Copertina di Giovanissimi di Alessio Forgione

Un bel gioco dura poco

Con l’inserimento ufficiale nella dozzina dei finalisti al Premio Strega 2020, Giovanissimi di Alessio Forgione (NNEditore, 2020) si assume l’onere di consacrare il suo autore, o quanto meno di farlo entrare a pieno titolo nell’alveo della letteratura italiana “che conta”. Si tratta, a questo punto, di valutare se sia troppo presto, troppo tardi, o se sia semplicemente giusto.

Con Giovanissimi, Forgione prosegue il discorso iniziato nel 2018 con Napoli mon amour; anzi, si potrebbe dire che questo secondo romanzo costituisce l’ideale prequel del primo: laddove, infatti, Napoli mon amour si configurava come la storia della ri-educazione sentimentale del trentenne Amoresano, Giovanissimi procede a ritroso. Non più una ri-formazione, dunque, ma una formazione tout court: quella di Marocco, quattordicenne del quartiere napoletano di Soccavo che, a forza di canne fumate sui cavalcavia o sui muretti, e di batoste sempre più grandi, si affaccia alla vita.

Amoresano non lo troverà mai, il suo posto nel mondo: preferirà affogare in mare, piuttosto che nella vita. Dal canto suo, Marocco il suo posto ce l’ha sin dal titolo, simbolico e concreto allo stesso tempo: Giovanissimi sono tutti i protagonisti del romanzo, e si chiamano così, prima di tutto, in virtù della loro leva calcistica. Si sa, da sempre a Napoli il calcio è religione: ed è proprio questo il posto di Marocco, promessa come regista di centrocampo, che sogna la serie A.

Marocco vive col padre, proletario dai sani principi. I due uomini sono stati abbandonati dalla moglie/madre, e tirano avanti come possono: Marocco ha il calcio, i suoi compagni di squadra e i suoi amici; suo padre, ha Marocco. L’assenza femminile si fa ancora sentire: Marocco sogna la madre tra un fumetto e l’altro, ed è, sempre più di frequente, preda di attacchi di un dolore a cui non può, o forse non vuole, dare un nome; suo padre, in modo più adulto e perciò più negativo, semplicemente, ogni tanto, dà di matto e spacca tutto. Ma finché si è giovanissimi, va tutto bene: i sogni dei ragazzini sono intoccabili, proprio perché sono meravigliosamente irreali.

Qui sta il problema, come in ogni romanzo di formazione: l’irrompere della realtà. Tuttavia, il talento cristallino di Forgione lo ha portato a osare ancora di più: si ha la sensazione, già a partire dalle prime pagine, di trovarsi di fronte, più che a una formazione, a una de-formazione. Come a dire: le botte, fisiche ed emotive, che prendiamo durante l’adolescenza, non ci fanno crescere. Non si ha mai, in Giovanissimi, l’impressione che le sofferenze che Marocco si trova a vivere abbiano uno scopo, un fine che giustifica i mezzi: «Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile»? Neanche per sogno.

Sin dall’inizio della vicenda si avvertono i segnali di una de-formazione inesorabile. Lo spogliatoio si sfalda, alcuni vanno nei guai; finiscono le scuole medie, e suo padre decide di iscrivere Marocco a un liceo scientifico a cui lui non vuole andare; si intensifica il rapporto con gli amici al di fuori del campo di calcio, in particolare con uno di questi.

Lunno si chiama così per via degli Unni, e ne è orgoglioso. C’è sempre stato, seppur ai margini, sempre taciturno, spesso additato e deriso dal resto della compagnia. Resta il fatto che è più grande: questo lo differenzia dagli altri, e questo rappresenterà l’ascesa e la rovina, per lui e per Marocco. È proprio lui, infatti, a trascinare il protagonista all’interno di una parabola discendente inevitabile, che li porterà ad annullarsi, a negare sé stessi.

Forgione struttura Giovanissimi in un modo che ricorda la tragedia greca: una sconfitta annunciata dall’inizio, ma non per questo meno bruciante. Una discesa ineluttabile, scandita da tappe che altro non sono se non l’estrinsecazione, in una parola, del rapporto di Marocco con la realtà che lo circonda. Rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione.

La violenza si fa strada a partire dalla metà del libro, come uno dei primi elementi di realtà che Marocco si trova a fronteggiare. Da lì in avanti diventerà una compagna di vita quotidiana, perché è sulla violenza e su rapporti violenti che è basato il mondo adulto. De-formandosi mentre cresce, Marocco assomiglia sempre di più a Vinz, il personaggio interpretato da Vincent Cassel in La Haine di Mathieu Kassovitz (1995): testa rasata, poche parole, sguardo truce o distaccato. Una corazza che le circostanze gli hanno cucito addosso.

Allora, come se si trattasse di un Holden Caufield più smaliziato e tragico, Marocco cresce e perde la sua ingenuità, che poi è la caratteristica cruciale dei Giovanissimi. L’innocenza e il senso di invincibilità dell’adolescente sono prima nutriti, poi annichiliti, dalle due colonne portanti di ogni formazione, cioè L’amore e la violenza, con il disco dei Baustelle che risuona come un’ottima colonna sonora per il libro.

Restano da evidenziare, per mettere in luce la grazia preziosa e tragica di un libro come Giovanissimi, gli altri due protagonisti del romanzo. Da un lato, la scrittura di Forgione. Dai tempi di Napoli mon amour, lo stile si è affilato: quella di Forgione è una pagina che graffia, incide in sordina, senza farsi vedere, simile a quei piccoli tagli che reputiamo insignificanti, ma dai quali sgorga tanto, troppo sangue.

La sintassi è secca, le frasi hanno lo stesso carattere di Marocco e soprattutto di Amoresano: restio al contatto, ma con una carica emotiva in nuce, che aspetta solo di farsi strada e di esplodere quando meno ce lo si aspetta. Non un cedimento al sentimentalismo, non un cedimento alla retorica o alla scrittura “artificiale”. Persino i dialoghi non sono dialoghi canonici, privi come sono di trattini e virgolette, andando a creare il vociare indistinto dei Giovanissimi.

Su tutto poi si staglia una Napoli talmente viva da assumere i connotati di un vero e proprio protagonista. Napoli si piega e si adatta alle spinte principali del romanzo – ancora una volta, L’amore e la violenza –, portandole alle estreme conseguenze. Napoli, ci sembra dire Forgione, è la città che, più di tutte le altre, si fa amare e odiare, anche e soprattutto allo stesso tempo.

Napoli dà, e poi Napoli toglie: esattamente come la vita più vera, quella a cui va incontro Marocco, che l’ha sempre aspettata con ansia, e non sa cosa davvero lo aspetta. La Napoli di Forgione è fatta, anche e forse soprattutto, di discese che portano al mare, che sono lo scenario perfetto per la verità finale a cui giunge un Marocco che sta per trasformarsi in Amoresano:

«[…] Eppure niente più succederà perché tutto è già successo. Perché non siamo altro che cose che rotolano giù per una discesa e che prima o poi si fermeranno».

 

(Alessio Forgione, Giovanissimi, NNEditore, 2020, pp. 224, euro 16, articolo di Emanuele Pon)
Copertina di La peste di Camus

La peste dentro di noi

Quando più di settant’anni fa scrisse La peste (Bompiani, 2019), Albert Camus aveva in mente la guerra, il male oscuro che torna a ondate nella storia dell’uomo esigendo ogni volta il suo tributo. Aveva però in mente anche la rivolta, la risposta di chi di fronte alla crudeltà, ai vari “è sempre stato così”, “allora così si viveva e si ragionava”, ha il coraggio di prendere posizione, rimanere coerente con i propri ideali e agire nel mondo animato da un umanesimo davvero concreto.

Di rivolta Camus parlò molto nel corso di tutta la sua attività di uomo di cultura e anche La peste, che si colloca appunto nel suo ciclo della rivolta, ne porta i segni racchiudendo in una metafora la battaglia contro il male in tutte le sue forme: in primis quelle che alimentano il conformismo e i tornaconti personali a scapito dell’apertura solidale verso il prossimo.

Pubblicato nel 1947 con grande successo di lettori e di critica, La peste è ancora oggi un romanzo vivissimo che non ha bisogno di contingenze particolari per parlare al lettore perché, come fa la grande letteratura, riesce a raccontare l’uomo nel suo agire scomposto e contraddittorio tra istinto e razionalità. Questo racconto, necessario e terribile al tempo stesso, si unisce in Camus alla riflessione filosofica sulla parola e sul pensiero intesi come strumenti di conoscenza e di sopravvivenza in mezzo al caos.

Ma veniamo alla storia. Siamo nel 194* a Orano, una prefettura francese sulla costa algerina in cui si ama, si lavora, si fanno affari e la sera si esce a giocare alle carte le fortune accumulate durante il giorno. Una «città assolutamente moderna» in cui ci si annoia e «gli uomini e le donne si divorano in fretta oppure si impegnano in una lunga abitudine a due».

Dopo un’improvvisa invasione di topi, le persone iniziano a morire tra atroci sofferenze. Il trentacinquenne dottor Bernard Rieux, «un uomo stanco del mondo in cui viveva ma con un debole per i suoi simili», è il primo a dare un nome al flagello che si sta scatenando. Incredibilmente, al di fuori da ogni logica apparente, si tratta infatti di peste, una malattia che la sensibilità comune assocerebbe a lontani periodi della storia in cui si moriva in massa e non certo a epoche moderne frutto di tanti progressi.

Proprio lo scetticismo diventa il primo nemico contro cui combattere perché nessuno, neanche il comitato medico che si costituisce quando i morti aumentano, sembra voler prendere atto della situazione. È il destino dei flagelli, ci dice Camus: visto che non sono a misura di uomo, si pensa siano irreali o comunque dei brutti sogni fino a quando poi non ci piombano addosso, come le guerre o, appunto, le epidemie. Sembrano delle astrazioni fino a quando qualcuno non le chiama con le parole giuste («quando la chiamarono con il suo nome, la peste riguardò tutti»).

