Copertina di Polvere d'agosto di Tuzzi

Nella doppia Milano delle mafie e del jet set

Con Polvere d’agosto (Bollati Boringhieri, 2019) siamo nella Milano del 1989, dal 16 agosto al 25 ottobre. C’è stato un omicidio, con un cadavere che però scompare e di cui non si avranno tracce fino al termine del romanzo. Ci sono altri due omicidi, di Bernardo Docci D’Orni e del suo maggiordomo\factotum Bruno Mazzone, che danno il via all’indagine della polizia.

Ci sono droga, prostituzione, segreti esoterici, perversioni, c’è la Milano delle periferie degradate e la Milano raffinata degli aperitivi e della moda. L’ispettore Melis, in poco più di due mesi, risolve il caso e scopre chi è l’assassino e quali i moventi.

Polvere d’agosto si presenta come un divertissement: è un’esplorazione, svagata e ironica, di una Milano ancora “da bere” (siamo alla fine degli anni ’80). Ci sono alcuni riferimenti storici a quegli anni, come la caduta del muro di Berlino o la comparsa dei primi cellulari. Per il resto Tuzzi è interessato a fotografare una doppia Milano, quella degradata e malavitosa delle Torri Zingales e quella frizzante e ricca dei quartieri eleganti.

Col procedere della storia i personaggi crescono quasi a dismisura. Raramente assumono una individualità ben connotata, ma trovano, piuttosto, una loro ragion d’essere nel milieu sociale di cui sono espressione. I toni ludici del testo, che strizzano sempre l’occhio a un lettore divertito e colto, sono poi confermati dai nomi di molti personaggi che sono nomina omina (la dottoressa Crimisi, che si occupa di crimini, Santo Guardascione, delle torri Zingales, Del Ghinghero che è un sarto, e così via). Molto ben riuscita è la loro caratterizzazione linguistica in riferimento alla estrazione sociale e al contesto.

Hans Tuzzi esplora con sagacia tale universo fatto di termini gergali o di parole auliche, di registri che si modellano sui diversi personaggi qualificandoli e definendoli. Così spiega e descrive la psicologia e le azioni di tutti coloro che a vario titolo hanno un ruolo decisivo nell’evoluzione dei fatti.

Il giallo, il genere letterario che Tuzzi sceglie di esplorare (e che ritroviamo anche in tutta la famosa serie di gialli dedicati all’ispettore Melis) è una chiave di ricerca antropologica e sociale su una Milano schizofrenica dove l’alto e il basso trovano una saldatura complementare e dove ciò che appare non corrisponde a ciò che è.

Tuzzi non nasconde i suoi ascendenti letterari, la sua grande cultura di appassionato ed esperto bibliofilo: cita l’Umberto Eco del Pendolo di Foucault a proposito di un eventuale coinvolgimento di massoni; cita i romanzi di Agatha Christie e i loro congegni narrativi; semina qua e là inserti che parlano di libri antichi e di edizioni rare e che non trascurano intrighi appassionanti di scomparse eresie e società segrete. A volte si ha l’impressione che il romanzo, nella sua costruzione e nella sua appartenenza al genere, sia una scusa per parlare d’altro e per veicolare contenuti di tipo saggistico ed erudito.

In effetti viene da porsi un confronto con i numerosi thriller che, in Italia e all’estero, proliferano con tanto successo: Polvere d’agosto è un giallo che si posiziona su un tono sommesso, che evita gli effetti truculenti, che si costruisce su piccoli meccanismi, che opta per una mediocritas consapevole e fino in fondo voluta. Per questo trova la sua più corretta collocazione in un tipo di narrativa che, pur essendo di genere, ha comunque un respiro di maggiore ampiezza. Genera piacere nel lettore non solo e non tanto perché pone con sapienza indizi in vista di uno scioglimento finale dell’enigma, quanto perché descrive con arguzia e intelligenza Milano e un’epoca di Milano.
Si tratta solo di accettare la sfida e lasciarsi prendere da questo giallo dal ritmo leggero e frizzante.

 

(Hans Tuzzi, Polvere d’agosto, Bollati Boringhieri, 2019, 247 pp., euro 14, articolo di Riccardo Romagnoli)

 

Copertina di Baco di Giacomo Sartori

I vermi trasparenti di “Baco”

Baco (Exòrma, 2019), il nuovo romanzo di Giacomo Sartori, è uno di quei romanzi che lasciano un’impronta lunga nella memoria, che si sedimentano e aprono a nuove prospettive, a nuovi modi di guardare il mondo.

In breve, è la storia di un bambino di dieci anni, sordo profondo e iperattivo, che detta alla sua logopedista una serie di lettere alla madre, in coma dopo un incidente stradale. Proprio l’incidente dà avvio alla narrazione, quando il ragazzo si trova a vivere con un padre troppo giovane per occuparsi della famiglia, un nonno specialista di bruchi, che porta con sé ideali novecenteschi, e un fratello geniale, soprannominato QI185, che crea un sistema di intelligenza artificiale destinato ad avere un impatto enorme sulle loro vite.

Si tratta di un romanzo ricchissimo di stimoli e spunti di riflessione, che affronta questioni fondamentali del mondo contemporaneo attraverso una voce inusuale e leggera solo in apparenza.

Ho cercato di portarle a galla facendo qualche domanda all’autore: agronomo trentino che vive a Parigi, non nuovo a narrazioni complesse e ricche di livelli e sfaccettature.

 

Vorrei cominciare parlando del protagonista di Baco. Il tuo narratore ha il tono imperfetto e a tratti petulante di un ragazzino con un controllo solo parziale del linguaggio, che crea espressioni inusuali e usa «paragoni squinternati e ineleganti similitudini». La semplicità è solo una prima apparenza, perché diventa molto presto chiara la ricerca approfondita a livello linguistico e psicologico necessaria a costruire una voce simile e mantenerla coerente sino alla fine. Com’è nato un personaggio così inusuale, da cosa nasce il desiderio di assumere un punto di vista così complesso?

I miei personaggi sono quasi sempre inusuali, e spesso marginali, e spesso hanno difficoltà a spiegare a se stessi quello che vivono e sentono. È il caso del protagonista di Baco, che appunto ha dieci anni, e ha avuto accesso solo molto tardi alla lingua dei segni, perché il padre era contrario, cosa spesso tragica che capita e soprattutto capitava a molti sordi, che così si trovano privi di uno strumento di pensiero e di comunicazione.
Mi interessava questo suo accesso difficile alla lingua – solo ora sta imparando anche quella verbale – perché credo che tutti noi abbiamo in qualche misura problemi a confrontarci con la lingua, anche se non ce ne rendiamo sempre conto, e con la gabbia di interpretazioni e di rappresentazioni – una lingua è anche una lettura del mondo – che si porta dietro. E naturalmente questo suo scrivere – in realtà detta come dici tu alla sua logopedista – è una metafora della scrittura, quella della letteratura: anche lì l’autore si confronta e lotta con la lingua, si dibatte con le sue inerzie e limiti.

 

Una delle caratteristiche salienti del romanzo è proprio la riflessione sul linguaggio. La sfiducia che il protagonista prova nei confronti della lingua parlata è la sfiducia di un individuo che non può comunicare nella sua “lingua madre”, la lingua dei segni, considerata da tutti inferiore – come un dialetto, o una lingua straniera che nessuno capisce. Ma è interessante come alla sua sfiducia si affianchi presto anche una sfiducia del lettore rispetto alle vicende raccontate: le persone che ha intorno mettono per prime in dubbio ciò che lui racconta, dando la sensazione di una realtà alterata, inaffidabile.

Quello del linguaggio è un tema fondamentale nei miei romanzi e nei miei racconti, fin dall’inizio: anche per esempio nel romanzo precedente, Sono Dio, dove a esprimersi era appunto Dio, con tutte le disavventure comiche connesse, perché per definizione la lingua umana non può veicolare l’infinitezza e la trascendenza, è irrimediabilmente umana e limitata, intrisa di passioni e emozioni che non hanno nulla di sacro.
Il mio non è un interesse teorico, ma un’attrazione per uno degli aspetti più importanti e problematici degli esseri umani, anche se nella vita corrente la maggior parte delle persone non ne è cosciente. E la lingua dei segni, che il mio protagonista ha imparato tardi, e che lo ha salvato, è interessantissima, perché non è una trasposizione della lingua parlata, come molti pensano, ma è uno strumento a sé, un linguaggio a sé stante, con una sintassi tutta sua.
Il ragazzino vede la nostra lingua attraverso questo prisma, che padroneggia meglio, e per così dire da lontano. Quindi per molti versi la capisce e ne vede i limiti meglio di noi, che la maneggiamo molto meglio di lui ma la usiamo macchinalmente, senza rifletterci. Lui vede molto meglio di noi che qualsiasi affermazione è fondamentalmente falsa, non rispecchia fedelmente la realtà, non può farlo, con tutte le zavorre e preconcetti che si porta dietro.

 

Quindi la verità del racconto è la sua, più cosciente degli inganni della lingua, e non quella degli altri personaggi? O forse più probabilmente una verità non esiste affatto e ogni personaggio coinvolto percepisce gli avvenimenti – anche quelli più oggettivi – a modo proprio, a seconda non solo del punto di vista da cui guarda ma anche della lingua che usa per raccontarli, prima di tutto a se stesso. Se penso alle categorie concettuali del nonno, un anarchico novecentesco, rispetto a quelle di QI185, il fratello genio, completamente immerso in una bolla digitale, il divario di percezioni è enorme.

