copertina di Coriandoli il giorno dei morti

Di coriandoli e fotogrammi:
un viaggio intorno a B. Traven

Dimenticate per un attimo l’uomo, l’autore e concentratevi sulla penna. B. Traven è la penna dietro cui si cela un mistero, un inganno. E l’inganno sta sullo sfondo, si confonde tra le ombre, tra le foglie e le folle dei suoi fogli. L’autore lascia da parte la sua identità e la confonde, la rende patrimonio comune e si fa voce dei silenti e dei reietti di un’umanità antica e obliata.

Ingenuamente paragonato ad autori fantasma come J. D. Salinger o Thomas Pynchon, Traven ha in comune con loro solo la sottrazione della sua persona all’esposizione pubblica, poiché la dissoluzione dell’identità di Traven non ha nulla a che vedere con una mitopoiesi dello scrittore. L’immagine in dissolvenza dell’uomo dietro l’opera è in questo caso qualcosa di più radicalmente programmatico: nell’occultare il proprio io individuale vi è probabilmente un’esplicita volontà politica di lasciare emergere gli attori reali della storia, quegli ultimi che sono il sommerso e il rimosso dalla cosiddetta civiltà bianca.

E allora poco importa se dietro allo pseudonimo B. Traven ci sia Bruno Traven, Ret Marut, anarchico tedesco e attore di teatro, o il sindacalista Otto Feige. Traven è la penna che riprende ed elabora il discorso degli utopisti settecenteschi, prestando occhi, parole e vita agli indios del Messico.

In Coriandoli nel giorno dei morti (Racconti Edizioni, 2019), s’intravedono in traslucido i contorni, la sagoma dell’autore: lo si trova negli occhi del popolo messicano che osserva dal basso della terra ma ricorda dall’alto di una morale arcaica.

«Avevano provveduto a far sì, con un’abilità insuperabile, che a nessun visitatore straniero si offrisse la benché minima possibilità di scorgere che cosa nascondeva oltre i fondali. Dietro le facciate rutilanti languiva in cenci il novantacinque per cento del popolo messicano, il novantacinque per cento del popolo non possedeva neppure un solo paio di scarpe o di stivali, il novantacinque per cento del popolo campava nutrendosi unicamente di tortillas, frijoles, chile, pulque e tisane fatte con foglie degli alberi; oltre l’ottantacinque per cento del popolo celato da quelle facciate non sapeva leggere e oltre l’ottantacinque per cento non era neppure in grado di scrivere il proprio nome».

Non hanno nulla da perdere i protagonisti di Traven, nemmeno il loro nome, e così pure lui se ne priva. Se gli indios di cui narra le piccole vicende non hanno nient’altro che una saggezza fatta di sangue, sudore e lacrime di fronte ai soprusi dei potenti e dei gringos, allora anche lui può rinunciare all’affermazione di un’identità ipertrofica in favore di un’idea più grande di umanità. La sua penna si pone dunque al servizio di un’ideale: Traven diviene così l’ombra impalpabile e inscindibile dai passi dei suoi personaggi, osservatore e cronista delle loro gesta che, con un senso di benevolenza e fratellanza, traccia una linea netta tra sfruttati e sfruttatori che non lascia spazio ad ambivalenze.

Dove stanno i morti fioriscono i fantasmi: i fantasmi che infestano questi racconti si frammentano in brevi ritratti di rara incisività, miniature volatili e fugaci apparizioni nel flusso degli eventi. Sono le vite a pezzi degli esiliati dalle grandi narrazioni: peones, indios, malfattori, briganti, minatori, lavoratori, braccianti e operai; coloro che abitano il tempo dalla prima alba, ma non hanno gli strumenti per riappropriarsene.

Così un orologio diviene emblema di potere: oggetto dall’aura quasi totemica, se per Porfirio Díaz rappresenta occasione di sfoggio di autoritarismo, per un semplice minatore esso finisce per simboleggiare un riscatto sociale che appare sfumare come un miraggio. Perché se il sole del Messico è di tutti, non lo è altrettanto il controllo dei suoi spostamenti e, sotto quel cielo saturo, solo chi ne è privo si brucia la pelle.

«Sant’Antonio era troppo santo o troppo cocciuto per indursi ad aprire bocca, o forse era anche troppo avvezzo ai supplizi di primo grado per rivelare al primo colpo, vinto dalla paura, dove si trovasse l’orologio. Ma Silvestre, al quale nessuno aveva dato prova di compassione, praticamente, sin da quando era nato, ne dimostrò a Sant’Antonio tanta quanta ne aveva ricevuta lui. Visto che non gli rispondeva, lo calò un po’ più giù, finché i piedi nudi del santo sfiorarono l’acqua.
“Dov’è il mio orologio?” chiese di nuovo Silvestre. E di nuovo Sant’Antonio si sentì troppo superiore per rispondergli».

Non ci sono santi o miracoli per coloro che sfidano continuamente l’ordine costituito, per chi rifiuta apertamente di sottostare al marchio dei vinti, o di arrendersi a una sorte priva di qualsiasi possibilità di riscatto. Tutta l’opera di Traven si muove su tali coordinate e arriva a un buon successo di pubblico con la trasposizione cinematografica di alcuni suoi romanzi.

È il caso di Il tesoro della Sierra Madre, film che nel 1948 vede Humphrey Bogart e John Huston mettere in scena l’ascesa e la caduta di un gruppo di cercatori d’oro tra la polvere di un Messico gravido di promesse di gloria. Nel 1971 sarà poi sempre Huston a dirigere Il ponte nella giungla, dando un volto agli indios della giungla messicana al confronto con la presunzione bianca.

È invece di Roberto Gavaldón la regia della trasposizione di La rosa bianca (edizione del 1929, film del 1961), che narra dei tentativi di una compagnia petrolifera statunitense di appropriarsi dei terreni di un’hacienda, in un clima di crescente fermento e tragedia, alla vigilia del golpe di Victoriano Huerta.

La condizione del piccolo proprietario terriero creato da Traven e tradotto in immagini da Gavaldón trova inoltre un predecessore nelle lotte al di là del confine, nella California di Upton Sinclair che, con Oil!, aveva gettato solide fondamenta per una narrativa di denuncia sociale statunitense. Magistralmente adattato poi nel 2007 da Paul Thomas Anderson, Il petroliere (There will be blood) rappresenta sicuramente l’apice di un fortunato dialogo tra autori di matrice socialista e cinema, che ha radici antiche e profonde nel continente americano.

È sempre Upton Sinclair infatti a finanziare la produzione di ¡Que viva Mexico! (1931) di Ėjzenštein che per la sua epica messicana si ispira al testo di Edgcumb Pinchon, Viva Zapata, da cui successivamente trarrà ispirazione John Steinbeck per la sua sceneggiatura di Zapata (1952), diretto da un Elia Kazan legato alle tematiche progressiste e non ancora invischiato nella rete della delazione maccartista.

Ma colui che più di altri ha risentito dell’influenza di B. Traven e ne ha saputo portare i frutti a maturazione è Malcolm Lowry. È lui a portare il fascino e gli insegnamenti di Traven alla sua extrema ratio e compiutezza più alta: da studente si chiude a leggere i romanzi di Traven, prima di inebriarsi della vita e perdersi nella letteratura. Con Sotto il vulcano Lowry si dissolve nelle sue stesse parole, annegando nel suo flusso narrativo.

Se Traven sceglie la dissolvenza dell’identità tra uomo e firma a favore di un anonimato che è adesione a un moltiplicarsi di individualità, Lowry abbraccia invece la dissoluzione dell’uomo in favore dell’eternarsi della firma. Traven è in tutti i suoi personaggi, li accoglie e si scioglie in tutte le loro vite e morti; Lowry invece è lo sbocco verso cui finiscono per confluire tutti, riconfermandosi fino alla fine l’unico personaggio di tutta la farsa, letteraria ed esistenziale.

«A meno di trenta metri dal binario, da entrambi i lati, incominciava la giungla fitta, arida, inviolata, che mi parve d’un verdegrigio in questo momento nero, nell’oscurità morbida e vellutata della notte, dandomi l’impressione che mi si avvicinasse, lentamente, ma inesorabilmente. Mi veniva incontro cupa e inarrestabile, minacciosa, per afferrarmi con i suoi artigli, colmandomi il cuore di spavento: ero certo che se fosse riuscita ad avermi in suo potere mi avrebbe assorbito lentamente, si sarebbe succhiata tutto il mio essere, il mio cuore, la mia anima, senza lasciare di me neppure un paio di ossa che si sarebbero calcinate e avrebbero potuto raccontare ad altri uomini che una volta, nella notte, un essere umano era finito qui per sfuggire alla giungla».

Ci si perde nella giungla, o ci si perde nella vita: a entrambe non si può sfuggire se non rifugiandosi nella memoria di un mucchio di ossa. Sono i morti quindi i depositari delle verità dei vinti: quelli che ci fanno visita di notte per ricordarci di custodirne il lascito nella giungla in cui si smarrisce Traven, o quelli celebrati il 2 novembre all’ombra del vulcano di Lowry.

Nel 1984 sarà sempre John Huston a portare sul grande schermo il Messico dell’autoannientamento di Lowry che, nel giorno dei morti, decide di unirsi a loro per festeggiamenti, disperdendosi, forse, come uno dei tanti coriandoli della festa dell’ultima rivalsa, quella dei morti suoi vivi.

