanta esperienza; Il Miur si disinteressa degli insegnanti di italiano a richiedenti asilo e ai relativi programmi didattici (perché tanto i bandi per la gestione dei centri di accoglienza sono di competenza delle prefetture e degli enti locali per conto del Ministero dell’Interno).

E allora svisceriamoli, questi quattro punti.

Una consuetudine piuttosto diffusa, più di quanto si possa immaginare, è quella di pensare che sia sufficiente essere italiani e parlare italiano per poter insegnare la lingua italiana ai richiedenti asilo. Ma, come si può facilmente intuire, non basta la buona volontà e qualche sano principio per pretendere di saperlo fare. Spesso non è nemmeno sufficiente aver insegnato tanto tempo in qualche scuola pubblica per sapere come ci si deve comportare con un profilo apprendente completamente diverso da quelli ai quali si era abituati (è molto frequente la figura del volontario ex insegnante, che tuttavia in alcuni casi porta nelle classi una metodologia antica e tarata su bambini e ragazzi che hanno avuto un percorso di vita differente da quello di un richiedente asilo). Con questo non sto dicendo che le tante scuole gestite da volontari non siano importanti, anzi, a volte sono fondamentali (nel Lazio abbiamo una rete, già citata, ben organizzata), ma stiamo parlando di un lavoro specializzato, e come tutti i lavori specializzati dovrebbe essere svolto da un professionista (col prezioso supporto dei volontari, certo).

Insegnare italiano a un richiedente asilo richiede un livello di cura particolare che tenga conto dei percorsi migratori e delle possibili implicazioni traumatologiche. Richiede pazienza, motivazione ed energia. E tenacia. Pretendere che tutti gli studenti siano motivati pur avendo un futuro incerto sarebbe folle. Per questo non bisogna mai perdersi d’animo e cercare di portare a sé anche i casi più oppositivi. Fiducia ed empatia sono due termini chiave.

Richiede un’attitudine particolare a lavorare sul multilivello, a saper conciliare le diverse esigenze talvolta esibendo doti contorsionistiche. Richiede una certa capacità di previsione, che si acquisisce con l’esperienza e che è fondamentale per prevedere le reazioni a determinati stimoli o per capire quando è il caso o meno di insistere su certe questioni.

Inoltre, insegnare italiano a un richiedente asilo, implica che le lezioni siano tarate sulla base del gruppo classe. Non è sufficiente una metodologia umanistico-affettiva e l’attenersi a un programma didattico prestabilito, il percorso formativo si modella insieme agli studenti: i materiali si costruiscono insieme (un kit di colori, forbici e colla dovrebbe essere sempre a disposizione); la classe si allestisce (se non hai a disposizione una classe e ti danno un refettorio, allestisci un refettorio); si organizzano diverse uscite esterne che mirino a creare un gruppo classe, a conoscere il territorio e ad attivare un apprendimento indiretto, visto che quello diretto in molti casi può essere temporaneamente danneggiato da un recente vissuto traumatico.

Occorre poi mettersi in gioco su questioni problematiche che molto spesso deragliano dal semplice binario linguistico. Chi intende insegnare italiano ai richiedenti asilo pensando di svolgere solo la lezione in classe e poi disinteressarsi di tutto il resto può cambiare mestiere anche da subito. Curiosità, il non dare per scontato nulla, il continuo aggiornamento, sono implicati nell’insegnamento dell’italiano a un richiedente asilo: bisognerebbe sempre partire dalla consapevolezza che le culture di provenienza degli studenti sono profondamente diverse dalla nostra e che dunque gesti, modi di fare, rappresentare e intendere possono differire – e anche di tanto – rispetto ai nostri schemi mentali.

Non esistono i canonici due mesi di vacanza previsti nelle altre scuole. I centri di accoglienza non chiudono mai e di conseguenza anche la scuola deve restare il più possibile aperta.

Dunque l’insegnante di italiano all’interno di un centro di accoglienza, per essere un vero professionista, non solo deve avere conoscenze glottodidattiche (che si acquisiscono attraverso certificazioni apposite) ma anche una imprescindibile preparazione sui percorsi migratori degli studenti e sull’iter che deve compiere un richiedente asilo (e tutte le possibili variabili).

Il “maestro” rappresenta per l’ospite non solo l’imprinting linguistico ma anche il punto di riferimento per l’acquisizione di informazioni sulla cultura di approdo.

Altro aspetto fondamentale è il lavoro di équipe: l’insegnante deve pretendere di essere incluso nelle riunioni di équipe e di essere informato su ogni problematica che riguarda i propri studenti. Purtroppo non è quasi mai così, un po’ per quella fuorviante forma mentale che relega l’insegnante all’interno della classe a occuparsi esclusivamente di lingua italiana, un po’ per colpa degli insegnanti stessi che, avendo spesso contratti inadeguati (e strumenti inadatti), si rifiutano di fare più dello stretto dovuto.

E qui veniamo al nodo cruciale: il riconoscimento della professionalità e della competenza dell’insegnante di italiano dei centri di accoglienza.

L’insegnante di italiano dei centri di accoglienza, scusate se mi ripeto, è un insegnante a tutti gli effetti, specializzato in glottodidattica e con la capacità multidisciplinare di adattare la metodologia alle situazioni più particolari; è un insegnante che conosce le normative relative al diritto d’asilo, che non gode di nessun bonus cultura, né delle vacanze dei colleghi della scuola pubblica, che spesso ha a disposizione strumenti inadatti e contratti inadeguati, che lavora in un limbo di invisibilità che gravita al centro del corto circuito tra Ministero dell’Interno – che si occupa dei bandi – e Miur, che dovrebbe rivendicare legittimamente il proprio ambito di competenza, ma che in questo caso ignora la questione.

«Ma ti pagano?» si sente spesso rispondere il povero maestro ogni volta che racconta a qualcuno che lavoro fa. Come se insegnare italiano ai richiedenti asilo venisse considerata di default un’attività da affidare esclusivamente al volontariato. E invece no, ci sono e ci devono essere dei professionisti, perché il ruolo è delicato e se svolto nel migliore dei modi pone le basi per una futura serena convivenza tra culture.

