Ciò che sappiamo ci rende ciechi

Il mondo è difficile e imprevedibile: viviamo nella costante illusione di poter definire il futuro attraverso l’interpretazione del passato. Convinciamo noi stessi di saper disegnare un quadro coerente degli eventi in base al quale effettuare scelte per la nostra vita privata e sociale. Ma la conoscenza non ci protegge dagli errori. Le informazioni che crediamo di possedere ci rendono ciechi di fronte a una realtà che dovrebbe apparire evidente: il futuro è inatteso e complesso. Eppure è un’idea a cui non riusciamo ad arrenderci: ammettere che un fenomeno non possa essere previsto, spiegato o confinato all’interno di una credenza sicura è, secondo Robert Jervis – professore di Politica internazionale alla Columbia University – scomodo e avvilente sia dal punto di vista intellettuale che dal punto di vista psicologico.

La conoscenza del passato non rappresenta, dunque, un ancoraggio sicuro per le scelte future, perché in realtà  comprendiamo il passato meno di quanto pensiamo, come ha spiegato Daniel Kahneman nel suo Pensieri lenti e veloci (Mondadori, 2012). A dimostrarci la fragilità della conoscenza è stato, però, Philip Tetlock, in un ventennale studio dal titolo Expert political judgement: How good is it? How can we know?: ad alcuni esperti del mondo economico e politico veniva chiesto di prevedere l’esito delle più rilevanti questioni storiche del XX secolo. I risultati furono sconfortanti: a distanza di anni nessuna previsione si rivelò esatta, dimostrando che il futuro è qualcosa di molto distante dalla conoscenza storica.

Cosa sia, prova a spiegarlo il sociologo Paolo Jedlowski nel suo Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali (Carocci editore, 2017): «personalmente, ritengo che il modo più efficace di concepire il futuro sia pensarlo come una sorta di orizzonte. Potremmo chiamarlo l’orizzonte delle attese». La natura squisitamente inafferrabile dell’avvenire è sempre bilanciata dalla creazione umana di «progetti, aspirazioni e previsioni»: la forma del nostro futuro è l’espressione non solo di credenze analitiche, ma anche di forze immaginative e rievocative, messe in atto nel presente.

Jedlowski cita Luhmann e la sua distinzione tra «presenti futuri» (ciò che avverrà domani) e «futuri presenti», ossia i futuri che in questo momento possiamo immaginare. Non siamo distanti neppure da Robert Merton e dalla sua «profezia che si auto avvera», ma qui il futuro non è determinato solo da risorse cognitive e culturali, come teorizzato dal sociologo americano: la forza creatrice dell’avvenire risiede anche nelle emozioni e nei ricordi. La paura, la frustrazione, il dolore, ma anche la speranza, diventano artefici del nostro futuro e complici del nostro passato.

La memoria, ci insegna la psicologia, non è mai riproduttiva, ma sempre ricostruttiva: il presente si appropria dei nostri momenti passati, elaborandoli e interpretandoli, per pianificare i nostri comportamenti futuri e fornire un’identità coerente, come avviene nella cosiddetta memoria autobiografica. Nella narrazione del sé selezioniamo parti della nostra vita, con lo scopo illusorio, di dimostrare quanto, sia il passato sia i futuri immaginati, portassero inevitabilmente alla nostra identità attuale. E ciò appare ancora più evidente quando si tratta dell’«orizzonte di attese» di una collettività: non esiste una realtà univoca e statica, ma una rappresentazione mobile, continuamente trattabile, dei futuri possibili. La competizione tra gruppi non riguarderebbe tanto la conquista di un potere presente, quanto il desiderio di appropriarsi di una narrazione dominante, capace di offuscare altri futuri possibili.

 

(Paolo Jedlowski, Memorie del futuro,  Carocci editore, 2017, 116 pp., € 11.00)
Copertina di “Sentieri neri” di Sylvain Tesson

E tutto il meglio (ri)cominciò da una caduta

Il suo sorriso inizia al centro, come un arco infilzato da uno specchio. L’altra metà diffida, disapprova e cola a piombo fino al mento. Con quella posa schizoide, sfregiata da un ghigno cucito in fil di ferro, Sylvain Tesson s’affaccia beffardo sulle reti francesi. Per chi non la conoscesse, diffonde la sua storia.

Lui che ha solcato la Siberia come un comune mortale programmerebbe un giro al parco, lui che ha sostato per sei mesi sulle rive del lago Bajkal, pizzicato dalla tundra e dalle nuvole, quello stesso lui si è sfracellato giù da un tetto, riportando fratture in luoghi del corpo a cui prima non aveva neanche pensato.

Ha accatastato lunghi mesi d’infortunio. Giorni indistinti imbiancati d’attesa, giorni azzimati di biancheria d’ospedale. E da quel letto infossato di noia è sgorgata una promessa, un progetto di ennesimo viaggio. Se si fosse rimesso in piedi, con quegli stessi piedi ritornati alla terra avrebbe attraversato la Francia. E per di più una Francia imprevista, ruvida, sfuggente, quella dei chemins noirs, ovvero appunto dei Sentieri neri (Sellerio, 2018).

Quei lembi di strada selvatica, mai asfaltata, mai battuta da pretese di possesso.

Mulattiere, viottoli oscuri, snodi d’impronte. Mappe tracciate da intenzioni di cervi o stambecchi.

Dalla Provenza alla Normandia, Tesson si prefigge di salire sul midollo inesplorato del Paese. Di cavalcarne il dorso. Tutto ciò che la civiltà smaniosa non ha potuto asservire al suo controllo viene eletto obiettivo di un percorso. Che è sfida e rinascita. Cerimonia e avventura.

Così è stato. E le sue ostinazioni si sono fatte libro. Ma soprattutto diario di bordo. Si procede in diagonale, da sud-est a nord-ovest. Si parte ad agosto 2015 dalla valle della Roia.

Sono pugni di case scoscese, villaggi brulli e monastici dove una volta di chiesa gli offre penombra come fosse acqua di fonte.

Tesson dorme dove può («Ero tornato nel mio giardino preferito, un bosco sotto le stelle»), sotto un soffitto di foglie o nel riparo inaspettato di qualche folle eremita, che dichiara inorgoglito fin dalla targa d’ingresso «Non abbiamo il wi-fi ma abbiamo del vino» oppure «Accetto solo pane secco e libri».

Sprofonda e sguazza in quel tessuto di nazione definito amaramente dalle istituzioni come “iper-rurale”, non addomesticato. «Per loro la ruralità non era uno stato di grazia, ma una maledizione».

Secondo un rapporto compilato per volere di uno dei primi ministri della quinta repubblica sul piano di sviluppo delle campagne, esistevano aree resistenti all’avvento del nuovo, trattate come malati recalcitranti a ogni specie di terapia concreta. «Presto, grazie all’azione dello Stato, la modernità sarebbe dilagata nei campi […] Perché quello era il fine recondito: assicurare la conformità psichica di un popolo impossibile».

Sylvain Tesson, incallito e felice, si muove contro. Controvento, controcorrente, contro la volontà antropizzante. E ancora di più contro le scosse epilettiche che gli elettrizzano il sangue e lo lasciano al suolo inerme e svuotato: «Una sorta di maleficio era apparso all’orizzonte, una macchia nera che si spandeva in me come l’inchiostro della seppia quando intorbida l’acqua del mare». L’autore trema sul terreno lavico.

Ma prosegue la sua marcia, con i libri come unici compagni. Agisce e respira esattamente come quei sentieri. Serenamente nonostante.

Incontra anime streganti: pastori diffidenti, montanari di quasi nessuna parola, perché non ne hanno bisogno, perché tutto quello che devono dire e sapere sta già nei loro passi, nelle stagioni del cielo, nelle rughe di corteccia. Loro sanno leggere, loro che conoscono e interpretano ogni muschio, ogni fungo, ogni arbusto, colore e rumore degli alberi. Loro sono i tesorieri di una capitale vivente. E non monetizzabile.

Probabilmente non è un caso che un testo del genere si affacci e c’incanti in un momento come questo.