 

(B. Traven, Coriandoli il giorno dei morti, trad. di Lydia Magliano, Racconti Edizioni, 2019, pp. 211, euro 17, articolo di Martina Mantovan)

Tigri, leoni, armi automatiche e pettinature improbabili

In tutto il mondo sono rimaste circa 4.000 tigri libere in natura. Negli Stati Uniti ce ne contano tra i 5.000 e i 10.000 esemplari rinchiuse in parchi privati. È un dato semplice e incredibile, una delle tante cose che vengono mostrate in Tiger King, la docu-serie diretta da Eric Goode e Rebecca Chaikin disponibile su Netflix.

Come si può definire questa serie? È una finestra su tutto quello che c’è di più assurdo negli Stati Uniti. Un mix esplosivo di eccessi, droghe, alcol, armi automatiche, ignoranza lancinante, vanità, ostentazione, contraddizioni, sporcizia e autodistruzione. Ma andiamo con ordine.

Tiger King nasce per caso, quando il documentarista Eric Goode si imbatte nel mondo dei collezionisti di felini in Nord America e sul relativo mercato di tigri, leoni e altri animali esotici. Motore narrativo è Joe Exotic, strampalato impresario proprietario di uno zoo privato al centro di una serie di vicende personali e professionali che si stenterebbe a ritenere vere, se non fossero documentate.

Exotic, nome d’arte di Joseph Allen Maldonado-Passage, è il proprietario del G.W. Zoo in Oklahoma, un giardino zoologico privato in cui i visitatori possono accarezzare i cuccioli e dare da mangiare agli animali. Non è il solo centro simile negli Stati Uniti, ma la vicenda di Exotic merita attenzioni per la lunga rivalità con Carole Baskin, amministratrice del centro Big Cat Rescue in Florida.

Baskin combatte le strutture come quelle di Exotic liberando le bestie e accogliendole nel suo zoo per garantire loro migliori condizioni di vita, secondo lei. Il parco è comunque aperto ai visitatori, ma non c’è interazione diretta. Inutile dire che Baskin è diventata presto milionaria ed è ritenuta un’eroina dei diritti degli animali. Forse è soprattutto per questo che Joe Exotic la odia: per una visibilità che lui non riesce a raggiungere. Sfoga la sua frustrazione in dei deliranti video che pubblica online in cui spiega nel dettaglio come ucciderà Carole. Esprime la sua libertà di opinione, secondo lui, ma non secondo i giudici che lo hanno condannato a circa ottanta anni di carcere per aver attentato alla vita di Carole Baskin. Joe Exotic oggi è ancora in prigione.

Tiger King non nasce, nel progetto di Goode, come un documentario giudiziario, ma le già incredibili vicende di questi zoo privati hanno preso una piega diversa mano a mano che le riprese andavano avanti fino ad arrivare a evoluzioni impreviste. Viene fuori un mondo di truffatori e megalomani, miliardari che non lo sono e agenti segreti presunti, dove nessuno è trasparente.

Joe Exotic è un personaggio che uno sceneggiatore farebbe fatica a scrivere, se non fosse reale. Omosessuale poligamo, sposato con ragazzi etero che conquista con soldi, droghe e armi, va in giro con dei capelli ossigenati in taglio mullet e degli improbabili completi stile cowboy da rodeo. Carole Baskin si veste solo con fantasie animalier e ha un marito scomparso in circostanze misteriose, secondo alcuni – Exotic per primo – da lei ucciso e dato in pasto ai suoi animali.  C’è poi tutta la galassia di soci, collaboratori e mariti per i quali non basterebbero decine di pagine per raccontarli.

Mentre guardi le sette puntate in cui è diviso Tiger King non puoi fare a mano di ripeterti almeno una volta a episodio «Non è possibile». Perché davvero siamo oltre qualsiasi livello di immaginazione. Eric Goode e Rebecca Chaikin sono molto furbi nel comporre la scena con i dettagli più pacchiani in bella mostra per stordire lo spettatore, ma non c’è costruzione artificiale: quelle persone sono davvero così.

Tiger King guarda in un modo nuovo a quel white trash già tante volte raccontato al cinema e nelle serie tv, basti pensare all’ottimo Louisiana dell’italiano Roberto Minervini. Di solito, però, queste storie di degrado hanno al centro poveri senza risorse e potere, ma non in questa storia. Exotic arriva a candidarsi come indipendente alla presidenza degli Stati Uniti e poi come governatore dell’Oklahoma, ed è il meno abbiente di questa galleria umana. Tutti gli altri sono milionari.

Tiger King descrive un mondo che si basa su un’interpretazione molto personale ed elastica del concetto di libertà: un mondo di anarchia ignorante ed esplosiva, e da cui è impossibile distogliere lo sguardo. Anche senza voler fornire chiavi di lettura politiche rappresenta forse la risposta migliore per chi, da questo lato dell’Oceano, si chiede come sia possibile che gli Stati Unti abbiano scelto – e probabilmente sceglieranno di nuovo – Donald Trump come presidente.

hyde il briccone fa il mondo flaneri

L’anima sovversiva del cosmo

Trickster makes the world – titolo del noto saggio di Lewis Hyde del 1998, tradotto con Il briccone fa il mondo (Bollati Boringhieri, 2001) – sceglie di attribuire a makes, tra i possibili livelli di senso, l’accezione di creare, formare, costruire. Tuttavia una possibile traduzione sarebbe potuta essere Il briccone fa girare il mondo, più legata al significato di rendere, produrre, realizzare. «Il n’y a pas de vrai sens d’un mot» diceva Paul Valéry e, se al pari di lui crediamo che non esista un significato vero, univoco, di nessuna parola, ciò in questo caso vale tanto più per il soggetto stesso della frase, il trickster: uno dei tanti termini sfuggenti, polisemici e in via di definizione dell’era moderna.

Introdotto per la prima volta nel XIX secolo negli studi di folklore e antropologia religiosa dall’etnologo, archeologo, storico e chirurgo americano Daniel G. Brinton, è figura antropomorfa o animale che sovverte l’ordine costituito, eroe impostore, ambivalente guardiano della soglia tra bene e male, dio o semidio folle o enigmatico, ossimorica e ingannevole maschera presente da millenni nei sistemi mitici delle culture di tutto il globo.

Da Seth e Iside fino a Pulcinella, da Prometeo a Faust, il suo orizzonte interpretativo è così vasto da essere difficilmente riconducibile a uno stesso prototipo universalmente valido ma, legato a simbologie divine piuttosto che diaboliche, che si faccia carico o meno di implicazioni comico-grottesche o di critica ironia, il trickster è in ogni caso rappresentativo di un ancestrale principio destabilizzatore dei codici sociali, pertanto in dinamico rapporto con il potere che di volta in volta li impone e gestisce.

Un livello di lettura del truffatore mitico in relazione a questa sua doppia funzione di energia sovvertitrice quanto di soglia in bilico tra Io e Super-Io, individuo e collettività, e della deriva di senso che ciò è venuto ad assumere in epoca contemporanea, ci viene offerto già dalla mitologia celtica dello sluagh, l’esercito dei morti delle Highlands scozzesi che si muove per l’aria in grandi nuvole che tornano sulla terra, uccidendo pecore e armenti con le sue infallibili frecce avvelenate.

La leggenda vuole che in certe notti si possano perfino vedere e sentire gli stuoli di spiriti ritirarsi e avanzare l’uno contro l’altro in vorticose battaglie, tingendo le rocce del rosso del proprio sangue. La parola gaelica ghairm vuol dire grido, urlo, e sluagh-ghairm è il grido di battaglia delle legioni dei defunti dal quale deriva l’odierno termine slogan, sbiadito equivalente volto a unificare conformisticamente le assuefatte folle della modernità.

Da rito potentemente condiviso a marchio, da segno identitario a luogo comune, l’impoverimento al quale nei secoli è andato incontro il significato profondo – insieme unificatore e dissociante – del termine primigenio, usato oggi in contesto politico e commerciale al fine di stabilire scopi e aspirazioni che sedino o incanalino le energie dell’immaginario, lo slogan si offre come moderno racconto dei rapporti tra regno infero e terrestre, pulsioni inconsce e collettive, singolo e autorità; dunque valida cartina di tornasole delle medesime direttive di senso – al di là dei caratteri più strettamente legati al riso e alla comicità – implicite nel concetto di trickster.

Difatti l’antico principio di un essere truffatore e amorale in grado di sublimare ambiguità e contraddizioni – dall’ambivalente Loki della mitologia norrena, dio dell’astuzia e degli inganni compagno di Odino e Thor, all’Hermes psicopompo degli antichi greci o il Mercurio messaggero e ladro dei latini, dall’Anansi dell’Africa occidentale, a metà tra divinità ingannatrice ed eroe, all’astuta volpe Kitsune del Giappone dalle tante metamorfosi, a volte guardiano benevolo, altre imbroglione –  nel nuovo millennio sembra aver perso gran parte della primordiale carica propulsiva.

Ciò non deve stupire perché siamo tutti – morti e vivi, individui e gruppi – nella massa, enigma irrisolto che non può esistere senza il contrappeso di quell’altra soverchiante entità che è il potere, secondo un dualismo antitetico e al contempo complementare. Nella millenaria storia che vive in ciascuno di noi, nel nostro stesso codice genetico, spiega Elias Canetti in Massa e potere (1960), si intrecciano miti e riti dell’antichità quanto del più vicino presente, emblematiche figure di raccordo tra i due sistemi come ad esempio il diavolo, lo sciamano, l’angelo, il trickster.