 

“Pian della Tortilla”: la Tavola Rotonda di John Steinbeck

Dopo la biografia immaginaria di Jack London, il romanticismo di F. Scott Fitzgerald e le avventure di Hemingway a Parigi, Antonio Merola prosegue il suo percorso nell’isolamento del romantico americano, e con John Steinbeck trova punti di contatto con il romanticismo europeo.

 

 

«Questa è la storia di Danny, degli amici di Danny e della casa di Danny. È la storia di come queste tre cose diventarono una sola. […] Poiché la casa di Danny fu simile alla Tavola Rotonda, e gli amici di Danny non furono dissimili dai cavalieri di quella»: con queste parole John Steinbeck cominciava l’avventura di Pian della Tortilla (1935), il romanzo che per primo incontrò il favore del grande pubblico americano. La società allora era in pieno fermento: dopo lo scoppio di una terribile crisi economica, nel 1933 il nuovo presidente Franklin Delano Roosevelt cerca di rattoppare il possibile. L’America sembrava fare acqua da tutte le parti, mentre in Europa cominciava a muoversi il germe che avrebbe portato di lì a pochi anni alla guerra. E come abbiamo già visto negli articoli precedenti, sono, questi, gli stessi anni in cui il romanticismo americano era nel pieno del proprio declino: F. Scott Fitzgerald, la stella della corrente romantica, tace dal 1925, anno di pubblicazione di Il grande Gatsby.

E forse non è un caso che a una tale impasse la letteratura del mega continente torni a guardarsi indietro: se infatti il romanticismo americano nasce con delle caratteristiche sue proprie, Pian della Tortilla torna a confrontarsi esplicitamente con il mito originario, quello europeo, o – per essere più precisi – con il romanticismo di stampo tedesco. È lì cioè che si forma e poi si esalta l’idea romantica prima di popolo e poi di nazione. Il romanzo di Steinbeck, democratico convinto, si inserisce all’interno della cornice sociale che abbiamo descritto, ma soprattutto prende le mosse da quella capacità di rattoppare che fu il New Deal rooseveltiano: i protagonisti di Pian della Tortilla sono i paisanos di Monterey, in California, ovvero indios, messicani e spagnoli che vivono alla bene e meglio: ultimi tra gli ultimi, in un periodo in cui la disoccupazione aveva toccato l’apice.

Danny, l’eroe di questa storia, è appena tornato dalla guerra, quando scopre di avere ereditato due case: è questo il momento in cui «subito egli sentì in qualche modo il peso della responsabilità di possedere».

Ecco perché Danny sceglie di condividere una delle abitazioni con l’amico Pilon. Da quel momento, comincerà una catena interminabile di subaffitti, perché Pilon inviterà nella casa un altro paisano e quello un altro ancora, e così via. Tutti i personaggi di Pian della Tortilla sembrano avere una sola preoccupazione: bere… e soprattutto, bere vino scadente, l’unico che possano permettersi. Ognuna delle loro avventure è incentrata sulla ricerca del denaro per acquistare dei galloni di vino e successivamente dal veloce dipanarsi della sbronza, che porta con sé dei disastri a cui in qualche modo i paisanos riescono sempre a rimediare. Ma dietro quest’aurea di comicità, Steinbeck avanza una forte denuncia sociale: pare quasi che sia il socialismo, o il comunismo, e non il New Deal, l’unica alternativa che sia rimasta a un’America devastata dalla crisi economica.

C’è però di più: «Per molto tempo ho desiderato trasferire nella lingua d’oggi le storie di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Sono storie vive anche in quelli di noi che non le hanno lette. Ma nella nostra epoca forse ci spazientiscono i termini desueti e i ritmi maestosi… Ho voluto trasporli nel semplice linguaggio del giorno d’oggi».

Era il 1976, quando Steinbeck introduceva con queste parole Le gesta di re Artù e dei suoi nobili cavalieri. E se guardiamo di nuovo all’apertura di Pian della Tortilla, scopriamo che dopotutto aveva già trovato il modo di affrontare il tema. Ecco allora che, così come il romanticismo tedesco, per esaltare il popolo, ne cercava il fondamento identitario nelle mitologie nazionali, allo stesso modo Steinbeck si rifà alla tradizione del romanzo arturiano europeo, prima inglese e poi francese: la Tavola Rotonda inventata da Robert Wace nel Roman de Brut (1155) diventa il simbolo perfetto di questa strategia. Secondo la leggenda, la Tavola è il modo in cui Artù cancellava le differenze di rango sociale tra sé e i propri cavalieri, i Dodici Pari. Pian della Tortilla trasforma allora Danny in un moderno Artù, per criticare la politica del presente attraverso la tradizione che ha fondato la cultura occidentale volgare.

Ma quella che pareva essere cominciata come l’avventura cavalleresca di un gruppo picaresco di novelli Don Chisciotte, si conclude presto con tragica serietà. John Steinbeck non voleva diventare il garante di una politica socialista: allora era un democratico che cercava di analizzare lucidamente quanto accadeva sotto i suoi occhi. E alla fine del romanzo, che riporto dalla traduzione di Elio Vittorini (1939), ancora oggi quella di riferimento, ci consegna soltanto delle domande, che in parte preannunciano la stagione della crisi dell’io (che incontreremo prossimamente quando parleremo della Beat Generation) ma che d’altra parte scomodano una ombra oscura sul mito americano della realizzazione individuale. Ci troviamo in una festa a casa di Danny; tutti il paese è coinvolto, ma davanti a quella estrema e baldanzosa uguaglianza, il nostro eroe non sembra reggere, e all’improvviso esplode:

«“Chi si batterà con me?” gridava. “Non vi è nessuno che voglia battersi con me?”. Ognuno aveva paura; quella gamba di tavolino, così viva e tremenda nel suo pugno, era diventata oggetto di terrore universale […] “Nessuno?” gridò Danny di nuovo. “Non vi è nessuno a battersi con me? Sono dunque solo nel mondo?” […] Danny si eresse ancor di più; torreggiava, e per poco la sua testa non toccava il soffitto. “Allora”, gridò “allora andrò fuori e mi batterò con l’Unico che è in grado di combattere. Affronterò il Nemico che è degno di Danny!”. Si slanciò verso la porta, a grandi passi, e barcollava un poco mentre andava. La gente terrificata gli fece largo, lo vide uscire, vide come dovette piegarsi per uscire, e rimase in ascolto, sotto il grande silenzio di ghiaccio. Udì fuori il ruggito della sua sfida. Udì la gamba di tavolino fischiare come meteora per lo spazio. Udì i passi che andavano alla carica attraverso il cortile. E poi, di dietro alla casa, dalla ravina, udì la sfida di risposta salire talmente paurosa che tutti n’ebbero la spina dorsale avvizzita di schianto come stelo di nasturzio a un soffio di gelo. Ancora adesso, quando qualcuno parla del Rivale di Danny, gli ascoltatori si guardano furtivamente intorno. Essi udirono Danny muovere all’attacco. Udirono l’ultimo grido suo di su prema sfida, poi udirono un gran colpo, e poi non udirono più nulla […] Povero Danny! Era caduto da quindici metri di altezza».

Poster di Il sacrificio del cervo sacro su Flanerí

Sopravvivere alla tragedia

Dopo la definitiva conferma internazionale di The Lobster (2015), il regista greco Yorgos Lanthimos è tornato nel 2017 a Cannes con Il sacrificio del cervo sacro, il suo secondo film in lingua inglese, atteso da critica e pubblico come conferma definitiva di un talento ammirato e criticato con uguale intensità.

Il cinema di Lanthimos è divisorio. È rigoroso nella sua messa in scena, enigmatico nei contenuti, controverso per le sue tematiche. Mostra con un’ironia gelida e distaccata i meccanismi più controversi della psicologia umana. Riflette sul valore dei legami affettivi rifacendosi a letture archetipiche che prendono dalla mitologia e dalle favole, dall’orrore e dalla cronaca.

Il sacrificio del cervo sacro si ricollega, soprattutto nel titolo, al mito di Ifigenia (vedi anche la tragedia di Euripide, Ifigenia in Aulide), la figlia prediletta di Agamennone (quello dell’Iliade), che finisce sull’altare come vittima sacrificale per una sfida che il padre aveva osato lanciare ad Artemide. L’equivalente di Agamennone qui è Steven Murphy, cardiochirurgo stimato e di successo, con un passato di troppo alcol nascosto sotto il tappeto. Il vizio di bere lo ha portato a un errore, anni prima, che è costato la vita a un suo paziente. Da allora, Steven è diventato una specie di padre surrogato per il figlio della vittima, Martin. Quando introduce il ragazzo in casa sua, presentandolo alla moglie e ai figli Kim e Bob, qualcosa cambia nel loro rapporto e presto l’immagine della famiglia ideale inizia a mostrare tutte le sue imperfezioni.

Tutti i film di Lanthimos osservano i rapporti personali e familiari con la spietata scrupolosità di un’autopsia. Anche nei legami più profondi, sembra sostenere, prevale sempre l’egoismo, l’istinto di sopravvivenza, la difesa di sé. Dopo l’incontro con Martin, Bob si ammala, seguito dopo poco tempo da Kim. La moglie di Steven sembra destinata alla stessa sorte. Non si capiscono le cause, ma Martin sostiene di essere in qualche modo il responsabile.

Se il finale di The Lobster faceva capire che non esiste amore così grande da giustificare il sacrificio di sé, il nuovo film di Lanthimos pone Steven di fronte a una scelta diversa: quale delle persone amate sacrificare per salvare le altre. Non c’è solo il mito greco, c’è l’Antico Testamento di Abramo e Isacco  nella prova a cui Martin sottopone il cardiochirurgo. Il triplo agnello sacrificale è un fardello che pesa sulle spalle di Steven, incapace di accettare l’irrazionale e ostinato a rifugiarsi nella scienza per trovare una soluzione che non c’è.

Lanthimos mantiene il suo rigore formale per tutto il film, conservando il gelo di una messa in scena quasi asettica, immobile, in cui i personaggi dialogano senza muoversi, senza superare la linea del corpo per incontrare l’altro. È un mondo di distanza, come in tutti i film del regista greco, fatto di convenzioni che aspettano solo di essere scardinate dall’emergere della dimensione umana mossa dai suoi istinti più forti: la rabbia, la sopravvivenza, la paura. Se si osserva l’insieme dell’opera del regista greco sembra che lui e il co-sceneggiatore Efthymis Filippou portino avanti un discorso unico.

L’immobilità di Il sacrificio del cervo sacro si smuove solo quando arriva il momento della violenza, che sia quella delle parole di Martin – la scena degli spaghetti, inquietante quanto quella di Gummo che Lanthimos omaggia – o del tentativo di Steven di imporsi a pugni e colpi di fucile. Solo la forza primordiale rompe la gabbia della famiglia borghese.

A seconda dei punti di vista Il sacrificio del cervo sacro può essere liquidato come un film pretenzioso, arrogante e inutilmente manieristico, oppure come l’opera coerente di un autore che continua a porsi le stesse domande e a fornire sempre la stessa risposta, declinata in un modo nuovo. Stiamo dalla seconda parte.

Dopo  The Lobster, Lanthimos ha richiamato Colin Farrell, che sa perfettamente quello che deve fare per il greco, e gli ha affiancato  una Nicole Kidman tornata ormai all’eccellenza di inizio 2000. La coppia aveva già funzionato molto bene in L’inganno di Sofia Coppola, ma a rubare la scena è il giovane Barry Keoghan (Martin).

Dovrà stare attento, nel suo futuro, Yorgos Lanthimos a non finire prigioniero di se stesso e del suo cinema. Il prossimo film, The Favorite, il primo senza il cosceneggiatore Filippou, sembra mostrare, almeno dal trailer, una strada nuova.

