Poster italiano di Soldado su Flanerí

Perdersi lungo il confine

Tre anni fa, Sicario aveva contribuito a confermare Denis Villeneuve come uno dei registi più importanti nel nuovo panorama di Hollywood. La capacità di cambiare genere del regista canadese trovava con questo western di frontiera un nuovo linguaggio con cui declinarsi: la violenza. Sicario era un film a suo modo perfetto, carico di tensione, complessità psicologica e di scene destinate a diventare memorabili (la sparatoria al casello; il raid con i visori notturni). C’era bisogno di un seguito? Assolutamente no. Eppure, tre anni dopo eccoci qui a parlare di Soldado, un film che parte da premesse allo stesso tempo uguali e diverse, senza riuscire a reggere il confronto con il predecessore.

È cambiato molto tra i due film. La protagonista femminile non c’è più, ci sono meno Stati Uniti e più Messico e, soprattutto per l’Italia, c’è un nuovo regista dietro la macchina da presa: Stefano Sollima. La carriera da regista criminale  del figlio di Sandokan (suo padre Sergio ha diretto quasi tutti i film con Kabir Bedi tratti da Salgari) ha fatto il salto oltreoceano dopo la Magliana con relativa banda, la Napoli di Saviano e le varie mafie di Roma Capitale. Un’affermazione importante per uno dei pochi registi italiani – forse l’unico – davvero capace di fare cinema di genere ad alto livello.

Soldado sostituisce la droga con il traffico di esseri umani. Lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, i cartelli fanno passare migranti, ormai molto più redditizi della cocaina. Dopo una serie di attentati suicidi di matrice islamica, con i kamikaze che si pensa siano arrivati in Nord America attraverso il confine, il presidente degli Stati Uniti decide che bisogna fare qualcosa e che va fatto direttamente in Messico. Viene chiamato Matt Graver, l’agente CIA interpretato da Josh Brolin già visto in Sicario, con il compito di scatenare una guerra oltre confine per indebolire le organizzazioni criminali. Graver organizza un piano con Alejandro Gillick (Benicio Del Toro), che vuole vendicarsi con i cartelli per aver sterminato la sua famiglia, per rapire la figlia del capo di uno dei cartelli più importanti.

È cambiato il regista, manca la protagonista, ma lo sceneggiatore è lo stesso, quel Taylor Sheridan che da qualche anno si sta affermando come uno degli scrittori più interessanti di Hollywood, nel solco di Cormac McCarthy. Dovrebbe essere una garanzia, e invece è proprio nel copione che Soldado ha la sua maggiore debolezza, soprattutto quando si azzarda un confronto con il primo film.

In Sicario, Emily Blunt interpreta l’unico personaggio normale in un mondo di violenza estrema. Da semplice agente dell’FBI, con un’esperienza non trascurabile sul campo, si ritrova proiettata in una realtà completamente diversa in cui il confine tra legalità e crimine è invisibile. I servizi segreti non sono diversi dai cartelli del narcotraffico, i buoni, in sintesi, non si distinguono dai cattivi. In Soldado questo punto di vista innocente sparisce. Senza Emily Blunt resta solo l’arbitrio delle dinamiche criminali. Non sembra più esserci un elemento morale esterno, non c’è uno sguardo altro che si domandi perché.

La rimozione della normalità lascia Gillick e la sua ossessione di vendetta al centro di tutto. Non c’è più ambiguità, le sfumature si disperdono. Gli sviluppi della trama sono affidati a svolte prevedibili – il rapporto che Alejandro sviluppa con la bambina sequestrata –, deboli o inverosimili – non diciamo nulla per non anticipare la visione.

Sheridan sembra essersi limitato a replicare e amplificare le formule più semplici che avevano contribuito al successo di Sicario tralasciando i livelli superiori di lettura. Ne esce fuori un film privo della stessa forza e incapace di offrire qualcosa di più oltre all’azione pura e semplice. Se non altro, Sollima si conferma, anche alle prese con il cinema statunitense, un regista di livello alto.

 

(Soldado, di Stefano Sollima, 2018, azione, 124’)

 

Figura metamorfica che apre l’avventura infinita dell’immaginario: la sirena

La necessità di questo affascinante volume: Atlante delle sirene. Viaggio sentimentale tra le creature che ci incantano da millenni (il Saggiatore, 2017) nasce dall’intuizione della sua autrice, Agnese Grieco, che reputa il discorso intorno alla figura metamorfica per eccellenza – la sirena – oggi di estrema attualità e insieme, paradossalmente, di sconcertante solitudine. Attuale in quanto presenza ineludibile fortemente radicata nell’immaginario collettivo; isolata perché frammentata in scomposte rappresentazioni di sé, alcune volte agli antipodi l’una con l’altra e trascinate alla deriva del casuale. Da qui allora il libro come viaggio in cui ogni capitolo è un’isola, «un lavoro di montaggio che si nutre del piacere di giustapporre voci immagini testi, di metterli a confronto, di farli dialogare, di contaminarli, se mai», tessendo e ritessendo un fil rouge che unisca intelletto ed emozioni nell’ascolto di questa variegata molteplicità.