A quest’ultimo, nell’eterno legame della massa con le egemonie – terrene o spirituali – spetta il compito di rimetterne in discussione lo status quo, fino ad arrivare al punto di dissolverne le certezze. Figura prediletta della mitologia dei nativi del Nord America, nasce al contempo come sorta di spirito guida, “briccone divino” e maestro di metamorfosi capace di assumere a suo piacere ogni forma, da quella di essere umano o animale a spirito dei defunti. Il suo potere si basa dunque principalmente sull’inafferrabile mutevolezza di cui si serve per sovvertire le regole, cogliere di sorpresa, confondere e ingannare.

È per questo che, in reazione alla forza dissacrante portata dalla fluidità della sua mutevole natura, nel corso del tempo le diverse forme di controllo sociale vi hanno reagito con il divieto di metamorfosi. Esempio ne sono le leggi matrimoniali, quando stabiliscano legittima un’unione solo tra individui di sesso opposto o che vietino il tradimento o il divorzio, come accadeva nella Francia degli anni ’20 del secolo scorso quando Joseph Kessel scrisse e pubblicò Bella di giorno (1928), il suo più celebre romanzo, che nel 1967 il genio bizzarro di Louis Buñuel portò sullo schermo con l’omonimo film.

Qui, tra frigidità e desideri perversi, la giovane protagonista Séverine – un’algida, raffinata Catherine Deneuve al massimo della sua bellezza – sfugge alle costrizioni impostale dallo stato di benestante moglie borghese, scavalcando ogni forma di metamorfosi vietata. Pur non coincidendo appieno con l’archetipo del trickster, tuttavia le sono proprie le principali peculiarità: la doppia vita di prostituta, la furbizia con cui inganna marito e amici, il suo ambiguo porsi al limite tra società perbene e underground criminale, il rovesciamento delle regole sociali e la capacità trasformativa di essere una donna diversa con ogni cliente, mutando di volta in volta maschere e comportamenti.

Ma, se il personaggio liminale di Séverine varca la soglia tra giusto e sbagliato, sacro e profano, vivente e morto, arrivando perfino a fingersi cadavere per appagare il desiderio erotico di un inconsolabile vedovo, creando a suo modo un trasgressivo universo altro con una sua intatta energia, non si può dire lo stesso di altre forzate incarnazioni del trickster d’epoca contemporanea, come il Jim protagonista di Rebel without a cause di Nicholas Ray (1955), tradotto in italiano con il titolo di Gioventù bruciata.

Di fatto il film, sopravvalutato drammone statunitense sull’universo adolescenziale dell’America anni Cinquanta, sfocia nell’inevitabile happy end hollywoodiano in cui Jim – interpretato dall’idolo dei teenager James Dean, la cui tragica e prematura morte ne rinfocolò il mito – è una sorta di impacciato demiurgo “senza una causa” che, svuotato dell’enigmatico peso ponderale del doppio non meno che della capacità metamorfica, finisce per riconciliarsi con i genitori e rivelare il suo casto sentimento alla ragazza che ama. Omologante divisa generazionale, Gioventù bruciata trovò massiccia eco nella diffusione dello slogan “live fast, die young”, titolo della biografia postuma di James Dean del 1958.

Del resto, per sua essenza direttamente proporzionale alle coordinate del potere, il trickster non può che rifletterne il progressivo sgretolarsi di leggi morali, divieti comportamentali, tabù e regole sociali nell’analogo sbiadire dell’intensità delle proprie incarnazioni atte a opporvisi, che soprattutto dalla metà del XX secolo in poi si fanno sempre più svincolate dalla forza eversiva del significato originario.

Si sono volute attribuirne le caratteristiche al vago Arthur Fleck – alias Joker – dell’omonimo film di Tod Philips del 2019, ma quanto diversa è la sua disarticolata trasgressione senza sbocco rispetto alla perturbante visceralità del Faust di Goethe (1831) – non meno che de Il maestro e Margherita di Bulgakov, scritto tra il 1928 e il 1940 e pubblicato postumo tra il 1966 e 1967 –  furbo e ingannatore come il Mefistofele della leggenda medievale dal quale deriva, criptica e contraddittoria immagine di sovversivo demiurgo tra diavolo e ciarlatano.

Il Joker del film, per quanto debitore al personaggio de L’uomo che ride di Victor Hugo o all’inquietante antagonista del fortunato fumetto Batman della Marvel, più che trickster della postmodernità è irrazionale eroe negativo senza alcuno statuto divino o demoniaco, il cui quid sovvertitore della dinamica del reale, al di là della maschera da clown, non agisce per mezzo del principio di metamorfosi né offre alternative o soluzioni – il filtro di Faust, il fuoco di Prometeo, le invenzioni di Loki – al di fuori di una alquanto generica spinta trasgressiva. Joker non crea nulla, non è essere anfibio tra immanente e trascendente e tutto il suo mistero si riassume nella grottesca risata, nel beffardo ghigno di giullare che suona come accattivante slogan da spot pubblicitario.

Il mondo postmoderno attende piuttosto il succo di viola del pensiero, quel «fiore tinto di sanguigno» che il bugiardo Puck, correndo sul filo tra visibile e invisibile, sogno e realtà, saggezza e follia, spreme sulle palpebre di chi dorme per farlo innamorare, beffando i sensi e scompaginando certezze. Il nuovo trickster, chissà, sarà come lui ambiguo spirito burlone che muta sembianze oppure, simile a Hermes, ingannevole guida extraumana capace di tessere mille imbrogli. Sempre però anima sovversiva del cosmo che sorprende e disorienta, in perenne sconfinamento e contraltare al potere e alle sue logiche.

 

copertina di the new abnormal su flaneri

È arrivata la fine per gli Strokes?

Come suona un album degli Strokes nel 2020 dopo sette anni di (quasi) silenzio? Come sempre. Ci ritroviamo ad avere che fare con il solito gruppo che abbiamo conosciuto, che negli anni non è mai riuscito ad andare oltre alla propria cifra stilistica, intrappolati in una gabbia espressiva che li ha resi tanto brillanti quanto, poi, innocui. Il tempo per Casablancas e soci sembra essere terminato. The New Abnormal ci ripropone le stesse intenzioni proposte e riproposte negli anni, con qualche contaminazione qua e là (in primis i Daft Punk) senza però quei guizzi imponenti con cui hanno illuminato l’inizio del nuovo millennio.

Dai tempi del loro ultimo LP, Comedown Machine, i cinque americani ci hanno lasciato un EP anonimo, confuso: quattro brani arruffati di cui non si sentiva il bisogno, raccolti in Future Present Past. Rimane avvolta nel mistero la necessità di produrre qualcosa del genere. Il suo successore, almeno a livello cronologico, non ne è una copia, ma si lascia appresso alcune scorie impossibili da sottovalutare.

Arriviamo allora in questo nuova decade con un nuovo lavoro, che ci sbatte in faccia una copertina con Bird on Money di Basquiat, il tributo dell’artista statunitense a Charlie Parker: è sì un album piacevole da ascoltare, forse eccessivamente lungo, che si porta dietro quella (maledetta) nostalgia Strokes, ma che non toglie e non aggiunge granché a quanto fatto in passato. E di certo non sono un uso di synth o questi nuovi falsetti di Casablancas a far pensare di avere tra le mani qualcosa che possa somigliare a una nuova vita per i cinque americani.

The New Abnormal inizia bene, con un pezzo interessante, “The Adults Are Talking“, in cui Casablancas si esibisce nel finale in questo strano falsetto che può ricordare quello di Apparat, ma poi tende a persersi insieme agli altri, cercando di rincorrersi attraverso nuove e innocue soluzioni, in un meticciato stanco e arrancante, anni ’80 qua e la che vanno a sciogliersi in quelle chitarre che sono iconicamente le chitarre degli Strokes . Si ritrovano in un paio di momenti, come “Eternal Sunshine” (ma anche qui poi tende ad accartocciarsi su sé stessa) ma soprattutto “At The Door”, dove l’esperienza con i Daft Punk si fa sentire prepotentemente, ma dove emergono di nuovo sfumature ambient pop  alla Apparat.

Possiamo dirlo e ridirlo: i tempi di Is This It e The Room Is On Fire sono finiti. A corredo di questo si può parlare di quanto siano stati influenti negli anni ’00, di quanto siano stati la guida per una miriade di gruppi, di come abbiano costruito un genere riscrivendo il rock anni ‘70 . Ma lo sappiamo, lo sappiamo troppo bene e non c’è una necessità reale di fare l’agiografia di un gruppo che, in vent’anni, non ha mai provato seriamente a uscire dalla propria confort zone.

È triste per tutti, per i fan e non, essere arrivati di fronte a qualcosa di così definitivo – ma probabilmente già sette anni fa lo sapevamo: la fine degli Strokes. Di cui ci rimane, oggi, un album che sarebbe stato un buon esordio per un gruppo esordiente ma che, partorito da loro, vivacchia sulla sufficienza.

Ascoltare gli Strokes, oggi, è ascoltare l’arricciarsi di un nastro di una musicassetta: una lunga scossa di malinconia che scorre lungo il corpo, ma che ha fatto il suo tempo.

poster del film l’uomo invisibile

Nascondersi dall’invisibile

È uscito direttamente in noleggio sulle piattaforme digitali L’uomo invisibile, nuovo adattamento del romanzo di fantascienza del 1897 di H.G. Wells con un inedito punto di vista femminile come motore della trama.