 

(Il sacrificio del cervo sacro, di Yorgos Lanthimos, 2017, drammatico, 109’)

 

L’attualità sconcertante del divino Edgar

Il divino Edgar, l’americano maledetto, il maestro dell’horror: sono solo alcuni dei tanti appellativi che si tributano alla complessa figura di Edgar Allan Poe (1809-1849), l’intellettuale dissidente più famoso del XIX secolo la cui opera, per la lussureggiante e caleidoscopica molteplicità di aspetti, è ancora ai nostri giorni oggetto di attenzione e studio continui. A questo scopo vale davvero la pena leggere l’ottimo lavoro di Franco Pezzini Edgar Allan Poe. La camera pentagonale nella collana I classici pop delle Edizioni Odoya (2018). Primo volume di una trilogia che coglie il senso profondo di un uomo carismatico, solitario, geniale, che nei quarant’anni della sua breve vita è stato talmente in anticipo sui tempi da essere spesso incompreso dagli intellettuali suoi coevi. Eppure, a tutt’oggi, rappresenta l’eccezionale caso di un evergreen editoriale di raro successo.

Scrittore, poeta, giornalista, recensore, saggista, critico e crittografo, Poe si è cimentato in una moltitudine di generi letterari, passando dall’horror al gotico, dai componimenti lirici al romanzo fino a spingersi alla creazione del poliziesco con il celeberrimo racconto I delitti della Rue Morgue del 1841, consideratone ufficialmente l’origine e l’archetipo.

Ciononostante, o forse proprio a causa dell’eclettismo pirotecnico della sua vastissima produzione, la cui presa sull’immaginario collettivo è tale da aver generato un’infinita serie di rappresentazioni teatrali, film, illustrazioni, fumetti, fiction televisive ed eco di ogni sorta che traggono spunto dalla ricchezza del suo orizzonte immaginifico, gli innumerevoli saggi a lui dedicati sono spesso miscellanee eterogenee ed incomplete che ne tralasciano o travisano lo spessore di fondo.

La trilogia di Pezzini, al contrario, che con La camera pentagonale ci presenta la prima parte della vita di Poe, evita con accortezza i pantani dei luoghi comuni e delle approssimazioni, a cominciare dai malaccorti equivoci sulla dolente influenza che la tragica morte per tisi nel 1847 della moglie bambina Virginia, sposata tredicenne nel 1835, avrebbe avuto su racconti ispirati a giovani donne morenti quali Berenice, la cui prima stesura risale al 1834, o Ligeia, del 1838, uno dei suoi capolavori assoluti e caposaldo della narrativa ottocentesca di lingua inglese. Superficiale eppure diffuso fraintendimento che un semplice controllo delle date sarebbe bastato a confutare.

Ma c’è di più: questo interessante e ben costruito saggio ci offre non tanto una biografia in sé e per sé, quanto piuttosto l’arco di una vocazione per il fantastico nel senso più autentico e moderno, un appassionato invito alla lettura della dimensione problematica, cangiante e mai allineata di un maestro la cui ricchezza di pensiero è capace di mettere in discussione i nostri paradigmi critici, culturali e sessuali, richiamo al quale non si può non rispondere dopo che il leggerlo ci abbia ricordato – o fatto scoprire – quei suoi aspetti meno in luce, quali ad esempio la grande vis comica nel segno di un’ironia a metà tra scherzo e satira, spesso ignorata o sottovalutata dalla critica, che si dipana come un fil rouge attraverso la pirotecnia nera delle sue torbide fantasie oniriche.

Dunque un ritratto completo al di là degli stereotipi, un punto d’osservazione a largo raggio che tiene conto anche delle numerose note e doppi sensi che corredavano i testi delle edizioni originali, riferimenti all’attualità del suo tempo necessari a noi posteri per svelare il senso altrimenti oscuro di alcuni significativi passaggi; mancanza che nel tempo ha portato numerosi critici, per compensazione, ad insistere sulla proverbiale e indiscussa musicalità del suo linguaggio. Una attenzione certamente dovuta il cui effetto, però, è stato quello di consegnarci un Poe soprattutto cesellatore, quasi esclusivamente dedito all’eccezionale bellezza dei suoi arabeschi letterari; alimentando così, una volta di più, quella discordanza tra il Poe autentico e le forzature etichettanti che lo circondano.

Altra novità del libro di Pezzini, a sorpresa, sono le possibili suggestioni che il divino Edgar può aver tratto dalle immagini della peste del nostro Manzoni – che senz’altro conosceva dato che è certa l’attribuzione di almeno un suo articolo elogiativo riguardante I promessi sposi, apparso sul Baltimore Republican del 13 giugno 1835 – così come del Foscolo, alla cui celebre lirica A Zacinto non è da scartare sia debitore di una qualche eco, confermando ulteriormente La camera pentagonale come testo critico accurato, esaustivo, coinvolgente. Un saggio che, andando oltre la sua caricatura come caso clinico o bohémien d’oltreoceano, allarga lo sguardo agli altri mondi di Poe, a cavallo tra aldilà e vita reale, visibile e invisibile. Universi noti ma estranianti, «ricordo inspiegabile di tempi remoti» che, nel muoversi veloce della sua penna sul foglio, proiettano fino a noi dal passato tutta la forza della loro attualità sconcertante.

(Franco Pezzini, Edgar Allan Poe. La camera pentagonale, Vol. I, Odoya, 2018, 480 pp. € 24.00)

Cereali al neon

Respiro. Il tizio alla porta scruta chi è arrivato per primo. Ne farà entrare alcuni, altri no. C’è un criterio, c’è un senso. È il colpo d’occhio. Deve essere interessante. Strano. E non significa fare entrare soltanto gente strana. Per niente. Varietà con una struttura. Senza una struttura non c’è la possibilità di vederla sgretolarsi a poco a poco. Sciogliersi. Crollare. Si inizia iperstrutturati, e si finisce sparpagliati sul pavimento. A pezzi, frammenti. Minuscoli granelli di esseri umani.
Io aspetto sulla soglia. Sono quasi dentro. E quasi fuori. L’ordine della saletta che precede il caos è teso, sul punto di spezzarsi. Carico di voglia e di endorfine.
C’è sempre più gente. È una cosa buona? Vorrei essere meno ipocrita di così. Tocco le zigulì che ho in tasca e le faccio scorrere tra le dita come grani di un rosario. Spero che bastino per mandare tutti nell’altra stanza. Ho bisogno di vedere gente che balla seguendo il respiro. Come facevamo io e Andrea. Come facevo io.
Un club techno in cui regna il silenzio.
Il nostro I-Doser è essere ancora vivi. Sangue che corre, pressione alta che tamburella sulle tempie. Graffiarsi. Deglutire. Amplificare ogni fiato. Balliamo in un esoscheletro sonoro di cui non ci possiamo liberare.

