Copertina dell’album Sleep Well Beast su Flanerí

“Sleep Well Beast” dei The National

Il solito grande album dei National. È di nuovo così. Sleep Well Beast è il solito grande album dei National. Cosa sia successo da Boxer in poi – Sad Songs for Dirty Lovers e Alligator sono buoni album, ma distanti anni luce da tutti i loro successori – non è dato sapersi. Dai primi accordi di piano di “Fake Empire” al noise durante l’ossessiva ripetizione di «I’ll Still Destroy You / Sleep Well Beast / You As Well / Beast» è stato un continuo parlare della stessa cosa ma in infiniti modi diversi rimanendo sempre sullo stesso livello, altissimo, con immagini – alcune ancora oggi poco chiare – che sapevano di epifanie, l’assurda eleganza della batteria, i riff di chitarra mai sopra le righe, le melodie vocali percorse dalla voce baritonale di Berninger che sembrano perennemente uguali a loro stesse ma che alla fine lasciano quello stordimento per cui pensi costantemente di trovarti di fronte a qualcosa di sempre nuovo e magnifico.

Perché i National – nonostante Sleep Well Best abbia un approccio leggermente diverso rispetto agli ultimi, ma solo in alcune soluzioni nella scelta di suoni – sono uno di quei gruppi con un’idea ben precisa sui cui sviluppano le proprie canzoni. Non distruggono ciò che hanno fatto in precedenza per ripartire da zero. Tengono ben saldo tutto ciò che negli anni hanno tirato su e attorno a quello continuano a dare forma alla propria poetica. Saper essere credibili, in questo contesto, senza passare per gente furba, è un lavoro insidioso. Ma qui siamo di fronte a persone che hanno quella cosa indefinibile materialmente, ma che si percepisce ogni volta che ci si ha a che fare, quella scintilla che li pone al di sopra degli altri.

Boxer è stato il crocevia per i cinque americani, che da quel momento hanno iniziato a essere i The National. E Boxer è il motivo per cui Sleep Weel Beast suona così, oggi. Perché Boxer gli ha dato quella consapevolezza che in precedenza non avevano – pur essendo pieni di talento -, quello statuto per scrivere “Turtleneck”, per esempio, figlia di “Mr.November” passata per gli insegnamenti di High Violet e Trouble Will Find Me.
In Sleep Well Beast si respira quello spirito anarchico dei primi National, gestito e contenuto dai National del post Boxer, il tutto sviluppato negli angoli più bui e remoti di Berninger, angoli forse mai raggiunti prima.

Matt Berninger, di nuovo, si conferma al momento tra i più grandi cantautori in circolazione. Un equilibrio rarissimo tra modo di cantare e testi. Saper dire le cose e sapere come dirle. La grazia della sua scrittura tocca il suo apice in “Guilty Party:«I say your name / I say I’m sorry / I’m the one doing this / There’s no other way / It’s nobody’s fault / No guilty party / I just got nothing / Nothing left to say.».Sono liriche di una potenza letteraria devastante, un racconto sulla fine di qualcosa di matrice quasi carveriana. Non c’è più nulla da fare, è così, non è colpa di nessuno.

Sleep Well Best è il lavoro più oscuro dei National e lo si capisce sin da subito dalla ritmica (che ricorda lontanamente quelle di 22, a Million di Bon Iver), dal piano e dalla voce sofferente di Berninger che esordisce con la domanda “Hai detto che non siamo così legati, cosa intendevi?”. “Day I Die” è un pezzo rock alla “Don’t Swallow the Cup” dove la domanda ricorrente «The Day I Die / Where Will We Be?” potrebbe essere il punto di partenza su cui tutta l’idea dell’album gira attorno, mentre in “Walk In Back” si ascolta un parlato (non di Berninger), espediente usato in diversi gruppi post-rock (Mogwai), mai usato in precedenza.

“The System Only Dreams in Total Darkness” è un altro pezzo rock, sulla scia di “Don’t Swallow the Cup”. Da qui al momento più alto dell’album si susseguono “Born To Beg”, ballata al piano tipica dei National; “Turtleneck”, dove riemergono, più maturi, i The National di Alligator; “Empire Line” e “I’ll Destroy You”, forse i brani meno intensi di Sleep Well Beast, soprattutto il secondo, che sembrano soffrire la maestosità dei due pezzi successivi,“Guilty Party” e “Carin at the Liquor Store”. Nella prima, di cui è stato già detto, forse con il miglior testo mai scritto da Berninger, la batteria elettronica, poi sostituita dalla batteria classica, sorregge il piano dove la voce racconta nel modo più naturale e diretto il paradosso della semplicità nella complessità delle cose che finiscono, mentre “Carin at the Liqur Store” è l’apoteosi della ballata alla National, come fosse stato possibile fare una sola cosa di “Pink Rabbit”, “I Need My Girl” e “Havenfaced”. “Dark Side of the Gym” e “Sleep Well Beast” chiudono l’album, dove il finale «Sleep Well Beast / As Well Best», suona come l’ipotetica risposta ultima del discorso iniziato con “Hai detto che non siamo così legati, cosa intendevi?”.

(Sleep Well Beast, The National, Rock-Pop)

 

 