Di scambio alluvionale, comunicazione continua. E sterile, come sta diventando il genere umano, almeno quello occidentale. Profluvi di messaggi che incollano gli occhi a uno schermo e niente di vero sotto il sole. Perché il sole si preferisce in foto. Si preferisce raccontarsi che “esistersi”. La migliore versione di sé, iper-social e falsamente integrata. A volte viene da pensare se l’uomo contemporaneo si sentirebbe più nudo svestito o senza telefono. Sicuramente sarebbe disarmato, costretto ad affrontare a viso aperto i brandelli di tempo “libero”. O i viaggi sull’autobus.

Forse non è un caso che un esempio come quello di Tesson, padre di altri libri altrettanto affascinanti come Nelle foreste siberiane o Beresina e ultimamente di Un’estate con Omero, possa insegnarci qualcosa ben al di là delle sue pagine. Un uomo che, come uno dei protagonisti della sua raccolta di racconti Abbandonarsi a vivere, ha deciso di non lasciarsi mortificare dal destino, di ricominciare a esistere risorgendo dalla sua paresi, fronteggiando i rischi e le punte delle sue imperfezioni, gli angoli incavati di una bocca che non sente l’urgenza di correggere su Instagram. Un uomo che si narra senza ostentazioni, con la franchezza delle sue scelte, con la stessa materia di cui è composta la vita. Scabra, tagliente, sempre irregolare.

Innamorata dei silenzi necessari, del fruscio delle orme sul bagnato, di facce segnate dalla stanchezza di cose umili e profonde. È grazie a libri come Sentieri neri, come la piccola gemma Ascoltare gli alberi di Henry David Thoreau, come Camminare di Erling Kagge, primo uomo a raggiungere da solo l’Antartico, o come il suggestivo Dove soffiano i venti selvaggi di Nick Hunt, fortunatamente pubblicati o ristampati in questi ultimi mesi, che abbiamo ancora un’occasione di confrontarci con un interlocutore che non sia il nostro ombelico, ma il ventre enorme e maltrattato che continua ad ospitarci. Un’occasione per capire cosa rimane della nostra essenza nell’assenza di ciò che reputiamo essenziale.

Strepitosa e nutriente quest’ennesima perla di un volume inondato di poesia: «C’è chi fa di tutto per apparire nella Storia; io mi accontento di scomparire nella geografia».

 

(Sylvain Tesson, Sentieri neri, trad. di Roberta Ferrara, Sellerio, 2018, pp. 188, euro 15)

Il silenzio fa eco al silenzio

Jean-Claude Izzo è conosciuto dai lettori italiani soprattutto come romanziere, attraverso una trilogia marsigliese ascrivibile al sottogenere del noir geolocalizzato in quanto mediterraneo. È Izzo stesso a ricordare con tenero campanilismo, in un’intervista del 1998, il rapporto intimo che lo ha sempre legato alla sua città d’origine: «Appartengo al Mediterraneo. Questo mare lo vivo, lo respiro, lo sogno, lo penso da un solo punto di vista. Quello di Marsiglia», considerando al contempo come fratello «l’altro mediterraneo, africano, asiatico e latino-americano», un luogo insomma dove gli uomini sono più importanti dei confini. Da Marsiglia, Izzo vuole conoscere il mondo. La casa editrice Ensemble ha stampato la sua penultima raccolta di poesie Lontano da ogni riva (2018. Edizione originale, Loin de tous rivages, 1997), curata e tradotta egregiamente – con testo a fronte – da Annalisa Comes, con illustrazioni paesaggistiche di Jacques Ferrandez e inserita all’interno della collana Erranze, diretta da Gezim Hajdari.

Si tratta di una raccolta piuttosto eterogenea in cui l’autore, attraverso piccoli cicli di poesie coerenti tra loro, traccia un cammino tortuoso negli anfratti della sua soggettività, vissuta da uno spazio e da un tempo che si incontrano dove riposa la storia.

Il paesaggio di questa raccolta, dopo che ha conosciuto il tempo, è una landa di rovine. Anche da un punto di vista lessicale, con parole come rovine, rovi, pietre, sangue, Izzo manifesta la materialità dei momenti di un’esistenza. Le pietre, quasi personificate, parlano o sono mute, i rovi stringono l’uomo come un cappio da cui non sa sottrarsi. Con la memoria, simultaneamente soggettiva e universale, egli ricostruire gli amabili resti di un luogo che fuori dall’io lirico non potrebbe sopravvivere.  In questa raccolta, la natura non ha vita propria se non in relazione a ciò che vive l’io lirico: Izzo non esce dalla propria soggettività, esprimendosi in prima persona e servendosi del mondo per raccontare il suo paesaggio interiore: «Noi? Ignoro questo plurale che si insinua nelle mie frasi», o ancora: «Sospese nel silenzio: le pietre contro il tempo, combattimento che esiste solo per la mia presenza».

Alcuni nuclei pregni di senso ricorrono tra una poesia e l’altra, secondo l’artificio retorico che i provenzali chiamavano coblas capfinidas: per esempio il lettore potrà seguire il fil rouge di un Mezzogiorno sia geografico che temporale, tra il campo semantico della terra e quello del mare. Accanto agli anacoluti, alle sinestesie e alle altre figure retoriche di cui si serve il poeta, questi elementi ricorrenti sono rappresentati il più delle volte da una parola isolata che dà alla raccolta una grande unità, come d’altronde avviene proprio con Mezzogiorno. Alcuni componimenti sembrano poesie in forma di prosa e l’armonia tra narrazione e lirica fa capire che Izzo fu principalmente un romanziere, anche se da sempre scrisse poesie.

Continuando il parallelismo con la lirica provenzale, al di là del titolo stesso della raccolta che richiama l’amor de lonh di Jauffre Rudel e il suo desiderio di amore e conoscenza proiettato in una distanza spaziale ed esistenziale, un’altra analogia potrebbe trovarsi nell’uso curioso e sapientemente improprio dei deittici. Se a laggiù, o , non segue o precede una contestualizzazione, il lettore si immagina in un luogo vago e indefinito senza potersi orientare. In questo altrove delineato dal poeta, la vita è asfissiata da un silenzio che sembra avere una coscienza («silenzio che sogna»). «Quindi alle labbra questo sapore dimenticato di frutti polposi. Qui e in quest’ora la parola sarebbe solo lacerazione. Sogno. Forse la mia vocazione è il silenzio».

«Nessuna parola allora sulle mie labbra, e la vertigine di sapersi lontano da ogni riva». Nonostante tutto, bisogna sempre capire dove e quando andare: «e non un istante dura, ed è l’eternità».

 

(Jean-Claude Izzo, Lontano da ogni riva, traduzione di Annalisa Comes, Edizioni Ensemble, 2018, 160 pp, € 12.00)

La letteratura come talismano per cuori infranti

«I libri – come scrive Stefan Zweig a conclusione del suo Mendel dei libri – esistono innanzitutto per sopravvivere al di là del nostro breve respiro: si capisce che si trovano a loro agio ad ospitare gli amanti separati, meglio del divano dell’amico più intimo». Ed è esattamente questo che ci dimostra Gabriele Di Fronzo nel suo ultimo libro (Cosa faremo di questo amore, Einaudi, 2018), un viaggio terapeutico nella letteratura di fior di scrittori e scrittrici che negli anni hanno raccontato la fine del sentimento, lo sgretolarsi di una relazione, il senso di mancanza e di dolore indicibile che ci pervade quando un amore termina.

Del resto «la letteratura corteggia le assenze, fiorisce nella mancanza, la letteratura è un rito per preservare, un talismano». L’io narrante, bibliotecario protagonista egli stesso di una storia d’amore che si interrompe, ci guida attraverso abbandoni e addii che hanno un romanticismo inedito, paragonato ad un arcobaleno sottoterra: un sortilegio notturno che possiede comunque una sua luce.

Come spiega Di Fronzo in uno dei suoi paragrafi, il termine “abbandono” deriva dal francese medioevale “à ban donner”, ovvero mettere a disposizione di chicchesia, lasciare ad altri che non siamo noi, dando vita ad un senso di tristezza nebulizzato difficile da mandar via.

Guardare gli addii e i diversi epiloghi degli scrittori, che Di Fronzo ha scelto di narrare in quello che si presenta come un vero saggio sulla fine delle relazioni, diventa catarsi e confronto: lui stesso in diversi passaggi del libro si identifica in qualche episodio e vi trova conforto. Un conforto che viene offerto anche al lettore, poiché ciascuno di noi ha perso un amore speciale; ognuno di noi conosce il retrogusto amaro che Di Fronzo esorcizza con la magia della letteratura.