Rieux è colui che spezza l’omertà e ha il coraggio di pronunciare quelle parole. È un atto di rivolta che sgorga dalla conoscenza e dal linguaggio. A questo atto segue la ricerca di senso e di motivazione: cosa fare in una situazione che riguarda tutti e in cui è necessario lottare? Per il dottore la risposta è concreta, e lo è anche per Camus. che infatti la introduce così, con un rumore che sa di operosità, di “fare con le mani”: «Da un’officina poco lontano giungeva lo stridio breve e ripetuto di una sega meccanica. Rieux trasalì. Ecco dov’era la certezza, nel lavoro di tutti i giorni. Il resto era appeso a fili e movimenti insignificanti, su cui era inutile soffermarsi. L’essenziale era fare bene il proprio lavoro».

Fare il proprio lavoro, fare la propria parte. L’antidoto contro il male è restare lucidi, aggrapparsi a ciò che si conosce, cercare altre risposte nel caso quelle vecchie non bastino o si rivelino insufficienti e inefficaci. Guardarsi intorno, guardare gli altri. Aprirsi per non subire, prendere tutte le precauzioni per non farsi cogliere impreparati.

Rieux incontra umanità diverse nel corso della sua lotta tra le corsie, mentre incide bubboni, sperimenta sieri e vede morire bambini. Ognuna è emblematica di un modo di reagire. C’è il giornalista Raymond Rambert che trovatosi in trappola quando vengono chiuse le porte della città e inizia l’isolamento cercherà di scappare in tutti i modi per tornare dalla propria amata. Una figura che per il riscatto tardivo venne accostata a Sartre, ex amico ormai rivale di Camus, e che nel romanzo mette in discussione l’operato di Rieux con un discorso sulla ricerca della felicità opposta all’astrazione, dimensione in cui secondo lui indulge il medico.

«Lei vive nell’astrazione», gli dice Rambert, per questo non concepisce chi vuole scappare. Sì, gli risponde il dottore, nella tragedia c’è una parte di astrazione, ma quando l’astrazione inizia a uccidere bisogna occuparsene e occuparsene non è la scelta più facile. «Erano astrazione quelle giornate passate all’ospedale dove la peste infieriva portando a cinquecento la cifra media di vittime settimanali?». No, anche perché l’uomo, come obietterà in seguito il dottore, non è un’idea. È concretezza, amore, desiderio ma anche onestà, e onestà vuol dire (di nuovo) fare il proprio lavoro per lottare contro la peste e, in senso più ampio, contro il male.

All’opposto c’è Cottard, che dopo un tentativo di suicidio andato male trova un nuovo equilibrio diventando un rentier, uno che campa della rendita accumulata con affari poco chiari e con i beni venduti al mercato nero. Emblema di tutti quelli che il flagello non lo combattono ma lo sfruttano a proprio favore. Troviamo poi Joseph Grand, un impiegato comunale che mentre tenta di scrivere il suo primo romanzo si impegna nelle squadre di volontari organizzate da Rieux. Stessa cosa fa Jean Tarrou, anche lui uno straniero a Orano. Uno straniero che però, al contrario di Rambert, diventa testimone annotando sui suoi taccuini la cronaca dell’epidemia.

A lui è affidata un’altra riflessione chiave del romanzo, la spiegazione di una vera e propria visione filosofica che chiude il cerchio unendo tragedia, lotta, speranza, pensiero e linguaggio e che illumina il sentiero su cui gli uomini giusti si muovono in ogni epoca storica. «So per certo che ciascuno la porta in sé, la peste, perché nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che è necessario prestare la massima attenzione per non rischiare, in un attimo di distrazione, di respirare in faccia a un altro e di passargli l’infezione. […] L’uomo giusto, quello che non infetta quasi nessuno, è quello che si distrae il meno possibile».

E allora, ci invita Camus, sforziamoci di non distrarci e di fare ognuno la nostra parte. Iniziando magari dalle parole, dal linguaggio chiaro e trasparente. Per mettere all’angolo il flagello e raccontare davvero il mondo. Soprattutto in tempi bui.

 

(Albert Camus, La peste, Bompiani, 2019, trad. di Yasmina Mélaouah, 336 pp., euro 13, articolo di Gaia Mutone)

 

Cover di Una passeggiata nella Zona

Un illecito tour di Černobyl’ nei giorni della quarantena

Questo non è un articolo come gli altri. Non l’ho già ideato, non mi sto limitando a travasare riflessioni essiccate altrove. Non ho in caldo ogni scatto futuro. Eppure lo so. Per il semplice fatto che sta nascendo dentro a una bolla. In un’incubatrice incredula, mai esperita prima. Per il semplice fatto che da tre giorni (e s’ignora per quanto) il Paese è congelato nella sua cattività domestica, per un decreto del Governo.

Non si può uscire, non si può entrare. Così, non resta che stare. Si sta, ci si aggira nelle proprie gabbie ben ammobiliate. Chi da solo, chi con condimento acustico di minori al seguito. Anelando l’ovvietà di quei passi sprecati tra noi e chissà chi altro. Tra vorrei e posso farlo. Da giovedì ci si comprime a casa, senza una goccia di entropia. Un virus ci tiene alle corde e allora l’unica mossa possibile è quella che lascia deambulare solo le nostre parole. Quelle che scegliamo e che quindi ci appartengono.

In un giorno così sembra quasi un contrappasso dantesco recensire questo libro pazzoide intitolato assurdamente Una passeggiata nella Zona di Markijan Kamyš (Keller, 2019). Assurdo non solo perché appunto per chiunque è proibito abbandonare il proprio giaciglio se non per riempire un carrello di cibo, ma perché anche in condizioni di umana viabilità, la meta narrata per la suddetta promenade non è esattamente in cima ai sospiri, sotto le stelle.

Kamyš, viso clandestino di cui pochissimo si apprende anche su Internet, ha sfornato un reportage da fuorilegge. Un ardito allucinato pellegrinaggio nei territori di Černobyl’. Proprio quella. La cittadina ucraina sfregiata irreversibilmente dal mastodontico incidente nucleare del 26 aprile 1986. Una simulazione di guasto tramutata in disastro ottimamente riuscito. Il sistema di raffreddamento s’inceppa e il reattore numero 4 deflagra e cambia tutto. Converte un villaggio in una smorfia di pietra. Novella Pompei con aggiunta di veleno. Quello che non è nebulizzato, implode di marcio, rendendosi inavvicinabile. Per un conto di anni ancora in vigore. Tutto si fa cancerogeno. Abitanti compresi, confezionati in un aderentissimo destino intossicato, come le falde e le gelate. Come le zolle e le speranze.

Ma questo è tristemente noto. Per chi come me ricorda i bicchieri farinosi pieni di latte in polvere e per chi da inconsapevole e più giovane si ragguaglia neanche a dirlo tramite una splendida serie tv. Ciò che davvero non sospettavo è che da anni esistono forme di turismo autorizzato nei luoghi disfatti. Anche se quello del nostro autore non è nemmeno un caso del genere. Perché lui, stregato da un sortilegio sfuggente, esegue viaggi non legalizzati in aree inaccessibili. Dove solo la follia fa da tour operator.

«Non mi piacciono né il post-industriale né il post-apocalittico. […] Sono comunque qui. […] Quando le tenebre ti sorprendono all’improvviso e si estendono all’infinito. E ogni stralcio di luce lo accogli con infinita gratitudine. Striscio tra le nevi mattutine attraverso sconfinati campi e affondo in quel mare bianco, spingendolo giù verso la terra, sempre più in basso. […] Spengo la camel nella neve e mi chiedo, come ogni volta, perché sono venuto qui, portandomi dietro questa gente. Non lo so, non so rispondere».

Eppure, ipnotizzati anche noi da quest’incantesimo letale, c’incamminiamo sulle sue impronte, verso una sfilza di luoghi impronunciabili e impraticabili, verso perimetri blindati che non sapremmo immaginare. Oltre le scenografie scheletriche di quella vita fossile, di quel quotidiano cristallizzato e imbottito di polveri. Oltre le scuole accartocciate, oltre la cartolina sovietica esplosa in frantumi, oltre il turismo sciacallo e affamato che si immortala sotto la scritta Pryp’jat’ (città a 3 km dalla centrale nucleare).

«Alla fine siamo arrivati a Lub’janka, l’oasi della vecchia Zona, dove aleggiano ancora gli spiriti delle vecchie che sono morte, dove ci sono ancora gli orologi, che però non ticchettano più […] Lub’janka ricorda la Zona degli anni Novanta, quei tempi selvaggi quando entrando in casa ancora pensavi: qui ci ha già abitato qualcuno. Qualcuno che viveva senza acqua e senza luce. Qualcuno che l’acqua la prendeva dai pozzi avvelenati e coi suoi settant’anni spaccava la legna e teneva sempre la pistola carica e la ricetrasmittente a portata di mano, per stare in contatto col posto di blocco poco lontano da lì, ché non si sa mai […]»

Kamyš solletica il limite e lo sposta più in là, perché ha già sfidato lo sfidabile e rischia di annoiarsi, con la sfrontatezza del predone e il delirio del poeta. Sa bene di attingere molecole inquinate, di bere acqua radioattiva, ma quelle mani sprofondano nel cuore delle pozze, i suoi piedi affogano in un ghiaccio che tracanna anche le gambe e continuano a solcare foreste che pungono come coltelli. Lui sa e prosegue. Perché ha bisogno «dell’irraggiungibile», di un rifugio tutto suo, inviolato e crudele. Di ritrovare battiti in quel petto di morte. Ha bisogno del freddo che scardina le ossa, di stanare paludi, di verbali della polizia, di zanzare e di linci e di nebbie da mordere sotto la lingua.