Figli d’asfalto

Pedalo, pedalo, pedalo sempre più forte. Sterzo dentro via Pirandello. Pedalo ancora, e ancora, e ancora. Il sole alto batte sulle spalle, sulla testa. Una Fiat Panda 30, marrone, esce di colpo dall’incrocio, mi viene addosso, il pedale sinistro della mia Bmx tocca la gomma destra posteriore di quel cassone pieno di merda.
«Bastardo di Budu bastardo» urlo al tossico alla guida. Prendo il bivio a destra e imbocco la discesa verso via Udine. Mi alzo in piedi sui pedali. Sono velocissimo. Velocissimo. Le Case Rosse, alte trenta metri, lunghe un chilometro, larghe tanto basta da tenerci dentro fiumi di famiglie e famiglie e famiglie; le Case Rosse nemmeno oggi mi mangeranno. Io lì dentro mica ci finirò mai. Io.
Tiro un’inchiodata di dieci metri davanti al bar Corso e lancio la Bmx sopra le bici degli altri. Sono già tutti qui.
Mi volto a guardare il segno nero del copertone Michelin sull’asfalto: un campione, mi dico. A quattordici cazzo di anni, son davvero robe da campioni di motocross. Avrò mai i soldi per il Ktm Gs125, magari anche dell’82? Ma che me ne fotte. Fanculo anche il Ktm.
«Frenata da record!» urlo spalancando la porta.
«Cazzo sbatti la porta, cazzo hai da urlare bocia?» ribatte Luca alzando un vassoio stracarico di Moretti chiare da mezzo.
Oggi è sabato e come ogni sabato il bar Corso esplode. Ci sono facce su facce, due mai viste prima, di tipi scuri, negri; da dove cazzo saranno arrivati?
Attorno c’è gente con jeans sbregati, magliette con scritte e teschi: Metallica, Iron Maiden, Il Blasco, pantaloni tagliati. Una tipa ha le tette così grandi che cercano di scappare dalla maglietta nera stretta. E sarebbe un bel vedere. Sono gli stessi di ieri sera alla Perseo, che li guardavo da dietro il Pacman, che poi, cazzo, ho perso ancora proprio all’ultimo livello.
Di sabato cantano, alzano bicchieri al soffitto, si abbracciano, brindano, qualche bicchiere si spacca e ridono. Invece per tutta la settimana nemmeno li vedi: sono a lavorare in fabbrica, in catena, dicono proprio così: in catena diocàne. All’inizio non capivo cosa c’entrasse dio. Poi mi sono abituato anche a dio: il tiro a segno delle besteme, come lo chiama Uanch, da tirargli frecce in mezzo al muso, continua a dire urlando al soffitto del bar Corso.
Anche i vecchi il sabato stanno meglio: mettono gli occhi bavosi sulle tette delle ragazze, ché proprio gli sbavano le pupille, a quelli. Chissà se le hanno mai toccate, loro, le tette. Più che altro: chissà quando le toccherò io, le tette.
Il barista corre. Porta Moretti, bottiglie di Merlot, mezzi litri di Tocai, e ride, prepara panini, pizzette, pezzi di salame e di pane vecchio, e ride. Ride sempre, Luca, di sabato.
Vicino al biliardo, seduti al solito tavolo verde acqua dove abbiamo inciso col taglierino Troia Claudia Troia Sara Troia Monica Troia Luisa, ci sono Caio, Kiki e Ringhy.
Mi faccio largo in mezzo a culi, capelli, schiene, fumo e puzza di sudore, sbatto sulla faccia di Vasco che mi fissa da dietro gli occhiali scuri, sgomito per farmi spazio, e finalmente riesco a raggiungerli.
«Ciao bastardi», dico sorridendo.
«Ho il fumo» avverte Caio a bassa voce.
Si alzano di scatto e siamo già in marcia.
Sul retro del bar Corso ci sono tre ragazze. Se ne stanno a parlare di chissà cosa, appoggiate al muro rosso scrostato, in fondo, tra le siepi e l’inizio dei giardini della scuola media dove la notte i tipi in auto vanno a scopare e noi gli pisciamo sopra i finestrini, dal tetto dell’edificio. Le tipe hanno il sole sopra le teste. Le tette fanno ombra sulle magliette attillate, una rosa, una rossa, una celeste. Toccherei le tette celesti, oggi. Però nemmeno ci guardano. Fisso che parlano del Manzo, o della sua Clio sedici valvole di merda. Allora che vadano a farsi sbattere dai tipi, dico senza aprire bocca.
Caio tira fuori dalla tasca il pezzetto di fumo oleoso, marrone. Lo sgrana metà sulle dita. Kiki fa cenno di passarglielo e lo mischia al tabacco di una Camel recuperata di scrocco dal Baffo. A sua volta passa tutto a Ringhy, il migliore a tirare su un cannone preciso. Mica facile. Io ne ho sprecati tre in quindici giorni, facendoli grossi che neanche tiravi niente.
Viene fuori da dio. Ringhy accende. Tira. Poi passa a Caio. Tira. Poi arriva a me. Tiro. Poi lo giro a Kiki. Tira. Ringhy attacca a dire che è roba buona, resinosa, buona e resinosa, resinosa, e buona. Tanto buona. Tanto resinosa. Quando si fissa con le para diventa peggio di Umberto Smaila con i culi delle Ragazze CinCin. Ringhy ha quindici anni e da tre fuma botti. Caio dice ovvio, ovvio, ovvio, e ride, me l’ha passato mio fratello, ché gli ho lavato cinque volte la Fiat Ritmo Abarth 130, ché va a scoparsi dietro la Zanussi Samantha e torna strasmerdato di fango. Kiki tace. Io penso che toccherei anche le tette rosse, ma anche quelle rosa, ma prima quelle celesti. O prima le rosa. O prima le rosse.
Boh.
Rientriamo al bar Corso come un plotone di stonati.
Se ci mandano in guerra duriamo cinque minuti. Ci spariamo sui piedi, cristodiddio.
Però qui si dice che Villanova è già in guerra e io sono durato quattordici anni, penso gonfiando i bicipiti come Rocky 4.
Recuperiamo il nostro tavolo. Mi viene da ridere e da vomitare. Non so quale di più. Mi sforzo a ridere, per un cazzo di niente. Tengo duro, io, ché resisto più forte di Rocky 1, io.
Ringhy si volta, mi fissa.
«Stai muto, cazzo, non ridere, cazzo, stai muto» ripete stringendo i denti.
Caio mi prende la faccia e me la gira verso il fondo del salone.
A soli due tavoli c’è il Bubu, uno dei vecchi del bar Corso. Ha trentacinque anni, comanda tutti. Questione di esperienze, di pessime storie, cioè si parla di Pere. Mica stronzate. È seduto con il suo amico Faccia Tagliata.
Oggi ci sarà spettacolo, col Bubu nei paraggi succede abbomba qualcosa. Così si dice. E si dice anche che grazie al Bubu, Villanova di Pordenone, cioè le Case Rosse, è secondo in Friuli per disastri e casini, appena dietro la zona del porto di Trieste. Siamo famosi, andiamo sui giornali. Nell’ultimo mese Piscina, che si piscia ogni giorno nei pantaloni per via del problema che non gli regge il cazzo quando beve, ha accoltellato Lo Zingaro; Pasin ha rubato l’auto della pula, ma è stato beccato dopo due curve stampato sul platano, con le luci blu della volante accese che urlava Viva Udinese, Viva Udinese, Viva Udinese; Ioio Coltello ha steso tre dell’est a cazzotti in faccia, e senza coltello, e uno c’è rimasto secco peggio che se rimaneva coi comunisti slavi come lui; Bisturi invece è stato arrestato mentre inseguiva una pensionata a pochi metri dalla Friuladria di Madonna delle Grazie, giù per la discesa del Tuttosconto che porta ai garage delle case popolari, la vecchia gli dava giù in testa con l’ombrello e lui tirava la borsetta finché ha mollato la presa che lo hanno beccato come un idiota due vigili usciti dalle siepi del campo di tennis abbandonato da anni e anni. Ogni volta la prima pagina del Gazzettino.
Il Bubu usa il bar Corso come ufficio. Qui incontra gente, qui vende e compra fumo, cocaina, eroina, lsd, ecstasy, qui è casa sua. Lo si trova sempre sulla solita sedia, la mia cadrega d’oro, la chiama. Manca solo se va a curarsi. Sparisce per settimane, e allora si sa che è all’ospedale dei drogati a urlare ai muri delle stanze imbottite di cuscini e lui imbottito di calmanti.
Il Bubu e Faccia Tagliata sono intenti a discutere. Si fissano, parlano occhi negli occhi. Sopra le loro teste, attaccati al muro rosso scuro, ci sono i poster di Carmen Russo e Pamela Prati. Quattro tette enormi che sembrano cadergli addosso da un momento all’altro.
Sopra il tavolo ci stanno dodici bicchieri, vuoti. Tutti con un alone arancione. Segno che dentro c’era il Ciuccio, una roba di aperol, vino bianco e qualche avanzo di superalcolico aggiunto a caso. Ogni tanto lo mandiamo giù anche noi, ce lo passa Luca guardandosi attorno. Mi son sempre chiesto cazzo gli frega, che paranoie si fa, abbiamo quasi quattordici anni. Fa schifo ma ubriaca subito, e per noi che andiamo avanti a spiccioli va più che bene. Il Ciuccio è il divertimento dei fegati giovani, urlano i vecchi che bevono vino bianco, a bottiglie.
Abbassiamo la voce, tiriamo le orecchie.
«È ora di far basta con questa vita di merda» attacca il Bubu. «Vita schifosa e inutile. Da domani mattina si cambia registro. Cazzo, capisci? Qui bisogna prendere in mano il progetto. Quella storia del negozio che mi gira in testa da anni. Roba grossa, capisci? Che io ci ho le idee. Cazzo! Qui dobbiamo muovere il culo».
Io, Caio, Kiki e Ringhy ci mettiamo subito le mani alla bocca, per non scoppiare a ridere.
Abbiamo capito bene. Il Bubu vuole aprire un’attività, mettersi in affari con Faccia Tagliata.
«È semplice, amico, basta aver fiuto per i soldi e io, modestamente, di fiuto ne ho. Soldi no, cazzo. Ma sono un imprenditore nato. Io mica vengo da una famiglia di merda. Io ci sono abituato a queste robe qua del far girare soldoni. Se mi dai soldoni, io ti moltiplico soldoni. Io sono il dio del denaro. In famiglia siamo geni dell’economia. Gran testoni. Cazzo».
Al bar Corso tutti sanno che i parenti del Bubu sono come lui. Una volta il fratello maggiore ha aperto un bar nel quartiere qui vicino, poi un’officina meccanica in centro, poi un negozio di frutta e verdura nella zona nord, poi un’impresa di pulizie. Il padre aveva un negozio di ferramenta, poi ha messo su un’azienda di costruzioni, poi ha fatto l’idraulico. Poi è scappato assieme all’altro figlio, nessuno sa dove. È rimasta solo la madre a fare il lavoro più antico del mondo, anche oggi che è vecchia.
«Cazzo, amico» riattacca a sbraitare il Bubu, «apriamo il negozio di vestiti per giovani più giusto in circolazione, mettiamo dentro roba alternativa, inglese, costosa, roba buona. Capisci? Ci vuole solo il locale in centro, la licenza, chi ci porta la roba, il nome giusto, i manifesti, i cataloghi, dopo prendiamo quello che ci tiene i conti, la cassa per i soldi che butta fuori lo scontrino, e poi vai liscio che ci arrivano un mare di clienti con la pubblicità nel giornale».
Il Bubu si ferma, butta giù un altro giro di Ciuccio per scrollarsi di dosso i brividi e riprende: «le grandi idee hanno bisogno di lunghi pensieri e di gente con i coglioni, di gente come me e te, mi capisci?»
Faccia Tagliata risponde eccitato, elettrico: «È una figata, è una figa figata, è una gran fighissima figata. Ci sto dentro alla grande, amico! Alla grandissima. Dio mio, proprio una figata galattica. Posso fare il commesso, amico. Io, commesso per mezza giornata. Ogni giorno. Tutte le mattine. Così il pomeriggio tiro avanti anche in fabbrica. Doppio lavoro, fratello. Soldi a manetta, fratello. Una figata tremenda, fratello».
Il Bubu tiene la bocca spalancata. In un istante diventa prima pallido e poi bianco, come un cadavere. Comincia a tremare. Gli parte uno scossone lungo la schiena. Si contorce e torna dritto. Ha la fronte lucida. Gli occhi bianchi, spariscono le pupille. Poi tornano.
Piegati, lenti come due zombie, si alzano dal tavolo, percorrono lo stanzone del bar Corso barcollando ed escono nel piazzale.
Io, Caio, Kiki e Ringhy ci guardiamo. Non serve dire nulla. Gli siamo dietro.
Il Bubu e Faccia Tagliata salgono a fatica sul Ciao giallo, il primo alla guida e l’altro buttato sul portapacchi dietro. Partono zigzagando a destra e sinistra. Che manco Capirossi cazzo! Sfilano accanto alla Uno turbo del Vez, che se gliela toccano gli sfonda a pugni il cranio e gli mangia le ossa. Si sbilanciano. Capirossi si sarebbe sicuro stampato. Appoggiano i piedi a terra e riprendono la corsa. Fanno altre schivanelle che sfidano la forza di gravità. Infine girano verso la strada di sassi che costeggia la ferrovia e passa dietro lo stadio.
Li seguiamo a distanza.
«Cosa stracazzo andranno a fare laggiù?» chiede Ringhy.
«Secondo me a spararsi seghe» risponde Caio ridendo.
«Sicuro che vanno a beccare qualche scemo per rifilargli roba rubata» dice Kiki sfregandosi le mani.
«Dai raga, andiamo, veloci che li perdiamo!» insisto, mentre faccio strada.
Il Bubu e Faccia Tagliata percorrono altri cento metri e si imbucano sotto le scalinate dello stadio, nella zona in ombra. Come le pantegane dei fossi.
Noi passiamo dall’altra parte e gli arriviamo alle spalle. Senza farci sentire ci nascondiamo dietro i piloni delle scalinate. A cinque metri.
Visti da qui sono peggio delle pantegane, più sporchi, più puzzolenti, e più morti che vivi. Girano in tondo, inciampano ogni due passi, si inginocchiano vicino al Ciao per cercare qualcosa che devono aver perso dalle tasche, si rialzano barcollando, si abbracciano per non cadere. Poi di colpo il Bubu si irrigidisce, dritto come un bastone, spalanca la bocca senza denti, gli viene su un conato e butta fuori un getto di vomito marrone, tipo sangue marcio. Si sbilancia ancora di più e la brodaglia gli impregna la canotta bianca dal collo allo stomaco.
«Diocàn de to mare troia», attacca a urlare alzando la testa verso il cemento nero, crepato, pieno di muffa dello stadio, «To mare troia del dio del fiol del diocàn».
Faccia Tagliata lo afferra e lo raddrizza come fosse un manichino. Il Bubu si ripulisce la canotta dai resti di vino, quelli che sembrano fagioli marci e sangue e riprende a trafficare con le mani nella tasca del marsupio. Tira fuori un pacchettino di carta stagnola, un cucchiaio annerito, una siringa sporca e un pezzetto di limone flaccido. Faccia Tagliata gli passa l’accendino giallo con le stelle rosse. Si siedono a terra, uno accanto all’altro, e iniziano…
Guardo finché l’ago di acciaio si appoggia alla pelle del braccio.
Guardo finché la punta entra nella pelle.
Guardo finché la siringa si riempie di sangue e poi si svuota dentro. Nelle vene.
Poi chiudo gli occhi.
E nessuno apre più bocca.
Un istante dopo sentiamo la voce del Bubu, persa nella penombra, lì sotto il ponte: «Il negozio ci aspetta, amico, dobbiamo fare basta con questa merda, amico, dobbiamo attaccare il progetto, amico. Da domani, amico. Domani».
Io, Caio, Kiki e Ringhy ci allontaniamo in silenzio, riprendendo la strada del bar Corso.
Siamo quasi arrivati quando Ringhy sussurra: «Noi no, noi non finiamo così, come i tossici. Noi con la roba no».
Nessuno risponde.
Sulla strada principale ci sono tre gruppi di ragazzi che ridono, corrono, si buttano acqua addosso, le ragazze tolgono le magliette, restano in reggiseno, i ragazzi urlano, saltano. Vanno verso il parco Galvani. Stasera canta Vasco.
Li osservo. Non mi viene da ridere.
Nel parcheggio del bar Corso ci guardiamo senza dire niente.
Saliamo sulle biciclette.
Stringo forte le manopole gialle della mia Bmx.
È ora di tornare a casa.
Il pranzo della domenica è in tavola.