Prendi le cuffie e ascoltati. Le prime espressioni sono di disagio. Non ti sei mai conosciuto così. Non puoi credere a quello che il tuo corpo produce.
Un piccolo uomo che si sente molto intelligente sta sudando. Gli passo accanto e gli allungo una pasticca. Vorrebbe rifiutarla, ma è troppo intelligente per farlo. Ama l’arte, così la chiama lui. La deve prendere perché l’esperienza sia completa. Forse è la prima volta, forse invece si fa di eroina solo il mercoledì dei mesi dispari. Ne prendo una anche io. La zigulì si scioglie sotto la lingua, e una pellicola di zucchero mi irrita le papille gustative, che adesso avverto gonfie come palloncini. Rosse e puntiformi. Fisso l’uomo. Mani sulle cuffie. Testa all’indietro. Occhi già ribaltati. La zigulì sta salendo, inizia a fare effetto. Era all’amarena. La mia preferita.
La saliva vince su tutto. Deglutire è come ascoltare Demetrio Stratos nelle sue triplofonie. Le cuffie e la zigulì lavorano insieme per amplificarsi e abbracciarti. Mi tornano in mente le notti passate a sedici anni, Lsd e pesciolini d’argento in piazza. Un’immensa vasca da bagno con migliaia di insetti sui gradini come un tappeto luccicante e bellissimo. Movimento, rumore scintillante.
Ora ho intorno teste che oscillano. Sguardi vuoti, proiettati lontanissimo. Viviamo esistenze parallele in cui siamo fatti di luce e pensiero. Adesso che il corpo ci risuona nelle orecchie, affondiamo in bolle di sangue. C’è chi è disgustato da se stesso, lo intuisco dallo sguardo. Altri no: sorridono. Io continuo a sentirmi lontano. Le cose che ho dentro scorrono senza toccarmi.
I colori lampeggiano, ci evidenziano, fotogrammi di luce nel silenzio che ci accarezza fuori, e nel rumore liquido che da dentro ci affoga. Riesco a tirare la testa fuori dall’acqua per un secondo, solo il tempo necessario a respirare. Quando sono sotto, immerso nei miei liquidi, la vita mi attraversa e non riesco a immaginare tortura peggiore e tenerezza più grande.

Non c’è posto per me nei suoi momenti di felicità. C’è nella tristezza, nei momenti in cui il corpo non ha uno spazio suo e ne cerca un altro fuori da sé.

Sto ancora cercando di capire se la sua tristezza fosse abbastanza. Se ci fosse davvero quello che vedevo. Forse era soltanto una proiezione di me. Tutto lo è. Me ne rendo davvero conto solo adesso, quando lo zucchero e la zigulì sono arrivati vicinissimi alla sede della vista e dell’immaginazione.
È così chiaro da essere trasparente. Uno strato di plexiglass davanti agli occhi che invece di ostacolarmi rende i colori brillanti e i contorni netti. Tutto riguarda me. Persone diverse si sciolgono l’una nell’altra per diventare un personaggio dell’esistenza che mi sto raccontando. Ho creduto a me stesso come l’ultimo degli ingenui. Ho sempre saputo di essere naïf, ma si può esserlo fino a questo punto?
Due uomini vestiti di bianco, con il viso truccato di bianco, entrano nella sala. Altissimi. Saltano su trampoli talmente elastici da sembrare tentacoli. Fanno molto KitKat Club. Ma non fanno rumore. Si aggirano silenziosi tra una folla di manichini in viaggio verso un illusorio stato di pace.

Zigulì e silenzio.

Qualcuno è accovacciato contro l’angolo in fondo alla stanza. È una macchia scura in mezzo al bianco, ed è bellissima perché non si riesce a vedere quasi niente di lei. La curvatura della schiena, qualche ciuffo di capelli, cinque centimetri di collo. Poi le spalle, quelle evidenti, saltano fuori dal corpo come due ali di cartilagine. Vorrei accovacciarmi anche io dietro di lei. Diventare una macchia. Farmi assorbire dal muro bianco e sparire.

Il ritmo del mio corpo è irregolare. Aspetto un picco, una vetta, un’eccezione. Respiro pesante, come sempre, il cuore batte veloce. Le risonanze del volto sono sorprendenti. Ma la saliva, la saliva. Fa cose meravigliose, la mia saliva.
Un uomo e una donna nel centro della stanza danzano guardandosi da lontano.
Siamo tutti distanti ma ci sfioriamo lo stesso. Nello spazio vuoto che ci separa, estensioni di noi si incontrano e provano a toccarsi, compenetrandosi una nell’altra, inconsistenti come fumo. Siamo musica liquida in un club in cui nessun altro è autorizzato a entrare. Da adesso in avanti saremo solo noi, fino alla fine. Porte chiuse e invisibilità. Il mondo esterno non può vederci.

Chiudo gli occhi. Ascolto.