Si passa dall’esempio di Pazienza, Primavera di Goffredo Parise (con i due protagonisti che si danno appuntamento sotto una piccola pensilina per lasciarsi, valutando anche l’idea di restare nella loro letargia e quindi comunque non restando insieme), alla tragica fine di Didone, che si toglie la vita dopo il crollo della relazione con Enea.

Ci si ritrova con le domande più classiche come quelle di Edoardo Albinati in L’uomo che bruciò un’isola per amore: come è possibile che un rapporto d’amore si trasformi in una tortura? E si arriva alla consapevolezza che lasciarsi reciprocamente non serve a stare meglio, come spiega Giorgio Manganelli in uno dei racconti di Centuria.

Non mancano le provocazioni, che Di Fronzo propone tra un aneddoto letterario ed un altro: «il primo appuntamento è importante sì, ma come priorità io penserei a foggiare due cuori che siano preparati anche all’ultimo incontro». Anche le nuove generazioni, insomma, andrebbero educate ai segreti di un buon addio che invece è quasi sempre un caravanserraglio di mostruosità sentimentali.  Con difficoltà enormi quando ci sono i figli, come Di Fronzo ci suggerisce, citando il libro di Brigitte Giraud Come dirlo ai bambini e Le bambine restano della grande Alice Munro.

Ma cosa scatena un addio? Cosa succede a chi lo subisce e a chi invece ne è l’artefice? Di Fronzo ammette: «Non risolvo il delitto, insomma, ma posso tentare di decifrarlo». Della sua storia d’amore andata in frantumi, che si mischia alle grandi storie della letteratura scelta, l’io narrante ci fa toccare il dolore: «ho il terrore di non scordarla» dice di lei, la sua Rebecca. E subito ci si collega ad Annie Ernaux che nel suo Memorie di ragazza descrive lo «sconcerto del reale» che accade quando lasciati dalla persona che stimiamo la più preziosa della terra, si è invischiati «che quella torni per concederti la grazia di sfiorarti ancora una volta».

Accettare l’abbandono è insomma cosa dura e lo stesso scrittore lo ammette: «Penso ininterrottamente a ciò che non riesco ad abbrancare e domando aiuto alle cavernosità letterarie». L’effetto sollievo quindi arriva: con Tolstoj, De Lillo, Handke, Truffaut, McEwan, Mari, Simenon.

E con l’invito meraviglioso a riscoprire quel classico o quel romanziere che non conoscevamo e che invece sembra parlare proprio di noi.

 

 

(Gabriele Di Fronzo, Cosa faremo di questo amore. Terapia letteraria per cuori infranti, Einaudi, 2018, pp. 127, € 13.00)

#Alvolo: il micro-contest per effe #9

Si chiama #Alvolo il micro-contest indetto dalla nostra redazione  per la selezione dei racconti del prossimo numero di effe – Periodico di Altre narratività.
Dieci giorni (dal 28 giugno al 7 luglio 2018) per inviare fino a un massimo di tre racconti a tema libero.

Come da tradizione, la partecipazione è aperta a tutti, autori giovani, meno giovani, esordienti e no.
I racconti, rigorosamente inediti, devono essere inviati all’indirizzo altranarrativa@flaneri.com, in formato .doc, specificando nell’oggetto della mail e nel nome del file titolo del racconto, nome e cognome dell’autore.
La lunghezza del racconto deve essere compresa tra le 8000 e le 40.000 battute.
La scadenza del contest online è fissata alle ore 23:59 del 7 luglio 2018 e la partecipazione è gratuita.

L’8 luglio poi, dalle 20:30 alle 21:30, il contest diventa live per un’ora: Speed Date letterario durante la Flanerí Night, chi vorrà, potrà consegnarci il proprio racconto di persona.
Dopo un’attenta lettura da parte della nostra redazione, i testi più meritevoli saranno:

*sottoposti agli editor di 42Linee, lo studio editoriale che si occupa di scouting e alla quale è affidata la redazione del volume, che lavoreranno con gli autori;
*illustrati da giovani artisti della scena nazionale;
*pubblicati sul effe – Periodico di Altre narratività #9.

Per chi ancora non lo conoscesse, effe è un progetto indipendente che coniuga le narrazioni inedite con la creatività di giovani illustratori, con l’intento di creare una «zona franca» in cui autori meno noti siano sostenuti da scrittori già affermati.

Alcuni degli autori comparsi nei volumi precedenti sono: Paolo Cognetti (Einaudi), Tiziano Scarpa (Einaudi), Enrico Macioci (Mondadori), Michele Vaccari (Frassinelli), Paolo Zardi (Feltrinelli), Vins Gallico (Fandango Libri) e Luca Ricci (La nave di Teseo).
Tra quelli che invece hanno scritto su effe da esordienti e poi sono arrivati alla pubblicazione ci sono, tra gli altri, Luciano Funetta, Elisa Casseri, Cristiano Denanni, Gianni Agostinelli, Davide Coltri, Elvis Malaj e Alessandra Minervini.

Sul sito www.42linee.it trovate i volumi precedenti e l’elenco delle librerie in cui è possibile acquistarli.

Per ulteriori informazioni:
redazione@flaneri.com

Copertina di I vivi e i morti

Il limbo del tempo

Le scritture più interessanti degli ultimi anni ambiscono a ripensare la realtà, a indagarne gli aspetti ontologici. In un presente in cui lo statuto del reale è sfuggente – complice la fusione con il virtuale – sembra essere questo uno dei compiti della letteratura contemporanea. In Europa è il caso di László Krasznahorkai e Mircea Cărtărescu e – data la potenza immaginativa delle sue storie – anche di Antoine Volodine, per quanto riguarda l’Italia questo è l’indirizzo dell’opera di Antonio Moresco. La scrittura di Andrea Gentile appare animata dalle medesime intenzioni: «Numeri di morti, numeri di vivi, numeri di uomini, numeri di muli», ne I vivi e i morti (minimum fax, 2018) l’oggetto narrato è Masserie di Cristo – un non-luogo di un Meridione fuori dalla Storia in cui si mettono in discussione le leggi della conoscenza.

«Cieli ascoltate. Terre, udite. Noi non siamo né vivi né morti. In principio qui non c’era proprio nulla. Siamo coloro che si nascondono dietro le pareti della grotta. Siamo pronti per venire al mondo, ma siamo ancora fermi. Qui, su questo terreno, si vivrà. Eppure, a guardarlo, si direbbe un posto perfetto per morire».

Così comincia il romanzo di Gentile, con la parola cosmogonica che genera un ordine altro, a metà fra l’epica ridotta a farsa e la favola oscura. Epica, favola, tragedia: l’impasto poetico si alimenta di queste tre forme sfumate, sublimate nell’atmosfera cangiante, nel romanzo ogni costruzione muta repentinamente nel suo rovescio. Entriamo in un territorio governato da una simbolismo diverso, un luogo in cui il tempo ha una consistenza materiale e lo spazio è abitato da un popolo di ombre: «Che cosa accade in questo luogo ignoto? Qui ci sono crateri, caverne e vallate ispide: ossa di un altro secolo».

La sensazione è che venga descritta una realtà parallela, eppure intimamente connaturata alla nostra, come se Masserie di Cristo fosse l’archetipo nudo della civiltà occidentale. L’ambientazione meridionale ricorda le fascinazioni di Carlo Levi per le culture al di fuori dalla Storia – come considerava le culture contadine del Sud ai tempi del fascismo. Eppure non si tratta solo di paganesimo, perché nella grammatica della regione di Gentile confluiscono il sacrificio rituale di René Girard, le storie di fantasmi di Poe, le avventure picaresche di Cervantes – in lande brulle così simili «alle pendici del monte Capraro». Il tempo del paese è fuori dalla Storia, ma allo stesso tempo ne è saturo, perché il sedimentarsi delle azioni e dei riti ha tagliato il contorno netto del tempo naturale, della lotta degli uomini con l’indistinto: «Eternità: la polvere che sta fra le crepe dei mattoni in cotto».