È un equilibrio sottile quello che assaggiamo nelle sue righe, in perenne oscillazione tra la rabbia per chi scommette con la propria (r)esistenza e la fascinazione verso chi ha il coraggio sufficiente per compensare decenni delle nostre paranoie. In quella stessa Ucraina martoriata da cui Vasilij Grossman registrava i suoi resoconti come inviato della Stella Rossa, Kamyš addenta la notte troppi gradi sotto lo zero, agogna di tornare a casa ma già accarezzando la prossima tappa. Al di là di una forma esotica di autolesionismo, Kamyš cerca risposte tra croste e ferite. Per domande che ancora non possiede.

«So perfettamente che tra una ventina d’anni quei ragazzi e quelle ragazze con cui sono andato in giro per la Zona li incontrerò a fare la chemioterapia in qualche simpatico reparto oncologico di Kiev. E so anche che ci sorrideremo. Sorrideremo alla vita che ti sfida e ti dice dove divertirti, dove vivere, dove respirare. Perché alla fine siamo figli del nostro tempo. Dove altro potremo andare, se no?»

Difficile saperlo, soprattutto ora, soprattutto per noi. Che (ci auguriamo per un tempo minimo) abbiamo poche stanze come unica destinazione. Che dobbiamo schivare contatti come fossero pallottole e che per fortuna abbiamo miliardi di favole impossibili dentro cui non smettere mai di partire.

(Markijan Kamyš, Una passeggiata nella Zona, Keller, 2019, trad. di Alessandro Achilli, pp. 160, euro 15, articolo di Cristiana Saporito)

Il cambiamento climatico (divertente) secondo grimes

Cinque lunghi, lunghissimi anni di silenzio. Nel mezzo qualche problemino con la casa discografica 4AD (definita dalla stessa artista “my shit label” su Instagram), litigi con la stampa e tutta una serie di rinvii vari, tipici del personaggio. Poi ecco “Miss Anthropocene“, annunciato già un anno fa e definito “creatura antropomorfa del cambiamento climatico, ispirata dalla mitologia romana e dalla malvagità, origine del male“.

La quasi mamma Claire Boucher, aka Grimes, cambia le carte in tavola e ribalta tutto ancora una volta, muovendosi ancora di più verso il gothic rock e quella che viene definita l’ethereal wave, con voci sussurrate e contenuti quasi esoterici .

Alle persone non interessa il cambiamento climatico perché si sentono accusate, quindi ho provato a rendere la cosa divertente e interessante“, ha sentenziato Grimes. Ci sarà riuscita?
L’album si apre con “So Heavy I Fell Through the Earth” e da lì si parte per un viaggio nei sogni dell’artista canadese. Come dichiarato dalla stessa Grimes, la canzone è frutto di una percorso onirico che l’ha proiettata in una dimensione legata al bisogno personale di amore e maternità. Il vero leitmotiv del disco è invece un senso di oscurità e sofferenza, nei testi come nella musica. Un unico filo conduttore che cambia a seconda dello storia e del momento, passando da un’apocalisse all’altra.

È quanto accade anche con la conturbante “Violence“, traccia che sembra personificare la relazione tra l’essere umano ed il cambiamento climatico come abuso volontario ai danni del mondo: in questo assurdo scambio empatico, secondo Grimes è la Terra ad amare follemente e perdere tutto in un pericoloso circolo vizioso: «You wanna make me bad / Make me bad and I like it like that / And I like it like that […] You can’t see what I see / ‘Cause you, ha, ha, you feed off hurting me».

Si fa fatica a capire cosa invece succede con “4ÆM“, ma è giusto così: dopo un elettrico inizio indo-tropicale, il brano prende strade diverse e tende a disperdersi in maniera fluida. Il testo passa in secondo piano, quasi non si capiscono le parole. Grimes dice di essere una grande fan dei Bollywood e di aver voluto dare un tocco futuristico e cyberpunk al film Bajirao Mastani. Nonostante la confusione, è uno dei pezzi più riusciti.

L’artista tira (finalmente) fuori la voce con “New Gods“, una romantica ballata dove Grimes lascia spazio al desiderio di nuovi Dei ed interpretazioni del presente, rigettando idoli e miti contemporanei. Ma le speranze finiscono con il misantropico “My Name is Dark” e “Before The Fever”: ancora una volta, chitarre e distorsioni nu metal varie creano uno sfondo musicale oscuro, grazie anche all’uso di effetti come il riverbero e il delay. Più riuscita “You’ll Miss Me When I’m Not Around“, altra tappa dell’estinzione umana.

Delete Forever” è l’unico brano che, pur affrontando un tema delicato come quello dell’abuso di oppiacei, si discosta invece da certi frastuoni e abbraccia melodie folk-pop. Chiude tutto “IDORU“, e finalmente si torna al synth-pop degli album precedenti con la speranza che, forse, non tutto sia perduto per sempre. Sotto tutti i punti di vista.

Miss Anthropocene” convince solo in parte e non riesce a divertire. Si fa fatica a finirne l’ascolto, qualche brano sembra essere lì per puro caso o poco originale. Le intenzioni di Grimes erano buone ma la realizzazione finale non proprio all’altezza. Questo forzato bisogno di oscurità e l’ostentazione del malessere finiscono per annoiare e rendono complicata ogni interpretazione. Il paragone con Art Angels e Visions non regge, purtroppo. Alla prossima cara Claire, però cerca di tornare presto.

Copertina di L'ombra di Vautrin di Bertini

Decifrare il mondo: la ricerca delle «grandi leggi» in Balzac e Proust

«Paradigma indiziario», «linguaggio delle anacronie», «motivo stendhaliano dell’altitudine», «specchio impuro», «desiderio mimetico»: questi sono solo alcuni dei numerosi concetti-chiave che collegano il mondo di Balzac a quello di Proust, attraverso il cui affascinante labirinto ci guida Mariolina Bertini nel suo ultimo saggio L’ombra di Vautrin (Carocci, 2019).

Quello che più cattura di questo studio serrato e dettagliatissimo è quella verità profonda – sottratta a qualsiasi approccio letterario precostituito ideologicamente – comune sia al genio di Balzac, grande decifratore della storia, in possesso di quelle «misteriose leggi della carne e del sentimento» che puntano al cuore delle cose, che all’eccezionale capacità intuitiva di Proust di riconoscere nell’opera del grande maestro questo codice di lettura del reale, all’epoca ancora invisibile agli occhi della critica letteraria, quanto di servirsene egli stesso per costruire la propria.

Difatti, a parte Ernst Robert Curtius o Robert de Montesquiou, per i primi critici di Proust l’influenza di Balzac – sebbene nella Recherche l’autore dell’immensa Comédie humaine vi fosse evocato capillarmente – si restringeva per lo più a un acuto spirito d’osservazione, a una singolare capacità di donare spessore ai personaggi quanto sottigliezza e precisione agli ambienti mondani della Parigi elegante, con i suoi raffinati salotti, le sue coquette e i suoi dandy, le fastose toilette delle signore e i complicati intrecci amorosi. È solo a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo che la critica ha messo via via in luce come la figura di Balzac sia invece presenza, ineludibile e dominante, che incide sulla poetica di Proust in modo ben più significativo, eredità preziosa non di superficie ma di profonda e disturbante intensità, vera e propria verità decifratrice dell’esistenza.

Perché se il grande scrittore – di cui Paul Bourget aveva giustamente detto fosse «il padre di noi tutti» – era ancora assente dalla prospettiva di Proust adolescente, studente al liceo Condorcet, già nel romanzo giovanile Jean Santeuil, a cui lavora dal 1895 al 1900, comincia a farsi strada un Balzac meno convenzionalmente legato al prototipo del romanziere ottocentesco, tutto invenzioni melodrammatiche, avventure e colpi di scena, al quale i contemporanei usavano contrapporre il più moderno, lineare e omogeneo modello narrativo di Flaubert.

È qui che, dietro l’eclettica natura dei dettagli di costume e dell’eloquenza colorita di testimone di fenomeni sociali, Proust pian piano inizia a scorgere il profilo di un Balzac inedito. Per il futuro autore della Recherche, infatti, quella scrittura densa di subordinate e incisi, verbose digressioni filosofico-politiche, pesantezza didattica e intrecci da feuilleton poliziesco, rimproverata come inverosimile, melodrammatica e immorale dalla critica coeva, svela l’accesso al mistero di realtà nascoste – precluse ai benpensanti conformisti – dalle quali emana una forza irresistibile, il potere d’attrazione di una verità capace di riscattarne in pieno le accuse di volgarità e materialismo.

I segni del suo progressivo interesse subiscono un’accelerata con gli spassosi pastiche – perfetti «falsi» dello stile di Balzac che, senza voler essere affatto una caricaturale derisione, valgono quali esercizi di stile – pubblicati sul «Figaro» nel 1903 e 1908. Qui Proust sembra sperimentare, parodiandone gli elaborati periodi sinuosi, quello che Spitzer definirà lo sviluppo delle frasi «a detonazione», «a strati», «ad arco», del complicato edificio della Recherche e dove, quale modello e insieme contrapposizione all’impetuosa e dominante voce balzachiana, fedele al culto della volontà, già si intravede la fragilità di quella esitante e complice del Narratore proustiano, che più tardi emergerà dalle misteriose nebbie del sonno e dell’inconscio.

Ulteriore, fondamentale tappa ne sarà l’incompiuto Contre Sainte-Beuve – iniziato nel 1908 ma pubblicato postumo come saggio solo nel 1954 – nel quale Proust stabilirà in modo più puntuale come la verità documentaria, oggettiva e scientifica, tipica dell’approccio ideologico e prevenuto della critica del tempo, sia incapace di arrivare alla verità secondo Balzac, esoterica e sotterranea, quale personificata da personaggi come Vautrin – la cui ambigua grandezza dalle molte identità e dai molti segreti Proust incarnerà nel barone di Charlus – la sola in grado di accedere alle oscure leggi pulsionali che determinano «tanto i destini individuali quanto i grandi drammi della Storia».