Certo, non esiste una verità oggettiva, e tutti i romanzi novecenteschi e posteriori affrontano in un modo o nell’altro, con questa o quella tecnica, questo dato di fatto. Ognuno di noi decodifica e legge gli stessi avvenimenti in modi profondamente diversi, molto più di quanto ci si immagina comunemente. Le immagini che gli altri hanno di noi non hanno niente a che fare con quella che noi abbiamo di noi stessi, e sono diversissime tra loro. Non parliamo poi quando ci sono, come dici tu, barriere generazionali e/o ideologiche e culturali. E in un certo senso la lingua tende a appiattire queste differenze, a incanalarle entro codici precostituiti, accentuando le somiglianze. Il mio protagonista, proprio per il fatto che non maneggia molto bene la lingua, e per certi versi la osserva da fuori, si rende conto che ciò che dicono quelli che gli stanno attorno, e ciò che dice lui stesso, non corrisponde a quello che vede: non è la verità, ha sempre qualcosa di sbagliato, o almeno di forzato.

 

È proprio questa distanza dal linguaggio che gli permette di guardare il mondo da una prospettiva molto più ampia del comune. Come se, escluso da un antropocentrismo appreso culturalmente, riuscisse a percepirsi non come padrone del mondo ma come parte di un sistema più grande di sé, in cui le api allevate dalla madre, i bruchi studiati dal nonno, e anche l’intelligenza artificiale, hanno la stessa rilevanza e lo stesso diritto alla vita.

In effetti io credo che il romanzo abbia ancora senso e interesse se riesce a pescare anche da saperi che non sono quelli costituiti, quello che forse tu intendi quando dici “appresi culturalmente”. Noi occidentali siamo intrisi di “culturalismo”, quasi la cultura fosse solo quella accademica e speculativa, e ci dimentichiamo che le esperienze di vita possono costituire forme di sapere altrettanto profonde e istruttive. Abbiamo perso la cognizione di quella che per i filosofi antichi era la saggezza, che non era solo speculazione cerebrale. E è chiaro che l’antropocentrismo nel quale ci siamo cullati per un paio di millenni è ora in crisi profonda, perché da una parte scopriamo che le cose sono più complicate – noi non siamo il centro del mondo, e men che meno dell’universo – e dall’altra constatiamo i danni che questo ha portato, che cominciano a mettere in discussione la nostra stessa sopravvivenza.

 

È certamente un tema molto attuale in tempi di emergenza ambientale, e lo sarà sempre di più, anche nel futuro prossimo come quello in cui è ambientato Baco. A questo proposito vorrei chiederti, qual è il tempo del tuo romanzo?

Si tratta di un futuro molto prossimo, nel senso che tutti i giorni ci vengono decantate le possibilità dell’intelligenza artificiale, e i risultati a cui arriverà a breve, e gli impatti che avrà nelle nostre vite. Poi gli esperti ci dicono che le macchine restano per il momento piuttosto sciocche, ma la propaganda che va per la maggiore è quella.

 

Sono sciocche oggi, ma sono anche in costante evoluzione, “imparano” molto in fretta: lo sperimentiamo ogni giorno trovandoci a relazionarci con sistemi sempre nuovi e sempre più avanzati, in grado di risolvere i mille problemi quotidiani del mondo complesso in cui ci troviamo a vivere (penso banalmente agli assistenti vocali dei nostri cellulari e che cominciamo ad avere in casa). Proprio questa crescita continua, così rapida da lasciarci a tratti indietro, è rappresentata con precisione dall’intelligenza artificiale del tuo romanzo, che è un po’ co-protagonista e un po’ deus ex machina dell’intera vicenda.

Sì, certo, in certi settori, a cominciare da quelli che citi tu, i risultati lasciano a bocca aperta, e l’impressione del comune mortale è di essere sempre indietro, di faticare a tenere il passo. Nello stesso tempo, quando si tratta di ragionare, e non di scimmiottare esempi e procedimenti già successi, come fanno i traduttori automatici, le macchine restano stupidissime: ce lo dicono tutti gli esperti e gli addetti al mestiere, e ce ne accorgiamo noi stessi se per esempio abbiamo un problema e ci ritroviamo a battagliare con il bot deficiente di un negozio online. E non è detto che in futuro possano fare molto meglio.
Però noi abbiamo egualmente paura di essere scalzati dai congegni che creiamo, e questo corrisponde a un terrore ancestrale, alla sfida di Prometeo agli dei, e alla fascinazione del Golem, miti che poi nel Novecento, con il grande sviluppo della tecnica, diventano ben rappresentati nella letteratura. E il mio romanzo rispolvera questo topos letterario, in chiave contemporanea.

 

Vorrei che mi parlassi dell’ambientazione del romanzo: tutta questa tecnologia, che noi siamo abituati ad associare ad ambienti metropolitani, è invece immersa nella provincia profonda, in una campagna che guarda la città (che sta «acquattata nella sua buca», proprio come certe città del nord Italia) solo da lontano, e tutti i personaggi hanno un forte legame con la terra. È un contrasto interessante.

In realtà la tecnologia è dappertutto, perfino nei paesi poveri: pensiamo alla diffusione dei telefoni in Africa, impensabile solo qualche anno fa, e a quello che rappresenta. E mi sembra che una caratteristica dell’Italia sia proprio la compresenza di elementi arcaici, appunto da provincia profonda, con un forte legame con la terra, come dici tu, e molto contemporanei, associabili piuttosto a non luoghi. Questa caratteristica viene fuori in realtà in tanti miei lavori, e in particolare nei tre romanzi ambientati nelle Alpi. La città acquattata è una allusione alla cittadina dove sono cresciuto, Trento, e che è un esempio perfetto di convivenza di elementi tradizionali, anche molto gretti, e chiusi su se stessi, e di nuove tecnologie, che sono invece planetarie.

 

Ti faccio un’ultima domanda. La parola baco compare spesso nel romanzo, seppure con continui slittamenti di significato. Perché i bachi – e i bruchi, i vermi (Vermi trasparenti è il titolo, bellissimo, del file in cui è contenuto il racconto del ragazzo)?

Ho scelto Baco perché rimanda allo stesso tempo al mondo digitale, l’inglese bug che attacca o insomma inficia il funzionamento delle macchine informatiche, e alla natura, ai vermi dei quali appunto il nonno del protagonista è specialista. Perché appunto le due grandi tematiche del romanzo sono la natura e la tecnologia.

 

(Giacomo Sartori, Baco, Exòrma, 2019, pp. 336, euro 16,50, articolo di Daria De Pascale)
Poster di Hammamet su Flanerí

Un ritratto senza idee e senza ideali

Si fa davvero fatica a capire il senso di un film come Hammamet. Se vi aspettate un film politico, non lo troverete. Se vi aspettate una riabilitazione, scordatevela. Se vi aspettate una condanna, non ce n’è traccia. Se vi aspettate il racconto della fine di un’epoca rimarrete spiazzati da scelte opposte e incomprensibili.

Gianni Amelio produce, dirige e scrive (insieme ad Alberto Taraglio) questo racconto delle ultime settimane di vita di Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista Italiano, presidente del consiglio tra il 1983 e il 1987 e protagonista nel bene e nel male della politica italiana, morto in Tunisia il 19 gennaio 2020 dove si era rifugiato per sottrarsi alla doppia condanna scattata come conseguenza della maxi inchiesta Mani pulite.

Il cinema d’autore italiano trova sempre materiale interessante nelle figure ambigue della politica italiana. Paolo Sorrentino ci ha costruito la celebrità internazionale con Giulio Andreotti e Il divo per poi azzopparsi da solo con Silvio Berlusconi e Loro. Amelio ha scelto Craxi, traditore secondo alcuni, martire secondo altri.

Hammamet  non racconta lo splendore dei successi internazionali, ma la decadenza della fine. Dopo l’ultimo congresso che lo conferma segretario con una maggioranza schiacciante, vediamo il presidente, come viene chiamato per tutto il film, in Tunisia, «alla fine del secolo scorso», come ci informa una didascalia. È invecchiato, malato, stanco. Vive in una villa con la moglie, la figlia e il nipote, circondato da militari armati. Una visita inaspettata lo spinge al confronto con il passato e la sua stessa identità.

Iniziamo a elencare le ambiguità di Hammamet, che non mancano. Partiamo dal protagonista, Pierfrancesco Favino. Dopo Il traditore infila una nuova, straordinaria, interpretazione, con una mimesi della voce e della postura di Craxi impressionante. Lo sostiene l’ottimo lavoro di Andrea Leanza e Federica Castelli che lo hanno trasformato nell’ex segretario del P.S.I. con estenuanti sessioni di trucco di cinque ore.

Favino diventa Craxi ma, e qui arriva il primo paradosso, non interpreta Craxi, o almeno non lo fa in maniera dichiarata. Non viene mai chiamato per nome, non vengono fornite coordinate precise, addirittura le persone intorno a lui hanno nomi diversi dalla realtà (la figlia Stefania diventa Anita). Ci si chiede che senso ha inserire un elemento di iper-realismo in un contesto di finzione straniante, perché lasciare sola questa statua di cera di Craxi circondata da personaggi che non hanno nessuna pretesa di adesione con il reale.