A Masserie di Cristo la morale è sospesa, non vi è distinzione netta fra bene e male, come fra la vita e la morte: «È noto a tutti su questa terra che quello che accade qui non è che la normale conseguenza del male inflitto, da sempre, per sempre, dagli dei e dagli uomini antichi vissuti su questa terra». Di male all’ombra del monte Capraro se ne compie tanto, dai soprusi di potere agli omicidi, dagli infanticidi ai sacrifici rituali, poiché: «È da considerare del tutto naturale, dunque, la catena di efferatezze, ferocie e ribellioni e tanto altro che attanaglia, di questi tempi, questa terra tremebonda». Il male descritto si configura come motore e conseguenza delle azioni degli abitanti della regione, ma anche come forza oscura che è doveroso individuare ed esorcizzare attraverso la sacralità della parola – d’altronde è solo dopo l’esperienza del male che si impara a comprendere il bene. La prosa dell’autore si modella secondo una litania che cerca di materializzare l’impalpabile metafisica del mondo di Masserie di Cristo: «Urla di sconcerto. Urla di rivoluzione. Tentativi di comprendere le meccaniche. Capire le meccaniche conferisce peso e concretezza alle cose».

Nel cosmo di Gentile si muovono personaggi stralunati, clowneschi, maschere perpetue di un mito sepolto nella cenere. La vita di molti di loro appare poverissima e feroce: «Le case degli abitanti di Masserie di Cristo e dintorni non sono che miserabili tuguri, coperti di legno e paglia, esposti a tutte le intemperie delle stagioni. L’interno non offre ai miei sguardi che: oscurità, miseria, sozzura». L’autore imbastisce un’epica di disgraziati, intesse una commedia di personaggi malevoli, sempre sul filo della perversione – per necessità o per semplice passatempo. Così leggiamo le peripezie di Italia e della sua cellula familiare implosa: la madre Evelina alle prese con le avances di Cowboy, il padre Tebaldo suicidatosi sotto gli occhi della figlia. E poi seguiamo le ricerca di Assuntina da parte di Concetta, e la scia di sanguinosi omicidi – corredati di fantasiose amputazioni – che dovranno affrontare gli abitanti e le autorità del posto. O ancora il conflitto di Beberto con l’Ispettore Agrario, inviato dalla “Società del libero pensiero”, una sorta di organo di potere che rappresenta la versione degenerata dell’illuminismo, tanto che l’eccesso di zelante razionalità porta alla sovrapproduzione di regole e burocrazie assurde.

Benché gli avvenimenti raccontati siano più affini alla tragedia, la narrazione non verte sull’emotività. La prosa di Gentile è un saliscendi cinico fra bozzetti grotteschi, comicità involontaria, brani realmente poetici e improvvise virate nella violenza granguignolesca. Nel mondo pagano di Masserie di Cristo l’unica religione sembra essere la parola, il potere dell’affabulazione che nominando il mondo lo modella, lo genera sottraendolo all’indistinto: «La parola. La indossiamo come fosse una perla; e invece è soltanto un po’ un profumo. Una pioggia e vola via. La parola sale sulle terrazze, alla sera. Ci guarda giocare in piazza al gioco del cruccrù. Ci giudica, alimentando dilemmi che mai scioglierà. Poi cade giù». Finzione del linguaggio e materialità del referente fisico si avvicendano come nelle danze a margine di un rito antico: «Le lettere, che dicono essere segni rivelatori delle cose, immagini delle parole stesse, dotate di una tale forza che, pur senza suono alcuno, ci trasmettono ciò che è stato detto da persone lontane. Che cosa dire delle lettere, prive di dignità, sudditi infiniti della parola, unici mezzi per far sì che la parola entri in noi attraverso gli occhi?», il romanzo è costellato di questi momenti – isole di speculazione fra i mille rivoli di una narrazione intricata.

A un certo punto della storia scoppia una guerra, una sorta di conflitto civile fra gli abitanti della parte inferiore del paese e quelli della fascia superiore. Si tratta di uno scontro fra pari e si configura come una ballata, il valzer di un mondo ripiegato su se stesso, l’eterna dialettica dell’evoluzione che porta a un momento di presunta catarsi attraverso il rito violento. Questa guerra si officia come una cerimonia, sospesa fra l’enfasi della pratica religiosa e la scompostezza di un evento caotico. Ancora una volta la lettura di Gentile è ambivalente: se da una parte si getta luce sull’importanza delle azioni umane (anche se queste si ripetono da migliaia di anni), dall’altra se ne evidenzia la portata ridicola. Gli uomini si riproducono e muoiono, altri uomini li soppianteranno, il formicaio rimarrà invariato, prospererà sui piccoli dolori individuali. L’avvenimento della guerra scopre l’ultima grande ambizione della narrazione: non solo indagare lo statuto della realtà, ma ricapitolare – attraverso una parabola definita – lo sviluppo, il crollo e la rinascita della civiltà. Masserie di Cristo è riassunto dell’intero consorzio umano, la voce narrante profetizza: «Ci diciamo che tutto si distrugge ma tutto si accumula», ecco che ritorna la materialità del tempo.

I molteplici livelli di lettura interpolati nel romanzo di Andrea Gentile lo rendono un’opera letteraria trasversale, in grado di veicolare il senso della ricerca metafisica e l’affanno del pellegrinaggio individuale, mentre all’orizzonte il linguaggio emette la sentenza definitiva: «I concetti, da sempre, ti sfuggono. Così ti pare. Ciò che tu senti non riesci a esprimerlo esattamente. La loro inafferrabilità è ciò che più, su questa terra, si avvicina alla morte».

 

(Andrea Gentile, I vivi e i morti, minimum fax, 2018, pp. 549, euro 18)
cover di Fantasie di stupro

Scavare nella parte ambigua dei personaggi

È lecito, per una donna, fantasticare su una violenza sessuale? Un buffo giovanotto orientale che ti segue dappertutto è un maniaco o è soltanto una persona in cerca di nuove amicizie?

È forse questo uno degli spunti più interessanti e originali proposti dalla raccolta di Margaret Atwood Fantasie di stupro (Racconti Edizioni, 2018): non tanto l’osservazione del rapporto tra molestata e molestatore, ma il cortocircuito che la molestia provoca tra vittima e ambiente sociale circostante, a maggior ragione se ci troviamo immersi, così come si è in buona parte di queste storie, nel senso comune imbevuto di ipocrisia e sottile maschilismo di un Canada ancora ben lontano dall’immagine aperta e rassicurante sfoggiata negli ultimi anni.

«Non c’è bisogno di specificare che sono di ruolo, dato che il mio dipartimento, ostile alle donne per molti anni, è stato di recente messo sotto pressione per giustificare la sua politica di assunzioni». (pag. 153)

In questa cornice, “L’uomo che veniva da Marte” rappresenta un racconto esemplare: Christine, una ragazza garbata e affatto attraente, viene perseguitata da uno strano studente asiatico che con ostinata applicazione non vuole saperne di lasciarla in pace. La tipica storia di un’ossessione non ricambiata, quindi? Assolutamente no, perché la faccenda si fa molto più complicata.

Ad agitare lo stomaco di Christine non è soltanto il terrore della caccia, ma anche il senso di colpa sussurrato dal suo imprinting borghese («Era sollevata che fosse stato scoperto, sollevata anche di non essere stata lei a doverne parlare, anche se avrebbe avvisato la polizia da molto tempo nel caso lui fosse stato cittadino del suo paese», pag. 41) e un innaturale – o forse naturalissimo? – moto di vanità che il rocambolesco corteggiamento aziona di riflesso («Gli altri uomini la esaminavano con più attenzione di quanto non avessero mai fatto, la soppesavano, cercando di scoprire cosa ci trovassero in lei quegli occhi pieni di tic dietro le lenti», pag. 38).

In un ambiente dove le più comuni categorie per distinguere le donne sono «la rizzacazzi», «la gatta morta», «la preda facile» e «la stronza che se la tira» (pag. 38), Christine si ritrova protagonista di un instabile gioco di equilibri che la vede ora preda, ora oggetto del desiderio, ora artefice del proprio destino e di quello altrui.

Sono quattordici racconti nei quali il sottointeso, l’elemento ambiguo e contraddittorio che sborda dalle pagine, assume maggiore importanza di ciò che invece è manifesto.

Quando arriva il momento di separarsi? E cosa resta dopo? Tra innamoramenti fuori asse (“Polarità”), relazioni stagnanti (“Sottovetro”) e addii (“La tomba del poeta famoso”), nelle storie di Atwood il tempo per amare risulta sempre agli sgoccioli, le intenzioni sono scoordinate e mai reciproche.