 

“Figli d’asfalto” di Massimiliano Santarossa è tratto dalla raccolta Gli Stonati. Manifesto letterario per la legalizzazione della cannabis, dal 28 settembre in libreria per NEO Edizioni.

Massimiliano Santarossa è nato nel 1974 a Villanova (Pordenone). Ha pubblicato i romanzi Storie dal fondo, Gioventù d’asfalto (Biblioteca dell’Immagine); Viaggio nella notte, Il male (Hacca edizioni), Hai mai fatto parte della nostra gioventù?, Cosa succede in città, Metropoli (Baldini&Castoldi). Il suo ultimo romanzo è Padania (Biblioteca dell’Immagine).

Gli Stonati. Manifesto letterario per la legalizzazione della cannabis include i racconti di Alessandro Berselli, Francesca Bertuzzi, Stefano Bonazzi, Romano De Marco, Federica De Paolis, Barbara Di Gregorio, Marco Drago, Corrado Fortuna, Simone Gambacorta, Yasmin Incretolli, Gianluca Morozzi, Melissa Panarello, Alberto Petrelli, Renzo Paris, Piergiorgio Pulixi, Massimiliano Santarossa, Luca Scarlini, Carlo Vanin, Paolo Zardi, con la partecipazione straordinaria di Gaetano Cappelli, Sandro Veronesi, Marco Vichi.

Storia di una mosca

Circa duecento anni fa, viveva a Kyoto un mercante di nome Kazariya Kyubei. La sua bottega si trovava sulla strada chiamata Teramachidori, un po’ più a sud del viale Shimabara. Aveva una serva di nome Tama, nativa della provincia di Wakasa. Tama veniva trattata con gentilezza da Kyubei e da sua moglie e sembrava sinceramente affezionata a loro. Ma non si curava di vestirsi bene come le altre ragazze, e ogniqualvolta aveva un giorno di festa, se ne usciva con i suoi abiti da lavoro, nonostante le avessero regalato diversi vestiti graziosi. Dopo essere stata a servizio dai Kyubei per circa cinque anni, lui le chiese un giorno perché mai non si preoccupasse di avere un aspetto gradevole. Tama arrossì al rimprovero insito in quella domanda e rispose rispettosamente: «Quando morirono i miei genitori ero bambina, e siccome non avevano altri figli, fu mio dovere di far celebrare il loro servizio funebre. A quel tempo non avevo i mezzi per farlo, ma decisi che le loro ihai[1] fossero portate al tempio e fossero celebrati tutti i riti non appena avessi avuto il denaro necessario per pagarli. E per assolvere a quella promessa ho cercato di risparmiare sui vestiti e le altre spese; forse ho risparmiato troppo, se lei mi ha trovato trascurata nella persona. Però sono stata capace di mettere da parte circa cento momme d’argento per lo scopo che le ho detto e d’ora in poi cercherò di presentarmi con un aspetto lindo. E dunque la prego di scusare gentilmente la mia negligenza e scortesia». Kyubei fu commosso da questa sincera confessione; e rispose alla ragazza con gentilezza – assicurandole che era libera di vestirsi come più le piaceva, e lodando il suo amore filiale. Subito dopo questa conversazione, Tama fu in grado di collocare le tavolette dei genitori nel tempio di Jorakuji, e far celebrare i riti appropriati. Spese così settanta momme[2], e i rimanenti trenta momme chiese di metterli al sicuro alla sua padrona. Ma all’inizio dell’inverno seguente si ammalò improvvisamente e, dopo una breve malattia, morì, nell’undicesimo giorno del primo mese del quindicesimo anno di Genroku (1702). Kyubei e sua moglie furono molto addolorati dalla sua morte. Ora, circa dieci giorni dopo, entrò nella casa una gran mosca e prese a volare incessantemente attorno al capo di Kyubei. Questo lo sorprese molto, giacché normalmente non ne compariva neanche una nei mesi del grande freddo e mosche così grandi si vedevano raramente, se non durante la stagione calda. Quella mosca infastidì Kyubei al punto che decise di catturarla e metterla fuori di casa – stando attento a non farle male in alcun modo, poiché era un devoto buddhista. Ma quella tornò ben presto; fu di nuovo presa e buttata fuori, e però entrò in casa per la terza volta. La moglie di Kyubei trovò la cosa molto strana. «Mi domando – disse – se non sia Tama» [sì, perché i morti – in particolare quelli che passano nello stato di Gaki[3] – talvolta ritornano, in forma di insetti]. Kyubei rise e le rispose: «Forse potremmo provare a farle un segno di riconoscimento». Catturò la mosca e, con le forbici, le tagliò una piccola parte della punta delle ali – dopo di che la portò a una certa distanza da casa e la liberò. Il giorno seguente la mosca tornò. Kyubei si chiese nuovamente se ciò non avesse un significato sovrannaturale. La catturò una seconda volta, le tinse di rosso il corpo e le ali, la portò molto più lontano del giorno prima e la lasciò libera. Ma due giorni dopo ecco che tornò, tutta rossa com’era. A quel punto Kyubei non ebbe più dubbi. «Credo che sia Tama – disse – di certo vuole qualcosa, ma che potrà mai essere?». Sua moglie rispose: «Ho ancora trenta monete, dei suoi risparmi. Forse vuole che offriamo quel denaro al tempio, per un servizio funebre in onore della sua anima. Tama era sempre così preoccupata della prossima vita!» Detto questo, la mosca cadde dalla finestra di carta sulla quale era posata. Kyubei la raccolse e vide che era morta. Dunque marito e moglie decisero di recarsi subito al tempio e donare ai sacerdoti il denaro della ragazza. Misero il corpo della mosca in una scatolina e la portarono con sé. Jiku Shonin, il primo sacerdote del tempio, nell’apprendere la storia della mosca decretò che Kyubei e la moglie avevano agito nel modo giusto. Poi Jiku Shonin celebrò una cerimonia Segaki[4] per lo spirito di Tama; e sul corpo della mosca vennero recitati gli otto rotoli del sutra Myoten. La scatolina contenente il corpo della mosca fu sepolta vicino al tempio; e in quel punto fu collocato un cippo funebre con un’iscrizione appropriata».