Questo senso di alienazione di Favino/Craxi aumenta quando lo confrontiamo con gli altri interpreti. C’è un contrasto brutale tra la grandezza del protagonista e la modestia di tutti gli altri, soprattutto i giovani Livia Rossi e Luca Filippi, cannibalizzati nella loro impostazione teatrale dalla naturalezza di Favino.

C’è poi il discorso politico, sul senso di raccontare la fine di un leader senza nominarlo. Amelio ha l’intelligenza di non entrare nel merito delle vicende giudiziarie (condanne complessive a più di dieci anni di carcere) e guardare solo al suo presidente, alla sua solitudine, al suo esilio (o piuttosto latitanza). Il ritratto che appare è quello di un leader abbandonato, allo stesso tempo capro espiatorio e responsabile per le colpe degli altri.

Ogni tanto, sembra che Hammamet voglia parlare dell’Italia più che di Craxi, ma anche qui senza sapere bene che strada percorrere tra rappresentazione e finzione. Compare Berlusconi, di sfuggita (unico politico reale), ma l’ex P.C.I. viene chiamato solo «il principale partito dell’opposizione». Non vengono fatti nomi, ma vengono mostrate facce. Perché?

Il difetto principale del film di Amelio è proprio questo: l’incertezza continua tra realismo e metafora che diventa mancanza di equilibrio e di identità.

Hammamet  non prende posizione e neanche la cerca. Vuole essere una grande riflessione sul senso della paternità – familiare, personale e politica – e mette insieme suggestioni in questa direzione per tutto il film, senza però riuscire a metterle davvero a frutto. In questo non lo aiuta una sceneggiatura che spalanca portoni senza neanche ricordarsi di guardarci dentro, con un personaggio che è co-protagonista della prima metà del film per poi sparire senza senso o motivo e ricomparire nei minuti finali con rivelazioni imbarazzanti.

Accompagnato dalla peggiore tra le «colonne sonore civili» di Nicola Piovani –invasiva, petulante e melensa –, Hammamet si perde in un finale onirico che inizia con la splendida immagine di Craxi scalzo a passeggio sul tetto del duomo e scivola in un varietà grottesco prima di sconfinare in una coda sull’infanzia e l’eredità che unisce ricordo e allucinazione senza soluzione di continuità. Come tutto il resto del film, sempre indeciso tra realtà e finzione.

(Hammamet, di Gianni Amelio, 2020, drammatico, 126’)

 

Copertina di Impalcature di Mario Benedetti

Esilio e “desexilio”

Mario Benedetti lo aveva detto che nessuna parola era in grado di spiegarlo, che sarebbe servito un termine da coniare appositamente per tentare di racchiudere tutti i sentimenti che si provano nel tornare nel proprio paese, quello da cui si è stati espulsi, cacciati, esiliati, dal quale si è dovuti fuggire. Nottetempo ha pubblicato quest’anno Impalcature. Il romanzo del ritorno, che in copertina ha una fotografia intitolata The Man in the Suitcase. L’uomo ripiegato in quella valigia è Javier, il protagonista del romanzo; è lo stesso Benedetti, di ritorno in Uruguay – come il suo personaggio – dopo più di dieci anni; è ogni uomo e ogni donna la cui vita è rimasta spezzettata dall’esilio, una parte nel vecchio paese, qualche pezzo nel luogo nuovo e sconosciuto, quel che resta in una valigia, in una perenne andata e in un infinito ritorno.

Quello di Mario Benedetti fu un esilio lungo come tanti, che lo portò ad incontrare storie, culture e lingue con le quali crebbe e si allontanò dal suo Uruguay e che, una volta rientrato in patria, gli fecero trovare un altro se stesso e un diverso paese. Per la nuova situazione in cui si ritrovò a vivere e per il rinnovato punto di vista acquisito una volta rimpatriato, coniò il termine desexilio: per esprimere la difficoltà e lo smarrimento che lo accompagnarono nonostante l’agognato momento.

Come avverte nell’introduzione, Impalcature non è un vero e proprio romanzo né un’autobiografia, è il racconto di un esule che dopo anni di assenza forzata torna a Montevideo con una valigia confusa in cui si mescolano speranza, rimorsi, solitudine e malinconie. È la storia di un uomo ma allo stesso tempo di tanti uomini e donne, ci sono dentro pezzi di vita vissuta da altri, dall’autore stesso o soltanto immaginati, vicende reali trasformate, le incertezze che si creano negli anni nelle medesime persone, le intelaiature che queste costruiscono o sotto le quali rischiano di soccombere.

La storia di Javier che lascia la Spagna per rientrare a casa è la storia dei vecchi amici rimasti, della scelta di rimanere o di partire; che cosa succede a chi rimane durante una dittatura? E cosa a chi ne fugge? Cosa resta in un paese o di un paese oltre la dittatura, quando arriva finalmente un dopo? Ed è possibile sapere ancora come si era prima?

«Io però non mi ricordo come fossimo. Com’eravamo, a quei tempi? Più gentili, meno scontrosi? Più sinceri, meno ipocriti? Forse meno sgradevoli, d’accordo, forse ancora oggi siamo meno presuntuosi della gente di Buenos Aires».

Non ci sono risposte, non si trovano certezze. In Impalcature c’è solo la lingua di Benedetti – sempre leggera e profonda e ironica – che racconta senza permettersi di spiegare, che fa rivivere spezzoni di personaggi che sono persone reali, spaesate, inevitabilmente diverse da prima, desiderose di ricordare e di rivivere come di cancellare e dimenticare. Sono pagine ricche di dolore e di un tipo particolare di paura che è impossibile scrollarsi di dosso, che rimane nella pelle o ancora più in fondo anche se si finisce dall’altra parte del mondo, anche se passano i decenni, anche se si ritrovano i figli costretti ad abbandonare da bambini e diventati uomini e donne irriconoscibili.

Sono le singole conseguenze dei colpi di stato e delle dittature quelle che sono sottovalutate e ignorate e che risaltano tra le impalcature in cui nessuno è più uguale, dove le strade e i ritrovi e gli occhi non sono più gli stessi, in cui non è più chiaro quale sia la propria terra, cosa voglia dire patria, dove tuttavia Benedetti riesce ancora a far intravedere una possibilità, una continuazione, la sua tregua.

«Camila mi manca molto. Mi sento in esilio da mia figlia. In una lettera di qualche settimana fa, Raquel citava Pessoa: “La mia patria è dove non sono”. Quando ho letto questa frase, che non conoscevo, anche se l’ho letto a fondo il mio Pessoa, l’ho sentita subito mia. Sì, quando ero a Madrid la patria era l’Uruguay, dove non ero. Ma qui, e ora, la patria è ancora il luogo in cui non sono?  Non saprei e mi amareggia non saperlo. A volte credo di averla ritrovata, ma altre volte mi sento in esilio anche qui. Altre ancora, penso che la mia patria è Camila e che Camila è il luogo è in cui non sono».

 

(Mario Benedetti, Impalcature, trad. di Maria Nicola, Nottetempo, 270 pp., euro 16, articolo di Francesca Ceci)

Brunori Sas, Cip!, il cantautorato italiano

L’uscita del nuovo album di Brunori Sas ormai porta con sé un’inquietante aura di santità, per cui lo si attende come qualcosa di eccezionale e di prezioso, custode di verità e mistero. Era già successo prima di A casa tutto bene, ma oggi, con Cip!, è ancora più evidente: Brunori è diventato trasversale, ha un pubblico vasto ed eterogeneo.

Di fatto è il cantautore italiano, l’eccellenza. Pochi giri di parole. Se dovessimo pensare oggi a un cantautore con lo statuto di cantautore, riconosciuto da addetti ai lavori, da un pubblico ampio e con addosso quella magia, non potrebbe uscire se non il suo nome – discorso a parte per Francesco Bianconi. Ha un passato con Rino Gaetano in testa che affonda le radici nell’indie prima dell’itpop e ora scrive canzoni con chiari rimandi al cantautorato italiano De Gregori/Dalla e in più funziona anche a livello radiofonico.

Qui sta la sua attuale grande forza: oggi ha una pulizia e un’espressività che lo rende iper appetibile per le radio, ma allo stesso tempo funzionale anche in contesti diversi, più refrattari a certe logiche. Può spaziare dall’essere sottofondo durante la spesa ad argomento universitario (da rivedere su Youtube i suoi incontri “All’università tutto bene”). Brunori, insomma, è uno serio.

Allo stesso tempo, sfrutta un vuoto contemporaneo che lo fa emergere imperiosamente. Un vuoto reale del cantautorato inteso come vuole la scuola italiana che al momento sembra soccombere prima al disimpegno pop più bieco e alla superficialità, poi sotto i colpi dei trapper o dei rapper.

Ed è anche quello che lo ha fatto sopravvivere all’ondata itpop. Se pensiamo al suo collega Dente, capiamo come due che hanno segnato l’indie di un decennio fa abbiano avuto due percorsi completamente diversi.

Chi scrive ricorda perfettamente, per esempio, il concerto nel 2010 al Circolo degli Artisti, l’iconico Dente Vs. Brunori. Erano anni in cui i social non erano ancora i social che sono diventati, non c’era stato ancora l’avvento di Niccolò Contessa e Calcutta era semplicemente una città indiana. All’epoca, poi, Dente sembrava addirittura in vantaggio rispetto a Brunori. E invece.