«La banalità è, in fondo, l’antidoto magico per l’amore non corrisposto» (pag. 155), sentenzia la voce narrante in “Gioielli per i capelli”.

Eppure, i protagonisti (quasi sempre femminili, a eccezione di Morrison in “Polarità”, Edward in “Il quetzal splendente”, Rob in “Allenamento”) dei racconti di Fantasie di stupro, sembrano navigare a vista nella banalità di una condizione che soltanto un amore non corrisposto o ormai appassito può generare.

«Aveva paura di affrontarla perché sarebbe stata la fine, tutte le messinscene sarebbero crollate e loro sarebbero rimasti tra le macerie, a guardarsi in faccia. Non avrebbero avuto nient’altro da dirsi  e a questo Edward non era pronto». (pag. 196)

Atwood si ferma qui, un attimo prima della deflagrazione. Nella più classica tradizione americana, la scrittura soppesata dell’autrice canadese vuole “dire” utilizzando il minor numero di frasi possibile. Si immortalano turbolenze, ambiguità, incoerenze, senza per questo volerle necessariamente commentare o interpretare.

Non bisogna dunque scandalizzarsi se, al cospetto di una toccante quadriglia eseguita dagli adolescenti in carrozzina di un campo per disabili, l’educatore Rob è costretto a fuggire per trattenere le risate, perché il nostro sorriso più rassicurante può sempre tramutarsi in un ghigno meschino che monta da dentro.

«Era una scimmiottatura, di se stessi e della danza; chi gli aveva permesso di farlo? Tutti i loro sforzi, perfino la loro precisione, equivalevano a questo: erano ridicoli nelle loro macchine ingombranti. Ballavano come parodie di robot. Ballavano come lui. Rob sentì qualcosa dentro di sé, qualcosa che affiorava, che esplodeva. Si piegò su se stesso, le mani strette sulla bocca. Stava ridendo!» (pag. 240)

Pubblicato per la prima volta nel nostro paese nel 1991 (Fantasie di stupro e altri racconti, La Tartaruga), la riproposizione di Dancing Girls: and Other Stories (1977) – questo il titolo originale – s’inserisce nell’operazione di riscoperta italiana di Margaret Atwood, messa in moto dall’uscita del fortunato serial The Handmaid’s Tale.

Rispetto al suo capolavoro distopico, in questa raccolta l’autrice rimane ben ancorata a scenari di realtà quotidiana e a situazioni talmente “piccole” – screzi, tradimenti, solitudini o disillusioni – da risultare potenzialmente universali. Ma per chi avrà il coraggio di riconoscersi nelle vicende narrate, l’effetto potrebbe essere non meno spaventoso del racconto dell’ancella Offred.

 

(Margaret Atwood, Fantasie di stupro, trad. di Gaja Cenciarelli, Racconti Edizioni, pp. 304, euro 18)

Il punto sull’accoglienza

In questo e nei prossimi articoli cercheremo di spiegare, con parole semplici e con esempi ancorati alla realtà, come funziona l’accoglienza in Italia, che cos’è il diritto di asilo e quali possibilità sono previste per uno straniero che richiede protezione. Lo faremo da un punto di vista “umano”, evitando posizioni ideologiche, numeri, statistiche o articoli di legge (facilmente reperibili in rete). Ovviamente la semplificazione non vuole in nessun modo sminuire i patimenti di tante persone costrette a migrare, solo rendere più accessibile un mondo di cui si parla tanto ma che molti non conoscono del dettaglio, diventando così facile preda di generalizzazioni e populismi.

La prima cosa da chiarire è che non c’è e non ci può essere un diritto di asilo in base al paese di provenienza. La storia delle persone è, appunto, personale. Posso venire da un paese non in guerra ma non è detto che io non abbia subito persecuzioni o io possa avere specifiche fragilità che non consentono il mio ritorno nel paese di origine. Inoltre, come vedremo poi in seguito, la legge non prevede solo il diritto di asilo politico e la protezione sussidiaria (5 anni), ma c’è un’altra possibilità che si chiama permesso umanitario (2 anni).

Ma partiamo dall’inizio, dal viaggio. La traversata in mare è l’esempio più classico, e nella maggior parte dei casi l’ultima fase di un difficile percorso che dura già da settimane, se non da mesi, lungo strade dissestate, montagne e deserti. Se parti da un qualsiasi Stato dell’Africa la destinazione è sempre quella, la Libia, in qualche caso la Tunisia. Per arrivare ad esempio dal Congo alle coste libiche bisogna percorrere più di settemila chilometri, da Lagos a Tripoli quasi cinquemila, e di certo non con l’aereo. Se vi fate poi una chiacchierata con le ragazze e i ragazzi che sono ospiti nelle strutture di accoglienza scoprirete che una schiacciante maggioranza prima di riuscire a imbarcarsi ha subito violenze, torture o è stato detenuto nelle carceri libiche. Quindi bisognerebbe partire dall’assunto che chi riesce a salire su un cosiddetto “barcone” porta già con sé un bagaglio di traumi piuttosto pesante.

Il “mito” dello scafista è nella maggior parte dei casi, appunto, un mito.  Chi si occupa di organizzare la traversata è molto difficile che poi imbarchi insieme ai passeggeri. I trafficanti restano sulla terraferma o lasciano il comando della barca a qualcuno dei passeggeri al quale viene scorporata la quota di viaggio o, più frequentemente, abbandonano relitto e passeggeri al largo della Libia facendo perdere le proprie tracce prima dell’arrivo dei soccorsi di Guardia costiera o navi Ong. (Parentesi drammatica, quella troppo spesso dimenticata, di barche alla deriva, naufragi, morti dei quali abbiamo avuto notizia e tanti di cui non si saprà mai nulla).

 

Una volta attraccati su suolo italiano (chiusura dei porti permettendo), i passeggeri vengono raccolti nei cosiddetti hotspot, strutture “di smistamento” dove vengono soccorsi, identificati ed entro quarantotto ore trasferiti presso altra struttura di accoglienza, o in un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) nella rara eventualità che la persona non richieda protezione. Dentro un hotspot, le possibilità sono le seguenti:

Se sei un minore straniero non accompagnato, evidente o con un documento che lo attesti, hai diritto subito all’accoglienza, il tutore diventa nell’immediato il sindaco, o chi per lui, della località di sbarco (in attesa della decisione di un giudice tutelare) e dovrai essere trasferito quanto prima in una struttura di accoglienza per minori.

Se dichiari di essere un minore straniero non accompagnato ma non puoi dimostrarlo e l’autorità del paese di sbarco nutre dei dubbi (anche nei casi in cui, viceversa, non dichiari di essere minore ma sussistono fondati dubbi), dovrebbe comunque valere il principio di presunzione. Tuttavia viene attivato dal giudice tutelare l’iter per l’accertamento dell’età, che dovrebbe essere quanto più possibile multidisciplinare, prevedendo così colloquio sociale, valutazione psicologica alla presenza di un mediatore culturale che tenga conto dell’origine etnica e culturale dell’interessato e un’attenta visita pediatrica. In ogni caso, anche nei casi di dubbio, come detto in precedenza, fino all’accertamento dell’età deve essere valida la presunzione, e garantire l’accoglienza immediata al presunto minore.

 

Nel caso in cui tu non sia un minore non accompagnato esistono tre possibilità:

Prima. Richiedere protezione internazionale. L’iter dovrà essere interamente gestito dal paese di identificazione: il famoso regolamento di Dublino di cui si parla tanto. In sostanza se sbarchi (e vieni identificato) a Catania, la procedura (e la relativa accoglienza) per la richiesta di protezione deve avvenire in Italia. Se vuoi andare in Germania lo potrai fare solo dopo aver ottenuto lo status (protezione sussidiaria o asilo politico, con l’umanitario non si può espatriare). Ma si deve tener presente che da quando viene avviato l’iter all’ottenimento dello status passano almeno sei mesi (anche se in genere sono molti di più).

Seconda. Evitare l’identificazione e fuggire. Darti alla clandestinità con la speranza di raggiungere magari un altro paese europeo. Ma i controlli sono molto stretti e le possibilità di scappare (senza considerare che dopo la pesante traversata e l’arrivo stremati a pochi verrebbe in mente di darsi alla fuga) sono molto limitate.