Voce dell’alterità, spazio del desiderio, seducente incarnazione del male quanto, all’opposto, figura zoologica esclusa dall’universo del fantastico, Grieco ci mostra anzitutto come quella delle sirene sia la storia millenaria di un’ambiguità irrisolta, della contrapposizione – o piuttosto compresenza – di due principali significati antitetici che se ne contendono la legittimità: da una parte il mito, la favola, la leggenda, l’oscuro incantamento, la porta che si apre su una realtà immaginifica, con la sua non insincera e tuttavia impossibile promessa di totalità. Dall’altra il logos razionale che, soprattutto a partire dalla Geografia fisica di Kant (1807), spiana la strada al dibattito che da lì in poi ne farà concreto oggetto di speculazione scientifica. Sirena non più dunque come forza perturbante ambivalente e pericolosa, quanto piuttosto semplice animale, abbaglio dei poeti in cui l’incredibile e il meraviglioso viene ricondotto dal pensiero moderno al mondo circoscritto della storia e del possibile. Nondimeno, questa lettura interpretativa non si affermerà mai in una sintesi capace di sovrapporsi all’altra, eclissandola.

Infatti, seppure nella successiva Dialettica dell’illuminismo (1947) di Horkheimer e Adorno la detronizzazione dei miti e il trionfo della logica prendono definitivamente le distanze dalle sirene come potenze dell’inquietudine e dell’altro da sé, proponendo Ulisse quale modello di razionalità intenzionale, non riescono a scalzarne del tutto la magia e l’eco dell’ipnotica voce. Perché, di fatto, l’eroe di Omero si fa legare all’albero maestro ma vuole disperatamente ascoltarne il canto, rifiutando di tapparsi le orecchie con la cera, proprio per l’interiore consapevolezza di non essere in grado di resistervi, allo stesso modo di come non sappiamo sfuggirvi noi oggi, ancora e sempre attratti irrefrenabilmente dal rimbalzare, nelle più svariate forme della modernità – libri, film, fumetti, fiction televisive, canzoni, spettacoli teatrali, performance artistiche – dell’oscuro magnetismo di quel richiamo ancestrale.

Inattuabile insomma una perfetta quadratura del cerchio, una selezione rigorosa che delegittimi uno dei due punti di vista a favore dell’altro. Le sirene continuano a tutt’oggi nell’inalterata dicotomia del porsi ad uno stesso tempo dentro e fuori di noi, vivendo sia come interrogativo esistenziale, richiamo dal profondo, tensione del trascendente, tanto quanto fenomeno naturale spiegabile con gli strumenti della scienza, perciò in sostanza riconducibile ad una visione della realtà tangibile e antropocentrica, come già dal 1842 si era andata affermando a New York, nell’imponente edificio del Barnum’s American Museum, una sorta di modernissimo incrocio tra circo dei freak, zoo tradizionale e gabinetto delle cere, dove all’avida curiosità della folla di spettatori era offerto l’incredibile spettacolo di un’autentica mummia di sirena.

Istituzione capitalistica e democratica nel segno di un’educazione progressista delle masse (naturalmente secondo l’idea che se ne aveva all’epoca) il circo Barnum unisce uno sguardo positivista, scientifico sulle anomalie della natura e le più varie stravaganze etnologiche, all’interesse viscerale dimostrato dall’oceanico afflusso di pubblico per la realtà irreale, il confine tra umano e non, il fantastico e il meraviglioso che continuano a sfuggire alle strette maglie dell’interpretazione razionale, ponendosi come inspiegabile alterità rispetto al mondo della storia e alle sue leggi.

A questo proposito, seguendo la mappatura delle pagine dell’Atlante ritroviamo la sirena, nel Doktor Faustus di Thomas Mann (1947) riportata alla sua origine di creatura mostruosa e immaginifica, antica figura eretica, ambigua, demoniaca e insieme naturale, assetata tanto di piaceri fini a se stessi quanto, forse, di salvezza e tensione spirituale, ad un medesimo tempo incarnazione e chiave di una possibile spiegazione del mondo. Lei, Grieco, ci ricorda anche come, nelle varie interpretazioni teatrali dell’Ondina di Jean Giraudoux che si sono svolte nella seconda metà del Novecento, la sirena desideri ardentemente un’anima, eppure tema il passaggio dalla dimensione universale del suo essere una creatura senza senso di colpa, innocentemente crudele, all’imperfetta condizione di diventare un vero essere umano, cioè di avere coscienza del peccato senza però riuscire ad affrancarsene. Rispetto a ciò oggi, nel ventunesimo secolo, in cui l’invadenza della scienza e della tecnica fanno addirittura parlare di fine dell’umanesimo, se e in quale modo lei crede che la natura multipla e contraddittoria della sirena possa continuare a porci l’interrogativo per cui l’anima sia davvero desiderabile?