L’artista emiliano è stato completamente inghiottito da I Cani/Calcutta, forse paradossalmente troppo affine a loro, cadendo quasi nel dimenticatoio – e sarà curioso capire cosa sarà del suo imminente prossimo album. Brunori invece no, è andato staccandosi da un certo modo di fare giovanile – eredità che oggi potremmo lasciare a Cimini –, riuscendo a catalizzare su di sé un bisogno collettivo più alto, più profondo. In mezzo, inoltre, un programma Tv, Brunori Sa, che rende esplicito il divario tra i due.

Certamente, soprattutto in questa sua seconda fase iniziata con A casa tutto bene, il livello di scrittura e di intenzioni si è alzato, andando a mirare a vette più alte, sia nella forma che nei contenuti. I riferimenti soprattutto a De Gregori, per quanto lui ne voglia fuggire, sono evidenti nell’approccio melodico e interpretativo di molti dei suoi brani.

Cip! è un’ideale prosecuzione di A casa tutto bene, volendo essere cattivi una sua sovrapposizione, dove vengono controbilanciate enormi questioni sociali e soffertissime questioni private. Chiariamoci: molte delle canzoni sono valide, come lo erano nel suo predecessore. Torna però costante la sensazione che il salto di qualità, quello decisivo, non sia ancora arrivato. Ma non per Lui-Brunori. Per lui in funzione della musica italiana.

Cip! è lavorato bene, fila prepotentemente tra cantautorato e spirito radiofonico, ma che lascia con l’amaro in bocca per non esser riuscito a mantenere le promesse che implicitamente ci aveva fatto . Al netto di un impegno (“Al di là dell’amore”, “Benedetto sei tu”) che il cantautorato pop odierno sembra essersi scordato (da ripescare, per questo, “Io sono l’altro” di Niccolò Fabi), ci troviamo di fronte a un lavoro ambizioso a livello di tematiche (la dicotomia tra Bene e Male) e corale a livello musicale, dove oramai il lo-fi degli esordi emerge raramente.

Brunori è diventato un cantautore emozionale, un luogo dove riconoscersi ferocemente, capirsi, consolarsi. Il “Parla proprio di me”, a metà tra Baglioni e Ultimo.

È netta la sensazione che diverse canzoni di Cip! le ascolteremo quest’anno nelle situazioni sociali più disparate, e questo non può essere che un bene. Ma forse stiamo dando a Brunori un ruolo che non è ancora grado di portare avanti, un’eredità troppo pesante.

Copertina di Casa di Foglie di Danielewski

Le radici profonde del perturbante

A vent’anni dalla prima edizione statunitense, rivede la luce, dopo alcune peripezie editoriali, una nuova traduzione di Casa di foglie di Mark Z. Danielewski, a cura di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti per 66thand2nd. Dopo anni di creazione di culto libresco e la nascita di un mercato falsario, Casa di foglie torna con una cura per il dettaglio che rende finalmente fedele e completa l’opera.

«Questo non è per te».

Inizia con un avviso alquanto esplicito, questo libro. Un’iscrizione che può passare inosservata; meno perentoria dell’ammonizione posta sulla bocca dell’inferno dantesco, ma altrettanto assertiva da fungere da memento. Poiché a dischiudersi dopo la seconda pagina non vi si trova l’orrore demoniaco e soprannaturale, il terrore dell’alterità misterica e misteriosa, ma le porte di una casa.

A introdurci è il racconto del ritrovamento da parte di John Truant, giovane losangelino tutto sesso droga e alcol, di un corposo manoscritto che Zampanò, un vecchio cieco a cui subentra nell’appartamento, ha lasciato, dopo il decesso, in merito a un docufilm di un famoso reporter: The Navidson record. È questo il titolo del documentario attorno a cui gira tutta la speculazione e l’analisi dei testi raccolti: un film girato da Will Navidson, noto premio Pulitzer per la fotografia, nell’ingenuo intento di documentare l’esperienza condivisa di tutta la famiglia del trasferimento in una nuova casa.

«Proprio per questo motivo vale la pena tornare a Navidson seduto in veranda, con lo sguardo fisso e le dita sottili strette intorno a un bicchiere di limonata. “Ho pensato che sarebbe stato bello vedere le persone trasferirsi in un posto e iniziare ad abitarlo” dichiara con serenità. “Stabilirsi, mettere radici, interagire, magari iniziare a capirsi meglio a vicenda. Personalmente vorrei solo creare un piccolo avamposto per me e per la mia famiglia”. Una riflessione alquanto innocua e laconica, ma che tuttavia contiene una parola particolarmente irritante».

Casa che è l’emblema per eccellenza del luogo in cui risiede la propria disposizione, in cui ha fondamento la possibilità dell’apertura verso il mondo: l’orizzonte in cui dimora l’essere. Nella casa dei Navidson tutto ciò viene sistematicamente negato e sovvertito, divenendo invece la metafora incarnata dell’illimitato e dell’inconoscibile. Casa, che da luogo delle risate e dei giochi, diviene il megafono di un silenzio così clamoroso da competere con il deserto di senso, il D.I.O, assente in La scopa del sistema di David Foster Wallace.

A innescare il ribaltamento è un dettaglio, un minuscolo dettaglio, una discrepanza quasi impercettibile tra dentro e fuori, tra l’interno e l’esterno della casa: uno scarto di 7 millimetri apparentemente impercettibile si trasforma nell’impulso che spalanca le porte all’Unheimlich, il perturbante.
Tale spaesamento che deriva è il sintomo tangibile della percezione di non-essere-più-a-casa e dello sconfinamento della casa nei domini inviolabili dell’io.

Il perturbamento tipico della weirdness di Danielewski prende le forme di un’architettura sinaptica, per cui il rapporto tra psiche e spazio si compenetrano e si alterano a vicenda, in una metamorfosi eternamente impossibile. La casa diventa un luogo disforico: ciò che si spalanca di fronte agli occhi e alle camere dei Navidson è l’insostenibile realtà di un orrido smisurato.

«Un conto è l’impossibile considerato come concetto puramente intellettuale: non rappresenta un grande problema quando si osserva una stampa di Escher e poi tranquillamente si chiude il libro. Diverso è se si ha davanti una realtà fisica che mente e corpo non possono accettare».

Casa di foglie ha la stessa densità narrativa di un buco nero: autore, scrittori, reporter, testimoni, personaggi e lettore finiscono risucchiati in un campo gravitazionale narrativo che porta tutti a scorgere l’oscurità più abissale e invita a prendere dimora e coscienza delle radici più profonde e oscure del proprio essere. È con tale arcano fondamento che la casa pone a confronto chi varca la sua soglia, così come Danielewski, scrittore deus ex machina o personaggio sopraffatto anch’egli, trascina il lettore in un vortice dove fiction, autofiction, menzogna, documenti e reperti emergono e galleggiano sul medesimo piano valoriale.

Il problema dell’autenticità è subito messo in discussione dal medium che si presenta come reale protagonista, fulcro speculativo della narrazione tutta: il documentario di Will Navidson girato all’interno della propria casa. È l’essenza stessa della registrazione su Vhs a porre il quesito centrale di ogni tipo di rappresentazione, trasposizione, narrazione del reale: il rapporto tra realtà e menzogna, il grado di aleatorietà semantica di ogni immagine manipolata.

Mentre in Infinite Jest di David Foster Wallace era la visione della Vhs a creare la dipendenza, una dipendenza squisitamente solipsistica (coerentemente con il suo autore), quella di Casa di foglie è invece una dinamica concentrica: il bisogno di esplorare i meandri più oscuri della casa si propaga da Navidson sino al lettore, coinvolto anch’egli in una pratica di speleologia esistenziale dai margini torbidi.

«Sempre più spesso vengo sopraffatto dalla stranissima sensazione che ogni cosa sia ribaltata, e con questo voglio dire – per ribadire il non-così-ovvio – che senza di lui io morirei. Arriva un momento in cui all’improvviso tutto mi sembra eccessivamente lontano e confuso, la percezione che ho di me è derealizzata e spersonalizzata, sono talmente disorientato che mi convinco – ed è un esempio di convinzione delle più assurde – che questa tremenda sensazione di essere in qualche modo legato all’opera di Zampanò implichi qualcosa che non può essere, ossia che questa roba ha creato me; quindi non io lei, ma lei me, dove me non è altro che il prodotto di un’altra voce, che si intrufola tra le pieghe di ciò che perfino adesso giace lì, spalancato, si impossessa di me con storie che non dovrei mai riconoscere come mie; mi inventa, mi definisce, mi dirige finché ogni associazione di idee che potrei reclamare come mia – da Raymond a Tippete, da Kyrie ad Ashley, tutte le donne, perfino lo studio e il mio monolocale e il resto – non si riduce più a niente; mi costringe ad affrontare il sospetto più terribile che ci sia, che tutto questo sia semplicemente inventato e, peggio ancora, non da me e neanche da Zampanò.
Però da chi non ne ho idea».

La perdita dell’identità appare come logica conseguenza di un’oscurità che è il distillato più puro dell’assenza. Ovunque è baratro e replica infinita di nero: le coordinate spaziotemporali generano il labirinto. E all’interno di ogni labirinto vi è sempre un Minotauro, vergogna e pensiero rimosso di un padre.