Terza. Non richiedere protezione internazionale e di fatto condannarsi alla reclusione in un Cie prima dell’espulsione.

Ovviamente quasi tutti, se non tutti, optano per la prima possibilità diventando, di fatto, richiedenti asilo e accedendo così al circuito di accoglienza. Dunque, è importante precisarlo, non sono clandestini.

 

Come funziona una richiesta di asilo? Entro sei mesi dall’avvio della procedura la persona dovrà comparire davanti a una commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Le commissioni distribuite sul territorio nazionale attualmente sono venti. Ognuna è composta da quattro membri: un funzionario della prefettura come presidente, un funzionario della Polizia di Stato, un rappresentante di un ente territoriale, e un rappresentante UNHCR; tutti i membri hanno diritto di voto e la decisione sui casi individuali può essere adottata a maggioranza, o con il voto favorevole di almeno tre membri.

Mentre vi scriviamo la composizione delle commissioni è in fase di cambiamento. Un recente concorso del Ministero dell’Interno è stato volto ad assumere più di duecento funzionari con l’obiettivo di far diventare le commissioni territoriali quasi totalmente ministeriali. Vedremo gli sviluppi e cosa tutto ciò comporterà.

L’audizione in commissione prevede un colloquio alla presenza di un mediatore (a meno che il richiedente non decida di sua spontanea volontà di sostenere l’audizione senza il mediatore) in cui la persona racconta la sua storia personale e le motivazioni che lo hanno indotto alla migrazione (producendo documentazione laddove presente). Si tratta di una fase piuttosto delicata e che andrebbe preparata quanto più possibile con un operatore legale (che generalmente non è un avvocato ma un operatore specializzato del centro di accoglienza preposto alla preparazione della commissione assieme all’ospite). L’operatore legale svolge un ruolo fondamentale, perché è colui che spiega al richiedente, con l’aiuto del mediatore, tutta la procedura per la richiesta di protezione. Non solo, di concerto con l’ospite imposta il colloquio in commissione, stabilisce come dovrà essere raccontata la storia e suggerisce tutti i passi da compiere, compresi i colloqui con medici, psicologi e psichiatri necessari nei casi di traumi pregressi o torture subite (e sono tanti, spesso non manifesti). L’operatore legale porta su di sé una grande responsabilità: una commissione preparata male significa pregiudicare il futuro di una persona compromettendogli, di fatto, il diritto di protezione.

 

Dopo l’audizione, la commissione può emettere i seguenti verdetti:

Diniego: il richiedente non ha i requisiti per richiedere protezione. Di fatto se la persona non ricorre in tribunale viene raggiunta da un decreto d’espulsione.

Riconoscimento dell’asilo politico. Il richiedente ha subito atti di persecuzione, fisici o psicologici, per motivi politici, religiosi, razziali (o gli è stata impedita la libera scelta dell’orientamento sessuale). Ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato (il rifugiato è, secondo l’articolo 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati – e qui facciamo una piccola deroga al nostro proposito di non citare articoli di legge – «chiunque, nel timore fondato di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato». Ha diritto a un permesso di soggiorno di cinque anni, a un titolo di viaggio per rifugiato (un passaporto che gli consenta di potersi recare all’estero) e al ricongiungimento familiare.

Riconoscimento della protezione sussidiaria. Il richiedente non possiede i requisiti per ottenere lo status di rifugiato ma sussistono fondati motivi secondo cui in caso di un rientro nel proprio paese potrebbe subire danno: l’esecuzione di una condanna a morte, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, la minaccia di conflitto armato. Anche in questo caso si ha diritto a un permesso di soggiorno di cinque anni, al titolo di viaggio e al ricongiungimento familiare.

Riconoscimento della protezione umanitaria. Il richiedente non ha diritto alla protezione internazionale ma la commissione raccomanda al questore il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Possono essere tanti i motivi umanitari: dalla fragilità psicologica o fisica a un comprovato impegno (oltre ai meriti particolari) di volersi integrare nel paese ospitante. Il permesso ha una durata di due anni e non dà diritto all’espatrio e al ricongiungimento familiare.

 

A seguito dell’esito della commissione il richiedente ha comunque diritto al ricorso. Generalmente ricorrono tutti i diniegati ma anche chi ha ottenuto un permesso umanitario ma ritiene di aver diritto allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria.

Il ricorso va presentato al tribunale competente e dunque il pronunciamento sarà affidato a un giudice. Quindi non sarà più sufficiente un operatore legale ma dovrà entrare necessariamente in gioco un avvocato (non si parla più di commissione ma di udienza). Anche in questo caso, l’avvocato ha una grossa responsabilità perché ha il compito e il dovere di capire i motivi del diniego e integrare alla storia raccontata in commissione ulteriore documentazione a supporto della richiesta di protezione.

Qualora anche il ricorso dia esito negativo, secondo il recente decreto Minniti non è più possibile un secondo grado di giudizio ed entro trenta giorni il richiedente può fare ricorso in Cassazione (ma è davvero molto raro che un ricorso in Cassazione ribalti la precedente sentenza di un altro giudice).

L’altra possibilità è presentare una nuova richiesta di asilo, la cosiddetta reiterata. Il richiedente potrà così comparire dinanzi a una nuova commissione per sostenere un’altra audizione (ovviamente la storia precedente non dovrà essere stravolta) apportando nuova documentazione a supporto della stessa. In questo caso però il richiedente non ha più diritto all’accoglienza (che è infatti spendibile una sola volta).

 

Nel prossimo articolo analizzeremo come funziona, questa accoglienza. Vi racconteremo quali e quanti tipi di centri di accoglienza esistono, quali servizi devono garantire, le persone che ci lavorano e chiariremo determinati aspetti sui quali c’è parecchia confusione (per esempio non tutti sanno che un richiedente asilo ospite in una struttura di accoglienza non ha accesso nell’immediato al mercato del lavoro, o a cosa servono effettivamente quei quarantacinque euro di cui tanto si parla). I centri di accoglienza vengono spesso associati esclusivamente a processi speculativi,  ma raramente viene messo in luce l’operato serio e professionale di molti addetti ai lavori (dagli insegnanti di italiano, agli operatori, agli educatori, agli psicologi). Noi cercheremo di farlo, senza però nascondere le problematiche connesse al sistema.

Il tragico disintegrarsi di un’illusione

Approcciarsi a libri considerati capolavori della letteratura mondiale non è mai semplice. Quel timore reverenziale che si prova ogni qual volta si inizia una lettura del genere, spesso influenza il nostro giudizio creando aspettative che poi verranno inevitabilmente disattese o confermeranno l’opinione positiva universalmente espressa. Intraprendendo la lettura di Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald  non si può, però, avere alcun dubbio.

Quello che ci si appresta a leggere non è solo uno dei romanzi più significativi della letteratura americana e mondiale, ma è anche (e soprattutto) il manifesto di quello che è stata l’America dei primi anni Venti; quella dell’età del jazz, quella delle feste senza regole, del boom economico, precedente alla crisi del ’29, che ha dato il via a un consumismo privo di freni e al delinearsi di quel sogno americano fatto di autodeterminazione ma anche di brutale materialismo.

A quello che T.S. Eliot ha definito come «il primo passo fatto dalla narrativa americana dopo Henry James», Fitzgerald ha iniziato a lavorare solo nel 1924 dopo aver scritto una versione riassuntiva del libro che aveva in mente nel racconto Winter Dreams (1922). La ricchezza corruttrice, il mito dell’apparenza a discapito dell’essenza e la dissolutezza che impregna la società ad ogni livello sono le tematiche sviluppate nel romanzo.

Jay Gatsby non è altro che un giovane di umili origini, arricchitosi non si sa bene in quale modo, che per riconquistare la donna amata decide di attirare l’attenzione di tutta la società borghese newyorkese organizzando feste  sfarzose nel West Egg, sperando che in una di queste possa rivedere la sua Daisy.

Nonostante l’apparente velo di superficialità, Gatsby è il personaggio più sincero e pulito dell’universo fitzgeraldiano; il suo è un animo puro che impareremo a conoscere attraverso la voce di Nick Carraway, un giovane appena giunto a New York dalla provincia in cerca di fortuna, che ne fornirà una descrizione precisa. Conosceremo i difetti, le debolezze e la profondità emotiva di un uomo considerato unanimemente tanto misterioso quanto affascinante. Tante saranno le leggende sul suo passato; chi lo descrive come un omicida, chi come una spia. Eppure non è nulla di tutto ciò.