[1]Tavolette funebri su cui viene scritto il nome buddhista del defunto.
[2]Antica unità di peso (ancora in uso per le perle di coltura).
[3]Stato dell’esistenza di “spiriti affamati” caratterizzati da una brama insoddisfatta.
[4]Cerimonia funebre atta ad aiutare gli spiriti che si trovano in una condizione di gaki.

 

“Storia di una mosca” è tratto da Le farfalle danzano e le formiche si ingegnano, una selezione di racconti dal libro Insect studies di Lafcadio Hearn, in uscita il 21 settembre per Exòrma.

Lafcadio Hearn, (1850-1904) celebre giornalista e scrittore. Nato sull’isola di Lefkada e vissuto negli Stati uniti fino al 1890, passò il resto della vita in Giappone naturalizzato con il nome di Koizumi Yakumo. Con i suoi scritti offrì all’Occidente alcuni dei primi scorci del Giappone pre-industriale e dell’epoca Meiji, la sua opera risulta ancora oggi un’inestimabile fonte di conoscenza.

Le farfalle danzano e le formiche si ingegnano raccoglie alcune tra le più belle prose scritte da Hearn durante la sua vita in Giappone, una terra in cui gli insetti erano apprezzati come nell’antica Grecia.
Farfalle, zanzare e formiche diventano l’occasione per evocare letteratura, poesia e leggende. Sono pagine di una scrittura raffinata ed elegante; storie deliziose e insolite che gettano uno sguardo profondo sul Giappone dell’Ottocento, sulle sue credenze e sul la cultura popolare. Hearn descrive, con spiritosa eleganza e acuto senso di meraviglia, il canto del grillo, i l volo spettrale delle libellule,
cita l’haiku entomologico del Giappone classi co e misterioso e ricorda i racconti buddisti in cui le anime degli insetti e quelle degli uomini non sono mai lontane.

 

 

“Esiste un mondo a venire?”
di Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro

Il nastro di Möbius è una superficie dotata di un singolo lato. Non presenta spigoli: il polpastrello che la percorre non incontra alcun bordo, ritrovandosi nel punto di partenza al termine di un giro completo. L’osservazione di tale meraviglia della topologia conduce alla dissoluzione di un’illusione e, di concerto, al raggiungimento di una profonda consapevolezza. Ciò che sembra procedere su binari paralleli è, a uno sguardo più attento, realtà univoca e consustanziale, parte del medesimo lato del nastro. La faccia della medaglia, per così dire, è una soltanto.

A un secolo dalla rivoluzione industriale, l’uomo occidentale inizia a percepire il disgregamento, lento ma costante, della dicotomia separativa per eccellenza, che contrappone il mondo naturale all’abitante umano, quest’ultimo emancipatosi grazie alla tecnica. La natura (lo spazio) diventa il super-organismo Gaia, mentre l’uomo si scopre forza geologica capace di alterare il proprio pianeta, inaugurando così un nuovo periodo: l’Antropocene (il tempo). Le coordinate non lasciano scampo: viviamo una fase critica, in cui l’attività antropica devasta il mondo e l’orologio ticchetta in modo preoccupante. Il nastro di Möbius su cui camminiamo sta collassando a un ritmo vertiginoso, e pare che nessuno abbia una soluzione concreta per scampare la più grande catastrofe ambientale della nostra storia. Da queste premesse e dalle Gifford Lectures di Bruno Latour nasce il saggio di Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro (pubblicato in Italia da Nottetempo nella traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri), Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine.

L’intero libro è la disamina di una tensione, esplicitata nei capitoli iniziali: essendo la fine un tema che genera speculazioni di natura essenzialmente metafisica, è possibile sviluppare un discorso che la riguardi servendosi soltanto di dati, tabelle e schemi provenienti dalle scienze empiriche? In parole povere, i due autori si chiedono come sia possibile affrontare lo spettro della fine del mondo senza unire alla ricerca scientifica lo sforzo delle humanities, in particolare filosofia e arti. Danowski e de Castro ci hanno provato, dando alle stampe (nel 2014) una panoramica, piacevolmente varia e provocante, sulle «esperienze di pensiero» prodotte a partire dalla virata del mondo occidentale verso il declino. Sebbene il libro risulti a tutti gli effetti un testo filosofico, la ricchezza degli argomenti trattati e le numerose prospettive impiegate ne accrescono il valore, la portata e la propensione al dialogo con numerose aree del sapere apparentemente lontane fra loro.

La carrellata è lunga e articolata. L’esame politico-filosofico esplora tanto le nuove frontiere del pensiero quanto alcuni capisaldi della filosofia occidentale. Ampie sezioni del saggio sono dedicate all’analisi del pensiero di Bruno Latour e di Isabelle Stengers, alle considerazioni sul cosiddetto accelerazionismo (e sul manifesto che lo definì, redatto nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek), ai “realisti speculativi” e ai transumanisti come Vernor Vinge e Ray Kurzweil che prospettano un futuro post-organico, altamente ingegnerizzato e votato al raggiungimento della singolarità. Da questa intricata selva di correnti e pensieri, i due autori tentano di distillare la propria visione, alla cui radice si trova un’analisi della sinistra contemporanea, spaccata a metà fra la svolta accelerazionista e il localismo. Forti di una prospettiva decentralizzata ma comunque interessata da problemi ambientali e di governance (il Brasile), gli autori auspicano, pescando a piene mani dal bagaglio di studi di de Castro sui popoli amerindi, un futuro prossimo in cui il “divenire-indio” sarà il mantra di un nuovo popolo.

Malgrado Danowski e de Castro abbiano alcuni nemici (il capitalismo sfrenato, la Big Science corporativa e gli accelerazionisti convinti), dalla loro hanno tutta la potenza dell’immaginario narrativo. Accanto alle suggestioni filosofiche, nel libro trovano posto numerose analisi di opere narrative e cinematografiche capaci di convertire in immagini i dati scoraggianti della climatologia e della chimica e di suggerire scappatoie emotive. Dai pilastri imprescindibili – Melancholia di Lars Von Trier (2011) e La strada di Cormac McCarthy (2006) – alle produzioni d’essai (come Il cavallo di Torino di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky), la fiction arricchisce le pagine di questo libro, mostrandosi fondamentale laddove c’è bisogno di imprimere un senso. Per cui sono romanzi e pellicole a dipingere gli scenari infiniti in cui l’uomo è senza mondo o il mondo è rimasto senza di noi, mostrando ancora una volta l’attualità delle intuizioni di Frank Kermode sulle narrazioni della fine.

Pubblicato nel 2014, Esiste un mondo a venire? risulta, a tratti, già superato. La velocità con cui si aggrava la situazione ambientale è in costante accelerazione, così come l’avvicendarsi di vicende geo-politiche che, lo diranno i prossimi anni (pochissimi, secondo un nuovo studio pubblicato da Nature), potrebbero mettere a repentaglio un sistema – l’unico, il nostro solo nastro di Möbius – già in profonda crisi. Nonostante manchino suggestioni recenti e importanti (Ben Lener, Jeff VanderMeer, Kim Stanley Robinson), il saggio di Danowski e de Castro resta un affresco potente, multi-disciplinare e articolato del pensiero filosofico-narrativo sul mondo a venire.

(Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, 2017, pp. 289, euro 17)

“A deeper understanding” dei The War On Drugs

Nella copertina di Lost in the Dream (2014), Adam Granduciel ha il viso di profilo coperto dai capelli e guarda in basso mentre si appoggia a una finestra. La luce da fuori sfibra i contorni delle cose e confonde l’ambiente, fumoso ai bordi del riquadro. In alto sulla destra, sbiadito, il titolo dell’album. In A Deeper Understanding uscito qualche settimana fa, Granduciel è seduto al Wurlitzer, dal quale sembra uscire una luce spontanea che gli illumina la figura rivolta verso l’obbiettivo. L’ espressione è compatta e la postura rilassata. In alto a destra, stavolta, il titolo è stampato in lettere bianche ben in contrasto con lo sfondo buio.

Lo scorso autunno avevamo riscoperto con Justin Vernon la grazia e la profondità di una preghiera nella sofferenza, attraverso le sue trame di evocazioni religiose e scenari naturali; ora, Adam Granduciel umanizza con la stessa potenza l’universalità del tempo, recupera l’invadenza delle Cause e ne racconta gli effetti, oscillando tra l’immobilità, la panne della depressione e le esplosioni della disperazione, tra il miglior Richard Manuel e il miglior Bruce Springsteen.