Cerco i miei organi. Il cuore è facile, gli altri no. Faccio schioccare la lingua ed è come se avessi rovinato qualcosa di bello. La mia lingua, un ragazzino dispettoso che urla in mezzo a una lezione di yoga.
Il buio è insopportabile, in questa camera anecoica troppo affollata. Riapro gli occhi e sono tutti strafatti. Altro che metanfetamine. Le zigulì ci hanno ridotto a dei coni di saliva che si sciolgono a poco a poco.
Scarpe luminose calpestano il pavimento bianco. Lampeggiano, come i colori che ci avvolgono dall’alto. Mostro il paradenti fluorescente a chi le indossa. Sorride in modo vago. Io rispondo con una smorfia. Mano in tasca, altra zigulì, la lecco e la nascondo subito in bocca. Qualcuno mi vede, si avvicina. Vogliono altre pillole, altre caramelle. Ne distribuisco con il sorriso. Ho le tasche piene di soldi. Dovrei dedicarmi allo spaccio a tempo pieno, invece che a fare cose. Anche il mio corpo si adegua ai miei pensieri, e il ritmo di me diventa più rapido, incalzante.
L’uomo di fronte a me ha gli occhi rossi come un semaforo.
Le strobo si fermano. Un attimo di buio, solo un istante e sento già vibrare il panico. Poi luce. Normale. Bianca.
Là dove dovrebbe esserci il dj ci sono tre lavatrici allineate.
Vedo sguardi storti. Nessuno vuole incrociare quelli degli altri.
Qualcuno a terra. La bocca piena di schiuma. Un uomo enorme lo raccoglie e lo trasporta fuori. Sbatto gli occhi ed è sparito. Vorrei sparire anche io, di nuovo.
Penso ancora a lei. All’immagine residua di lei, che invece di andare svanendo è sempre più chiara. C’è stato un momento. Un momento in cui mi sono sentito strappato. L’avevo appena conosciuta, eppure non riuscivo a gestire le sue assenze.
Due piccoli frammenti di presenza in mezzo al niente. Se ci ripenso adesso, il mio stato d’animo era del tutto sproporzionato rispetto alla realtà, ammesso che ce ne sia una sola. Era la persona più intensa che avessi mai incontrato. Dovrei ringraziare le sue sparizioni. Avrei dovuto scappare, a un certo punto. Invece no.

Ballo. Mi muovo come non ho mai fatto prima. La maglietta è un sottile strato di sudore che finisce a terra e mi lascia scoperto, indifeso. Gratto una costola per sentire l’effetto che fa il ritorno in cuffia. Penso a qualcosa di superficiale, di leggero. A me gonfio di elio e malinconia che salgo verso il cielo tirato in alto dalla mia testa aerostatica.
I quattro angoli sono occupati da persone in meditazione. Io sono schiacciato al soffitto, e vedo solo la mia enorme testa sotto di me.
Vorrei che L. mi vedesse adesso. Leggero, gonfio, lucido e completamente fatto. Vorrei che Andrea fosse qui. Vorrei che tutte le persone che ho incontrato fossero una persona sola. E vorrei che la confusione non se ne andasse mai.
Non merito neanche un quarto d’ora di felicità. Ma di galleggiare sospeso, di scivolare su un cuscinetto d’aria come un hovercraft, questo lo merito. Non sento il peso del mio corpo, ma sento ancora il peso delle sue parole. Pronunciate con leggerezza, pesanti. Non voleranno via insieme alla polvere. Resteranno. Come rocce.
Zigulì alla banana sulla lingua e un velo di uva sul palato molle. Pavimento mobile e mani di luce che arrivano ovunque, tranne che da te.
Sono a terra. Di nuovo. Nessun suono, il mio corpo di nuovo muto. Gli altri sono sconvolti.
5.15 del mattino. Il club chiude. Per sempre. Per un secondo.

 

Questo passo è tratto da Cereali al neon, il nuovo romanzo di Sergio Oricci, in uscita il 12 luglio per effequ.

Sergio Oricci (Fiesole 1982) ha pubblicato il romanzo Bianco Shocking (edizioni 20090, 2014) più articoli e racconti sulle riviste Tipografia Helvetica, Osso magazine, Exibart, Altrisogni, Rapsodia, Crapula club. Un suo racconto è presente in Odi. Quindici declinazioni di un sentimento (effequ).

Cereali al neon: Un livello dopo l’altro, un’esperienza dopo l’altra, Silvano Rei si trasforma. La sua evoluzione non è graduale, ma si compie attraverso momenti violenti di introspezione e di esibizione. Il suo corpo cambia, e con lui cambia la sua percezione delle cose, e con la percezione delle cose cambiano gli universi, come opere d’arte contemporanea, attraenti e incomprensibili. In questa Odissea digitale, in mezzo a frame ogni volta diversi come i livelli di un videogame Rei non resta mai uguale: è necessario mutare per appartenere a un mondo, per comprenderlo e conviverci, anche se per poco. Attraverso lo specchio virtuale di un visore si susseguono incontri frenetici con bare, corpi, combattimenti, ologrammi, maschere e bianconigli: cosa diventerà, Silvano Rei lo scoprirà a sue spese.

Il punto sull’accoglienza #2

Nel precedente articolo abbiamo spiegato in linea generale come funziona il diritto di asilo, la procedura standard alla quale accede chi fa richiesta di protezione internazionale e che dà diritto all’accoglienza. Adesso cerchiamo di spiegare che cos’è l’accoglienza e come funziona.

Il primo aspetto da chiarire è che quando si parla di accoglienza non si intende il principio generale dell’accoglienza ovvero, come recita subito il dizionario Treccani: «L’atto di accogliere, di ricevere una persona; il modo e le parole con cui si accoglie», ma la gestione di veri e propri centri che garantiscano al richiedente non solo il vitto e l’alloggio ma soprattutto la corretta procedura per la richiesta di asilo.

Il secondo aspetto, altrettanto importante, è che viene accordata un’accoglienza non solo per una manifesta indigenza del beneficiario ma proprio perché la richiesta di protezione internazionale è una procedura delicata che ha bisogno di tempi e modalità adeguati. Dunque va dato modo all’ospite di capire e avere una piena consapevolezza dei propri diritti e doveri; richiedere protezione in modo sereno e protetto; dimostrare in maniera chiara e inequivocabile tutti quegli aspetti non immediatamente riscontrabili (traumi, torture o persecuzioni subite).

Non è possibile dunque stabilire la concessione o meno del diritto di asilo al momento dello sbarco, e nemmeno nell’arco di pochi giorni. Senza considerare che dovrebbe valere in ogni caso un principio di soccorso umanitario che dà comunque diritto all’accoglienza, visto che, come abbiamo detto nel precedente articolo, la commissione che valuta la richiesta di asilo può anche accordare, nei casi in cui non sia ha diritto all’asilo politico o alla protezione sussidiaria, un permesso di soggiorno umanitario.