A un personaggio del genere non può che contrapporsi il cinismo e il costante alone di noia e rassegnazione che circonda la donna da lui tanto amata: Daisy, ormai sposata con un uomo rozzo e corrotto dalla ricchezza, che non si fa problemi ad intraprendere una relazione extraconiugale che è sotto gli occhi di tutti, persino di sua moglie.

Ma il ritorno ad un amore così bramato da Gatsby, non potrà avvenire. I due si riavvicineranno senza ritrovare il legame del passato: Daisy, che non lo aveva sposato (a dire di Gatsby) perché povero, è diventata specchio dell’intossicazione da lusso e sfarzo della società americana di quegli anni.

È troppo legata a ciò che ha raggiunto per lasciare tutto. È frivola come la luce verde al di là della baia, quella luce che indica casa sua e che Gatsby osserva e desidera fisicamente, allungando le mani ogni sera dalla sua villa per raggiungerla. Daisy brilla di luce intermittente ed effimera quanto l’amore che lei è in grado di provare.

In ogni romanzo di Fitzgerald si percepisce quanto la fonte di ispirazione  per le sue storie sia la sua stessa vita; ha quasi un’ossessione autobiografica che lo porta a far nascere una  Zelda in ogni racconto. L’amore di Jay e Daisy quindi, non è altro che quello di Scott e di Zelda; distruttivo, provante, tossico, un amore che lo accompagnerà fino alla morte.

Fitzgerald stesso dirà a proposito del romanzo: «L’idea del Gatsby consiste nell’ingiustizia per la quale un giovane povero non può sposare una donna ricca. Questo tema ritorna sovente perché l’ho vissuto».

In un universo privo di valori e involgarito dal vile denaro, l’innocenza e la genuinità di Gatsby non trovano posto. Se Daisy e Tom non sono altro che «polvere immonda che alleggiava sulla scia dei suoi sogni», Gatsby «credeva in te proprio quanto avresti voluto farlo tu stesso e ti rassicurava sul fatto di aver ricevuto da te esattamente l’impressione che volevi offrire, la migliore che avessi potuto sperare».

Con una prosa incalzante, Fitzgerald riesce ad attuare una critica feroce e profonda della società nella quale vive e, senza cercare di nasconderlo troppo, alla vita da lui condotta, legata all’alcol, allo sfarzo e a quella voglia di vivere a pieno come se non ci fosse un domani a cui pensare.

Emblematica è la fine del romanzo: la morte di Gatsby compianto da pochi, presagio di quello che avrebbe aspettato Fitzgerald al cui funerale non si presentò quasi nessuno.

Animi sensibili spesso si ritrovano terribilmente soli, non importa quanto in vita si è stati apprezzati, quanta gente animava le feste e le serate di goliardia; ciò che attrae è l’opulenza non il sentimento di amore o amicizia  totalmente svuotato di significato.

Il ritratto fatto da Fitzgerald è privo di ipocrisie, è un fedele e sincero affresco dell’ America dei Roaring Twenties: nessun timore per il futuro e una condotta di vita incentrata sul qui e ora. Tutto questo ha reso Gatsby una lettura necessaria.

«Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia… E una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato».

 

 

copertina di Dopo il diluvio di Malaguti

I canti del diluvio

«Nessuno ha ancora capito che il diluvio e l’allagamento sono stati un avviso, nessuno ha capito il messaggio: Dio si è messo avanti col lavoro, perché è meglio se il collasso avviene per gradi». Il romanzo d’esordio di Leonardo Malaguti, Dopo il diluvio (Exòrma Edizioni, 2018), finalista alla terza edizione del Premio Neri Pozza, è una storia assai difficile da inquadrare. I personaggi, moltissimi, sembrano usciti da un libro di Günter Grass o da un quadro fiammingo di Bruegel, e abitano un piccolo villaggio mitteleuropeo di fantasia incastrato chissà dove e vessato da un vero e proprio diluvio. All’acqua segue una ridda di eventi, fra il comico e il grottesco, che rende il libro una continua sorpresa, un canto corale pregno di umanità popolare. Lanciato al Salone del Libro di Torino, il romanzo ha avuto un presentatore d’eccezione: Massimo Gramellini. Malaguti, classe 1993, è attivo in diversi campi, dal teatro alla scrittura drammaturgica, passando per la regia di cortometraggi.

Ci potresti raccontare l’origine di questo romanzo?

Il libro è nato, prima di tutto, dal desiderio di provare a scrivere un romanzo. Fino a quel momento avevo scritto soltanto racconti.


E poi, che cosa è successo?

Ero arrivato a scrivere un racconto di cinquanta pagine e poi, finito quello, ho pensato che era ora di provare a fare il salto. I racconti erano molto strani, surreali; per il primo romanzo ho optato per una storia più classica. Nonostante abbia in parte rinunciato allo sperimentalismo, è venuto fuori un romanzo con quaranta personaggi, un calderone! E non so bene come ho fatto a districarmi. Ma questo è il bello: non era voluto, perché quando scrivo cerco di pensare il meno possibile a ciò che sto scrivendo. Cerco di farlo uscire man mano. Ho iniziato a scrivere questo romanzo tre anni fa.


Quali sono le opere che ti hanno maggiormente influenzato?

Tutto è venuto fuori da una lunga serie di influenze che mi ronzavano in testa da un po’: artistiche, cinematografiche e letterarie.


Per esempio?

Espressionismo tedesco, nuova oggettività, i quadri fiamminghi, il cabaret, il cinema espressionista.


E le influenze narrative?

Il tono che cercavo era qualcosa che sta a metà fra Il tamburo di latta di Grass e Twin Peaks.


E come lo hai costruito?

Come sempre, io comincio a scrivere di getto, e poi vedo se la storia mi interessa, se ci sono dei personaggi che mi prendono e che posso portare avanti. Se sì, allora inizio a “costruirci attorno”. Poi, pian piano, più scrivo e più comincio a farmi delle idee di dove potrebbe andare la storia, e se inserire altri personaggi.


E ne hai inseriti parecchi…

In questo caso volevo fare un racconto corale, volevo scrivere il racconto di un paese. Tutto è partito da lì. Mi sono reso conto che per gestire il paese, potevo utilizzare tutti i paesani. Alla fine è venuta fuori una specie di ragnatela, nella quale ci sono parecchi personaggi – anche piccoli, che magari hanno due righe, ma che poi ritornano. Tutto per dare un senso di comunità.

Sei legato in modo particolare ad alcuni di loro?

Di quasi tutti i personaggi principali mi sono divertito moltissimo a scrivere. Sono assurdi, hanno dei tratti sopra le righe. Il commissario – che alla fine è il più normale di tutti – è quello in cui mi rivedo di più; forse non è stato il più divertente da raccontare perché è un personaggio estremamente passivo, che assiste a tutto quanto e viene preso dal flusso. Vedo che fra il pubblico Bertha è quello che sta avendo più successo. Nonostante appaia in due punti del romanzo, e quindi non la definirei un personaggio principale (ma nemmeno secondario), ha toccato qualche corda. Forse perché si tratta di un personaggio strambo ma al contempo vivace e vivo. Il fatto che sia senza un braccio e che canti mentre macella la carne forse la rende talmente sopra le righe da catturare subito l’attenzione.


Come è andata al Premio Neri Pozza?

Per me è stata una bellissima esperienza. Non me lo aspettavo. Affatto. In quel periodo avevo partecipato al Premio Istria con un testo teatrale e nel frattempo, un po’ per caso, avevo iscritto questo romanzo al Premio Neri Pozza. A dire la verità, puntavo tutto sull’altro premio. La mail del Neri Pozza è stata totalmente inaspettata. Stavo lavorando a un cortometraggio in sala montaggio ed è piombata questa notizia. Dalle case editrici avevo avuto buoni riscontri ma mai un’effettiva possibilità di pubblicazione. Dal Premio è partito tutto il percorso.


Teatro, regia, scrittura. Sei un artista poliedrico. Come dialogano fra loro queste arti?