La quantità degli strumenti (e dei musicisti) impiegati nella realizzazione dell’album è la sintesi di come i The War on Drugs riescano a mettere insieme tanti minuscoli istanti per creare un sistema fluido. Lo avevano preannunciato già con il singolo “Thinking of a Place”, praticamente una performance teatrale che tiene incollati agli auricolari per 11 minuti col fiato sospeso. E dello stesso peso scenografico è stata “Pain”, seconda traccia del disco e secondo singolo lanciato, se possibile ancora più bello del primo. Quattro linee di chitarra, l’organo, il pianoforte, la batteria e le percussioni, il sassofono e, ovviamente, il basso: un flusso organico e armonico sul quale si poggiano i vocalizzi ‘dylaniati’ di Adam.

“Holding on” è già nel titolo il simbolo e la direzione della ricerca, dove la macchina dei The War On Drugs raggiunge i livelli più energici e springsteeniani dell’album e i versi di Granduciel l’ossessione più lucida: « When we talk about the past / What are we talkin’ of / Did I let go too fast? / Was I holding on too long?»
Esemplare anche la traccia di apertura ,“Up All Night”, che tra accelerazioni e frenate brusche incarna l’inizio frettoloso dell’esperienza e il suo inevitabile risolversi in nulla : «Don’t now how much I can take / I don’t know anything».
Nello stesso modo, il pezzo di chiusura “You Don’t Have to Go” simboleggia il punto d’arrivo. Tra l’arpa di Michael Johnson e i backing vocals dei The Dove and The Wolf, prende forma un inno all’amore che ci lascia ancora senza risposte ma trova nell’Altro l’unica consolazione possibile: «I can feel the chains / The winds of love blow few / Let it move through me / Let it blow thorugh you / And take you into the night».

A Deeper Understanding è un album che ruota attorno alla ricerca indefinita di un qualcosa e che trova la sua espressione massima non nella sua definizione, ma nella vaghezza stessa. Un album capace di correre nella giusta direzione, di ingarbugliarsi nei giusti epicicli, di percorrere con estrema fedeltà i cliché del dolore e di presentarcelo per la prima volta senza l’accento sui punti salienti ma attraverso la potenza degli stalli, delle stesse identiche domande ripetute come un mantra per mesi, anni, versi, strofe. Ma più di tutto, quello dei The War on Drugs è un lavoro compiuto, che non fa acqua da nessuna parte, senza crepe né pecche, senza aggiunte da dover fare, senza revisioni necessarie. Non è solo il racconto di un’esperienza, è l’esperienza stessa, immediata, ripetuta come nuova e sincera a ogni ascolto.

(A Deeper Understanding, The War On Drugs, roots-rock)

 

“Il suono del mondo a memoria”
di Giacomo Bevilacqua

L’incontro con l’altro è sempre destabilizzante, è un mettere in discussione se stessi. Una relazione spesso mette in rapporto due immagini, due ossessioni, non due persone, e chissà cosa di ostinatamente silenzioso.

Sam, protagonista di Il suono del mondo a memoria (Bao Publishing, 2016), ultimo graphic novel di Giacomo Bevilacqua, è un fotografo che decide, per superare un momento particolarmente difficile della propria vita, di mettersi in gioco. Si pone un obiettivo che può apparire bizzarro in un’epoca di bulimia comunicativa, incentivo all’autismo corale: quello di vivere per due mesi a New York senza parlare e interagire con nessuno.

Ma il vero protagonista di questa storia non è tanto Sam ma la città di New York, la città dalle mille luci e colori a seconda dei vari momenti della giornata in cui è colta. È veramente il cuore pulsante di Il suono del mondo a memoria. Molte tavole sembrano dei veri e propri quadri impressionisti quando non vere e proprie fotografie.

Lo stile dell’autore rispetto ai suoi precedenti lavori (A Panda piace) è davvero sorprendente e rivoluzionario. Ogni dettaglio è curato. I disegni hanno un taglio fotografico. L’autore sembra voler fissare gli attimi della vita del protagonista. Del resto, l’esistenza si compone di momenti, più che un flusso, la vita è un lungo tempo fatto di piccole rotture, strappi inattesi.

Predominano i colori autunnali ma a seconda dei momenti e dei luoghi la luce può variare da fredda e bluastra a calda, gialla, arancione. Ne è un esempio Central Park. Secondo Sam non ne esiste solo uno bensì diversi a seconda della stagione, dell’ora e del proprio stato d’animo.

Inoltre New York è una città piena di vita, caotica ma anche socievole e accogliente. Tutto questo però entra in contrasto con l’atteggiamento di Sam che si pone in una posizione di distacco e isolamento. Simbolo del suo estraniarsi dal mondo esterno sono le sue cuffie. Esse trasmettono sempre lo stesso suono, la stessa melodia di Chet Baker.

Estraneità non vuol dire però indifferenza. Da bravo fotografo, Sam è un grande osservatore. Anzi a lui piace proprio guardare le persone che incontra per strada e contare quelle che interagiscono fra loro dal vero senza filtro tecnologico. Un’altra ossessione di Sam è infatti quella di contare.

Uno dei temi principali infatti di questo graphic novel è la comunicazione nonostante l’afasia che si impone il protagonista e l’assenza di dialoghi. Le parole sono pensieri, narrazione fatte da una voce fuori campo o al massimo le parole virtuali scambiate via email.

Dalla punta della matita di Bevilacqua, insieme al groviglio di parole che danno forma ai pensieri e scandiscono il ritmo delle giornate, sorgono figure, immagini e disegni dai tratti precisi.

 

(Giacomo Bevilacqua, Il suono del mondo a memoria, Bao Publishing, 2016, pp. 192, euro 21)

 

“Bellissimo”
di Massimo Cuomo

Dopo le storie del nordest italiano di Piccola osteria senza parole, Massimo Cuomo ha deciso di ambientare il suo ultimo romanzo, Bellissimo (edizioni e/o, 2017), a Mérida, capitale dello Yucatán. La scelta è stata forse dovuta all’esigenza di raccontare un mondo che sarebbe stato credibile e naturale solo in Messico, troppo colorato e denso per l’Europa, troppo magico per l’Italia.

I colori delle città e dei paesi attraversati, i personaggi fin dai loro nomi, le stranezze, le peculiarità, le credenze immotivate e i culti assoluti – dei vivi, dei morti – che altrove richiederebbero una spiegazione, in Bellissimo appaiono spontanei ed essenziali, indispensabili per accompagnare la storia e la vita della famiglia Moya.

Santiago e Miguel sono fratelli, il primo riservato, silenzioso, perennemente combattuto, in ombra; il minore, semplicemente, bellissimo.

«Dietro al vetro c’è la faccia di Miguel, zero giorni. Davanti al vetro c’è la faccia di Santiago, cinque anni. La sua espressione stupita si riflette sulla vetrata insieme al neo sulla guancia destra. Come il bottone di una camicetta. Come il punto di un punto di domanda. E la domanda che pensa Santiago, osservando il fratellino nella culla oltre il vetro, è una soltanto: “Perché è così bello?”».

La particolare e irresistibile avvenenza che Miguel mostra fin dalla nascita lo rende un bambino speciale; i familiari prima, l’intero paese poi, seguono sgomenti e affascinati la crescita del niño divino, con incredulità e fiducia gli attribuiscono poteri e caratteristiche che vanno oltre il reale e il terreno e che gli conferiranno un potere di attrazione, talvolta di repulsione, che il ragazzo non ha mai voluto ma in cui si trova indissolubilmente invischiato.

Il romanzo affronta e approfondisce il tema del rapporto tra fratelli, l’amore alternato alla rivalità, l’invidia che acceca i ricordi, la gelosia che fa travisare l’affetto. Due vite che viaggiano come treni vicini su binari paralleli, che seguono due mete indefinite e diverse, destinati a scontrarsi senza essere in grado di riconoscersi.

Intorno ai due fratelli, Cuomo crea un mondo intero di credenze, magia e quotidianità, inventa ambigui curanderi dalla doppia personalità e venditori veri di amache fittiziamente solidali, donne che arrivano a rivaleggiare con la Madonna di Guadalupe, ragazze e bambine che competono inconsapevolmente e inevitabilmente per lo stesso bambino e per lo stesso uomo, un intero e variopinto popolo che sa sorridere anche ai funerali.

Ma, soprattutto, l’autore lavora sul mito della bellezza, quella disarmante e prepotente, quella determinante nella vita di chi la possiede e di chi circonda o soltanto ne incrocia il possessore. Miguel la vive con naturalezza, un regalo non richiesto che fa parte di sé, la usa in modo generoso anche quando ne comprende il potere, la sfrutta fino all’osso per cercare l’amore senza volerlo trovare. Finché la benedizione ricevuta non si trasforma in maledizione, attira lacrime, rancori e sofferenza, si trasforma in irrequietezza, in senso di colpa, in bisogno di evasione dal proprio corpo e dal proprio mondo. Ed è quello che serve per acquisire coraggio e consapevolezza, per usare il dono come strumento di conoscenza, per allontanarsi liberando se stesso e gli altri, rinunciando a far loro del male e individuando ciò che conta nella sola libertà.