Se nel libro, infatti, il protagonista era Griffin, un fisico che finiva vittima dei suoi stessi esperimenti sull’invisibilità, qui seguiamo Cecilia, compagna succube di Adrian Griffin (il nome torna), un geniale ottico miliardario maniaco del controllo e violento. Due settimane dopo essere riuscita a scappare dalla villa in cui di fatto era reclusa, Cecilia riceve la notizia che Adrian si è tolto la vita. Nel momento in cui dovrebbe finalmente sentirsi libera, la donna inizia invece a percepire una presenza che la segue e la osserva.

Nel 2017 la Universal Pictures aveva avviato un’ambiziosa operazione di lancio di un nuovo/vecchio universo cinematografico con La mummia. Sprovvista di diritti per attingere a un immaginario di fumetti come Marvel/Disney e DC/Warner, la casa di produzione aveva pensato di guardare ai film del passato, in particolare agli horror b-movie da rilanciare con nuovi budget e i mezzi della tecnologia del grande schermo. Il progetto prevedeva il coinvolgimento di grandissimi nomi: Tom Cruise, Russell Crowe, Javier Bardem, Johnny Depp, per dire solo quelli confermati.

Il colossale fallimento del primo film della serie ha portato Universal a rivedere in fretta i piani per rimediare alle perdite e, sostanzialmente, ad annullare tutto. Nel progetto iniziale di L’uomo invisibile, Johnny Depp avrebbe dovuto interpretare Griffin in un reboot più convenzionale. L’accantonamento dell’universo cinematografico ha aperto le strade a questa versione inedita alternativa e decisamente più interessante.

Il coinvolgimento della Blum House, la casa di produzione di Jason Blum responsabile degli horror di maggior successo degli ultimi anni (da Paranormal Activity alla saga di The Purge), ha trasformato L’uomo invisibile in un film a basso budget dallo spirito indipendente.

Scritto e diretto da Leigh Whannell, ideatore di film come Saw Insidious, la nuova versione del classico di Wells trasforma l’impostazione horror in un thriller psicologico teso e contemporaneo. Senza pretendere di diventare un film sociale, L’uomo invisibile riesce infatti a rappresentare in maniera molto credibile la violenza fisica e psicologica che molte donne si trovano a subire in ogni angolo del mondo.

Cecilia fugge da una vita di abusi che dall’esterno poteva solo che apparire perfetta. La megalomania di Griffin diventa, in questa versione cinematografica, un senso di onnipotenza che lo porta a voler controllare tutto, a non concepire la possibilità di un rifiuto fino ad arrivare a fingersi morto pur di ottenere quello che pensa essere suo di diritto.

Senza rivelare troppo della trama, che riserva comunque alcuni colpi di scena pur derivando da una storia abbastanza nota, L’uomo invisibile riesce a essere sempre credibile, senza mai scivolare – troppo – nel banale. Merito anche della protagonista Elisabeth Moss, già Peggy Olsen di Mad Men e June di Il racconto dell’ancella, attrice che sempre di più si sta costruendo un proprio percorso consapevole e coerente.

L’universo cinematografico dei mostri così come lo aveva immaginato la Universal non andrà avanti, ma questa versione di L’uomo invisibile rappresenta un modo intelligente, originale e interessante di confrontarsi con i classici per portarli nella contemporaneità in una veste nuova.

(L‘uomo invisibile, di Leigh Whannell, 2020, thriller, 124’)

copertina di il vento degli altri di silvia cuttin

«Aveva fatto come Fiume: aveva accolto il male dentro di sé e non l’aveva restituito»

Il termine città-stato viene immancabilmente associato all’antica Grecia, ad Atene, a Sparta, o in tempi moderni al Vaticano o a Singapore. A pochi viene in mente che una novantina d’anni fa esisteva una città che apparteneva alla Corona d’Ungheria ma godeva di uno status autonomo riconosciuto dalle grandi potenze europee: Rijeka, o Fiume, nel golfo del Carnaro, annessa dagli Asburgo nel 1466. È sempre stata una città cosmopolita, dove il mondo latino rappresentato dagli italiani si incontrava con il mondo panslavo dei croati e sloveni, con la cultura germanica degli austriaci, e con lo stato emotivo siamo un’isola degli ungheresi. E in più c’è il mare, che stimola la sensazione di vicinanza al mondo intero. Una città di mille colori, la Mitteleuropa in miniatura. Un corpus separatum nell’Impero che nel Settecento diventa porto libero, acquisisce autonomia commerciale, e viene annesso al Regno d’Ungheria. Nel 1848, per un ventennio, diventa croato per tornare, nel 1868, alla corona ungherese. È l’unico porto, l’unico sbocco al mare dell’Ungheria, e sotto l’amministrazione ungherese si dota di importanti strutture produttive.

Fiume/Rijeka era anche una città laica, lo dimostra il numero esiguo di chiese. Una città in cui convivevano pacificamente cattolici, protestanti, greco-ortodossi ed ebrei, immigrati prevalentemente dai territori del Regno d’Ungheria. Verso la fine dell’Ottocento molti parlavano quattro lingue: l’italiano, il croato, il tedesco e l’ungherese. La società fiumana era aperta, e anche le donne godevano di una certa libertà inconsueta altrove.

Nel 1918 si dissolve la monarchia Austro-Ungarica e il destino di Fiume diventa incerto. La sua appartenenza diviene una questione complessa e discussa fra italiani e croati. Gabriele D’Annunzio lancia l’impresa volta a occupare la città, ed è questo il capitolo di storia fiumana che dà l’inizio al romanzo di Silvia Cuttin, Il vento degli altri (Pendragon, 2017) una lettura che rappresenta un ottimo modo per accostarsi alla città capitale europea della cultura 2020, oggi ufficialmente Rijeka, e porto principale della Croazia indipendente.

Anche se non è strettamente collegato con il libro, da ungherese non posso non dedicare due parole anche alla funzione fondamentale che la città di Fiume ha avuto negli scambi letterari fra italiani e ungheresi. Si forma in questa città la prima generazione di intellettuali bilingui italo-ungheresi cui deve molto la letteratura di entrambe le lingue. Alla simbiosi della cultura italiana con quella ungherese a Fiume si deve la grande fortuna della letteratura ungherese in Italia fra le due guerre mondiali, quando decine di romanzi diventano bestseller nelle librerie italiane, grazie all’instancabile lavoro di traduttori, appunto, fiumani. Il primo grande successo italiano delle opere di Sándor Márai risale proprio a quest’epoca ed è attribuibile a questo contesto.

Con Il vento degli altri la bolognese Silvia Cuttin, di origini disparate compresa quella fiumana, già autrice di due titoli e forte di esperienze lavorative che richiedono una buona padronanza della scrittura, erge un monumento all’identità irriducibile di una città chiave della storia del Novecento. Silvia Cuttin si definisce una tessitrice che scrive storie con innumerevoli fili, e difatti ne tiene ben tesi diversi anche in questo romanzo che abbraccia un secolo di storia fiumana, quindi europea. Un’opera solida che mette a frutto un notevole impegno preparatorio e matura con le pagine. Dopo un inizio inibito, la trama e la scrittura si irrobustiscono, con lo scorrere delle pagine cresce il coinvolgimento, i personaggi e l’ambientazione acquisiscono peso e solidità. Il filo conduttore è la vicenda di Elena aspirante cantante lirica che per la prima volta incontriamo bambina, e la accompagniamo fino al termine della sua lunga esistenza avventurosa eppure statica perché interamente trascorsa nella sua città natale. «Aveva vissuto anni bellissimi e, allo stesso tempo, terribili: la storia di quei luoghi di confine era stata particolarmente dura e dolorosa. E ancora guerra, dopo, quella che c’era stata qualche anno prima che aveva influito anche su Fiume, con gli ennesimi spostamenti di popolazione. Ma Elena, di quella guerra recente, non aveva voluto sapere, la sua vita era già stata troppo piena così».

La lettura del romanzo ha stimolato alcune curiosità che hanno assunto la forma di domande, che Silvia Cuttin ha accolto, e le sue risposte sono tutte fuorché scontate:

 

Nei due capitoli intitolati Note al testo e Ringraziamenti e riconoscimenti, il lettore può farsi un’idea di massima del tuoi legami con la città di Fiume, ma credo che dietro ci sia una storia ricca di elementi interessanti.  Puoi svelarne qualcuno, come le ragioni per cui i tuoi avi scelsero Fiume e perché decisero di andarsene?

Le mie origini fiumane sono legate alla famiglia materna, sebbene abbia avuto qualche lontano avo di quelle zone anche per parte di padre. I nonni materni si sono sposati a Fiume nel 1925 e dopo qualche anno si sono trasferiti a Trieste; hanno dunque vissuto l’esodo solo attraverso i loro familiari, quasi tutti rimasti in quella città. Da quel che so, la famiglia di mia nonna era mista: fiumana di lingua italiana come la maggioranza della popolazione di allora, cognomi tipicamente italiani, anche se sembra che la bisnonna fosse croata. Mia nonna aveva frequentato le scuole ungheresi, conservo un libretto bilingue con la composizione delle classi. Era cattolica e per sposare mio nonno si era convertita all’ebraismo. Aveva dieci fratelli, che rimasero a Fiume. Non so molto di loro, in famiglia si è sempre parlato poco di quella parte di storie tragiche. Nel 1945 riuscirono a fuggire tutti, ad eccezione di sua madre e di due fratelli che non fecero in tempo: furono arrestati dai titini e uccisi in carcere. Erano fascisti? Può essere, sicuramente erano benestanti, possedevano una villetta con giardino, sono andata a vederla in una delle mie recenti peregrinazioni a Fiume. Ora ci abitano diverse famiglie, ho guardato i campanelli, c’è pure un B&B. Ho avuto per un attimo la curiosità di ricostruire come li avessero avuti, quegli appartamenti. In realtà, anche se si potesse, non vorrei sapere. Come non pensare al bellissimo film Ida (del regista Pawel Pawlikowski, ambientato in Polonia), che racconta di persone che hanno colto l’occasione di una situazione orribile per stare meglio, anche se a danno di altri. Un esempio mutuabile ad altri contesti e che, in maniera diversa, credo si sia verificato anche a Fiume. Di fatto, non tanto e non solo una questione etnica, quanto economica.