Ma sarà infine nella Recherche che l’enigmatica ombra di Vautrin, così come l’intero registro dei «segreti» di Balzac, si espande, dilatata dal discorso interiore del Narratore, invadendone ogni pagina con il suo potere di rivelare le leggi invisibili del mondo reale; quel quid nascosto al centro delle cose, inquietante, sconosciuto eppure familiare.

(Mariolina Bertini, L’ombra di Vautrin, Carocci editore, 2019, pp. 172, € 19,00 | Recensione di Claudia Cautillo)

This place doesn’t move me

Immergersi. Lasciarsi invadere, senza pretendere di capire.
È questo che è necessario fare per approcciare nel migliore dei modi Man Alive!, ultimo disco di Archy Ivan Marshall (1994), in arte King Krule.
Giunto al terzo disco, dopo l’esordio scoppiettante di 6 Feet Beneath the Moon (2013) e l’ambizioso The OOZ (2017), il giovanissimo quanto carismatico cantautore londinese deve dimostrare di saper gestire i tempi lunghi, provando di non essere una meteora.
Man Alive! giunge, in questo senso, come una piacevolissima conferma.

King Krule riprende e ribadisce con forza la sua idea di musica e di composizione, e dunque la sua visione del mondo, che, pur continuando a muoversi all’interno di un solco ben definito, è effettivamente parecchio evoluta nel corso degli anni: basti pensare al fatto che Marshall, nel frattempo, è diventato padre, proprio durante la lavorazione del disco.
Ciò che convince, in King Krule in generale e in Man Alive! in particolare, è innanzi tutto proprio questa coerenza nel percorso, questa unità d’intenti che si riflette inevitabilmente in una eccezionale compattezza musicale: alcuni potrebbero definirla addirittura ripetizione, monotonia, ma certo è che l’idea di musica di Marshall è nuova, ancora fresca e dunque buona per essere sfruttata. E soprattutto, ciò che è più importante, è un’idea che funziona.

Man Alive! Ha un suono complessivo, come una nota di fondo sulla quale è necessario sintonizzarsi per poterne apprezzare l’ascolto.
Sinesteticamente, si può parlare di musica che puoi vedere: il disco è il correlativo oggettivo di Marshall, della sua mente, del suo stato d’animo e dell’ambiente in cui si muove.
Ogni nota, ogni suono contribuisce a creare un’atmosfera notturna e plumbea: simile sotto ogni aspetto a quella Londra grigia, fumosa, probabilmente bagnata di pioggia sulle cui strade ci pare, ascoltando il disco, di veder camminare King Krule.
Marshall si muove per questo paesaggio sonoro come un crooner stordito, storpiato fin dal nome – infatti King Krule è la storpiatura di King Creole, vecchio film con Elvis Presley: ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio sonoro, mentale e geografico insieme, costellato di rumore, perché il rumore è importantissimo, più importante della musica certe volte, perché il rumore sa di vero.
Così, la musica si fa strada tra sirene di ambulanze, automobili che passano, chiamate telefoniche, botti, schianti, urla, scampoli casuali di conversazioni.

Tutto diventa parte di questo arrangiamento apparentemente caotico e sconnesso; il direttore dell’orchestra di Man Alive! è un istrione – volutamente – solitario e – altrettanto volutamente – delirante, fuori dal coro: Krule ricorda, nell’atteggiamento e nella postura, certi frontman più che carismatici, da Joe Strummer a Ian Curtis. Accostamenti, questi ultimi, non casuali nemmeno dal punto di vista musicale: Man Alive! infatti pullula di riferimenti al post-punk e alla darkwave dei Joy Division, e il cantato di Marshall, così spesso sporco, con le parole che vengono sputate fuori, rimanda direttamente all’attitudine Clash/Ramones.

Queste, che possono essere considerate tra le influenze principali disseminate all’interno del disco, contribuiscono a creare una bolla sonora terribilmente “nera”, come il petrolio più vischioso, dalla quale è impossibile districarsi: l’ascoltatore è, sin dall’apertura di Cellular, spaesato ma ipnotizzato, catturato dal flusso e dalla capacità affabulatoria, da vero story-teller, di Marshall.
Questo fascino, questa abilità nel convincere chi ascolta a lasciarsi circondare dalla rete dei propri suoni, ci permettono di accostare King Krule a due pezzi da novanta “maledetti”, e proprio per questo affascinanti, come Tom Waits e Nick Cave.

Man Alive! Suona, nel suo quasi paroliberismo dadaista che recupera brandelli di conversazioni al supermercato – come accade in “Supermarchè” –, inaspettatamente vicino alle prime uscite di Cave con i neonati Bad Seeds, quelli di “From her to eternity”.
D’altro canto, il tappeto di batteria – che oscilla dagli echi new wave e post-punk, come in “Cellular” e in “Comet“, ai beat trip-hop di “Stoned Again” – e le linee di basso, allucinate e pervasive, lasciano però spesso lo spazio a piccole feritoie di “luce sonora”: sono i fiati, quelle tremule linee di sax che emergono dalla nebbia, e che ricordano a chi ascolta che il jazz fa innegabilmente parte del bagaglio di influenze di King Krule.

Nei confronti del jazz e dei suoi strumenti Marshall adotta lo stesso approccio “decostruzionista” che era stato, a suo tempo, proprio del Tom Waits di Small Change, Foreign Affairs o Swordfishtrombones. Il sax arriva a tessere una tela sottile di melodia quando meno ce lo si aspetta, come nella coda di “Stoned Again“, o si innesta fino a sostituirle, insieme al piano, sul tappeto di tastiere della stupenda “Theme for the Cross” – uno dei rari momenti di (relativa) quiete, di tregua dalla sezione ritmica –, dove si fonde alla perfezione con la voce effettata e riverberata di Marshall, che sembra uscita dritta dritta da un disco di dub inglese in stile Burial o Tricky.
Ma è stato solo un attimo: subito dopo il sax ed il piano spariscono, sovrastati e sostituiti dal rumore del traffico, le macchine che passano, voci per la strada. Si torna in città, e infatti si torna alla ritmica beat-basso ipnotica di “Underclass“, che fa pensare ai Massive Attack che campionano delle jam sessions registrate in un jazz club pieno di sigarette accese.

Le canzoni trascolorano l’una nell’altra senza soluzione di continuità, i suoni si muovono come la risacca, attraverso giunzioni tessute dalla linea di basso o dai rumori di fondo: una risata che si trasforma in chitarra distorta e dissonante in “Energy Fleets“, una sirena che si fa tappeto di synth all’inizio di “Please Complete Thee“, con la cantilena di Marshall che prende il sopravvento e conclude Man Alive! con una disperata richiesta d’aiuto, di comprensione, affetto, amore – richiesta nei confronti di una ragazza, ma poi di chiunque di noi.

Dopo averci fatto entrare nel suo mondo (sonoro) ovattato, fatto di sprazzi (melodici) che lottano per venire alla luce, Archy, spogliatosi di ogni carisma e narcisismo, canta: «This place doesn’t move me / Everything just seems to be numbness around / This place doesn’t move me / Everything just constantly letting me down».
Quattro versi semplicissimi, per riassumere e chiudere circolarmente un disco che è tutto un mondo.

Copertina di Calafiore di Belluardo

Mangiare e conoscere

Due frasi possono sintetizzare l’intero romanzo di Arturo Belluardo, Calafiore (Nutrimenti, 2019): «Io sono bocca» e «Se c’è una cosa che so fare è mangiare».

La storia è quella di Giuseppe Calafiore, un uomo che vive la sua vita nel cibo, nel grasso, nel mangiare. Calafiore è «l’archetipo di questo schifo di società marcia». Calafiore ha reso la fase orale uno stato permanente del suo essere: attraverso la bocca mangia e conosce e gode. L’oralità è però intesa anche come parola parlata, come bocca che dice e racconta: «Se non racconto che senso ha? Che senso ha ogni cosa se non viene raccontata?»

Il romanzo si apre con Calafiore rapito, nelle mani di Marta e Federico. Sono ignoti i motivi che hanno portato al rapimento. Li si scoprirà lentamente nel corso di una narrazione che si svolge lungo tre diversi livelli, ciascuno dei quali contrassegnato da un dispositivo grafico di riconoscimento.

Il primo livello è il racconto che Calafiore fa della sua vita. È Marta, una dei carcerieri, che introduce il tema di Sherazade: «Facciamo come Sherazade nelle Mille e una notte, che alla fine, se le tue storie ci piacciono, ti salvi la vita». I capitoli sono numerati dall’uno al quattordici.

Il secondo livello comprende i racconti che Marta e Federico fanno di alcune vicende che hanno vissuto e che si concludono col rapimento di Calafiore. Questi capitoli non hanno numero ma solo un titolo che li identifica.

Il terzo livello è l’insieme dei capitoli che descrivono il tempo presente, che è quello dell’avvenuto rapimento e degli sviluppi che ne seguiranno. Tali capitoli non hanno né numero né titolo.

La voce narrante, però, è sempre un io (che sia Calafiore, Marta o Federico) a riprova di quella scrittura “orale” che si vuole ricreare attraverso (paradossalmente) la scrittura. La bocca è stata il tramite del peccato (Adamo ed Eva mangiano la mela) e la bocca dovrà essere la salvezza dal peccato (mangiare non solo e non tanto, ma divorare esseri umani).