Così la peregrinazione del lettore avviene all’interno del testo, della gabbia del testo, quindi del dedalo che Danielewski ha costruito per smarrirlo e guidarlo, attraverso un filo sottilissimo che mantiene la comunicazione tra autore e lettore, tra la realtà esterna al libro e la finzione all’interno del libro, delle pagine, della casa. La dualità intrinseca al labirinto, ovvero la dicotomia tra chi si trova all’interno, l’autore, e chi osserva dall’esterno, il lettore, decade rispetto alla Casa (di foglie) dal momento che nessuno è in grado di vedere il labirinto nella sua interezza.

Danielewski guida quindi il lettore in una scrittura itinerante: l’occhio viene portato a seguire gli spostamenti sulla pagina come se fosse uno schermo, come costretto ad accompagnare i movimenti di un’azione filmica.

Non è metaforico perciò definire la lettura di questo libro immersiva, poiché si tratta di un testo decisamente postmodernista nella struttura, ed ergodico negli espedienti tipografici, che rendono alla perfezione il ritmo serrato, incalzante, in un’accelerazione della caduta verbale nella profondità della follia.

«Dentro di me non si agitava nulla di simile alla pietà. Scivolavo lungo la parete del mio abisso interiore».

cover di Io sono la bestia di Donaera

Il desiderio, il lutto, la provincia

Uno degli esordi che più attendevo nell’anno appena terminato è quello di Andrea Donaera. Atteso per due motivi: in primo luogo perché l’autore salentino si era già distinto frequentando la scena poetica nostrana, e in seconda battuta perché proprio attraverso la poesia aveva veicolato un’urgenza che tendeva a esondare dal verso. Un’attrazione nei confronti della prosa che suggeriva la volontà di saldare le varie esperienze: l’icasticità del verso, il lento lavorio del periodoIo sono la bestia (NN Editore, 2019) mantiene la tensione fra queste due anime: i dialoghi brevi e sincopati, l’organizzazione delle scene come sul fondale di un teatro, riportano alla parola poetica, al mistero che viene squarciato da improvvisi lampi di luce; le descrizioni minuziose, per certi versi ossessive, le ripetizioni di gesti e parole, come a segnalare un ritmo interno plumbeo, sono invece i frutti del cimento del poeta sul terreno della prosa.

Si parlava di ritmo plumbeo, e in effetti ci troviamo di fronte a un romanzo di tristi umori. Nel Salento – o sarebbe meglio chiamarlo, come da copione beniano, “Sud del Sud dei santi” –, per di più colorato dalla memoria degli anni Novanta, un ragazzo si toglie la vita. È il figlio di un boss della Sacra corona unita, si dice che l’abbia fatto per amore; al padre, uomo abituato a esprimersi comandando, non rimane che vendicarsi: rapire la ragazza ritenuta responsabile del suicidio del figlio. A fare da carceriere un suo sottoposto, che rivede nella vittima la sua amata, ovvero la sorella del ragazzo suicida. Sono cinque personaggi non in cerca di autore, ma di una ragione per vivere, per tirare a campare nella complessa trama ordita dal loro demiurgo.

Donaera incrocia diverse fascinazioni: da una parte c’è la sua terra, percepita come luogo dell’anima, prima che spazio reale, una dimensione simbolica in cui ogni pietra o casa o via rimanda alla sua totalità; dall’altra c’è il mistero della giovinezza, l’adolescenza che porta con sé dolori senza parole, a cui si può rispondere solo con gesti spropositati, addirittura estremi come togliersi la vita; una giovinezza che allo stesso tempo si presenta come connubio perfetto fra etica ed estetica, ed ecco allora che la bellezza di una ragazza diventa immediatamente attributo morale.

Ma non c’è solo il campo delle astrazioni: il racconto di Donaera è costruito anche sulle ruvide concretezze del nostro mondo. Ecco che si disegna l’origami di relazioni fra i vari personaggi, sono rapporti mediati dalle posizioni sociali e dal potere, passioni sincere e ambivalenti: Mimì, il boss, soffre in maniera genuina, ma risponde con la medesima moneta, le angherie che è abituato a perpetrare, e che gli sembrano più nobili solo perché fatte in nome del figlio; Veli, il carceriere, prova compassione e amore, ma questo non basterà a redimerlo dal destino di violenza e sottomissione che si è scelto; Arianna sperimenta la perdita totale, l’assenza di emozioni dopo il buco nero del lutto, ma è la stessa ignavia di chi ha vissuto tanti anni in una famiglia criminale senza curarsene; Michele non ha voce, perché morto, così come Nicole non può avere una vera voce, perché sempre mediata dallo sguardo di qualcun altro, che la ritiene vittima o carnefice.

L’autore sovrappone alla piramide del dolore quella della ferocia, che colora la tragedia della perdita con il dramma di non sapervi rispondere in modo adeguato.

La narrazione di Andrea Donaera si coagula in una favola oscura, capace di restituire la complessità di molteplici drammi individuali a confronto con il desiderio e la perdita e allo stesso tempo di spennellare un paesaggio senza tempo, intriso delle sensazioni dell’autore, quella provincia onirica che tutti coloro che ci hanno vissuto si portano dentro, come trofeo o cruccio, anche quando il luogo natio è geograficamente lontano. Ci troviamo di fronte a un autore in grado di padroneggiare i tesori della lingua, e in possesso di una visione raffinata, per quanto cruda e tutt’altro che consolatoria. Non sappiamo dove possa arrivare, ma sappiamo che, per ora, la sua tenebra risplende sulla via.

(Io sono la bestia, Andrea Donaera, NN Editore, 2019, euro 16, pp. 240, articolo di Giovanni Bitetto)
Poster italiano di Tolo tolo su Flanerí

Zalone: Tolo (tolo) contro tutti

Checco Zalone ha abituato pubblico e critica italiani a film costruiti a tavolino, nel senso più positivo del termine, e questa volta non è da meno. C’è un obiettivo, c’è un messaggio: c’è un trailer chiarissimo. Talmente chiaro, però, che, ultimata la visione di Tolo tolo, si ha la netta sensazione di essere stati trollati, che quel trailer fosse un fake all’epoca dei fake.

Così arriva “Immigrato”, canzone estratta dalla trama del film, che con la trama del film c’entra poco o niente.

Quando ascolta “Immigrato”, l’elettore di destra è tronfio, sicuro di trovare in Zalone una spalla comica che comprende i suoi problemi. Andrà al cinema sperando in un rituale di aggregazione, nel corso del quale ci si ritroverà a ballare contro gli Africani che prosciugano il fatturato, con Checco a fare da direttore d’orchestra dal balcone.

Quando ascolta “Immigrato”, l’elettore di sinistra è investito da un miscuglio di emozioni: partecipa alle risate – giacché l’immigrato che chiede salmodiando «due euro per panino» è realtà che riguarda tutti, un nervo sociale scoperto –, per poi provare vergogna per essersi fatto contagiare da un simile, scimmiesco divertimento; subentra l’imbarazzo, a cui segue un’ostentazione di distanza dal fenomeno, in nome di una indignazione civica e di una (presunta) superiorità culturale da manuale.

Già così, Zalone sa di aver raggiunto il suo scopo: coinvolgere il pubblico più vasto possibile, dando ad ognuno qualcosa, come ha sempre fatto.

Il primo elemento di autentica novità del film è proprio il rovesciamento della linea tracciata con il fake-trailer.

In principio ci si ritrova in atmosfere che conosciamo proprio attraversoi film dell’autore, su tutti Cado dalle nubi: un Mezzogiorno macchiettistico, all’interno del quale si muove il protagonista, preda di un sentimento di amore-odio per la sua terra, troppo stretta per i suoi sogni. Tuttavia, si prosegue subito ripartendo dal finale di Quo Vado: è dell’Italia tutta che bisogna diffidare e dalla quale bisogna partire. E allora, vittima di italianissimi guai con la Guardia di Finanza, Checco scappa e scompare.

Lo ritroviamo in Africa, e già si percepiscono i primi irrigidimenti in sala. Dove è finita la Milano, non esplicita, ma pure chiarissima ambientazione di “Immigrato”? Dov’è quel personaggio in cui tutti, con orgoglio o con imbarazzo, ci siamo specchiati, quello che si inviperisce quando il nemico africano minaccia di mettere le mani sulla moglie, la “proprietà” più preziosa?

Tolo tolo è proprio la storia progressiva della sua scomparsa. Si tratta di una storia di ri-formazione: quella di Checco che, attraverso stilemi che continua a padroneggiare, decostruisce il suo personaggio, costringendolo a voltare pagina.

La critica più diffusa in questi giorni è che il film «non fa ridere», ma in realtà Tolo tolo non fa solo ridere: la risata, dispositivo tendenzialmente piatto, si è fatta tridimensionale, si è complicata a contatto con una realtà plurivoca ed ineludibile – quella del tema trattato – e ha mutato se stessa.

In questo modo, anche i modelli di Zalone crescono in numero. Alla tradizione comica nazional-popolare italiana – una linea che inizia con Celentano, si dipana tra il Tragico Fantozzi e le caricature di Verdone, e giunge sino a Boldi e De Sica – si aggiungono altre coordinate: si avverte la presenza della commedia all’italiana – Risi su tutti –, e ci si imbatte in una serie di omaggi al neorealismo; serve un ragazzo disperato, ma pieno di sogni, per ricordarci l’importanza di film come Roma città aperta o Mamma Roma, sembra dirci Zalone attraverso uno dei personaggi del film.