La famiglia di mio nonno materno, invece, era arrivata a Fiume nel 1913 dalla Transilvania ungherese. Il mio bisnonno era panettiere al servizio delle Regie Ferrovie ungheresi e si spostava lungo le direttrici della costruzione delle linee ferroviarie. Per questo motivo i suoi dieci figli erano nati ognuno in un villaggio diverso. Nell’ultimo paese in cui si erano fermati facevano la fame, si trasferirono così a Fiume. In famiglia si dice che da lì volessero emigrare per gli Stati Uniti, sta di fatto che in quella città si stabilirono. Lì si trovava lavoro e c’era molta più tolleranza verso gli ebrei che nell’Ungheria rurale. Erano ebrei ortodossi, i bisnonni continuarono a parlare in yiddish anche a Fiume, oltre che a mangiare borsht e cetrioli in salamoia. La comunità ebraica ortodossa era numerosa, c’erano addirittura due comunità e due sinagoghe distinte, una Neolog e l’altra ortodossa.

Nel 1938 agli ebrei di quelle zone, a differenza che nel resto d’Italia, venne ritirata la cittadinanza italiana, divennero apolidi oppure stranieri, a seconda dei diversi casi burocratici. Nel 1940, quando l’Italia entrò in guerra, tutti i maschi di età compresa tra 18 e 60 anni vennero mandati in campi di internamento fascisti nel Sud Italia in quanto ebrei stranieri/apolidi. Forse fu per quello che, pur non in maniera facile, i fratelli di mio nonno si salvarono. Nel 1943 la Germania annesse (a differenza del resto d’Italia che fu occupato) il Trentino, parte della Venezia Giulia e Fiume, Istria e Dalmazia. A Fiume di ebrei ce ne erano ormai pochi: tra questi i miei bisnonni insieme con una delle figlie rimasta con loro per accudirli. Furono presi dai nazisti e deportati ad Auschwitz; non si sa se siano mai arrivati o se siano morti prima, già alla Risiera di San Sabba o in treno: avevano ottant’anni.

Finita la guerra o poco dopo nella Fiume occupata dall’esercito di Tito, della mia famiglia non era rimasto nessuno e nessuno di loro, ovviamente, tornò. Se non mia nonna che un paio di volte andò a cercare la madre e i fratelli “spariti”, senza ottenere nessuna informazione se non l’avvertimento di non tornare più altrimenti l’avrebbero arrestata. Un piccolo racconto che ho inserito, romanzandolo, in Il vento degli altri.

Tornando alla domanda, non si è trattato di decisioni prese ma di fatalità dovute ai conflitti intrecciati che si ebbero in quelle zone in periodo di guerra e prima a causa delle leggi razziali: chi perse la vita, chi perse tutto quello che aveva a fatica costruito. Sei dei ragazzi ebrei emigrarono negli Stati Uniti e non tornarono, i loro genitori rimasero in Italia dove dal 1943 erano stati nascosti. Gli altri furono esuli e si stabilirono in diverse città italiane.

 

 

 

Il titolo del romanzo ricorda il titolo del film di Florian Henckel von Donnersmarck, Das Leben der Anderen, La vita degli altri, che in italiano è diventato Le vite degli altri, una pietra miliare nella cinematografia storiografica. Come è nato il titolo del libro?

Le vite degli altri racconta di vite spiate, di vite controllate. Sotto il regime fascista e in seguito sotto quello comunista di Tito il controllo c’era, ed era invadente. Nel libro ne accenno, ma il livello di controllo non raggiungeva quello più moderno adottato nella DDR. È anche vero che si può immaginare di essere degli spettatori nascosti quando si legge un romanzo, entrando non visti nelle vite dei personaggi!

Riguardo al titolo, avevo buttato lì un titolo banale, sperando di avere una folgorazione in corso d’opera o che venisse un suggerimento dall’editore. Quando mi sono resa conto che nessuna delle due possibilità si verificava, ho cominciato a pensarci sul serio. Ci sono arrivata dopo tre giorni, concatenando parole e idee. Ho pensato che quelle zone sono famose per la bora, un vento davvero forte, a raffiche: il vento era un buon punto di partenza. E lì c’è il mare, si va in barca a vela, il vento cambia e ti puoi trovare al largo senza vento, o sbattuto contro gli scogli per un mutamento improvviso di vento. Il vento può essere a favore o contrario e può cambiare, questo insegna il mare. Chi ha il vento a favore in un determinato periodo, può trovarsi poco dopo con il vento contrario. E ti può capitare, insieme al vento che cambia, di trasformarti negli altri, dall’oggi al domani. Effettivamente così è successo lì, e più volte.

In un paio di occasioni, a una presentazione e in una scuola, mi hanno dato un’interpretazione del titolo diversa da quella che avevo pensato io: entrambe potevano essere giuste, mi ci ritrovavo, mi erano piaciute, erano attinenti a quello che avevo raccontato. Purtroppo non me le sono scritte e mi sono subito scappate di mente, come accade spesso con qualcosa che colpisce nel giusto.

 

Il vento degli altri è anche lo specchio della complessità della Storia, che a Fiume sembra aver persino esagerato. Come la vedi oggi la città, la Rijeka croata? Conserva ancora i connotati del passato

Conosco poco la città attuale e soprattutto non conosco i suoi abitanti, al di là dei rimasti, che però non considero un esempio di croaticità.

La prima volta che sono stata a Fiume avevo quindici o sedici anni, ero con mia madre e uno dei suoi cugini nato e cresciuto lì, fino a che gli è stato permesso abitarvi. La città era grigia, le case cadenti, tristi. Questo mi ricordo: il grigiore diffuso. Non capivo quella visita, una città così brutta! Ero troppo giovane e disattenta per cogliere quello che vedevano loro, qualcosa che non c’era più se non nei loro ricordi. La seconda volta che ci sono andata è stato moltissimi anni dopo, la Jugoslavia non esisteva più e Fiume era in Croazia. Gli edifici più belli erano stati restaurati, erano state create piacevoli isole pedonali, la gente passeggiava e si fermava nei bar del Corso, i negozi avevano vetrine come le nostre. Una città completamente diversa da quella che avevo visto, da quella che ricordavo. Simile a Trieste, anche se più piccola e certamente meno bella. L’Impero austro-ungarico è rimasto preponderante in entrambe le città. Ho notato la mancanza dei cafè in stile viennese o di Budapest e che a Trieste ci sono ancora; la gente è molto diversa, con tipiche caratteristiche slave. Mi hanno detto che, oltre ai venuti, cioè chi ha sostituito i circa 30.000 esuli di Fiume tra il 1945 e il 1948, c’è stato un altro cambiamento di popolazione con la guerra degli anni Novanta.

A questa tua domanda rispondo che il contenitore ricorda ancora molto la città che era, ma le caratteristiche che la rendevano speciale non ci sono più. Non si parlano più quattro lingue, non è più una città multiculturale, non so se sia tollerante ma propendo per il no, non credo che sia particolarmente accogliente con i diversi.

Porto un esempio che credo possa far capire qualcosa in più. Da febbraio 2020 e per un anno, Fiume/Rijeka è Capitale europea della cultura con un progetto dal titolo Il porto delle diversità. Ebbene, la Comunità degli italiani di Fiume ha presentato diverse iniziative da inserire nel cartellone generale. Non ne è stata accettata neanche una e non credo che fossero tutte poco interessanti. Saranno presenti ufficialmente solo con un banchetto gastronomico che presenta le specialità italiane (italiane di quella zona, intendiamoci). Se faranno qualcosa, lo faranno autonomamente; agli italiani è stata negata una presenza nella storia della città. Perché questo? Perché il nazionalismo croato continua a negare il fatto che lì ci sia stata una presenza italiana antecedente a quella fascista. Era un’italianità soprattutto di lingua, un’italianità mista ma che esisteva da secoli. Una storia che i croati tentano di cancellare – compresa quella della presenza veneziana che però non ha toccato Fiume – e direi che ci sono per la gran parte riusciti. Forse non crediamo a un Marko Polo croato ma è già indicativo che anche in italiano si dica spesso Zagreb e non Zagabria o Krk invece di Veglia. Mentre diciamo Parigi, e non Paris.

 

 

 

Il lettore avverte più di un nesso fra le vicende di Fiume e la storia attuale. Secondo te quali sono i legami fra il passato e il presente? Che cosa ci insegna Fiume?