Per capire il testo di Belluardo occorre affrontare la questione più forte e scandalosa che fa da colonna vertebrale e da vero motivo-guida: il romanzo sembra parlare di peso e sovrappeso, di cibo e solitudine, di discriminazione e dolore, di sentimenti e di frustrazioni. E certo parla di tutto ciò. Calafiore è in lotta contro il mondo e le persone. È colto e ha studiato. Conosce Parmenide e Melville. Ama la compagna Serena e la figlia Giada. Subisce tradimenti e scherni. A causa della sua “ciccia” è abbandonato e umiliato.

Belluardo, però, fin da subito abbandona un realismo di facile psicologia e si proietta in un fantasmagorico circo umorale, psichedelico, folle, ipertrofico. L’esagerazione, che è nel corpo di Calafiore, è nel romanzo che spinge ai limiti e li supera.

Cannibalismo. Un’apertura, a latere, ci porta a cogliere assonanze con le sequenze del film Porcile di Pasolini dove, tra l’altro, si narra di un gruppo di uomini e donne che, nel 1500, si dedicano a pratiche cannibaliche in nome della libertà e della sovversione.

Calafiore, Marta e Federico appartengono a una schiera di avventurieri e di eroi che hanno scoperto qual è l’essenza del sistema all’interno del quale viviamo, e hanno trovato il modo per scardinarlo. «Tu sei il nostro Dio, Calafiore», gli dicono Marta e Federico. È Dio perché è stato costretto a ingozzarsi e a diventare grasso e poi, in quanto grasso, è stato disprezzato e preso in giro.

È la contraddizione della nostra società che costringe al male e poi condanna chi il male lo ha compiuto, come se ci fosse stata libera scelta. Allora la ribellione nasce dall’assumere su di sé la contraddizione e dal farla esplodere. Il cannibalismo diviene un assurdo provocatorio irriverente mezzo di lotta e di resistenza.

Le coordinate entro cui si articola la storia di Calafiore e dei suoi nemici\amici sono sempre nella dimensione giocosa e carnevalesca, dove l’orrido e il ripugnante servono a épater le bourgeois e a caricare, oltre il verosimile, una irrefrenabile energia vitale che spezza vincoli e legami.

Un’altra associazione filmica (più ovvia) è con La grande bouffe di Ferreri. Se in comune c’è l’analisi sulle funzioni sociali e politiche che ha il cibo, fondamentalmente diverso è l’esito finale: in Ferreri la morte e la distruzione, in Belluardo la morte e la distruzione unite a una rinascita ebbra di vita e di gioia.

Calafiore è un bel romanzo che ha il suo punto di forza nell’originalità della storia e nella cura dello stile. Forse qualche svolazzo linguistico l’autore lo poteva risparmiare («Erano due vortici senza abisso», «La luna era nuovamente impigliata tra gli scogli», «Il sangue urlava», per portare degli esempi). Ma si tratta di minuzie.

È un romanzo pirotecnico e spiritoso, in cui gli eccessi sono artificio e intelligente ilarità e in cui un riso e una fame pantagruelici ci salvano, ci fanno capire, ci liberano.

 

(Arturo Belluardo, Calafiore, Nutrimenti, 2019, 208 pp., euro 17, articolo di Riccardo Romagnoli)

 

Copertina di Il buio di Deborah Willis

Quando l’amore è una faccenda da risolvere

L’eccellente esordio letterario della scrittrice canadese Deborah Willis si intitolava Svanire (Del Vecchio, 2012) e affrontava l’insensatezza della scomparsa attraverso la prospettiva di chi rimane. Perché? Che fine ha fatto? Come fare a ricominciare? Si domandavano silenziosamente i protagonisti di questi sorprendenti racconti.

A sette anni abbondanti di distanza, è piuttosto curioso ritrovare Deborah Willis con una raccolta – Il buio e altre storie d’amore (Del Vecchio, 2019) – che, in molti casi, tematizza il ritorno, la riapparizione, come se gli “svaniti” del primo libro comparissero alcune pagine più in là, diversi anni dopo, qualcuno per ricominciare, qualcun altro per fare i conti con il fallimento di una fuga.

Capita per esempio in “Io sono Optimus Prime”, uno degli episodi migliori della raccolta, nel quale il piccolo Davy è chiamato a costruire da zero un rapporto con un padre divertente e inaffidabile, ricomparso un bel giorno da non si sa bene dove.

«Ancora adesso non ne so molto più di quanto ne sapessi allora, che poi era solo quello che mi era stato detto: era mio padre». (pag. 164)

E capita persino che la fuga sia talmente rapida da non essere neppure notata, come accade alla giovane protagonista di “Volata”, un’avventura di ventiquattro ore nella metropoli di Vancouver prima che la normalità torni a fare il proprio corso nella vita di una ragazza di provincia.

Nei racconti appena citati emergono altri due elementi ricorrenti. Il primo è l’alcolismo e, più in generale, la dipendenza. Parzialmente sconfitta, all’apparenza superata, la bottiglia continua a tormentare i personaggi (in prevalenza quelli maschili), a stuzzicarli, a tentarli. Una ferita che non cessa di spurgare le colpe e i dispiaceri di un passato che, ci suggerisce Willis, non può mai essere del tutto cancellato.

«E lui cosa poteva raccontarle della sua vita? Non la parte in cui dormiva nei rifugi o sotto un cartone. Non la parte in cui comprava la droga da un tizio di nome Kit-Kat. Non la parte in cui svuotava il conto di Tara». (pag. 218)

«Non era per niente simile a mia madre, ma quando bevevo, io ero in tutto e per tutto come mio padre. Incline a cantare, ballare, mentire». (pag. 177)

L’altro elemento è l’adolescenza, caratterizzata da profonde amicizie e da rivelazioni minuscole ma con effetti poderosi, come avviene nei racconti tutti al femminile “Il buio” e “Welcome to Paradise” – la ricerca da parte di due coppie di ragazze di uno spazio di complicità dal quale escludere il resto del mondo – e in “L’uccello di passo”, o “L’arca”.

Raccontata al passato e in forma di ricordo per voce di uno dei protagonisti, la giovinezza viene evocata con potenza e malinconia, sentimento, quest’ultimo, accentuato dall’improvvisa apparizione di un estemporaneo (in quanto unico) flash forward che conferisce al resoconto del narratore una venatura di dolente rimpianto.

«L’estate seguente eravamo di nuovo nella stessa baita, ma ognuna di noi aveva una nuova migliore amica. L’estate dopo ancora avevamo il ragazzo.
Penso a lei solo qualche volta ormai, le poche volte che permetto a me stessa di incontrare un uomo che conosco». (pag. 28)

Rispetto a Svanire, la novità di Il buio è rappresentata dall’introduzione di elementi fantastici o fantascientifici. Nel divertentissimo “La mia ragazza su Marte”, Amber, partner della voce narrante, partecipa a un reality per essere spedita sul pianeta rosso, “Todd” racconta la strana convivenza tra un ex tossico e una cornacchia, mentre il simbolismo piuttosto scolastico del trittico “Steve e Lauren: tre storie d’amore” osserva in ordine sparso l’epopea di un lungo matrimonio.

È in questi frangenti che i racconti di Willis assumono i contorni stralunati, a volte comici altre volte più drammatici, del George Saunders di Pastoralia.

«Amber Kivinen, spacciatrice, cristiana evangelica fuoriuscita, la mia ragazza da dodici anni, sta andando su Marte». (pag. 31)

«Che cos’è l’amore?», si domanda insistentemente Leanna in “L’arca”. In queste tredici variazioni sul tema Deborah Willis offre una vasta gamma di possibilità che ispezionano tutti i colori della relazione sentimentale, qualunque essa sia.

Che si tratti di matrimoni pluriennali costruiti con devozione e fatica o, più semplicemente di «un momento di grazia rubata, di bellezza che non meritiamo», Willis sembra trasmetterci un messaggio: siamo tutti diversi, ma funzioniamo sempre alla stessa maniera. Questo è l’amore.

 

(Deborah Willis, Il buio, Del Vecchio, 2019, trad. di Costanza Fusini, Paola Del Zoppo e Michela Sgammini,  pp. 304, euro 18, articolo di Martin Hofer)
Copertina di Ossigeno di Sacha Naspini

La libertà è
una faccenda complessa

Ossigeno (Edizioni e/o, 2019), il nuovo romanzo di Sacha Naspini, è un cortocircuito di gabbie non solo reali ma soprattutto mentali.

Libro inclassificabile, un po’ thriller, un po’ noir, un po’ romanzo inchiesta, ma pure dramma familiare e di indagine psicologica, trascina i lettori nelle coscienze dei suoi personaggi, alterate, disperate, sconvolte da un ampio ventaglio di sentimenti, di pensieri, di pulsioni e istinti, anche di quelli considerati più abominevoli, di cui è difficile liberarsi perché ritenute distorsioni o tare familiari. Ma proprio per questo ne rimaniamo scottati e allo stesso tempo  sedotti.

Ossigeno ha una struttura polifonica, giocata su svolte narrative inattese, che inizia laddove di solito un thriller finisce, con l’arresto dell’assassino e la liberazione della vittima. Il fatto di cronaca sembra una dei tanti ascoltati quotidianamente nei telegiornali: uno stimato professore universitario e irreprensibile e premuroso padre di famiglia viene accusato di aver rapito e sequestrato in un container ragazzine e di aver fatto sparire i loro corpi. Solo Laura è sopravvissuta 14 anni rinchiusa in quella scatola di latta dall’estate 1999 all’ottobre 2013.

Ma Naspini non si soffermerà a indagare le motivazioni che hanno spinto Carlo Maria Balestri a una simile ingiusta atrocità. All’autore interessa il lato oscuro dell’animo umano. Quello che rende il romanzo fortemente coinvolgente è lo scandaglio delle conseguenze sulle vite delle persone investiste dall’accaduto.