A essere cresciuto in particolar modo, dunque, è l’approccio che utilizza per decifrare la realtà che lo circonda. Tenacemente, però, il mutamento di paradigma non cede mai all’indignazione, nonostante la tematica e i tempi la suggeriscano; anzi, mantiene il puntello della risata, che si trasforma dall’interno, senza snaturarsi o scomparire. Il riso cresce, incontrando l’erma bifronte di cui parlava Pirandello, nella quale una faccia ride del pianto dell’altra: Zalone è passato dalla comicità all’umorismo. Ciò genera la reazione più in voga: non si ride allo stesso modo, e dunque, per direttissima, non si ride affatto.

Tale transizione è costruita sull’alternanza virtuosa tra linguaggio comico e linguaggio ironico: questo perché Zalone sa di aver unito le due anime politiche italiane in una sola audience, la sua.

Il trattamento differente che viene riservato alle due opposte fazioni di pubblico, già evidente dal fake-trailerpuò essere percepito come elemento di asimmetria comunicativa: la comicità che tocca la destra italiana contemporanea è tendenzialmente più sottile che manifesta, mentre pare che accada il contrario per quella rivolta a sinistra.

È vero: battute come «che bello, anche qua c’è il maschilismo», o l’eccezionale cameo di Nichi Vendola nel ruolo di se stesso, mantengono il rischio di carezzare un certo tipo di audience, senza riuscire a farla sentire realmente derisa – perché troppo impegnata ad immedesimarsi nel «solito Checco» – come invece accade al pubblico di sinistra, proprio nella stessa scena di Vendola, o quando si imbatte nella figura del reporter francese radical-chic.

D’altro canto, appare evidente come questa asimmetria comunicativa sia ricercatissima. Zalone ritiene che un determinato pubblico, con un certo impianto di valori – quelli “di sinistra” – vada deriso proprio andando a pungere quegli aspetti di cui spesso fa inutile mostra, attraverso scene e situazioni che sono comiche: come nel caso della superiorità culturale, personificata dalla performance di Vendola, o della falsa genuinità esemplificata dal reporter.

Il j’accuse è chiaro, e arriva con le risate, più che tramite l’appello morettiano a «dire qualcosa di sinistra»: la sinistra di oggi, messa di fronte a sé stessa, fa ridere. Dall’altra parte, nei confronti dell’ala destra, sovranista del pubblico c’è, in effetti, un atteggiamento meno ridanciano, ma non per questo meno incisivo.

Il procedimento in Tolo tolo è meno comico ma più ironico, e quindi tendenzialmente più sottile, ma convive con un’emersione netta e continua della prospettiva fascista, secondo un disegno chiarissimo dell’autore. Lo stesso uso del termine fascismo, in un’epoca di rifiuto dei paragoni col passato, è fondamentale.

In quest’ottica, il fascismo non è presentato come una cosa che ci si sforza di ottenere e di cui dunque poi si vorrà fare sfoggio come, appunto, la cultura; è derubricato, piuttosto, a un gene malato ma endogeno ,a quella cosa che «è in tutti noi, e quando c’è troppo sole e siamo stressati viene fuori», come fosse attacco esantematico da curare con pomata apposita. È un male che coviamo tutti come l’influenza: più una cosa fastidiosa che una cosa su cui ridere.

Dunque, è presente sì una demistificazione dell’ideologia della destra italiana, ma anche una denuncia del fatto che quella realtà è immutata, e ciò che è difficile è andarle contro, perché per molti è andare contro natura.

Con Tolo tolo Zalone è cresciuto, reinventando se stesso, insegnandoci a ridere davvero e in modo nuovo, e lo ha fatto in modo politico, dando a ciascuno il suo: ha dato imbarazzo all’uomo di sinistra, che da questo film dovrebbe trarre il coraggio per ripensarsi, e ha tolto un potenziale punto d’appoggio all’uomo di destra, lasciandolo da solo col suo eczema.

Non solo di ridere: di questo c’era bisogno.

(Tolo tolo, di Checo Zalone, 2020, commedia 90’)

il 2020 in musica

Nel 2019 abbiamo assistito al grande ritorno di Nick Cave con un album incredibile, la conferma di due mostri sacri come Thom Yorke e Bon Iver, l’affermazione di FKA Twigs, un primo album non del tutto convincente da parte dei The National.

Dalle nostre parti hanno brillato Giorgio Poi con il suo itpop psichedelico, i Coma Cose e i loro calembour, Dimartino e la sua poesia, la sicurezza dei Massimo Volume, Marracash arrivato a una piena maturità.

Cosa dobbiamo aspettarci, quindi, da questo 2020?

 

 

Ghali: avevamo sperato che il 2019 ci avrebbe regalato il seguito di Album, e invece nulla. Questo 2020 potrebbe essere il momento giusto per capire appieno le potenzialità del cantante milanese. Da lui passa molto del futuro della musica italiana.

Matt Berninger: i The National hanno scritto un album che non ha lasciato molto dietro di sé per la prima volta dai tempi di  Boxer. Serpentine Prison è il primo album solista del leader della band americana e siamo più che curiosi di capire che cosa tirerà fuori dal cilindro senza l’aiuto dei suoi compagni di viaggio.

Verdena: il trio bergamasco ha annunciato che il nuovo lavoro sarebbe uscito tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Ci siamo quindi. Loro hanno sempre fatto quello che hanno voluto e dunque dobbiamo prepararci a qualsiasi cosa.

Tame Impala: da segnare il 14 febbraio, giorno del ritorno della band australiana. Cinque anni senza di loro iniziano ad essere troppi. Già dai singoli estratti dal prossimo The Slow Rush, da “Patience” a “Posthumous Forgiveness“, si capisce che gli autori dello splendido Lonerism (senza dimenticare Innerspeaker e Currents) abbiano fatto le cose in grande.

Brunori Sas: dopo A casa tutto bene, Cip!. Esce domani 10 gennaio l’album del cantautore calabrese e dovrà riuscire a confermare i suoi ottimi lavori, cercando questa volta di puntare ancora più in alto.

Ed O’brien: Anche lui si è messo in proprio. Dopo Thom Yorke, Johnny Greenwood e Phil Selway, questo 2020 vedrà per la prima volta protagonista da solo il chitarrista (e non solo) dei Radiohead. I due singoli che anticipano EOB, “Santa Teresa” e “Brasil” regalano sensazioni più che positive.

Dente: non sempre del tutto convincente l’adagio per cui il cantautore milanese sia sta un itpopper ante litteram. Di sicuro l’autore di Non c’è due senza te è stato oscurato completamente dall’ondata Calcutta e soci. Sarà interessante capire che tipo di direzione abbia deciso di dare a questo nuovo lavoro.

Frank Ocean: uno che ha messo la propria impronta sugli anni ’10 è sicuramente Frank Ocean. “Channel Orange” e “Blonde” sono due momenti fondamentali della decade che abbiamo appena lasciato alle spalle. Chissà  l’artista americano riuscirà ad avere lo stesso impatto devastante sul 2010.

IOSONOUNCANE: l’autore dell’album più significativo degli anni ’10 torna con IRA. DIE ci aveva lasciati a bocca aperta con quel misto di sperimentazione e pop. “Stormi” è forse la canzone pop più riuscita negli ultimi dieci anni qui in Italia. Non sarà facile per nulla riuscire a superarsi.

Alanis Morissette: tempo di nostalgia. La cantautrice canadese tornerà a maggio con un nuovo lavoro, Such Pretty Forks in the Road, ovvero il primo dal 2012. Cosa saprà dirci oggi la pop/rock star che ha dominato gli anni ’90 non lo sappiamo, ma per ora possiamo ascoltare il suo primo singolo, “Reason I Drink”.

Sfera Ebbasta: potrebbe esserci anche lui in questo 2020, a due anni da quel terremoto che è stato Rockstar. Ci attendiamo un salto in avanti, un gran bel salto in avanti. Con il suo prossimo album è di fronte a un esame fondamentale per la sua carriera.

Lana del Rey: non solo Normal Fucking Rockwell! Uscito lo scorso anno. L’artista americana uscirà intorno ad agosto/settembre con un nuovo lavoro, White Hot Forever. L’augurio è che sia ispirato come il suo ultimo bellissimo lavoro.

ICani: Ogni anno ci speriamo. Sarà questa la volta buona? Niccolò Contessa quest’anno si è messo a collaborare con Coez e il risultato non è stato dei migliori. Lo aspettiamo da Aurora. In questo 2020 tornerà con un nuovo lavoro e riuscirà a spiazzarci come sempre?

 

Crediti foto copertina: Twitter

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Animali: simboli religiosi o esistenziali?

Bestiari, animali e favole: «La favola e il nonsenso visitano la vita di tutti ma, mentre i più se ne vergognano e le cancellano come intrusione dell’irrazionale che è prudente non svelare, i poeti scoprono nell’uno e nell’altro i simboli di una vita che ha più senso di quelli che naturalmente cogliamo dal nostro quotidiano esistere. […] E come non essere stupiti quando gli animali parlano […]? Il poeta è proprio colui per il quale tutto questo assurdo è reale e la sua confessione è favola».