La mia scrittura, più che di altra letteratura, risente delle influenze visive. Da sempre disegno, illustro, dipingo e mi occupo di teatro e regia. Porto avanti tutto insieme, cercando uno sviluppo corale. Ci sono dei momenti in cui una disciplina avanza più dell’altra. Ma, come in questo caso, tento di inserire qualcosa di visivo. Per Dopo il diluvio, per esempio, ho realizzato sia la copertina che il booktrailer. Per me sono cose che vanno a braccetto.

 

(Leonardo Malaguti, Dopo il diluvio, Exòrma Edizioni, 2018, pp. 216, euro 14,90)

PEOPLE Project: una pratica

«A volte alle grandi domande si risponde con semplici azioni. L’agire-insieme è la nostra risposta». Così si legge sul sito del Michelberger Music Festival, l’evento che si svolge ogni anno a Berlino. È lì che due anni fa, nell’agosto del 2016, Justin Vernon dei Bon Iver e Bryce e Aaron Dessner dei The National si sono incontrati per dare vita a PEOPLE – music for everyone. Non è solo la combinazione dei talenti a stupire, nomi che da soli rappresentano gran parte dell’eccellenza compositiva degli ultimi anni di musica indipendente. Le modalità di auto-definizione del progetto sono altrettanto avvincenti: PEOPLE si presenta al pubblico come un collettivo aperto, come uno spazio comune per creare nuove forme di vita e arte: «Being able to ride through this life, making decisions and changes. It’s in our hands».

Nella settimana tra il 12 e il 20 agosto, centosessanta artisti, noti e non, si riuniranno nel Funkhaus, storica sede radiofonica dell’ex DDR (Repubblica Democratica tedesca), per creare «nuovi materiali e arrangiamenti» in maniera del tutto autonoma e senza alcuno sponsor.

Perché PEOPLE oggi? Perché puntare su un’arte della partecipazione che rompa con l’escatologia dell’album? Perché, c’è da rispondere, è inevitabile. La lettura della produzione artistica come azione creativa è decisiva tanto quanto lo è la dimensione moltitudinaria della pratica – la togetherness. Fare arte è agire insieme. I grandi festival ne sono sempre stati la prova, da Woodstock all’Isle of Wight fino al Michelberger e all’esperimento del Terraforma a Milano. Avviene immediatamente: nell’orizzonte dell’incontro, la moltitudine produce. Produce occasioni, tensioni, slanci, tracciati affettivi, idee, produce effetti per il semplice fatto di essere tra gli altri. PEOPLE riconosce quest’istanza relazionale e inventiva dell’arte, e la ripropone come luogo ideale dell’essere umano, come l’unica situazione in cui le sue possibilità possono raggiungere i livelli infiniti che i grandi numeri mettono a disposizione.

Un esperimento collettivo che fa leva sulle potenzialità e sulle differenze di ognuno dei componenti, che le amalgama, e dalle quali fa nascere spontaneamente una forza produttrice, una potenza irriducibile di avanguardia. Di futuro. È un espediente che differenzia senza definirsi, che non conferma o delimita le istanze ma che al contrario spinge sempre più avanti. Si ripete costantemente nel PEOPLE Paper che rimbalza di sito in sito: «PEOPLE is non-hierarchical. It is produced and created by the artists, in full freedom».

Negli aut-aut del contemporaneo, PEOPLE si presenta come una presa di posizione radicale. Si muove per la distruzione dei confini e per la costruzione di nuove forme di connessioni a partire dagl’incipit che da sempre sospingono l’arte: «equalitiy», «togetherness», «independence», «abundance» and «care». Quando l’attualità si muove in una certa direzione, l’arte confligge, produce alternative di liberazione. Dove l’illusione della crisi spinge allo sciacallaggio e all’egoismo del si salvi chi può, nuove forme di collettivo ribadiscono che che ce n’è per tutti. E nascono ovunque, brulicanti, sempre.

Sono centosessanta i nomi di artisti che si contano a oggi sulla versione beta del sito (quella definitiva uscirà ad agosto in concomitanza con l’evento berlinese), e Sufjan Stevens, Matt Berninger e Brian Devendorf sono solo alcuni dei nomi presenti nell’elenco. Sarà possibile assistere alla manifestazione sia il 18 che il 19 agosto, tramite acquisto di biglietti direttamente sul sito di PEOPLE – fondi che andranno a contribuire alla riuscita del progetto, in piedi grazie all’autofinanziamento.

Dal sito: «We are a steadily growing group of artists, freely creating and sharing our work with each other and everyone. We call it PEOPLE. It was born of a wish to establish an independent and nurturing space in which to make work (generally around music) that is collaborative, spontaneous and expressive in nature and where all unnecessary distractions or obstacles that get in the way are removed».

copertina di Morfisa o l’acqua che dorme

L’arte di inventare storie

La bella immagine di copertina dell’ultimo libro di Antonella Cilento, Morfisa o l’acqua che dorme (Mondadori, 2018), ci pone di fronte a una questione: la storia che contiene è altrettanto accattivante? Per rispondere, non ci resta che iniziare a leggere le quattrocento pagine di cui è composto il romanzo e lasciarci trasportare nella Napoli di «mille anni fa», all’epoca del ducato bizantino, quando a Teofanès, poetastro senza il dono della scrittura, che avrebbe preferito rimanere nella sua città con l’amato Costantino a scrivere versi, le Imperatrici di Bisanzio ordinano di «trasportare un utero fresco a Costantinopoli». Sfortunatamente, dopo i tre insopportabili mesi di viaggio, giunti al porto, al grido dei pescatori «Vottate!», viene scaraventata ai piedi dei messi bizantini la testa mozzata di una fanciulla: si tratta di Crisorroè, la figlia del duca Giovanni che sarebbe dovuta partire per Bisanzio. Chi l’ha uccisa? Perché?

Iniziano a questo punto le odissee del povero Teofanès, che finisce a turno nelle mani di salernitani, normanni, arabi, amalfitani, Longobardi, in compagnia della Teotokòs, la «Maronnella» Morfisa, l’altra figlia del duca napoletano, dai piedi monchi e dalla pelle scura, che dovunque è venerata per i suoi poteri miracolosi. Dall’aspetto proteiforme, Morfisa è l’unica in grado di proteggere Napoli, custodisce l’«ovo» che fa salva la città (lo stesso che contiene il segreto dell’arte di inventare storie, tanto agognato dal poeta bizantino) e conosce l’antica Arte dell’acqua, per secoli «tramandata da Sibille e Custodi».

Abbandonata in parte la trama picaresca del precedente Lisario o il piacere infinito delle donne, Cilento stavolta non lavora solo da scrittrice, bensì da architetto professionista, per costruire un’impalcatura narrativa di foggia prettamente ariostesca, in cui riesce a gestire e incastrare più storie e a far susseguire una lunga teoria di personaggi. E si diverte anche a giocare con il tempo, per cui in una manciata di pagine ci ritroviamo dal Giappone medievale al terremoto del 1980.

Tra le grandi protagoniste del romanzo vi è, ancora una volta, Napoli, descritta nelle sue bellezze con intensa e visibile emozione, presentata come grande polo attrattivo di interessi politici – del papato, dell’impero bizantino, dei normanni, dei longobardi, dei saraceni – e religiosi – nell’eterno conflitto tra le seguaci di San Gennaro e quelle di San Virgilio. Una città in cui realtà e magia si mescolano in maniera inscindibile, in cui le «femmine» possono governare senza il bisogno degli uomini, in cui tutto può accadere. Persino ciò che poco convincerebbe la nostra immaginazione (come le monache che in una scena apocalittica presero il volo e «pisciarono sulla testa dei soldati. E tanto pisciarono che gli incendi si fermarono») viene narrato con una naturalezza tale da non destare scandalo.

Con questo romanzo, Antonella Cilento si conferma quale valevole voce della narrativa italiana contemproanea, abilissima maestra di scrittura, madre di una prosa sublime ed estremamente raffinata che mescida con destrezza italiano e napoletano. E nella consapevolezza della materia che governa (cita addirittura le fonti del suo libro), cerca di spiegare anche a noi l’arte di inventare storie: «Alla fine, una certa combinazione di lettere, spesso casuale, compone il destino degli esseri umani, raccontare storie è come giocare ai dadi; con studio e metodo è possibile prevedere le combinazioni utili e vincere. Però vincere non è tutto».

 

(Antonella Cilento, Morfisa o l’acqua che dorme, Mondadori, 2018, pp. 408, euro 20)