La ricchezza del primo capitolo sta tutta nello sguardo di Luca, il figlio di quello che è diventato il «mostro del golfo», che vede la sua esistenza sconvolta una sera a cena dall’irruzione dei carabinieri. La forza dirompente di scoprire che suo padre ha una doppia personalità e una doppia vita scatena una tragedia interiore nel ragazzo e lo porta a leggere in una luce diversa anche semplici episodi della sua vita di figlio. Quella che dunque sembra essere una delle tante domeniche in giro in macchina con il padre viene analizzata con sospetto: quel portacenere di vetro in cui il papà imprigiona l’insetto stecco, un animaletto apparentemente inutile, era forse un segnale della morbosa voglia del genitore di catturare creature innocenti e poi «Vediamo cosa fa»? È Luca stesso una vittima, tanto da domandarsi «facendosi catturare ha messo una campana di vetro su di me. Aveva calcolato anche questo? Sono il suo ultimo esperimento?» E non è Luca affetto, contaminato dalla stessa natura del padre come sospetta la gente?

«Nella gente della cittadina vive il sospetto che io abbia il medesimo veleno. Anch’io lo penso […] Tutti sanno chi sono, da dove vengo. Sono nato e cresciuto nelle stanze del Male. Non riescono a separare mio padre da me. Anche il sottoscritto è un’impresa: la mia identità non è solo quel che percepisco; è ciò che percepisce la gente».

Avvertiamo il dilemma del protagonista, prigioniero della sua storia. La scrittura fortemente evocativa fa da filtro e argine a un flusso perpetuo di pensieri spezzati. Percepiamo lo sforzo immane di Luca di mantenere la propria intima e autentica umanità, perché spaventato di avere ereditato il gene del male. Laura per lui diventa una vera ossessione, una colpa da espiare: «Quel che non dico è che Laura è un mio investimento: deve salvarsi. Non può perdere tempo. O forse le serve proprio questo: sprecarne un po’, di sua volontà. Starsene nella sua stanza e non fare niente, con la musica in sottofondo. Come nel container. Però lo decide lei. Se vuole uscire basta mettersi le scarpe. Anche buttarsi dal quarto piano è una eventualità. La libertà può metterti davanti a un ventaglio di ipotesi inaspettate».

Nel secondo capitolo si cambia prospettiva e voce narrante. Una terza persona lucida e impersonale ci narra gli anni della prigionia di Laura. Non c’è violenza né morbosi e perversi appetiti sessuali che il professor Balestri deve sfogare, solo la malsana curiosità dello studioso che osserva, ammaestra e istruisce la propria cavia, tanto che la giovane quando uscirà saprà quattro lingue e programmare in dos. La bellezza del romanzo è qui tutta basata sull’analisi delle pulsioni di vita e morte che attraversano il carceriere e la sua vittima e ne fanno due esseri contradditori e ambivalenti.

Nei capitoli successivi è il tema del ritorno e dello smarrimento della persona amata, ma ormai estranea, che esso provoca a essere centrale. Seguiamo Laura, e Luca con noi, che nel tentativo di dare una misura alla ritrovata libertà, esplora la città in lunghe camminate, mischiandosi nella folla, salvo d’improvviso doversi rinchiudere nel bagno di un bar o in un armadio, per quel bisogno inconscio di sentirsi protetta fra quattro mura che non l’abbandona.

Poi c’è la madre di Laura, Anna, il cui precario equilibrio psichico difficilmente riconquistato verrà scosso dal ritorno di questa figlia che sembrava perduta: «Nel sottofondo sconcio di me c’è una matta che strepita giorno e notte: quella figlia non doveva tornare. La sua ricomparsa è uno schiaffo al lavoro fatto per salvarmi».

Ruvido, complesso, profondo, Ossigeno è un libro con cui mettersi alla prova e scavare in quel territorio di noi stessi che non sappiamo definire ma che sentiamo minaccioso e che porta una persona a essere a tratti estremamente gentile e sensibile, a tratti sadica e violenta.

 

(Sacha Naspini, Ossigeno, Edizioni e/o, 2019, pp. 224, euro 16, articolo di Chiara Gulino)

Non Voglio Che Clara, tra Baustelle e Billy Wilder

Quando ascoltai per la prima volta i Non Voglio Che Clara, avevo circa sedici anni e stavo provando anch’io, come i miei coetanei avevano già fatto, a riscoprire la musica italiana, all’epoca in cui per me la musica parlava soltanto in inglese. Senza restarne mai realmente sedotto, entrai per un breve periodo nel vortice dell’indie, al tempo in cui ancora indie significava qualcosa di concreto, e non tutto e niente, come sarebbe stato di lì a breve.

Scorrendo un po’ a caso in quella lista quasi infinita di artisti dai nomi spesso improbabili che mi appariva su YouTube, mi capitò di ascoltare “La stagione buona“. Aveva un suono così diverso da tutte le altre, un po’ retrò, e si chiudeva con questa frase che non ho più dimenticato: «Dammi il coraggio di sorridere di un sogno / Se non si può esaudire». Anche il timbro della voce che la cantava era diverso, era più adulto e quasi solenne, e mi rimandava a un tempo che potevo ricordare appena, quando le canzoni non si ascoltavano al pc e nemmeno sui dischi, ma sulle cassette.

E poi c’era quel nome così evocativo: Non Voglio Che Clara – e per la prima volta pensai: Clara è un nome molto bello. La troncatura della frase lo rendeva così affascinante. Significava, in realtà, “voglio Clara e nient’altro”, ma poteva significare tante altre cose: non voglio che Clara si sposi (in origine era così, scoprii più tardi), non voglio che Clara se ne vada, non voglio che Clara si ammali, e così via. Ma forse, per quanto quella canzone mi avesse effettivamente ammaliato – l’unica fra le tante – i Clara erano troppo impegnativi anche per me, che a sedici anni dedicavo tutto l’impegno alla musica che sapevo fosse impegnativa (i Pink Floyd, i Radiohead) e ritagliavo per quella italiana solo un momento di svago in cui potevo cantare qualcosa indovinando l’esatta pronuncia, sciolto e spedito.

Salvai soltanto due canzoni: “Le paure” («E metterò da parte tutte le paure che ho / perché a trovare scuse sono bravo / Ma tu non fai sconti neanche di fronte al talento»), e poi naturalmente “Gli anni dell’università“, pezzo più famoso del gruppo stesso per ovvie ragioni, che recuperai – come credo moltissimi – il mio primo giorno da matricola, e che si apriva splendidamente in questo modo: «Lo so, tu non hai niente che non va / Eri già molto meglio di me / Molto prima di me / Ma porti con te il tormento di tutte le cose che / A stento / Del tutto capisco/ E che mi rendono stanco.»

Intanto, proprio quell’anno, era uscito L’amore finché dura, terzo disco del gruppo bellunese (dopo Hotel Tivoli e uno omonimo), ma all’epoca di YouTube e degli mp3, io ascoltavo le canzoni senza ancora ricondurle agli album di appartenenza, per cui non ci feci neanche caso. E non ci fece caso quasi nessuno, da quello che avevo modo di notare. Quando più tardi il fenomeno indie esplose definitivamente, io fui costretto – dall’età, dai luoghi e dagli ambienti che frequentavo, dagli amici che ne furono completamente travolti – a subirlo, e quindi ad approfondirlo, mi accorsi che era raro trovare qualcuno che conoscesse i Clara. Eppure, come in quei tempi ebbi modo di scoprire, la critica musicale ha sempre speso buone parole per la loro musica, ne ha lodato la raffinatezza e ha anche avanzato qualche paragone importante.

I Non Voglio Che Clara nacquero all’inizio del secolo, nel 2000, e rilasciarono il primo album ufficiale nel 2004. Da allora, senza mai fare troppo rumore, hanno realizzato alcune fra le più belle canzoni italiane degli ultimi vent’anni. Nonostante da alcuni siano stati inquadrati come “figli di Bianconi”, i Non Voglio Che Clara sono stati molto di più – e anzi laddove i Baustelle hanno mostrato una sorta di “accartocciamento” in sé stessi, con questo tono così caratteristico da risultare alla fine tanto riconoscibile quanto monocorde, i Clara si sono invece caratterizzati per uno sguardo maturo e malinconico, brillantemente disincantato e insieme elegante o elegantemente ironico (come ne “Gli acrobati“, quando la voce di De Min canta «Anna è convinta che nessuno la descriva meglio di me / Tra le lettere scritte a Firenze pensando a te»).

L’approccio alla scrittura di Fabio De Min – che confessa di passare più tempo a leggere di quanto ne passi ad ascoltare musica – è quello di un dosatore, lontano dalla loquacità che ha caratterizzato la musica italiana degli ultimi anni (una musica che si è mostrata logorroica e ridondante, con tante uscite che si somigliano tutte e che parlano tutte della stessa cosa e lo fanno tutte nello stesso modo). Ascoltare “La mareggiata del ’66“, “Lo Zio“, “Gli acrobati“, “Gli Amori di Gioventù“, ad esempio, per averne conferma.

Il 28 febbraio di quest’anno, dopo un lungo silenzio, il gruppo ha pubblicato Superspleen vol.1, quarto album in studio anticipato da due singoli (“La Croazia” e “Superspleen“) e a breve partirà per un tour nazionale. Ho avuto il piacere di fare qualche domanda a Fabio, ed ecco qui riportata l’intervista.

Vorrei iniziare chiedendoti questo: sono passati più di sei anni dalla vostra ultima apparizione (gennaio 2014). Cosa hai notato, nell’evoluzione della musica italiana, da allora a oggi, e come pensi si rapporti al cambiamento – se c’è stato ed è stato evidente – che ha invece affrontato la musica internazionale? Bada bene: so che, così facendo, prendo in considerazione un concetto molto “astratto” (quello cioè della musica internazionale, da intendersi letteralmente come di ogni Paese al di là dell’Italia) senza tener conto dei diversi generi. Ma ecco, mi spiego meglio: se ogni epoca risulta oggi più o meno riconoscibile per un certo tipo di musica, a quale tipo credi verranno ricondotti gli anni Dieci? E quale pensi sia stata, la posizione della scena italiana, in relazione a questo aspetto? Di partecipazione a un movimento più ampio, o invece eccentrica, o (…)?