È necessaria una premessa. Per molti banale, mi rendo conto, ma fondamentale per considerare un “centro di accoglienza” come una qualsiasi struttura che a fronte di un bando dello Stato fornisce un servizio rivolto alle persone. Entrare dunque nell’ottica che un centro di accoglienza non è un posto pericoloso, off limits e abitato da soggetti disperati e ai margini. Un centro di accoglienza è una casa, prima di tutto, che offre ospitalità, cibo e assistenza legale, burocratica e educativa a persone che hanno richiesto protezione internazionale. Bisognerebbe invertire la tendenza piuttosto diffusa ad associare un centro di accoglienza alla paura, alla delinquenza e alla sporcizia. Un centro di accoglienza non è un pericolo per la popolazione.

 

 

Vediamo allora quali e quanti tipi di centri di accoglienza esistono, come funzionano quali servizi devono offrire.

 

Centri di primissima accoglienza

Hotspot e quelli che una volta venivano chiama Cpsa (Centri di primo soccorso e accoglienza) e che normalmente sono in prossimità dei luoghi di sbarco. Li abbiamo messi insieme perché non c’è più una distinzione così netta tra i due centri. In molti casi è l’hotspot stesso a fungere da centro di primissima accoglienza da dove, oltre al soccorso e all’identificazione, verrà avviato l’iter per la richiesta o meno di asilo e dunque predisposto il trasferimento presso un’altra struttura di prima accoglienza o, per chi non richiede protezione, presso un Cpr (Centri di permanenza e rimpatrio), quelli che nel precedente articolo abbiamo definito erroneamente Cie perché prima della nuova denominazione secondo la legge Minniti-Orlando si chiamavano così.

 

Centri di prima accoglienza

Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) che qualche tempo fa si diceva dovessero essere tutti chiusi ma che ancora oggi sono attivi (i più “celebri” sono quelli di Castelnuovo di Porto e Mineo) la cui gestione è affidata tramite bandi della prefettura del territorio di riferimento (in genere della durata di tre anni). Sono i centri di accoglienza che contengono il maggior numero di richiedenti e possono superare anche i cento ospiti. Sono le uniche strutture miste, ovvero che possono accogliere al loro interno uomini, donne e famiglie. Non ne vengono più aperti di nuovi ma i bandi mirano al mantenimento di quelli attuali.

Cas (Centri di accoglienza straordinaria), sempre regolamentati da bandi delle prefetture. Ormai non hanno più nulla di “straordinario”, perché ai Cas è demandata quasi tutta la “prima accoglienza”, ovvero l’intero l’iter per la commissione territoriale e l’eventuale ricorso in caso di diniego. Possono essere maschili, femminili, famigliari o per minori non accompagnati (questi ultimi chiamati più correttamente Cpim).

 

Centri di seconda accoglienza

Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che con l’ultima legge possono accogliere solo chi ha già avuto lo status (asilo politico, sussidiaria o umanitario) per favorirne un adeguato processo di integrazione. La gestione degli Sprar viene affidata agli enti locali. Dunque non c’è un controllo diretto delle prefetture, come per i Cara e i Cas, ma un servizio centrale predisposto dal Ministero dell’Interno e gestito dall’Anci (Associazione nazionale comuni italiani). Possono essere maschili, femminili, famigliari o per minori.

I bandi possono differire a seconda della tipologia di centro ma tutti impongono all’ente vincitore (a fronte dei famosi 35 euro a ospite – 45 per i minori –) la garanzia dei seguenti servizi (sintetizzo):

Servizi di gestione amministrativa (Cara e Cas devono rendere conto alle prefetture, gli Sprar agli enti locali).

Servizi di assistenza alla persona: informativa burocratica e legale sull’iter della domanda di protezione; mediazione linguistica-culturale, assistenza sociale e psicologica; supporto all’integrazione e orientamento al lavoro; corsi di italiano; distribuzione, conservazione e controllo dei pasti; distribuzione occorrente per la cura e l’igiene della persona, per i servizi di lavanderia, per la pulizia e la manutenzione dei locali esterni e interni del centro; distribuzione vestiario (come da specifiche da bando); assistenza sanitaria.

Pocket money giornaliero di 2,50 euro per ogni richiedente. Una sorta di gettone di presenza che consente al beneficiario di incassare ogni mese fino a un massimo di 75 euro. Molte cooperative ripartiscono questi 75 euro tra soldi cash, ricariche telefoniche e abbonamento mensile dei mezzi pubblici, altre riescono a garantire al richiedente tutti i 75 euro cash e a fornire comunque anche l’abbonamento dei mezzi pubblici (più facile se il centro si trova in un contesto urbano).

Quando si parla dunque con superficialità dell’adeguatezza o meno dei “35 euro a richiedente”, bisognerebbe tenere sempre presenti tutti i servizi che sarebbe bene garantire per gestire una buona accoglienza.

Tra l’altro, dobbiamo evidenziare un altro aspetto decisivo: l’associazione, l’ente o la cooperativa vincitrice del bando dovrebbe assicurare l’impiego di personale qualificato.

In un centro di accoglienza ci lavorano dei professionisti. Il mito che associa il lavoro nell’accoglienza esclusivamente al volontariato, alla filantropia, alla religione, all’ideologia socialista (o “buonista”, a seconda dei punti di vista) o alla pura speculazione è bene sfatarlo una volta per tutte. I mediatori sono professionisti, gli insegnanti di italiano sono professionisti (sebbene il Miur se ne disinteressi letteralmente), gli psicologi e gli assistenti sociali sono professionisti e anche gli operatori (soprattutto quelli legali, la cui importanza abbiamo illustrato nel precedente articolo).

 

 

Ma mettiamoci nei panni di un richiedente asilo adulto che entra per la prima volta in una struttura di accoglienza. Lo chiameremo Mario, del resto anche noi abbiamo una discreta tradizione legata all’emigrazione.Mario viene trasferito da un hotspot, o da un Cpsa presso un Cas della periferia di Roma (è molto difficile che un centro di accoglienza venga aperto in zone centrali o residenziali, questo perché, come dicevamo prima, vi è la percezione da parte della popolazione, e in quanto percezione non giustificata dai fatti, che un centro di accoglienza sia un posto pericoloso) da dove prenderà il via ufficialmente l’iter per la sua richiesta di asilo.