Tra gli altri è Oscar Wilde a raccontarci come l’anima non sia di per sé garanzia di bontà, redenzione e capacità di amare. Al contrario. La sua sirena innamorata del pescatore è sincera e fedele, l’anima del pescatore invece è in qualche modo coinvolta, se non decisamente corrotta, dai valori del mondo. L’amore e la dedizione sirenica per l’altro sfuggono sempre alle regole sociali, ad un’etica addomesticata, alle codificazioni dei rapporti, quindi anche alle declinazioni convenzionali della dialettica di maschile e femminile (vedi la regola matrimoniale) tanto quanto il classico ritmo della seduzione. La sirena/ondina mette in crisi l’identità sociale, e di potere, del rapporto di desiderio; ne incarna gli aspetti oscuri, trascendenti, erotici e al tempo stesso sapienziali. Apre l’avventura infinita dell’immaginario e la discesa negli abissi interiori. Ce lo racconta perfino Cicerone, che difende con passione l’immagine della sirena. La Chiesa, invece, non ha mai amato le sirene, salvo abbellire poi le pareti della casa di Dio con armoniose donne pesce ornamentali. Ne ha fatto delle meretrici o addirittura le ha rese figura del pensiero eretico. E si tratta di quella stessa Chiesa che, salvo discorsi teologici alternativi e radicali come il verbo di Francesco, non ha avuto mai un rapporto facile con l’animale. Col che arriviamo a toccare un nodo decisamente interessante. Tanto che nel mio Atlante comincio il viaggio partendo da un testo inquietante come L’iguana di Anna Maria Ortese.

La sirena, priva d’anima, a partire dal suo passato mitologico, viene a interrogarci di nuovo sul nostro rapporto con l’animale e la natura tutta. Lei fa se mai parte dell’anima del mondo. È figura che testimonia contro il principio di individuazione. Attenzione, però: questo non significa che la sirena semplicemente si opponga alla scienza. Questa sarebbe una conclusione banale. Nessuna traccia di oscurantismo pesa sulle ben modellate spalle delle sirene. Anzi, nel mio libro mi diverto a raccontare come, nello sviluppo della cosiddetta visione moderna del mondo, la sirena stia alla fine dalla parte giusta: ossia collabori attivamente, sotto forma di esperimento mentale e oggetto di osservazione scientifica, alla costruzione delle teorie evoluzioniste. Nel suo fungere da particolare specchio, nel suo dialogare con gli scienziati e gli esploratori del nuovo mondo, rivela come queste teorie siano costrutti umani faticosamente raggiunti. Ironico paradosso, per una creatura che vive dell’immaginario. I nomi che ha lasciato nelle tassonomie zoologiche o le immagini che ha regalato a bestiari “scientifici” medioevali o più tardi trattati di anatomia, sono polvere di stelle, doni di una creatura di un altro mondo. Scientismo e tecnologia non sono in grado di uccidere le sirene, del resto non sanno dove cercarle davvero. Piuttosto è stata proprio un’arte altamente tecnologica come il cinema che le ha accolte a braccia aperte.

Infatti nel mondo contemporaneo l’iconografia della sirena ha trovato ampio spazio nell’industria dell’intrattenimento riservata ai bambini, sia pure spesso in direzione di un’interpretazione censoria e rassicurante. Ad esempio – rispetto al finale amaro della versione originale della celeberrima favola La sirenetta di Andersen (1837), in cui la protagonista muore e per conquistare l’anima e la conseguente immortalità deve vagare sulla terra per trecento anni compiendo azioni buone – lei Grieco osserva come, centocinquant’anni dopo, la versione cinematografica in disegni animati della Disney (1990) vi sostituisca un happy end con il principe innamorato che si ricongiunge alla Sirenetta, che riacquista addirittura la voce. Non si può negare quanto questo stravolgimento di senso, almeno a giudicare dallo straordinario successo di botteghino, sia uno specchio dei tempi. A tal proposito in che misura e in quale direzione negli ultimi vent’anni, dal duemila in poi, si è andato evolvendo il rapporto tra la figura della sirena e l’immaginario collettivo, soprattutto tra i più giovani?