Secondo me, innanzitutto Fiume ci insegna che le situazioni si ripetono, anche se non uguali.  Bisogna prestare attenzione, analizzare e riflettere per individuare le somiglianze e per comprenderle. Nel caso di questo libro si tratta di Fiume ma probabilmente ci sono altri luoghi che potrebbero avere lo stesso ruolo. Ci insegna che, come dicevo riguardo al titolo del libro, i fortunati possiamo essere noi in un determinato momento e non troppo tempo dopo potremmo non esserlo più. Questo, in teoria, ci dovrebbe rendere più attenti verso l’altro, verso chi fortunato lo è meno. Porsi nei confronti dell’altro cercando di capire davvero, non da superiori. Sarà forse idealismo, il mio, o buonismo? Forse sì, io credo però che chi come me ha una provenienza così mista e che ha vissuto – anche se non direttamente – così tante difficoltà e drammi non possa non identificarsi perennemente con l’altro, con il dolore dell’altro. E anche l’identità ha una diversa connotazione, non è legata alla nazione, non è unica, ma è altro; forse è una perenne ricerca.

La Fiume dei secoli scorsi ci insegna anche che la mescolanza di popoli, di lingue, di usanze e di tradizioni è positiva e ci arricchisce. Sono consapevole di avere un po’ idealizzato l’atmosfera della città che ho ricostruito nel romanzo, ma mi è venuta dalle letture fatte, dai racconti che ho raccolto in tanti anni e forse anche da quanto ho respirato in famiglia. Mi piacerebbe potere affermare che se riuscissimo a ricostruire quel clima di accoglienza e di accettazione delle differenze senza necessariamente cancellarle potremmo risolvere in parte la situazione odierna. Quell’atmosfera esisteva anche a Sarajevo o a Istanbul, faceva parte dell’epoca dei grandi imperi, tempi scomparsi e non recuperabili, al di là che non sarebbe il caso di recuperare. Leggendo un romanzo (e prima scrivendolo) ci si permette di sognare un po’, e allora, facciamolo.

 

 

(Silvia Cuttin, Il vento degli altri, Pendragon, 2017. pp. 334, € 16.00 | Intervista di )
copertina di future nostalgia su flaneri

Future Nostalgia: come si scrive (con classe) l’album di una superstar mondiale

Tra il 2015 e il 2018 Dua Lipa ha tirato fuori tre singoli che hanno avuto un successo riconoscibile senza problemi nel termine planetario. Le sue canzoni sono un pop commerciale fatto talmente bene da potersi adeguare un po’ a tutto, camaleontico come il migliore dei progetti di marketing. Roba che un po’ ovunque era possibile ascoltare “Be the One”, “New Rules” o “IDGAF”, da Zara a San Francisco o al supermercato a Parigi, durante l’ordine del nuovo panino di McDonald’s a Londra, magari in una delle infinite playlist home workout su Spotify nel proprio monolocale di Buenos Aires. Tre canzoni che nel 2017 hanno fatto parte del primo album della cantante inglese di origini albanesi e kosovare, Dua Lipa. In questo assurdo 2020 il suo nuovo lavoro, Future Nostalgia.

Cosa abbiamo di fronte a noi quando ci approcciamo al secondo album di Dua Lipa? Rispetto al suo esordio, scrive un album più maturo, coeso, coerente, con un groove intenso che scorre lungo tutte le undici tracce. Future Nostalgia è pieno di anni ’80, ma anche di  anni ’90 mainstream, da Madonna a Kyle Minogue, ridisegnati con quella retromania per solleticare l’immaginario del pubblico del 2020. È una stranissima colonna sonora di Stranger Things scritta da Michael Jackson in grande forma che si diverte a immaginare la prossima decade. C’è Olivia Newton-John con la ripresa della sua famosissima “Physical“: Dua Lipa vuole metterci nel cuore pulsante degli anni ’80. Ma è facile imbattersi anche in sensazioni che rimandino a Giorgio Moroder, quindi ai Daft Punk, soprattutto quelli di Homework. Ma c’è anche l’elettricità inventata dagli ABBA e dai BeeGees.

Future Nostalgia è un prodotto perfetto per quello che vuole rappresentare. Ci si ritrova più volte a strabuzzare gli occhi nel rendersi conto di come non abbia difetti, quantomeno nella forma. Talmente perfetto da procurare piccoli brividi di inquietudine. Non c’è spazio per crepe, qualche angolo smussato male, qualcosa fatta meno bene di altre. Lo ascolti dalla prima all’ultima traccia e non trovi nessun intoppo: coerenza stilistica, un thrill che ti accompagna senza abbandonarti. Precisione, personalità, la voce di Dua Lipa che sa come muoversi nella sofisticatissima intelaiatura strumentale che la circonda e quella combo basso batteria che gira a meraviglia.

Un pop disco funky fatto apposta per essere, oggi, il migliore dei dischi pop disco funky possibili, ma che forse non si ferma solo a questo. Non rimane la patina di uno sterile esercizio di stile. Sembra scritto da un equipe di perfetti robot con un cuore. Future Nostalgia avrebbe invaso negozi e situazioni sociali ovunque. Oggi, in piena pandemia, suona come la colonna sonora perfetta che esce dalle pubblicità degli schermi che accerchiano una Piccadilly Circus deserta.

Dua Lipa è destinata a fare incetta di Grammy, a diventare la super star di questa decade: da Madonna passando per BeyoncéRihanna e Lady Gaga, c’è lei.

copertina di Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin

Il vangelo laico
di Demetrio Paolin

Mai come di questi tempi ci sembra alieno quel profluvio di parole, quella verbigerazione di storie, quell’affabulazione continua – una malefica concrezione che ci studia con occhietti piccoli e iniettati di sangue celandosi fra le maglie dell’etichetta “storytelling” – a cui ci sottomette il catino delle patrie lettere. Occorre dosare le parole, perché finalmente le frasi di cartapesta rimbalzano sul muro di gomma della realtà. Auspicando, dunque, che – per molto tempo ancora – rimangano a mezz’aria i pennini tremebondi degli scrittori svegliatisi nella presunta nuova consapevolezza dei tempi di peste, ci troviamo a leggere con diletto chi invece sulla bilancia della letteratura ha da sempre soppesato rigorosamente ogni virgola.

Nel novero, a dire il vero non molto nutrito, c’è sicuramente Demetrio Paolin che già con Conforme alla gloria aveva dimostrato di saper sfidare all’arma bianca le grandi questioni del rapporto fra uomo e mondo. L’indagine di Paolin ha come epicentro l’assurdità del male – o forse sarebbe meglio chiamarlo Male – e la possibilità che ci sia una salvezza per l’uomo, sulla terra o altrove non è dato dirlo. Con Anatomia di un profeta (Voland, 2020) si rinnovano gli interrogativi dell’autore e assumono una forma più libera, speculativa, confessionale.

Libera perché la narrazione di Paolin si sfilaccia in mille episodi, lacerti di un’esistenza che non sappiamo dire se vera o inventata. In Anatomia di un profeta si legano varie traiettorie di vita: quella di Patrick, bambino dall’umore indecifrabile che si avvicina a gradi passi alla morte, quella della voce narrante che si chiede costantemente se in quella porzione di mondo che è stato chiamato ad abitare, le Langhe negli anni Novanta, troverà mai una via di fuga al dolore. A ciò si accompagna una corposa tensione biblica: è narrata, fra la storiografia e l’allucinazione, la vita del profeta Geremia, colui che più di altri ha penetrato il mistero del Male nella Bibbia. Allo stesso modo si evoca il Dio scontento su cui si interrogava Geremia, a riprova che la penna di Paolin viaggia spedita sulla pagina alla ricerca di un qualche nocciolo di verità.

Si diceva anche della portata speculativa di questo piccolo Zibaldone che per comodità chiameremo romanzo. Paolin organizza un prosimetro che alterna momenti prettamente narrativi a intermezzi lirici, seguiamo le tribolazioni del bambino Patrick e ci arrampichiamo nei saliscendi emotivi dei versi di Geremia. Digressioni saggistiche ci spronano a riflettere sulle parabole disegnate dall’autore, sulla dialettica fra creazione estetica – che sia di carattere letterario o religioso, come quelle di Geremia – e tentativo di trovare una catarsi al dolore. Il testo si infrange poi in una miriade di note che precisano, indicano altre vie, ritrattano o approfondiscono ciò che c’è scritto nel corpo principale: una sorta di carteggio con se stesso che Paolin ha voluto mascherare nel racconto di Patrick e Geremia.

Proprio in ciò risiede il punto nodale di Anatomia di un profeta: la portata umana e confessionale di quanto scritto. Fregandosene di collocazioni editoriali e correnti estetiche, Paolin dirige la sua scrittura verso i territori e le domande che gli premono maggiormente. E cerca di rispondersi attraverso la forma più congeniale: che sia la prosa, la poesia, il saggio, l’autobiografismo o la parabola biblica. Si tratta di un tipo di narrazione che si tiene insieme grazie al rigore morale dello scrivente e che, come un testo filosofico, occorre compulsare in maniera proattiva.

Non ci troviamo di fronte a un moralismo bieco, pessimista o antimoderno. Al contrario ritroviamo una voce appassionata, colta sì negli affanni che dona il nostro passaggio nel mondo, ma venata dalla giusta emotività, comprensione, capacità di rispecchiarsi nei mali altrui e nelle vite più disparate, dalle più vicine fino alle esistenze disgraziate. Nelle pagine di Paolin c’è la volontà di allargare lo spettro della comprensione umana di fronte all’ignoto della nostra condizione, e non solo con le armi dell’intelletto, ma soprattutto con la possibilità di implementare l’Altro nel nostro sistema di vita, una sfida al Male lanciata in nome della sopravvivenza.