Temo di non avere uno sguardo così critico sulla musica da permettermi di risponderti in maniera puntuale, e allo stesso tempo credo che ognuno abbia un proprio tempo, una propria età in cui stabilisce con la musica un rapporto speciale. Il mio risale ormai a qualche anno fa, quando ho cominciato a scrivere e suonare, e oggi mi risulta più difficile stabilire quel tipo di coinvolgimento con la musica che sento. Come musicista ho sempre guardato a ciò che arrivava da fuori, ho sempre pensato che rifarsi alla tradizione cantautorale italiana avesse per me poco senso: scrivo e canto in italiano, appartengo già a quella cosa quindi meglio prendere spunto altrove.

Eppure i Non Voglio Che Clara sono da molti indicati come raccoglitori proprio di quella tradizione, e spesso siete stati accostati a nomi importanti della nostra musica. In un articolo più recente, invece, ho letto chi vi considera figli di Bianconi e del baustellismo [personalmente sono poco d’accordo, ma non importa, ndr]. Al di là delle influenze, esistono artisti, non necessariamente italiani né contemporanei, con cui trovate maggiori punti di contatto – in cui, se si può dire, riuscite a “risentire” un po’ del vostro stile?

Non sono d’accordo nemmeno io, però se devo indicare una scrittura a me affine penso proprio a Bianconi. Solo che lui è più bravo. Non mi dispiace l’accostamento ai Baustelle, ai Perturbazione, a gente che in primis prova a fare della musica e non un prodotto usa e getta buono solo per le radio. Rimanendo in Italia mi piacciono da sempre i Bachi da Pietra, ho amato Aurora de I Cani.

Nel brano omonimo della vostra ultima uscita, fate riferimenti a Baudelaire e Whitman, ma non è la prima volta che i tuoi testi rimandano alla letteratura. Penso per esempio a Il complotto, in cui appare il nome di Bukowski; ma, sempre per restare nell’ultimo disco, cantate che “la vita è altrove”, chiara citazione a quel romanzo di Kundera. Che rapporto hai con la letteratura? Quali sono le opere che hanno maggiormente influenzato la tua scrittura e il tuo pensiero?

Ho un rapporto continuo, ancor più che con i dischi. Nei Clara potresti sentire Saul Bellow, Heinrich Boll, Mario Soldati, ma credo che l’influenza non si possa ridurre a pochi nomi. Va detto che con l’ultimo disco ho cercato di cambiare l’approccio ai testi, trovando una via più funzionale alla musica e meno ispirata alla prosa.

Restiamo sui testi, allora. C’è un verso, nella tua produzione, a cui ti senti particolarmente legato?

No, piuttosto ce ne sono almeno un paio che odio e che se potessi vorrei cancellare, momenti di cui non vado fiero. Non ti dirò quali però.

Comprensibilmente. Esiste, invece, qualcosa di cui avresti voluto cantare, ma che non sei riuscito, per un motivo o per l’altro, a mettere in musica?

A livello di temi, intendi? No, non mi pongo mai un obbiettivo, scrivo partendo sempre da suggestioni esterne. Se invece parli di produzione, uno dei miei sogni è di andare in studio con i Clara e registrare tutto “Oh Era Ora” di Pappalardo.

Mi riferivo, magari, a un’immagine che avevi elaborato, o anche a un’esperienza di vita, che però non sei riuscito ad adattare alla musica.

Direi di no. Però il mio approccio è un po’ diverso, non è che mi succede una cosa e decido che devo farci una canzone. Non è un meccanismo che mi appartiene. Ad esempio, non scrivo mai quando sono triste.

Immagino che ne avrai a decine, come tanti di noi. Ma fra tutti, qual è quel testo che più degli altri ti fa pensare: “avrei voluto scriverlo io”? Non necessariamente italiano, s’intende.

Be’, ce ne sono così tante che non saprei da dove cominciare. Le cose che più mi hanno colpito in tempi recenti sono le canzoni firmate da Mike Cooley nei Drive-by Truckers, penso che ad esempio Filthy And Fried, oltre ad essere una canzone meravigliosa, abbia davvero un testo magnifico.

Prima hai detto di aver modificato l’approccio ai testi per questo nuovo album, allontanandoti dalla prosa e provando ad adattarti meglio alla musica. A questo punto ti chiedo: hai mai pensato di scrivere narrativa? Non necessariamente un romanzo, ma anche solo qualche racconto.

È capitato in passato, all’interno di una raccolta di racconti di vari autori pubblicata dalla Minimum Fax e intitolata Cosa Volete Sentire. Sì, ci ho pensato, ma temo di non avere la costanza né la forza di volontà di scrivere sulla lunga distanza. Non credo nemmeno di avere chissà che cosa di interessante da dire. Intendo che per scrivere romanzi uno dovrebbe in prima battuta essere bravo a immaginare storie, avere la capacità di invenzione. Io non ce l’ho.

Ho letto che sei un amante del black metal, genere che consideri – mi pare – il tuo preferito in assoluto. A proposito di quello che ti piacerebbe fare un giorno: pensi mai di produrre qualcosa di quel genere, magari con una formazione diversa da quella dei Clara?

Mi riferivo al death metal, in realtà, anche se amo molte cose del black. No, non credo succederà mai che io mi cimenti con uno dei due generi. Ascoltare death o black mi permette di ascoltare musica senza pensare: “Oh, potrei inserire una cosa simile in quel pezzo”. Mi permette di essere solo un ascoltatore e non un musicista.

Quindi il tuo essere musicista ha cambiato il tuo modo di ascoltare la musica. Ti ha reso più esigente, e quindi selettivo, oppure al contrario ha allargato i tuoi orizzonti perché ti ha permesso di apprezzare qualcosa che, da fuori, non avevi avuto modo di apprezzare appieno?

Credo che le cose siano in gran parte separate. Ho cominciato a scrivere spinto dall’amore che provavo per certi dischi, ma poi ho trovato subito in mio modo personale, direi più intimo, di confrontarmi con la parte creativa. Il processo emulativo non mi è mai appartenuto, mi sono sempre affidato all’istinto. Piuttosto, scrivendo ho finito con l’ascoltare altra musica, è un po’ come praticare uno sport diverso.

Non mi riferivo a un eventuale processo emulativo, che in realtà non prendo mai in considerazione se penso con stima a un artista (semmai, appunto, ci sono le influenze, ma è un discorso diverso).
Intendevo appunto dire: fare musica ha cambiato anche il modo di ascoltarla. Ma questo ti ha allontanato da alcuni artisti, o perfino generi, perché te ne ha svelato le debolezze, oppure ti ha semplicemente “arricchito”, nel senso che ti ha portato ad apprezzare qualcosa che, da semplice ascoltatore, non avevi per così dire compreso appieno (nel processo di realizzazione, per esempio)?

Mi sono spiegato male anch’io. Intendevo dire che le due cose hanno seguito percorsi diversi: da un lato scrivo e mi confronto con la scrittura, dall’altro gli ascolti hanno seguito un proprio percorso scevro da implicazioni tecniche. Cerco di ascoltare musica senza farmi troppe domande di carattere teorico o tecnico, l’ascolto e basta. Poi è probabile che io riesca a riprodurre o trascrivere la maggior parte della musica che ascolto, ma cerco di non pensarci. Questo mi ha sicuramente portato ad ascolti più “esotici”, ma non valuto la musica che ascolto su basi tecniche o teoriche.

Avete già spiegato che il nome del vostro gruppo significa “Voglio Clara e nient’altro”, anche se, leggevo, in origine si riferiva a una frase di un libro di Pennac, cioè “Non voglio che Clara si sposi”, e in questo caso la troncatura della frase mi sembra una trovata capace di rendere il nome molto suggestivo. Ma Clara è esistita davvero per te?

No, era una suggestione e nulla più. In origine era proprio Non voglio che Clara si sposi. Ma era troppo lungo, e così l’abbiamo accorciato.

Abbiamo parlato di letteratura e, ovviamente, di musica. Sei anche un amante di Cinema? Quali sono i tuoi autori?

Sì, mi piace, anche se non lo seguo più molto. Billy Wilder, Woody Allen e Michael Haneke sono i miei monografici, quelli di cui ho cercato di vedere tutto.

Come vivi i giorni successivi all’uscita di un nuovo album? Mi riferisco soprattutto a quest’ultimo, che arriva dopo diversi anni di silenzio e dopo che il vostro nome è cresciuto.

Abbiamo mille cose da fare: la promozione, la preparazione del tour, e poi stiamo lavorando al materiale per il secondo volume e alle ristampe dei lavori fuori catalogo. Insomma, il lavoro non è finito, ci attendono mesi piuttosto impegnativi, ma siamo contenti.

Puoi provare a spiegarci come nascono le vostre canzoni – e se il tuo nuovo approccio alla scrittura ha cambiato anche la costruzione dei pezzi per l’intero collettivo?

Ogni disco ha richiesto un processo diverso. Per Superspleen abbiamo scelto un lotto di canzoni fra quelle che avevo a disposizione, siamo stati in sala per un po’ a provare delle cose, poi ognuno di noi ha lavorato in autonomia sui brani. Alla fine abbiamo messo tutto insieme e affidato il mix a un produttore di fama come Fabio Trentini. Ci serviva uno sguardo esterno e competente, e Fabio è riuscito a cogliere le intenzioni della band mettendo ordine alle nostre sessioni. Il suo è stato un contributo davvero importante.