«“Dove sei stato?” Gli domanda lei. “A vedere il mondo” risponde Miguel. “E com’è?” “Sporco” dice lui con un sorriso. “Devo fare una doccia…”».

 

(Massimo Cuomo, Bellissimo, Edizioni e/o, pp. 272, euro 17,00)

 

“Il simpatizzante”
di Viet Thanh Nguyen

È uno scheletro in fuga Kim. Ha nove anni, uno stelo annerito di ossa e terrore. Scappa nuda, con i chili non pesabili di chi ha già più memoria che carne. È l’8 giugno 1972 e il suo strazio, quel corpo di uccello spiumato che prova a sbracciarsi lontano dal napalm, è tutto quello che m’invade la mente appena penso “Vietnam”. Come fosse un souvenir dell’orrore, il lascito immortale della nostra progenie mediatica. Ma ovviamente, è solo un barlume. Tutto quello che fingiamo di padroneggiare sui fatti sono solo rigagnoli. Di un oceano ineffabile. Perciò aggiungere un punto di vista come quello di Viet Thanh Nguyen è quanto mai nodale. Con Il simpatizzante (2016), tradotto per Neri Pozza da Luca Briasco, si è aggiudicato il premio Pulitzer 2016 per la narrativa. Un romanzo in cui ripropone eccezionalmente l’ultima penosa deriva del conflitto, assumendo voce e volto del Capitano.

Figura borderline, personaggio complesso, eternamente spaccato. Figlio di una corruzione, tra un prete e una contadina vietnamita. Origine doppia, origine sporca. Il misero peccato, la povertà colpevole. Abituato fin dal sangue a essere misto, duplice e inconciliabile. Il Capitano cresce, si forma, si accultura per plasmarsi. Da comunista sa farsi virus, si addentra tra le schiere del nemico; si nutre di Occidente, inala, inghiotte, spalma sulla lingua massicce dosi di mito americano. Talmente bravo da ingannare tutti, da assurgere a braccio destro, uomo di fiducia del Generale, capo della Polizia nazionale del Vietnam del Sud. La guerra stavolta per l’America non è questione idrosolubile. Non basta annientare per vincere.

L’infiltrato eccellente organizza l’evacuazione da una Saigon larvata. La città boccheggia, perde colpi e appigli. Alla fine è soltanto un cadavere che brucia. Chi può fugge, chi non può si racconta di poterlo ancora fare. In cima a un palazzo aspetta la sua arca volante, un mezzo aereo che lo traghetti verso un altro sole. Ma i posti non bastano, dal cielo colano bombe come stelle filanti e la salvezza del Generale e della sua famiglia è un miracolo svogliato, un salto in extremis, rocambolesco e dilaniante.

Dopo la traversata, la vita degli esuli in California non è più la stessa. Coloro che sembravano protetti e foraggiati sul fronte, una volta sbarcati sono ospiti spinosi, non abbastanza americani. «Poteva anche essere asiatico solo a metà, ma in America, quando si trattava di razza, non esistono le mezze misure. O eri bianco, o non lo eri».

Il Generale non ordina più, si asserve al sistema, è costretto al lavoro. Il Capitano e il suo amico Bon respirano il marcio di una topaia. E il doppiogioco continua, si avvita, s’intaglia di nuovi tremori. Si vocifera che lì, in mezzo al coro dei migrati, graviti una spia. E il sussurro s’ingrossa, va stroncato prima che diventi un delirio. I sospetti sono serpenti da deviare, potrebbero strangolare tutta la fatica di rendersi credibile. E allora meglio che muoia un innocente, perché nel tritacarne della lotta nessuno resta incolume. Il maggiore crapulone è la vittima perfetta, avido di tutto ciò che si può assorbire. Non importa che abbia figli, anche lui avrà le sue macchie. Almeno di questo deve convincersi il Capitano, per tacitare qualche avanzo di coscienza.

Ma è proprio il suo punto ibridato di osservazione, l’imperitura condizione di bilico che gli permette di comprendere entrambe le parti in gioco. Le comprende perché le rappresenta. È lui il terreno umano in cui s’incontrano, s’innestano, si avvinghiano. Ha indossato due identità, due ideologie. Simpatizza, quindi sente. E analizza infallibilmente entrambe, lo screpolarsi di ciascuna ossessione. Gli estremismi rossi, la ferocia dell’odio. E la non meno letale astuzia americana. La sua volontà congenita (e ancora attualissima) di convogliare ogni risorsa per raccontarsi come vincente. Per diventare l’eroina costante di un film chiamato Storia. Sempre. A ogni costo. Anche quando ne esce azzoppata. Tutto va ridisegnato, il nemico dipinto come il Male, i loro morti come vittime, gli altri come necessari. Pedine da abbattere per espugnare l’obiettivo.

E in questo, la fabbrica di Hollywood è uno strumento infallibile. Al Capitano viene richiesto di vagliare copioni per narrare agli Americani la migliore versione di Vietnam. Autenticare un falso e renderlo ammiccante, altamente digeribile. «Ero furibondo per la mia impotenza di fronte all’immaginazione e alle macchinazioni del Grande Autore. La sua arroganza segnava una novità assoluta: per la prima volta, a scrivere la storia sarebbero stati gli sconfitti anziché i vincitori, grazie alla più efficiente macchina propagandistica che fosse mai stata creata (con buona pace di Joseph Goebbels e dei nazisti, che non avevano mai raggiunto un potere altrettanto globale)».

Quella di Viet Thanh Nguyen è una vita simile al destino del Capitano. Anche lui evaso dalla follia della guerra, anche lui trapiantato in America, anche lui abitato da due mondi. E il suo è un romanzo totale, non facile da approcciare, personalissimo e universale, dove l’intimità del dramma umano si scioglie nel cosmo politico e sociale dello scontro in-civile. Del perenne appetito di dominio. Scritto con vigore, intelligenza, enorme abilità ricostruttiva, Il simpatizzante è un’immensa prova narrativa. Poco adatta come libro da ombrellone, sconsigliato a chi cerchi freschezza. Ma forse, dalla letteratura che vale, non è così urgente prendersi una vacanza.

 

(Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, trad. di Luca Briasco, Neri Pozza, 2016, pp. 512, euro 18)

“L’arte della fuga”
di Fredrik Sjöberg

La fuga è un’abilità tutta maschile: un talento innato che, grazie a Houdini, è diventato un mestiere, un modo per guadagnarsi il pane, senza bisogno di far altro che ostentare al mondo la capacità di fuggire di fronte a situazioni complicate o scomode.

E se l’illusionista americano ha costruito una carriera su una delle più grandi debolezze maschili, Johann Sebastian Bach l’ha elevata ad arte. Ma l’arte, esige regole precise, puntualità e rispetto, che a volte vengono infranti per rincorrere altro. Si fugge sempre da qualcosa o da qualcuno, senza preoccuparsi troppo di ciò che si abbandona. O di chi si abbandona. Lo scrittore Fredrik Sjöberg ha deciso di raccontare la storia di Gunnar Widforss in L’arte della fuga (Iperborea, 2017), pittore svedese che viaggiò per il mondo, per poi approdare negli Stati Uniti, terra promessa di tutti gli uomini in fuga.

La sua America non è quella delle frenetiche metropoli o della provincia borghese: i suoi luoghi sono la natura, i parchi nazionali, le riserve, e tutto ciò che il paesaggio offre di bello. La fuga di Widforss è una ricerca continua, ossessiva e spasmodica di una bellezza incontaminata, di una vita diversa, perennemente in bilico tra la purezza della semplicità e il necessario riconoscimento del suo talento.

Un talento ignorato in patria, ma celebrato postumo negli Stati Uniti: la Svezia ha dimenticato uno dei suoi figli più brillanti, offesa dal tradimento della fuga. Perché la fuga, ci ricorda Sjöberg, è un torto dal quale difficilmente ci si riprende: il senso di abbandono che pervade chi resta, contamina ogni cosa, come una nube velenosa. La colpa di Widforss fu di aver scelto una vita diversa, lontana da ciò che il mondo si aspettava da lui: abbandonare il proprio luogo di origine, per sceglierne un altro, è un peccato imperdonabile per qualunque uomo. Non si possono cambiare le proprie coordinate geografiche: sono i luoghi a scegliere per noi e non viceversa. Spostarsi in cerca del nostro posto nel mondo è al tempo stesso un atto di coraggio e di vigliaccheria: imperdonabile, in entrambi i casi.

Come se non bastasse, Widforss non si è limitato a ritrarre il luogo della sua fuga, ma ne ha riprodotto con un realismo quasi ossessivo ogni montagna, ogni canyon, ogni albero, gettandosi addosso un’altra colpa: aver dimenticato la natura europea per comprendere e ritrarre quella d’oltreoceano.

Ma il suo amore per le terre americane è, come tutti gli amori, imperfetto: mano a mano ci si accorge dei difetti, degli errori, delle contraddizioni. Tutte cose dalle quali all’inizio siamo irresistibilmente attratti, e dalle quali, poi, desideriamo allontanarci. La natura sa essere una madre amorevole e una matrigna crudele, così come l’America, terra di contraddizioni affascinanti e disturbanti. E se all’inizio la bellezza ci travolge, osservando con il rigore di un entomologo, riusciamo a carpirne le imperfezioni.