Al primo appuntamento all’ufficio immigrazione della Questura, Mario riceve il famoso “cedolino” una striscetta di carta (di circa 20×4 cm) con foto che è a tutti gli effetti un permesso di soggiorno provvisorio per richiesta asilo (anche se non tutti sono disposti a riconoscerlo come tale). Il permesso di soggiorno per richiesta asilo ha una validità di sei mesi, rinnovabile fino alla fine della procedura.

Dietro al cedolino verrà indicata la data del secondo appuntamento (che ha una tempistica imponderabile, l’attesa può andare dalle due settimane fino al mese, a volte anche di più). Al secondo appuntamento è previsto il fotosegnalamento e la compilazione del cosiddetto C/3, il modello per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. In questo modello, oltre ai dati anagrafici, alla presentazione di una residenza (della struttura di accoglienza se ospite presso un centro o di una dichiarazione di ospitalità nel caso di domanda reiterata o per chi non ha richiesto l’accesso al circuito d’accoglienza), a Mario verrà richiesto di descrivere (anche nella propria lingua) il viaggio dal Paese d’origine verso l’Italia; di raccontare in breve i motivi per cui ha lasciato il proprio Paese; di allegare eventuale documentazione a supporto. Se Mario possiede della documentazione talmente evidente a sostegno della propria richiesta, non ci sarà neppure bisogno dell’audizione in commissione e gli verrà riconosciuto lo status in tempi relativamente brevi.

Ma nella maggior parte dei casi sarà necessario il passaggio presso la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale (per la convocazione possono passare anche mesi dalla compilazione del modello C/3).

Se in commissione Mario riceverà un diniego (consideriamo pure che l’esito della commissione dopo l’audizione non è immediato), avrà comunque diritto al ricorso in tribunale e a mantenere il diritto all’accoglienza (e al permesso di soggiorno per richiesta asilo) fino alla fine del procedimento. In soldoni, dalla prima richiesta di asilo al riconoscimento di uno status o del diniego definitivo possono passare anche parecchi mesi, a volte anni.

Non ho omesso tutta questa melassa burocratica, un po’ noiosa, mi rendo conto, per far capire sia le tempistiche sia la complessità della richiesta stessa.

Prima dunque di additare Mario con il più classico dei “A lavorare!”, bisognerebbe sapere che:

1) Un richiedente asilo non può avere accesso al mercato del lavoro prima dei due mesi dalla presentazione della domanda. E molto spesso un datore di lavoro non riconosce il solo cedolino come documento valido (e invece lo è a tutti gli effetti). Senza considerare poi che pochi sono disposti ad assumere qualcuno dal destino incerto, a meno di sfruttarlo per il tempo strettamente necessario a lavori usuranti e mal pagati. Si tenga anche presente che il permesso di soggiorno per richiesta asilo non può essere convertito in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Un richiedente asilo non ha altra possibilità che attendere l’esito della procedura.

2) Per poter comunque accedere al mercato del lavoro è necessaria una discreta conoscenza della lingua italiana (tutti gli sportelli di orientamento al lavoro rimandano indietro i richiedenti che non hanno un’adeguata conoscenza della lingua). Dunque Mario dovrà approfittare della sua permanenza al centro per imparare la lingua. Una struttura di accoglienza, da bando, dovrebbe assumere un insegnante specializzato che garantisca almeno otto ore di lezione a settimana a beneficiario (prima della legge Minniti le ore erano dieci). Ma molte cooperative preferiscono andare a risparmio e inviare gli ospiti presso le tante scuole del territorio gestite da volontari (ma un conto è avere un insegnante dedicato e specializzato, un conto affidarsi esclusivamente alle tante scuole del territorio gestite da volontari, che pure sono importantissime) o iscrivendoli direttamente presso un Cpia (Centri provinciali per l’istruzione per gli adulti che però inglobano anche i minori stranieri non accompagnati dai sedici anni in su), che molto spesso sono impreparati a gestire le problematiche connesse ai differenti percorsi migratori. La scuola sarà il tema del prossimo articolo.

3) Il periodo presso il centro di accoglienza è necessario al richiedente per preparare al meglio l’audizione in commissione. Già abbiamo parlato nel precedente articolo dell’importanza dell’operatore legale, colui o colei che dovrà guidare il richiedente nella preparazione della storia e della documentazione a supporto della stessa. Molto spesso, come già evidenziato, ci vogliono mesi per far emergere tutti gli aspetti traumatologici legati al viaggio o a persecuzioni e torture subite.

Non possiamo dunque considerare Mario come un parassita che ciondola dalla mattina alla sera mantenuto dalle nostre tasse. No, Mario ha avviato una procedura delicata che comporta una serie di appuntamenti sanitari e burocratici, una formazione linguistica (molto complessa e lunga se Mario è analfabeta) e la pressione psicologica di un destino incerto. E l’instabilità sulla possibilità di rimanere o meno in un paese in cui ricostruirsi può essere piuttosto lacerante e prosciugare la motivazione. Per questo motivo il centro dovrebbe anche garantire il diritto al tempo libero e allo svago. L’idea che un immigrato debba essere considerato solo in funzione lavorativa è una consuetudine disumana. Dunque non è affatto uno scandalo, anzi dovrebbe essere una buona prassi, se gli operatori di un centro di accoglienza organizzano anche attività sportive e ricreative (in genere c’è un operatore addetto).

Una buona accoglienza, per essere tale, deve essere ben gestita. I casi di mala gestione sono da condannare. Ma ci sono anche tante strutture virtuose, delle quali non si ha mai notizia, che hanno saputo costruire un legame col territorio sano e benefico. Bisognerebbe partire da quelle.

Il nostro consiglio è, laddove vi è possibile, entrate all’interno di un centro di accoglienza, parlate con chi ci abita, ascoltate le loro storie: il modo migliore per mettere a tacere le tante, troppe inesattezze che si sentono in giro.