Queste parole di Marcello Camillucci (riportate nella raccolta a cura di Gino Ruozzi Favole, apologhi e bestiari, Bur, 2007, p. 533) illustrano efficacemente il ruolo ricoperto nel panorama culturale dagli animali, i quali, a partire già dalle favole esopiche e poi dai testi sacri, non sono declinati soltanto in personaggi realisticamente connotati, ma soprattutto in figure parlanti e antropomorfe, connesse a valori universalmente riconosciuti, il cui significato può essere ben indagato se contestualizzato in un quadro che ne ricostruisca origine ed evoluzione.

Rappresentazioni di specie animali, reali o leggendarie, s’incontrano nei bestiari medievali, dove ricorrono insegnamenti morali incentrati o sull’imitazione di una condotta ortodossa (Bestiario di Dio) o sul contrasto con una più o meno grave deviazione etica (Bestiario di Satana) ‒ come spiega la ricostruzione di Francesco Zambon, L’alfabeto simbolico degli animali, Luni, 2001, riedito da Carocci nel 2009. Poiché, tuttavia, le descrizioni contenute nei bestiari risultano spesso determinate anche dal rapporto tra uomo, animale e ambiente naturale, la cui conoscenza non di rado veniva percepita come funzionale alle utilizzazioni pratiche della vita quotidiana, il valore attribuito alla medesima creatura e l’inclusione (o l’esclusione) di specifiche fisionomie animali sono dovuti anche al differente grado di addomesticamento raggiunto (tanto più in una società in cui gli animali costituivano contemporaneamente più fattori, quali l’alimentazione, il materiale, il mezzo di trasporto o di lavoro e persino lo svago).

Buona parte del gran numero di animali che affollano i bestiari ricorre nella letteratura e, in particolare, in favole o apologhi dal significato allegorico, atti a fornire brevi analogie filosofico-descrittive con caratteristici tipi umani ‒ e talora annoverati anche nei repertori esemplari dei predicatori.

 

Il caso della farfalla

Ad esempio, la fisionomia simbolica della farfalla si reitera inalterata fino al Novecento, nonostante all’originaria connotazione religiosa si sostituisca progressivamente una dimensione esistenziale, prima implicita e poi apertamente riconosciuta e anzi, in alcuni casi, persino rimarcata da spiccata ironia.

Nell’interpretazione cristiana del Bestiario moralizzato (raccolta medievale anonima di sessantaquattro animali) quest’insetto che, attratto dalla luce incandescente, cede all’impulso di avvicinarvisi ed è arsa dal calore, viene paragonato alla figura di un peccatore arrendevole e ugualmente travolto dall’irruenza del proprio desiderio. Quest’immagine è dotata di tanta potenza iconica che, largamente impiegata già nella letteratura e nella poesia medievali (con il massimo esempio nel sonetto 19 del Canzoniere petrarchesco, dove il poeta amante è, come l’animale, irresistibilmente attratto dalla luce fatale della donna e costretto a perire nella fiamma d’amore) s’impone in contesti differenti della scena letteraria. In La farfalla e la fiamma della candela di Leonardo Da Vinci, la dinamica narrativa proposta, pur se totalmente priva dell’originario significato religioso, descrive l’ultimo grido rivolto contro la cera bollente della candela da una farfalla con le ali in fiamme: «O falsa luce, quanti come me debbi tu avere, ne’ passati tempi, miserabilmente ingannati. O si pure volevo vedere la luce, non dovev’io conoscere il sole dal falso lume dello spurco sevo?» (Aforismi, novelle e profezie, Newton Compton, 1993, p. 13).

Ancora nell’Ottocento il motivo, ormai laicizzato, permane invariato. Ad esempio, La lucernina e la farfalla di Terenzio Mamiani della Rovere non solo testimonia la ripetuta riproposizione di questa raffigurazione simbolica, ma ne conferma anche la direzione desacralizzante: una «farfalletta screziata di bei colori e innamorata di […] un bel candido lume» che, con le ali bruciate, va incontro alla morte perché «dov’è passione, non è ragione», non raffigura più specificamente la fisionomia d’un peccatore, bensì quella di un uomo accecato dal proprio ardore (Novelle favole e narrazioni, Morano, 1883, p. 311).

Una descrizione così incentrata sulla rilevanza assunta dalla componente irrazionale nelle azioni umane occorre anche nel Novecento (quando le arti, in seguito all’irruzione della psicanalisi nel panorama culturale e alla riflessione sulla caducità umana scaturita dall’instabilità storico-sociale, sembrano prediligere immagini capaci di esprimere efficacemente questi nuovi contenuti). L’intreccio narrativo è tuttavia talmente noto da divenire oggetto di alcune variazioni o ampliamenti tematici: ad esempio, nel racconto Volava la farfalletta di Mario La Cava, la vicenda è descritta mediante il filtro di un osservatore esterno e cioè di Carmelo, il personaggio protagonista che assiste al volo fatale nell’inutile tentativo di salvare l’insetto dalla cera bollente. In La farfalla posata sull’orecchio del cavallo di Marcello Camillucci, invece, il desiderio dell’animaletto (che, su indicazione del cavallo, raggiunge la fonte di luce adoperata da un uomo) è così connaturato in lui da affliggerlo meno della paura della solitudine: «[La farfalla] rassicurata, a sera, si accosta al lume / sotto il quale qualcuno medita o studia / e muore felice d’aver trovato un amico» (Favole, apologhi e bestiari, Bur, 2007, p. 534).

 

 

Il caso del ragno

Al contrario, nella raffigurazione del ragno lo slittamento dal piano religioso a una dimensione non solo progressivamente laicizzata, ma persino spiccatamente esistenziale, implica anche una considerevole variazione narrativo-strutturale. Infatti, nel Libro della natura (bestiario medievale anonimo con cinquanta fisionomie animali), esso è figura del demonio: come le sue ragnatele catturano mosche e zanzare provocandone la morte fisica, così le reti del diavolo (immagine dei peccati capitali) intrappolano l’uomo, uccidendone lo spirito.

Nelle novelle di Leonardo, invece, dell’animale è descritto il profilo di abile tessitore di tele, ma scompare la connotazione diabolica: «Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto» (Il ragno e il calabrone); «Il ragno stante infr’all’uve pigliava le mosche che in su tale uve si pasceva[n]. Venne la vendemmia, e fu pesto il ragno insieme coll’uve» (Il ragno e l’uva).

La raffigurazione dell’animaletto è via via arricchita da maggiori dettagli in chiave simbolica fino a divenire, alle soglie dell’Ottocento e per tutto il secolo, un’esplicita metafora del comportamento umano. È di nuovo Terenzio Mamiani della Rovere che ce ne offre esempio, in Il ragno e l’immortalità, dove la ragnatela che sopravvive all’animale diviene figura delle opere umane che vincono la morte: «non [è] al mondo materia sì fragile e forza sì piccola la quale mercé dell’industria e della perseveranza non giunga od in se medesima o nell’opere sue a immitare la vita degl’immortali» (Novelle favole e narrazioni, Morano, 1883, p. 311). E in Il ragno, lo specchio e la dama, il presbitero Giuseppe Manzoni, narrando di una ragnatela spazzata via da uno splendido specchio da cui il ragno era rimasto abbagliato, esplicita il parallelismo: «La favola quadra a coloro che s’affaticano per cose di poca durata. Nel qual numero siamo noi, che della cedevole bellezza di questa terra innamorati morti ci procacciamo comodo stato con grande sollecitudine […]; quando bell’e procacciata essendo la condizione felice, ci coglie la morte, e ne siamo scacciati» (Favole, Molinari, 1813, p. 325).

Anche in questo caso, nel Novecento si assiste a variazioni in chiave soggettivistica di questo modulo rappresentativo, su cui talora si innesta anche una componente di matrice esistenziale.

L’esempio più significativo è offerto in Il ragno e la farfalla di Ferruccio Masini, che propone, nel dialogo tra i due animali, una delegittimazione della concezione antropocentrica. Infatti, le esortazioni della farfalla («Suvvia, muoviti poltrone. […] Hai ancora da costruire un altro piccolo universo dove tu sei al centro. […] Finisci sempre non solo per tesserne altri, ma anche per immaginarli. Son convinta che anche con quelli immaginari catturi nuove prede») non persuadono il ragno, il quale, come l’uomo novecentesco, confuta le dottrine dei secoli precedenti: «Ne catturo una sola, e quella, amica mia, sono io» (Aforismi di Marburgo, Spirali, 1983, p. 110).

***

(Nel testo, riproduzioni della Manticora dal Rochester Bestiary, XIII sec., f. 24v, e del Perindens tree dal bestiario di Aberdeen, XII sec., f. 65r).

Open call #raccontidisport: ecco i vincitori

Ci avete inviato storie di sport diversi, dalle bocce al parapendio, dal tennis al baseball; ci avete raccontato di personaggi incredibili, protagonisti dell’automobilismo, della corsa, del nuoto, della pallacanestro; ci avete parlato anche di voi, delle vostre esperienze, dei vostri successi e insuccessi sportivi; ci avete mostrato la passione, la fatica, il sacrificio, la vittoria e anche la sconfitta.