Potrebbe essere la fine dell’amore e l’inizio di una nuova fuga: o almeno è ciò che ci aspetteremmo da qualunque uomo. Ma Gunnar Widforss non era un uomo qualunque: e il suo amore per la natura fu superiore all’innato desiderio di fuga.

 

(Fredrik Sjöberg, L’arte della fuga, trad. di Fulvio Ferrari, Iperborea, 2017, pp. 192, euro 16)
Poster italiano di Dunkirk su Flanerí

“Dunkirk”
di Christopher Nolan

Christopher Nolan è, ormai da una decina di anni  almeno, il regista di cui più si attende un nuovo film. Interstellar, tre anni fa, aveva catalizzato l’attenzione di critica e pubblico mesi prima della sua uscita. Questo ultimo lavoro, Dunkirk, è stato oggetto di attenzione incessante e di strategie di marketing impensabili per un film d’autore (come di fatto è). Tra infinite dirette su Facebook e curiosità sul coinvolgimento dell’ex One Direction Harry Stiles – per dire le cose su cui si è concentrata la stampa –, Dunkirk ha fatto capire sin dalle prime visioni che si sarebbe imposto come nuovo punto di riferimento per il cinema. Non per il cinema di guerra, genere a cui tecnicamente appartiene, ma per tutto il cinema.

Succede con i grandi autori: non è importante quello che fanno (guerra, fantascienza, cinecomic), ma come lo fanno. E Nolan, confrontandosi per la prima volta nella sua carriera con la realtà della storia, dimostra ancora di più la sua grandezza assoluta.

Nel maggio del 1940, 400.000 soldati dell’esercito britannico rimasero prigionieri sulla spiaggia di Dunkerque, nel nord della Francia, circondati dall’avanzata delle forze naziste. Mentre i tedeschi attaccavano con tutti i loro mezzi, a Londra veniva organizzata l’operazione Dynamo, un piano di evacuazione che coinvolgeva anche imbarcazioni civili. Sulla spiaggia il giovane soldato Tommy cerca con ogni mezzo di ottenere un posto su un’imbarcazione. Dalle coste inglesi, Mr. Dawson parte con suo figlio e il suo peschereccio per aiutare i soldati prigionieri. In cielo, il pilota Farrier cerca di fermare i bombardieri nazisti.

È sempre grande cinema, quello di Christopher Nolan. Elegante, complesso, colto – manierato, cervellotico, autoreferenziale, per i detrattori – e allo stesso tempo spettacolare. La filmografia del regista inglese centra sempre l’incrocio tra intrattenimento e cinema d’autore, tra blockbuster e film concettuale.

Nel ricostruire una delle ritirate più sofferte della storia dell’umanità, Nolan declina in una forma nuova il suo cinema. Sorretto, nelle sue produzioni precedenti, da copioni grondanti considerazioni su grandi temi dell’uomo, il regista inglese sceglie per Dunkirk un approccio nuovo, basato su un copione di partenza minimale (meno di un centinaio di pagine, ma l’intenzione era quella di iniziare le riprese senza alcun testo scritto). Al centro di tutto ci sono gli uomini, i loro corpi, la loro paura, la fatica.

Ci sono tre trame in Dunkirk, ognuna collegata a una specifica unità spaziale – il molo, il mare, il cielo – e scandita da un andamento temporale diverso – una settimana, un giorno, un’ora. Insistendo sul tema della relatività del tempo, che in Interstellar si era fuso tra astrofisica e filosofia, Nolan dilata i tempi dell’azione per poi restringerli, generando un senso costante di attesa dell’inevitabile. Non si vuole qui entrare nel merito del discorso sul formato della fruizione, ma su qualsiasi schermo si veda un film come Dunkirk si percepisce immediata la potenza tecnica di un’opera probabilmente inarrivabile. Ogni elemento concorre a creare una situazione immersiva per lo spettatore. E se la grandezza del cielo e del mare, così come la claustrofobica immensità della spiaggia, sono catturate dalla fotografia livida di Hoyte Van Hoytema, è soprattutto il lavoro sul sonoro che aggiunge una struttura di inarrivabile grandezza. Nolan e il compositore Hans Zimmer hanno lavorato insieme per creare una commistione continua tra suono e rumore come trama che regge l’immagine. Il ticchettio di un orologio, un battito cardiaco, uno sparo, diventano musica e scandiscono il tempo sullo schermo.

E inseguiti dal tempo, i soldati inglesi corrono per salvarsi e per salvare. È un film umanista, Dunkirk, che inquadra l’umanità disperata in un momento di guerra in cui ruoli tradizionali del genere scompaiono. I civili salgono sulle navi per soccorrere chi li ha difesi fino a quel momento. I soldati tornano figli, pronti ad affidarsi a chi può aiutarli. Non ci sono eroi, solo esseri umani. Non c’è eroismo individuale, ma collettivo. Sembrerebbe quasi un film patriottico, se ci fosse un qualche riferimento esplicito al concetto di patria. Nolan rifiuta ogni elemento tipico della retorica cinematografica. Non insiste sul pathos dei sentimenti, non concede nulla allo spettacolo dell’azione. La guerra è una cosa cruda e sporca, come la paura, come la disperazione. Ma Dunkirk non è Salvate il soldato Ryan. Non c’è una casa a cui voler tornare, non c’è una madre che aspetta l’ultimo figlio. C’è solo il momento, un eterno presente di una settimana, un giorno, un’ora, su cui si costruisce un infinito fatto di momenti.

(Dunkirk, di Christopher Nolan, 2017, guerra, 106’)

“Karma clown”
di Altaf Tyrewala

«Tutti sanno […] che un clown dev’essere malinconico per essere un buon clown, ma che per lui la malinconia sia una faccenda seria da morire, fin lì non arrivano».

Chissà se scrivendo il racconto che dà il titolo alla sua raccolta Karma clown. Dispacci da una nazione iperreale (Racconti Edizioni, 2016), Altaf Tyrewala pensava al malinconico clown e alle sue opinioni su religione cristiana, amore e comunismo del capolavoro di Heinrich Böll.

Per apprezzare però fino in fondo il libro di Tyrewala bisogna essere disposti a scendere nelle pieghe più segrete e profonde dell’India. Le storie infatti sono ambientate, pur con diversi accenti, declinazioni e specificazioni, a Mumbai. Lo sguardo dell’autore sulla città indiana è una lente di ingrandimento che non ne intacca l’aspetto bensì la percezione. Soprattutto ne indaga il rapporto con l’Occidente ma anche con sé stessa.

Il Karma clown in questo senso è un personaggio emblematico. È un fantoccio di un fast food che un giorno prende vita e decide di scappare dalla panchina cui era condannato ad attirare clienti. Una volta libero però viene coinvolto in una serie di disavventure che svelano tutto il grottesco della vita.

Il clown affronta persone aggressive e sfrontate rispetto alle quali appare un innocente, quasi un puro. Nella realtà il clown diventa il personaggio più serio, l’unico veramente capace di soffrire e amare e il doversi ridurre a un pupazzo rappresenta la negazione di un mondo dove complessità fa rima con estraneità.

Si tratta di un’accusa molto dura nei confronti del capitalismo coloniale occidentale che tutti identificano nel clown. La sua fine atroce e disperata ne fa però un appello isolato: «Come posso smettere di simboleggiare quello che detesti? Come faccio a diventare soltanto io, non qualcosa che la gente vuole attaccare e bruciare?»

L’India di oggi è un Paese di grandi contrasti. Accanto ad uno stile di vita molto legato ancora alle antiche tradizioni dove la spiritualità riveste un ruolo molto importante, il processo di modernizzazione e la politica del libero mercato, consentono ad una piccola parte della popolazione che vive principalmente nelle grandi città e che di base ha una buona istruzione di arricchirsi avvicinandosi maggiormente a uno stile di vita “occidentale”.

Ci troviamo davanti a un autore dalla scrittura spietata. Le storie sono spesso filtrate da un’ironia amara e provocatoria come nel caso di Il regista di film porno.

Tyrewala mette in scena drammi individuali con una leggerezza feroce e fraterna, un distacco variegato di empatia che ci interroga senza opprimerci.

Tra i personaggi tragici c’è anche una donna delle pulizie per la quale una bottiglia d’acqua diventa l’unica inestimabile ricchezza, simbolo di purezza; un guardiano ossessionato dalle coincidenze, che ingaggia non tanto una guerra quanto una vera e propria guerriglia contro la morte fatta di connessioni rapide e veloci ripiegamenti riflessivi.

Il racconto è una forma che non ha bisogno del superfluo per incantare, perché in un racconto conta solo il necessario e ci si può liberamente concentrare su cose che di solito non interessano a nessuno, anche se sono un patrimonio di silenziosa sofferenza, rassegnazioni e tanti altri sentimenti che non fanno rumore.