Hai confessato prima di avere dei momenti di cui non vai fiero, ma immagino si tratti di casi isolati. In generale, da Hotel Tivoli a Superspleen, come valuti il percorso dei Non Voglio Che Clara? Pensi che siate effettivamente giunti a una maturazione, avvicinandovi a una forma “ideale”? O preferisci considerare ognuno dei quattro dischi in autonomia, anziché opera unica all’interno della quale individuare una possibile evoluzione?

Innanzitutto la formazione è cambiata per 3/4 rispetto ai primi due lavori. Dei Cani è lo spartiacque fra la prima formazione dei Non Voglio Che Clara e quella attuale. Se dovessi parlare di un percorso, questo parte da Dei Cani, e dieci anni di musica con l’attuale formazione sono certamente un percorso, sia artistico che umano. Ho sempre scritto canzoni, poi le abbiamo raccolte solo ogni 4 o 5 anni, ma non fa differenza per me, molto semplicemente col passare del tempo cambia l’approccio alla scrittura, si cambia come persone, si migliora (si spera) come musicisti. È questo che fa sì che Hotel Tivoli suoni profondamente diverso da Superspleen.

Chiudiamo con un paio di domande sul futuro.
Hai mai sognato una collaborazione internazionale? Dovendo fantasticare, con quali artisti internazionali, che magari consideri un po’ affini a voi, ti piacerebbe poter realizzare della musica?

Penso più che altro a dei produttori, per esempio a un Dave Fridmann. Sarei davvero curioso di vederlo all’opera.

In un verso di Superspleen dici che non sai quando smetterai di cantare. Mi viene in mente quella celebre frase di Mick Jagger, poi ampiamente smentita. Naturalmente tu sei ancora giovane, ma pensi che gli artisti musicali, più degli altri (scrittori, registi, attori, fotografi, e così via) siano soggetti, tendenzialmente, ad avere una carriera più breve, proprio perché ne risentirebbero le performance?

Non credo. Canto molto meglio oggi di quando ero ventenne, per cui credo che la performance conti poco. Piuttosto magari è la noia a prendere il sopravvento, il fatto di non divertirsi più a fare una certa cosa.

Difficile dire l’amore

Dopo sei anni dall’edizione francese, esce in Italia Malintesi (Quodlibet, 2019) di Bertrand Leclair, drammaturgo e critico letterario. Nato incapace di udire, Julien (come l’Apostata senza battesimo) prova a emanciparsi dall’ingombrante padre Yves, la cui voce si sovrappone a quella dell’autore – padre di una figlia sorda – che con forza invettiva tenta attraverso la scrittura di sostenere il trauma dello scherzo della «lotteria genetica».

Fino all’ultimo si ha l’impressione che i nodi non siano sciolti: le pagine sono piene di punti di sospensione, che traghettano dalla storia della famiglia Laporte a un excursus sulla “cultura della differenza” della Francia degli anni Settanta. Sono tutti arrabbiati e, con la complicità di una moglie remissiva, il padre Yves non riesce a comprendere Julien e segue le regole sancite da manuali e prassi in seguito al Congresso di Milano: il ragazzo è costretto a rinunciare alla lingua dei segni per demutizzarsi.

Quello dell’accessibilità delle relazioni sociali è un tema ancora attuale: la tentazione di rieducare i figli a sforzarsi di parlare, per tramandare le “pietre preziose ancestrali” del Verbo, può aprire una riflessione più generale su genitori e figli. Alcuni genitori oggi osservano i figli come depositari dei codici di nuove tecnologie e dispositivi, di linguaggi più gestuali che verbali, talvolta frutto di un processo di disapprendimento.

Invece di denunciarne i tic e di accanirsi a favore del logos, i padri affidano alla prole il fardello del futuro. Ma come per Yves Laporte, che non a caso conosce la moglie lavorando nella tipografia del suocero, è «difficile dire l’amore» e le cose in comune, in qualsiasi lingua. L’affettività è sempre mediata da oggetti ma ci sono solo pochi mobili a suggerire la casa in cui il padre perde e ritrova i suoi appunti disseminati in piccoli quaderni rossi, di rabbia e amore.

Si scioglie in poche righe tutto questo amore, quando ormai ci si sente affaticati dalle parole dell’autore, e non è vano aver tentato di andare oltre la luce artificiale e ovattata della casa borghese dei Laporte. Tutti vivono chiusi finché Julien non scappa. «A immagine di cosa sono nato?»: la domanda non ci consegna tanto il problema del «nascere a immagine del creatore» ma quello di capire come mettere al mondo qualcosa con l’intelligenza del cuore, che sa travalicare le generazioni.

Tornerà Julien? Avrà costruito «un mondo in cui si pensa con le mani»? La lingua dei segni è energica perché immersa «in un mondo di un’alterità radicale». Attraverso la sorella di Julien, la passione contro una società razzista permette ai personaggi del romanzo e a tutti noi di superare il dramma di non essere compresi riformulando la domanda da perché e come parliamo con quella: per chi parliamo?

 

(Bertrand Leclair, Malintesi, Quodlibet, 2019, trad. di Marco Lapenna, 176 pp., euro 16, articolo di Martina Pietropaoli)

Dente e il suo album meno Dente di sempre

Dente che prova un restyling dopo i fatti di Calcutta è l’ennesimo segnale di cosa sia successo in Italia se parliamo di musica. Il suo nuovo Dente lo testimonia, anche se prende una strada che non ha propriamente i connotati di quel mostro dell’itpop che ora sta facendo i conti con il tempo che passa. Si accoda più a un nuovo registro autorale, anch’esso influenzato necessariamente da quanto accaduto negli ultimi anni, che vede protagonisti Brunori Sas in primis e, ultimamente, Bugo.

Allora, Dente c’è sempre. Non siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione. La questione è che ora cerchiamo di parlare di Dente sapendo cosa fosse prima e di come gli ultimi cinque anni – se non di più – ne abbiano trasformato la percezione. A un certo punto ci si è ritrovati a pensarlo come una cosa vecchia. Anche Canzoni per metà, il suo ultimo album prima di questo, è passato come se qualcuno avesse sussurrato qualcosa durante una bufera. Eravamo agli albori dell’itpop, Mainstream si era appena abbattuto sulle nostre vite.

Il cambiamento parte dalle parole e dal loro uso: meno calembour, meno giochi di parole, quelli lasciamoli all’universo rap/trap o a quell’ibrido dei Coma Cose. Il pop, ora, non ne ha bisogno. Con Dente ci si prende più sul serio. Musicalmente, d’altra parte, viene seguita la direzione di un cantautorato definibile come più alto rispetto all’universo itpop.

C’è dietro sicuramente l’aspetto storico/anagrafico: se Dente avesse ceduto di fronte alle lusinghe del deforme proselitismo di Calcutta, probabilmente parleremmo di un album senza né capo né coda, furbo, freddo. Senza identità ed essenzialmente triste. Si accoda dunque al Brunori di Cip!, che mira in alto, e alla scrittura nevrotica di Bugo. Dente ci si tuffa dentro con la calma della sua voce e ci mette in più qualche colpo alla I Cani, accenni di synth che sembrano usciti direttamente dalle sinapsi di Contessa.

Si dice spesso che Dente sia stato un po’ l’itpop ante litteram, e la cosa può essere vera a metà. Quello che faceva lui, agli esordi, era qualcosa che usciva fuori sicuramente per la sua originalità nel tocco della voce e per quelle sue poesie fatte di immagini che si piegavano e ripiegavano su loro stesse e andavano a formare una grammatica di immagini che ti lasciava in faccia un sorriso sghembo e pieno di dolcezza.  Ma Dente era inserito in un mondo in cui esistevano ancora i richiami di un’entità che poteva dirsi indipendente. È allo stesso tempo vero che chi è venuto dopo deve molto a lui, perché ha saputo incanalare nelle sue canzoni un certo fare naïf e un disimpegno di cui poi, però, si è abusato. In Dente c’era forte identità, c’era unicità.

Dente è uscito su per giù nello stesso periodo di Brunori Sas, ma se il cantautore calabrese ha iniziato a scalare quella piramide impervia che porta alla notorietà, con programmi tv, interviste in tv e dischi esposti tra i più venduti alla Feltrinelli, lui si è piano piano eclissato, diventato poco più che un ricordo. “Ah, te lo ricordi Dente?” ci siamo detti probabilmente più volte di quanto crediamo.

Che peccato. Lo guardavi in questi anni sui vari social e vedevi come racimolasse una manciata di Like sotto i suoi post. È un metro di giudizio orribile, certo, ma rende più chiara la questione: l’itpop e le creature di Zuckerberg hanno inghiottito e sputato via Dente come un frutto marcio e questo ha influito su come noi pensiamo a Dente. Non rientrava negli stilemi contemporanei, era troppo lontano da tutto, troppo vicino a sé in un presente che non aveva più bisogno di lui.

Ma poi sono stati proprio loro, i social e i loro paradossi inquietanti, a ricreargli un po’ di attenzione attorno. Un po’ alla volta una comunicazione sempre più frequente, fino all’annuncio che Dente sarebbe tornato a produrre un album: la cosa ha reso il suo nuovo album come un argomento che appartenesse a questi tempi. Che fosse qui, ora.

Dente è sempre piacevole da ascoltare. Ce l’ha fatta a reinventarsi, senza scendere a compromessi eccessivi, cercando solo di captare le regole del presente e scrivendole nella maniera più consona e personale possibile. Sembra cresciuto, lasciando intatta la capacità di scrittura che lo ha sempre contraddistinto. Oggi ci godiamo un album leggero che scivola via senza intoppi.

Cose dell’altro mondo” è il pezzo che più rappresenta Dente. Un lavoro sincero e diretto, che ci fa capire dove vuole andare un ramo del cantautorato, ma soprattutto che Dente non è solo un ricordo.