Alcuni di voi ci hanno sorpreso, altri ci hanno commosso. Dieci di voi ci hanno convinto in maniera definitiva, al punto che abbiamo deciso di ampliare la rosa finale dei selezionati: avevamo promesso sei nomi, abbiamo aumentato a dieci i posti in squadra.

Di seguito i nomi dei vincitori (in rigoroso ordine alfabetico) che, insieme a due scrittori affermati, saranno presenti con i rispettivi racconti nell’antologia curata dagli editor di effe – Periodico di Altre Narratività e pubblicata dalla casa editrice 66thand2nd nella collana Attese.

 

 

 

– Amendola Maurizio, L’ora migliore

– Battistuzzi Giovanni, Sboccia la rivoluzione

– Brion Marco, La pratica del nuoto in Romania

– Chiattelli Elena, Hrabrost!

– Colica Katia, Acque libere

– Gazzi Alessandro, Dieci minuti 

– Gratton Andrea, Suite Delibashich

– Montieri Gianni, Un futuro di Gianni Rivera

– Moretti Paola, Aquarium 

– Muscas Nicola, El Gordo de barrio Capurro

 

 

Per scoprire chi saranno i due scrittori affermati, continuate a seguirci. L’uscita del volume è prevista per maggio 2020.

Copertina di La nuova violenza illustrata di Balestrini

L’ultimo sasso di Balestrini

A causa della loro pervasività e della loro immaterialità, il filosofo Timothy Morton ha definito iperoggetti quei fenomeni della nostra contemporaneità – come l’invasività della rete o il riscaldamento globale – così diffusi nel tempo e nello spazio da trascendere la loro specificità spazio-temporale.

Questi fenomeni, nella loro natura inafferrabile, impongono una ricalibratura ermeneutica e narrativa del reale che passi attraverso l’utilizzo di nuove forme dedicate a tale scopo. In questo frangente si inseriscono i sintomi della rinascita di un’epica, legata alla dimensione storica e sociale. Tra i tanti, l’epica nella contemporaneità può infatti diventare un dispositivo attraverso cui impostare nuove narrazioni del presente e del futuro; uno strumento, un’attitudine che permette di entrare trasversalmente nei fenomeni e palesarne le contraddizioni.

Un esempio eccellente di questa rinnovata disposizione narrativa verso il presente è La nuova violenza illustrata di Nanni Balestrini (Bollati Boringhieri, 2019) uscito quest’anno poco dopo la morte dell’autore stesso. «Romanzo controstorico», ma dalla struttura indiscutibilmente epico-poematica, il libro è una riedizione del testo del 1976 (La violenza illustrata) e ne integra l’architettura in un movimento a ritroso, dal presente al passato.

Il racconto degli anni Settanta, declinato in dieci capitoli, è infatti racchiuso in una sezione intitolata Primo tempo e, in questa nuova versione, viene preceduto da un Secondo tempo, sempre in dieci parti, inerente gli eventi del decennio 2008-2018.

Fatti nuovi e fatti passati si richiamano nel testo di Balestrini in un moto di allontanamento dal presente, attraverso il comune denominatore della violenza, che non ha mai abbandonato la nostra realtà, ma soltanto cambiato forme; così alla furia degli eventi che precedono l’anno del Movimento, si affiancano – questa volta in una dimensione globale – la morte di Gheddafi, le dichiarazioni di Trump, gli Indignados, i migranti della Diciotti.

Lungi però dall’essere un’espressione cronachistica o un rimestare nel già noto, il racconto del presente – così come quello del passato – è per Balestrini prima di tutto un’operazione di lingua. Esso infatti viene condotto nel testo secondo la stessa tecnica usata per la precedente edizione, l’espediente dal sapore modernista del cut-up, ossia la versione scritta del collage: le fonti di informazione (giornali, telegiornali, siti) su un dato argomento vengono selezionate, tagliate, infine mescolate e accostate tra loro con precisa attenzione.

Ciò che diverge rispetto agli anni Settanta in questa nuova sezione contemporanea è però la consapevolezza di una differente presenza dei media nel nostro quotidiano, l’atomizzazione delle informazioni e il loro flusso costante a cui siamo sottoposti. Balestrini recepisce quest’evoluzione – e con essa gli effetti della rivoluzione digitale – e imita le modalità del getto continuo di notizie rendendo manifesta anche la specifica violenza mediatica che soggiace ai racconti del presente.

Sotto accusa da parte dell’autore è la dimensione deteriore e mediata acquisita dalla storia, attraverso le drammatizzazioni dei fatti che ne impediscono una resa oggettiva e favoriscono la creazione di racconti inesistenti (come per la morte di Gheddafi) o attraverso la teatralità dei telegiornali, dei talk-show o degli stessi episodi di cronaca (come per la vicenda Englaro).

Il giudizio di Balestrini riguardo ai fatti e alle modalità con cui sono raccontati non è esplicito, bensì racchiuso nell’assemblaggio delle fonti, che avviene attraverso due modalità principali: la prima è la raccolta e l’accostamento di versioni dello stesso avvenimento provenienti da fonti differenti; l’altra è invece l’affiancamento di due eventi differenti in apparenza lontani tra loro. Se quest’ultimo metodo, attraverso un procedimento quasi analogico (e quindi poetico) permette di illuminare (illustrare) inaspettatamente e vicendevolmente i due termini accostati creando una sorta di spaesamento all’interno delle coordinate storico-temporali, il primo metodo grazie ad un’operazione radicale demolisce la possibilità di costruire un giudizio critico e univoco sui fatti.

Ecco allora, attraverso un espediente o l’altro, che la presunta sensatezza degli accadimenti viene smantellata e che l’assioma per cui “i fatti parlano da soli” non regge più, anzi, il risultato testuale sembra dimostrare come su di essi gravi oggi una nube di indecifrabilità tradotta poi nell’ansia inefficace da parte dei media declinata nei tentativi di una lettura stabile degli eventi attraverso strategie del tutto anti-storiche.

Il racconto dell’epica del presente è ricondotto così ad arte di montaggio (da qui il risultato di essere illustrazione) che attraverso un cozzare di linguaggi frenetici e disarticolati restituisce una dimensione storica in crisi dalle fondamenta. L’edificio linguistico di Balestrini consegna infatti un paesaggio in escrescenza in cui la mostra delle atrocità non concede una comprensione chiara e oggettiva, negando in questo modo anche i fondamenti stessi della Storia; infatti, come sottolinea Cortellessa nella postfazione: «le pratiche dell’interruzione e del montaggio vengono indirizzate da Balestrini a un’aspra ridiscussione della dimensione storica dell’esistenza e della conoscenza storiografica in particolare».

La pretesa di oggettività, la formazione di un giudizio, l’univocità e l’apprendimento degli avvenimenti sono messi in crisi dalla giustapposizione vorticosa delle fonti che attraverso dettagli discordanti e microfratture tra le varie versioni produce quella confusione gnoseologica che, dice l’autore, è comune al nostro tempo.

Ma l’intento di Balestrini sembra andare molto al di là di una resa dello Zeitgeist. Nella sua demistificazione del racconto storico, Nanni Balestrini, attraverso un progetto di controinformazione, vuole smascherare le crepe che stanno dietro alle “versioni ufficiali” dei fatti per muovere il lettore a nuova consapevolezza, perseguendo un fine sociale e pratico della letteratura. Il bersaglio è la storiografia ufficiale/borghese, quella che, ad esempio, ha giudicato – proprio a causa della violenza – le esperienze degli anni Settanta come negative e non come i sussulti di una speranza asfissiata dal luccichio edonistico del decennio successivo.

La versione ufficiale degli eventi non dà conto – sembra dire Balestrini – delle ansie, delle aspirazioni, delle paure e delle lotte che innervano la storia il cui metro dal ’76 a oggi non ha mai smesso di essere la violenza, sopita ma mai terminata, e che pare in questi ultimi tempi voler riconquistare la scena. Le piazze cilene, quelle dell’Iraq o di Hong Kong, danno conto di una convulsione (come l’ha definita recentemente Bifo, altro agitatore culturale del Movimento) del corpo sociale che torna oggi a fare della violenza una propria acquisizione.

Ecco allora che La nuova violenza illustrata si inserisce in questo clima invitando con urgenza a ripensare i fatti passati e quelli presenti, a scuotersi dal torpore e indirizzare per una volta nel verso giusto – e non – la propria rabbia, o canalizzata nella dissipazione demagogica e sovranista a cui assistiamo negli ultimi tempi o resa imbelle dagli ultimi decenni di godimento depressivo di matrice capitalista.

Questo dunque lo scopo, come scrive l’autore stesso nella Lettera al mio ignaro e pacifico lettore: «Ma un’opera autentica (libro, quadro, musica) serve a farti vedere altro, o meglio a cambiare il tuo modo di vedere, di percepire le cose e il mondo, serve a illuminare il tuo sguardo su aspetti della realtà che ti sono sconosciuti, a scuoterti per un istante dal tuo stato abituale di robot sonnambolico. A risvegliarti, anche se per pochi istanti, dandoti la vertigine di qualcosa di ignoto che infrange le norme e le regole nelle quali vivi incastrato e anestetizzato».

Ed è in questa possibilità di ottenere una consapevolezza più profonda del proprio tempo, che sta per Balestrini tutto il valore politico della letteratura: una nuova epica per una nuova storia.