 

(Altaf Kyrewala, Karma clown. Dispacci da una nazione iperreale, trad. di Gioia Guerzoni, Racconti Edizioni, 2016, pp. 228, euro 16)

La mia idea di grafica

È piuttosto difficile lavorare nel mondo dell’editoria e non avere a che fare con Riccardo Falcinelli, quasi impossibile, poi, è entrare in una libreria e non trovarsi tra le mani un libro con una copertina realizzata da lui. Grafico, art director e teorico del design, ha progettato libri e collane per i maggiori editori italiani.

È autore di diversi saggi sulla comunicazione e sul design (Guardare, pensare, progettare per Stampa Alternativa; Fare libri per minimum fax; Critica portatile al visual design per Einaudi Stile libero) e di graphic novel (Cardiaferrania e l’allegra fattoria per minimum fax, Grafogrifo per Einaudi Stile libero). Dal 2012 insegna Psicologia della percezione all’ISIA di Roma. È stato condirettore della rivista internazionale di grafica “Progetto grafico”.

Per quanto mi riguarda, ho conosciuto Riccardo qualche anno fa a una delle sue lezioni, col tempo ho avuto modo di apprezzare la sua professionalità e ho approfondito alcune teorie sul design leggendo i suoi libri. Parte dell’editoria contemporanea si anima di strani mostri che si nutrono di passioni momentanee, di improvvisazione o peggio, di impreparazione, ma di sicuro Falcinelli non fa parte di questo bestiario. Avendo a che fare con lui e con il suo studio per motivi di lavoro ho avuto l’impressione di confrontarmi con un magister di una bottega artigianale che si serve di complicate macchine di precisione.

Hai sempre un sacco di progetti in ballo e sei spesso occupato in presentazioni, insegnamento, scrittura, workshop. La tua è un’attività volta per sua stessa natura alla comunicazione e parli di comunicazione del design. Quanto riesci a comunicare di quello che pensi attraverso i tuoi progetti editoriali? Cioè quanto riesci a fare del medium, il messaggio?

In realtà solo in parte. Il punto è che mi occupo di aspetti diversi perché ciascuno permette di comunicare idee diverse. E del resto è giusto che sia così: le mie teorie sul design non necessariamente riguardano i lettori di romanzi per cui faccio le copertine. Mi spiego con un esempio. Credo che per comprendere davvero la società di massa bisogna starci dentro, per questo mi affascina e diverte occuparmi di blockbuster editoriali, per esempio i thriller dove devi far riferimento a iconografie consolidate (controluce, sangue, figure che scappano di spalle). Questo lavoro deve essere fatto bene ma siccome è dentro il mainstream molti colleghi lo snobbano perché lo reputano inutile e commerciale. Al contrario quando faccio le copertine per i libri di Munari  ricevo apprezzamenti e consensi. È ovvio che culturalmente preferisco fare i titoli di Munari che mi sono più affini ma stare in entrambi i mondi mi dà la temperatura del momento e per me è fondamentale per parlare con lucidità di design. Tutto questo però non riguarda né il lettore di thriller né forse quello di Munari. Riguarda la mia idea di grafica che è di tipo storico sociale. Cioè per me è un’attività progettuale (e spesso anche artistica) che accade in un momento storico e in una società precise.

 

 

Ora stai scrivendo un libro sul colore, Cromorama. Quando uscirà? Critica portatile al visual design è stato un grande successo. La tua guida sul colore è diretta allo stesso pubblico? 

Il libro uscirà in autunno, ma stavolta non è un manuale. È un saggio narrato, o un lungo racconto, su che cos’è il colore oggi. Non è rivolto agli addetti ai lavori o ai designer. L’ho scritto pensando a persone colte ma che si occupano d’altro. Tutti i libri in commercio sul colore sono artistici o storici, questo è il primo libro che usa l’arte e la storia per parlare del presente. (Lo posso dire senza modestia perché un libro così l’ho cercato per anni e non l’ho trovato). È un libro su come guardiamo il mondo contemporaneo e quali idee ci facciamo sulle cose. Quindi il pubblico è più vasto, spero piaccia a chiunque abbia interessi per la cultura visuale e spero anche negli insegnanti delle scuole primarie. Uno dei temi forti è infatti come impariamo a capire il colore da piccoli.

Si è da poco concluso il tuo rapporto con minimum fax che durava da 17 anni e si può dire che tu hai contribuito in maniera evidente alla formazione dell’immagine di una delle case editrici indipendenti più attive e interessanti del panorama editoriale italiano. Qual è il tuo bilancio di questa esperienza e ti dispiace ora vedere una tua creatura diventare un’altra cosa, prendere un’altra strada?

Sì, mi dispiace, ma era inevitabile. Dopo 17 anni cambiano troppe cose e in mimimum fax non c’erano più le persone con cui avevo lavorato per tanti anni. A fronte del lutto è stato però giusto cambiare, per me e per loro. In fondo ora mi interessano cose diverse rispetto a dieci anni fa. Non mi interessa più fare i progetti giovani di una casa editrice giovane. Ho 44 anni. Non posso neppure più permettermelo. In più mi dispiace sfatare un mito ma nella mia ventennale esperienza ho scoperto che nelle grandi case editrici c’è spesso la stessa libertà che in quelle indipendenti, solo che viene usata in modo diverso.

Hai recentemente ridisegnato la grafica di SUR e di elèuthera. Sono due progetti rivolti a due case editrici molto diverse, che hanno anche una genesi che muove da presupposti differenti. Trovi che i precedenti progetti avessero concluso il loro corso, esaurito la loro funzione? Quando si può dire che un progetto grafico non risponde più alle esigenze per cui è nato?

Non ho una risposta. Francamente non lo so. I progetti avevano di certo finito il loro corso. Le mode cambiano, e negli ultimi anni sono cambiati velocemente i lettori. Gli unici progetti che hanno vita lunga sono quelli che si impongono come classici, ma questo non mi sembra il momento storico giusto. Cioè non credo che oggi si possano disegnare collane come la Biblioteca Adelphi o i Supercoralli, i lettori attuali (parlo di lettori di massa) le rifiuterebbero. Viviamo tempi culturalmente precari, si preferiscono le novità alla tradizione. Nel caso di Sur però la casa editrice è cresciuta, sta facendo un salto, doveva cambiare. Nel caso di elèuthera bisognava risolvere anche un problema pratico e concettuale: fare copertine seriali ma aniconiche (per i titoli filosofici) senza fare copertine di puro lettering che in questo caso sarebbero risultate troppo fredde.

 

 

Una volta hai preso spunto dal cartone animato di Alice nel paese delle meraviglie citando la frase «se fossi un coniglio, dove terrei i guanti?». Ti riferivi al fatto che bisogna cercare di entrare nella testa del pubblico, di immaginare, cioè, dove il pubblico ha messo i guanti. Ti viene in mente un progetto editoriale, tuo o di altri che, negli ultimi tempi, abbia perfettamente inquadrato il suo pubblico?

Riguardo ai miei progetti, di certo Einaudi Stile libero. Bisognava inventare una collana che fosse autorevole ma si percepisse come “entertainment” e ha incontrato un successo enorme. In Einaudi (e in libreria) mancava questo aspetto di pura narrazione, di intrattenimento alto, che prima coincideva solo con libri commerciali. Stile libero è un format non necessariamente commerciale e in cui i lettori sentono anche l’aspetto culturale ma senza paludamenti. È una cosa che in Italia, rispetto al mondo anglosassone, manca ancora troppo: o si fa cultura alta o si fa roba dozzinale. Ecco molti lettori italiani cercavano libri che non mettessero soggezione senza essere però libracci. Molti intellettuali hanno storto la bocca, ma non si fanno libri solo per gli intellettuali, sarebbe la morte della cultura. Sui progetti altrui ho sempre grandi difficoltà a pronunciarmi, dico perciò “Quodlibet” perché piacciono a me. Hanno trovato i miei guanti.

Da pochi giorni sono usciti con una nuova veste grafica da te realizzata i dieci polizieschi dell’87° distretto di Ed McBain sempre per Einaudi Stile libero. Naturalmente, il rilancio di questi libri è legato al periodo dell’anno. Com’è noto infatti, i noir e i gialli sono le letture da ombrellone per eccellenza. Che importanza dai al ruolo del graphic designer nella riuscita di un progetto il cui tempismo commerciale è essenziale?

Il progetto McBain era in cantiere da quasi due anni, poi certo si sceglie il momento migliore per lanciarlo. Non credo che ci sia un ruolo preciso del design, però sempre più spesso ci chiedono di lavorare con tempi stretti. In fondo il fascino di occuparsi di libri è anche in questo: i libri sono oggetti concreti (quando li tocchiamo) e astratti (quando abitano i nostri pensieri), sono cultura e sono merce, sono design e sono marketing. La difficoltà è stare in equilibrio senza cadere.

 

 

Nel salutare Riccardo e ringraziarlo per la sua disponibilità mi cade l’occhio sulla copia staffetta del suo nuovo libro e gli chiedo se posso guardarlo. Mi dice di no, sorridendo. So che se insistessi potrei sfogliarlo, dargli uno sguardo veloce, almeno un’occhiata. Poi penso che in fondo abbia ragione lui, aspetterò che il libro diventi concreto, arrivi in libreria, illuminato nel modo giusto, collocato nello scaffale pensato per lui.