Ancora una volta torno a pensare che, nel disastro evocato quotidianamente, il compito della letteratura sia saggiare le possibilità della morale umana, in modo da rinegoziare il rapporto fra uomo e natura, e famiglia, e società. Paolin ha scelto di farlo attraverso la simbologia che gli è propria – quella cristiana – problematizzando gli interrogativi e le idiosincrasie della sua vita interiore. Per questo ci dona non tanto un “romanzo” o “romanzo-saggio” o come lo si vuole chiamare, ma una libbra della sua carne. Di certi breviari morali dovremmo fare tesoro, con grazia.

(Demetrio Paolin, Anatomia di un profeta, Voland, 2020, pp. 256, euro 17, articolo di Giovanni Bitetto)
Copertina di La lingua della terra di Revelli

Dove non servono parole

Giorno di quarantena innumerato. Il virus impazza, in un dove x al di là della porta. Si guerreggia ancora in corsia, sfidando la morte a braccio di ferro e noi, soldati semplici e annoiati, ci scaviamo la trincea sul divano, con dosi sempre più esili di resilienza. Le restrizioni continuano, non possono flettersi. Per la nostra conservazione polmonare e il nostro progressivo smantellamento mentale.

Per non uscire di testa usciamo tra altre teste, tra mangrovie di storie in cui sentirci al sicuro. E ci sgomenta leggere una trama qualunque e trovarla così ucronica, tappezzata d’incontri, progetti, saluti, un intero alfabeto di prossimità che abbiamo riposto nell’ultimo cassetto. Assieme a quelli che sembravano dilemmi inossidabili, grovigli di polemiche e dibattiti per i quali al momento il posto è esaurito, a bordo del nostro monotematico pianeta.

Giacomo Revelli, fino a due mesi fa, prima di questa realtà congelata e spettrale, avrebbe proposto un racconto attuale. Che ovviamente speriamo torni ad esserlo presto. Con un titolo azzeccatissimo, La lingua della terra (Arkadia, 2019) si presenta come una vicenda familiare e territoriale. In cui famiglia e territorio costituiscono due vasi comunicanti, raccordati dalle stesse radici. Che nutrono, che annodano, che imbrigliano i passi ma che comunque scongiurano il crollo.

Casa propria è chi si ama e dove si sta, quel polverio sottopelle di gesti, di odori e di voci in cui specchiarsi e assaggiare ogni giorno il proprio riflesso. La “casa” di questo romanzo è la Liguria, più precisamente la zona dei Lüghéi, area preziosa di terrazzamenti, di orti incastrati come segreti e uliveti estorti alle montagne. Un anfratto di mondo dove solo un’efferata pietrosa ostinazione sa negoziare con la terra, dove risuonano verbi arcaici come campane: zappare, falciare, irrigare, ascoltare l’orchestra del cielo, con le sue pulsazioni di battere e levare.

Bedè fa il contadino esattamente come suo padre prima di lui, entrambi conoscono un idioma di sudore e pazienza, indispensabile per coltivare. Per attenersi e ottenere. «Per qualche giorno di sole o di pioggia in più, un intero raccolto può andare a male, oppure arrivano i parassiti, l’oziorinco nel ruscus o la mosca negli ulivi, o le mimose fioriscono troppo tardi o troppo presto. Tutto è regolato da stagioni, cicli e fasi che non avvisano, non ci avvertono, non urlano mai. Passano e basta».

Quella linea di sapienza ancestrale si frattura con i figli di Bedè. Il primo, a cui tocca narrare, ha scelto di studiare Ingegneria e, mentre suo padre torna dai campi fangoso e affamato, lui fronteggia un faggeto di equazioni e vettori. Lui sceglie di restare seduto. Suo fratello, più piccolo e scapestrato, quell’estate decide invece d’innamorarsi, di precipitarsi al mare e lasciarsi incantare da una sirena milanese. Starebbe per dipanarsi un tipico inesorabile conflitto generazionale. Che fine farà quella terra, quella scommessa testarda intessuta di reti da stendere, di attese da potare, di grappoli d’olive da raccogliere con fede? Che fine farà quando Bedè sarà finito? Lui da solo a settant’anni non può più gestire l’ammontare del da farsi. E sua sorella, zia Catainìn, è già pronta a sbarazzarsi della sua quota di terreno per acconsentire che si trasformi in cemento.

Ma nel cuore sistolico di questa crisi, un mattino qualunque ai Lüghéi irrompe un intruso, uno straniero con gli «occhi crudi». Bedè resta interdetto, non sa come agire davanti a quel corpo raggrumato nel timore. Non si muove, non mangia, non parla. Non si sa come si chiami né da dove venga. Ma Bedè, nella limpida assenza di un vocabolario comune, cerca altri lemmi. Capisce che quel ragazzo ha solo bisogno di un rifugio, di qualcuno che non lo cacci ancora.

Quel cibo offerto che stagna intatto di giorno, gli avanzi respinti dai figli troppo sazi, viene ingerito soltanto al tramonto e così cominciano a emergere segni ed essenze della sua abitudine. E dopo poco Bedè constata che con quel giovane sbucato dal niente ha più da condividere di quanto stimasse. Lo straniero parla la sua lingua, che è appunto quella della terra. Intelaiata di mosse, di sforzi, di attrezzi pesanti e di fiato corto. Di gambe indurite e ceste e rastrelli e alberi da scuotere. Di rigore e perseveranze.

Le stesse umiltà del sacrificio contadino che un altro Revelli, Nuto, ha scolpito nel suo capolavoro Il mondo dei vinti. Dopo vari decenni, quella stessa terra, drogata, abusata, impoverita, chiede ancora coraggio a chi crede in lei. E lo straniero piombato da un Paese fuori dalla sua cartina, quella di una crociera mai realizzata, è il tempo del futuro piovuto sui Lüghéi. È l’aiuto che mancava. Bedè, che non sa spiegarselo, non ne ha bisogno perché lo sa già. Che un essere umano soggioga tutti i ridicoli tentativi di etichetta.

Il compito più ruvido sarà dirlo agli altri, alla moglie, ai suoi figli, alla gente per cui è un clandestino è tutto racchiuso in quella parola. Che non porta frutto. Che ruba anche l’ombra.

La lingua della terra è una storia di amori e diffidenze antiche. Che Revelli snocciola con pagine nitide e immediate. Molto apprezzabili quelle dedicate ai suoi luoghi, che l’autore culla nel sangue: «Ogni mattina la luce cala dalla collina […], lì prende un verde più acuto e meno severo, un verde da tutti i giorni. Solo allora è veramente giorno su quegli orti ammucchiati uno sull’altro, con quella terra che vorrebbe scappare ma non può, trattenuta dai muretti a secco come braccia che aiutano l’uomo a stringerla a sé».

Protagonista, assieme ai suoi Lüghéi, è certamente Bedè. I suoi figli sembrano un unico personaggio sdoppiato, l’uno che studia e racconta, l’altro che si sporca d’amore. Due lati fragili della stessa età e nessuno egemonizza l’altro, nessuno ha la sua forza attrattiva. È lui, Bedè, il collante e la ricchezza del romanzo, col suo dialetto scuro e ferroso (necessariamente tradotto), i sentimenti elementari e saldi come i suoi silenzi, l’asperità di scorza e la dolcezza del succo.

È lui che lascia sperare che, al di là delle provenienze singole e delle singole istruzioni, esista un solo orizzonte, lo stesso di chi parte e di chi come noi è costretto a restare. L’orizzonte per comprendere quanto in una dimensione di distanziamento imposto siano stupide tutte le altre distanze che reputiamo irrinunciabili. L’orizzonte di chi si ammala, di chi cura e di chi aspetta, perché forse sono solo modi diversi di marciare verso la guarigione. Verso il lieto fine.

 

(Giacomo Revelli, La lingua della terra, Arkadia, 2019, 200 pp., euro 14, articolo di Cristiana Saporito)

 

coperina di ghost V e VI su flaneri

NOI E I NINE INCH NAILS, TRA INCUBI E SPERANZE

Diciamocelo: abbiamo vissuto momenti migliori. Città blindate, servizi ridotti al minimo, crisi economica all’orizzonte. E tanta paura. In tv si alternano catastrofismo e annunci rassicuranti, e il risultato è che negli occhi della gente si leggono timore e senso d’impotenza. La sensazione è quella di ritrovarsi catapultati in un film o in una serie tv dai contorni post-apocalittici e dagli scenari distopici, come Black Mirror o Blade Runner. Nel bel mezzo della pandemia, i Nine Inch Nails hanno appena pubblicato a sorpresa, e gratuitamente, due nuovi lunghissimi album di pregevole musica strumentale, Ghosts V: Together e Ghosts VI: Locusts, figli di una saga iniziata nel 2008.

L’obbiettivo è chiaro fin dalla copertina: i due lavori rappresentano, rispettivamente, la speranza e la fine, la luce e l’oscurità. L‘attuale emergenza sanitaria avrebbe accelerato la realizzazione finale e la pubblicazione.

Partiamo dalle tenebre: Ghosts VI: Locusts è l’essenza della disperazione concentrata in 15 brani, per un totale di 1 ora 23 minuti. L’album nero è quello della paura, dell’ansia, della solitudine. I pezzi sono lunghi e intensi, la sofferenza la fa da padrona ma viene presa di petto, affrontata. Dall’inizio alla fine, le sonorità industrial sono torbide e non lasciano molte speranze all’ascoltatore. Apre “The Cursed Clock” che, insieme a “When It Happens (Don’t Mind Me)” martella i timpani dell’ascoltatore come degli orologi a pendolo e si perdono in prolungate distorsioni simili a interferenze elettromagnetiche.

È l’angoscia il sentimento dominante dell’album nero: da “Around the Corner” e “Another Crashed Car“, passando per l’apocalisse di “The Worriment Waltz” e i sottofondi quasi infernali di “Just Breathe“, l’impressione è quella di trovarsi in un’enorme casa abbandonata o nel peggiore degli incubi: telefoni isolati, lunghi silenzi, distorsioni sonore ed echi spaventosi, come quelli di “Temp Fix“. Se non ci fossero “Trust Fades” e l’altro album, quello bianco e buono, a smorzare la tensione, i Nine Inch Nails sarebbero degli esseri sadici e malvagi.

La luce e la tranquillià, aka Ghosts V: Together, rappresenterebbero invece la speranza e la spinta ad andare oltre quello che stiamo vivendo in questo momento. Tutti insieme. Sebbene gli 8 brani che compongono l’album non sprizzino gioia da tutti i pori e ci sia una certa tensione, il cambio di rotta c’è e si fa sentire: le sonorità diventano più armoniose ed eteree, lasciando spazio alla musica d’ambiente e all’elettronica. La morbida “Apart” e l’apertura di “Letting Go While Holding On” ristabiliscono serenità e calma. La desolazione lascia spazio rinascita. Bisogna però ammettere che il lato oscuro dei Nine Inch Nails, pur essendo benzina sul fuoco, è la parte migliore di questa doppia uscita.

«La musica – ascoltarla, pensarla, crearla – ci ha aiutati ad affrontare qualsiasi momento, buono o cattivo. Con questo pensiero, abbiamo deciso di lavorare fino a tarda notte e completare questi due nuovi ‘Ghosts’ per aiutarci a mantenere in qualche modo la salute mentale», ha dichiarato Trent Reznor, leader del gruppo. I Nine Inch Nails sono stati sempre prolifici e hanno scelto di regalare due impeccabili gioielli al momento giusto, quello del bisogno. Dal punto di vista stilistico, i due album sono perfetti. Ora ci sentiamo un po’ meno soli, disorientati sì dai frastuoni e dalla confusione di certi “fantasmi”, ma meno soli. Bravi.

 

 

poster del film netflix il buco

La legge della fame

Su Netflix è disponibile Il buco, confuso film spagnolo di fantascienza socio-politica, critica allegorica del capitalismo e delle distanze sociali che vira in un carnalismo esagerato prima di esporre qualsiasi tesi di rilievo.

In un futuro non meglio precisato esiste una prigione verticale dove si viene reclusi o si va come volontari. Ogni piano ospita due detenuti, in ogni piano c’è un buco. In quel buco passa a intervalli regolari una piattaforma con sopra un’enorme tavola imbandita con ogni pietanza immaginabile. Il buffet viene composto al piano 0 da un gruppo di cuochi e inizia la sua discesa lungo la torre per sfamare tutti i detenuti. Chi è nei piani inferiori deve sperare nella capacità degli altri di autoregolarsi. Goreng è entrato nella torre volontariamente e con due obiettivi: smettere di fumare e leggere Don Chisciotte della Mancia (ogni detenuto può portare un oggetto con sé). Non ha idea del destino a cui si è condannato.

Ha ottime intenzioni e buoni riferimentiIl buco. La prigione- torre si inserisce nel filone della allegorie sociali già sfruttato da Il condominio di Ballard, o per rimanere nel cinema da Snowpiercer dell’oggi pluricelebrato Bong Joon Ho.

La differenza, rispetto ai precedenti, è che la distribuzione sociale è qui del tutto casuale: i detenuti si svegliano ogni mese a un piano differente e devono vivere con risorse sempre diverse.

Ci sono, in potenza, molti discorsi interessanti che si annidano tra le pagine del copione di Il buco. Il ritorno allo stato di natura quando la fame diventa l’unica ragione; l’odio insensato per chi sta meglio e la paura cieca di chi sta peggio; la diffidenza per il compagno di cella; l’irrazionalità come rifugio immediato. C’è una religiosità costante nella ricerca del dio assente che manda il cibo e delle soluzioni per rendergli omaggio.

C’è, più di tutto, una riflessione sul consumismo e sulla incapacità dell’uomo di sfruttare ciò che ha a disposizione senza abusarne, senza prendere più del necessario. La prigione è la rappresentazione di come gli esseri umani sfruttano la natura per fini superflui, senza preoccuparsi degli altri, dell’equilibrio o della giustizia sociale. La totale arbitrarietà della collocazione nella torre porta fa evaporare ogni forma di misericordia e solidarietà, alternando periodi di fame assoluta con lussi sfrenati in cui è impossibile contenersi.

Tutti spunti molto interessanti che rimangono, però, solo come pretesti narrativi. Troppo in fretta, infatti, Il buco lascia prevalere una spettacolarizzazione pacchiana dello schifo, tra cibi spiaccicati, sangue e sporcizie assortite. Le vaghe suggestioni di Buñuel (L’angelo sterminatore soprattutto) e Ferreri (La grande abbuffata) cedono il passo a un gusto horror più dozzinale che si fa anche decisamente confuso nel cammino verso il finale intriso di un messianismo decisamente improvvisato.

Insomma, Il buco poteva essere un ottimo titolo, invece finisce per essere un semplice horror pieno di pretese, una brutta versione di The Cube.

(Il buco, di Galder Gaztelo-Urruia, 2019, fantascienza, 94’)

copertina di hull il dono oscuro adelphi flaneri

Ritrovarsi senza orizzonti

«Ora non vedo davvero più niente. Non distinguo il giorno dalla notte. Posso guardare fisso il sole senza avvertire il minimo bagliore». John M. Hull è cieco da tre anni quando scrive queste righe, o meglio, quando le racconta ad alta voce, nel tentativo di riempire le tenebre con il suono. È per questo, forse, che il suo è un libro diverso da qualunque altro: Il dono oscuro (Adelphi, 2019), infatti, è la raccolta diacronica di pensieri e riflessioni sulla cecità, sul buio soffocante in cui Hull è precipitato, improvvisamente, a quarant’anni. Frammenti, minuzie, accenni di vita in un libro privo di un inizio e persino di una conclusione, come ci avverte Oliver Sacks nella prefazione, perché «la cecità non ha una fine».

Sprofondare nell’oscurità significa vivere altrove, occupare non-luoghi in cui lo spazio e il tempo sono continuamente ridefiniti. Nella vita di Hull esiste un prima, fatto di cose perdute e ritrovate con un gesto; di belle giornate, in cui quell’aggettivo, belle, aveva ancora un senso condiviso; di feste passate a guardare i propri figli scartare regali e sentirsi parte della loro felicità. Esiste, però, un dopo, oscuro e inimmaginabile, in cui «il vento ha preso il posto del sole» e perdersi significa non avere riferimenti o direzioni.

Tornano alla mente le parole di Marguerite Duras quando nel suo romanzo più celebre, L’amante, cerca di definire quel sentimento, ricambiato, di estraneità alle cose: «Non c’è mai un centro, non c’è un percorso, una linea. Ci sono vaste zone dove sembra ci fosse qualcuno, ma non è vero, non c’era nessuno». Ebbene nel mondo di Hull non esistono più linee, né orizzonti, o almeno non quelli di prima. Chi vede cerca di aiutarlo spiegandogli la strada, usando espressioni come qui e , non sapendo che le parole, contaminate dal buio, non hanno più lo stesso significato. E persino salutare il figlio diventa un’esperienza nuova: all’entrata di scuola non c’è un unico ciao, ma una serie ripetuta, finché la lontananza indebolisce la voce, senza spezzarla, cosicché nessuno dei due provi il dispiacere dell’abbandono, della sparizione improvvisa.

«Oggi non riuscivo a ricordarmi da che parte è rivolto il tre, scritto in numeri arabi. Ho dovuto tracciarlo nell’aria con il dito»: basterebbe questo a far capire quanto sia profondo l’abisso. Eppure in Il dono oscuro non c’è nessuna vittima, perché lo scopo di Hull non è raccontare il dolore (che pure arriva con una chiarezza e un controllo disarmanti), ma comprendere cosa sia la cecità, trovare un senso a ciò che è accaduto, osservare la perdita. Il buio è un tunnel senza fine: si precipita altrove, forse negli abissi dell’anima. Scompare il ricordo delle persone, del loro aspetto, poi rapidamente ci si dimentica del proprio viso: ci si aggrappa a un’immagine, fissa, immobile, magari una foto di tanti anni prima, che la mente conserva ancora da qualche parte. Finché scompare anche quella: non si ha più memoria neppure della luce. Il cervello annulla il dolore, si ripiega su sé stesso, comincia a vivere un’altra vita: senza gli ingombri esterni Hull acquista maggiore lucidità, lavora intensamente e con precisione. La cecità appare allora, davvero, come un dono oscuro, non richiesto, non cercato e, soprattutto, non gradito: accettarlo è la parte difficile. Ma il compito più gravoso, forse, è cancellare ogni cosa, rinunciare a ciò che prima sembrava essenziale. Bisogna ricostruire la propria identità, il mondo, le distanze, gli affetti: non è qualcosa di straordinario o coraggioso, ci avverte Hull, bensì una necessità.

 

(John M. Hull, Il dono oscuro, Adelphi, 2019, 221 pp., euro 20,00, articolo di Elisa Carrara)