La versione che Disney dà della fiaba di Andersen è estremamente interessante, proprio per gli “stravolgimenti” drammaturgici che opera. Non va inoltre dimenticato che esiste un’ampia e controversa lettura femminista e queer di questo cartone animato, dichiaratamente “per bambini”. È del resto un peccato che Sophia Coppola, alla fine, non abbia girato la sua versione cinematografica della fiaba di Andersen, come era in programma. Date le premesse, si poteva pensare ad una lettura che avrebbe fatto discutere. Ad ogni modo, come accennavo prima, nel cinema la sirena è entrata fin dall’inizio dalla porta principale. Nessuno l’ha giudicata o sottoposta a censura, al contrario, in quanto freak particolarmente bello e seduttivo si è aggiudicata subito un posto d’onore. E non è certo un caso che spesso si sia trattato di commedie, raffinate o meno.

A questo livello le sirene veicolano con leggerezza un messaggio di inclusione dell’altro, di accettazione del diverso. Messaggio potente e necessario. Oggi più che mai. Innamorarsi di una sirena significa sempre uscire dalla ristretta definizione del proprio sé. Significa mettere in crisi sicurezze condivise. Vedendo certe sirene al cinema mi sembra di risentire in lontananza la frase con cui Billy Wilder conclude il suo geniale A qualcuno piace caldo: «Nessuno è perfetto». E mi piace pensare che sia soprattutto questo, e non la banalizzazione delle sirene vittime di fake news o usate nella pubblicità dei più diversi prodotti, il messaggio con cui le sirene facciano breccia nell’immaginario dei più giovani. La sirena mette in crisi le identità forti. È transgender, non ha nazionalità, non è banalmente femminista, non è mai ideologica, piuttosto è metamorfica e non crede ai confini.

La sirena è per antonomasia figura di limes, e la sua disamina in quanto mera curiosità naturale sottratta all’orizzonte del mito e alle pagine dei poeti – in sostanza divenuta nel tempo prosaico e concreto oggetto d’osservazione scientifica – come lei osserva non può non portare alla conseguenza di indagare il confine preciso tra animale e uomo, situata com’è sullo scivoloso crinale che separa le creature zoomorfe dall’essere umano, con tutte le implicazioni etiche, filosofiche e religiose del caso. Oggi che il limite tra ogni categoria di giudizio è più che mai incerto e fluttuante, e ad esempio la stessa distinzione tra i sessi sfuma i suoi contorni in cerca di nuove e più confacenti definizioni, secondo lei la metamorfica sirena in bilico tra elementi e generi può rappresentare lo specchio di questa ricerca, oppure la sua stessa inafferrabilità la pone maggiormente come angelo, demone o bizzarria, cioè a dire creatura asessuata?

Diciamo che nelle menti poetiche, nei testi, nei quadri, così come nel mistero quotidiano della voce e nel canto, il confine tra animale e uomo, o meglio natura e umano è da sempre fluido, poroso, indefinito. Nel mio testo mi fermo ampiamente ad indagare e descrivere da vari punti di vista la qualità della voce delle sirene, secondo quanto narrato in testi classici e moderni. Già nell’uso degli aggettivi il confine tra i regni scompare, la voce della sirena è voce naturale, non specificatamente umana. Nel capitolo Nascoste in palcoscenico scrivo: «Inumanità, sovrumanità di ogni canto. Il suono della voce. Suono, canto, che si forma nella gola, nell’organo fonetico. Dentro di noi. Canto naturale. Corporeo. Corde vocali, laringe, faringe, glottide, lingua, palato, labbra, polmoni. Il corpo tutto. Corde vocali come ance naturali, tessuti, mucose. Respiro. Diaframma. Il paesaggio del nostro corpo sonoro. L’orecchio conchiglia. La voce ci riconduce al corpo, ci guida dentro di esso. È giovane, invecchia. Nel corpo si arrochisce, schiarisce. E la voce attraversa il mondo naturale. Con le sue di voci. Il canto riporta comunque al corpo e alla natura. E la natura al canto». Con questa descrizione, e con il suo ritmo, vorrei portare chi legge a percepire il superamento dei confini tra regni. Il corpo è natura e nella dimensione della voce e della musica, così centrale nella figura della sirena, la natura emerge potentemente come corpo vivente e sonoro.

Date tali premesse credo sia chiaro che la ricerca di una definizione univoca di genere sessuale, per la sirena, non sia un problema centrale nel mio Atlante. Il femminile sirenico non va comunque appiattito sul genere sessuale femminile. Per gli antichi greci esistevano del resto anche sirene maschio. Il mondo di Afrodite non è il migliore paesaggio per garantire la sopravvivenza delle sirene. Mai donne materne in senso tradizionale, mai donne/spose a costruire famiglie e dinastie. Asessuale, ermafroditico, gay, transgender, il corpo sirenico è da sempre cangiante terreno di coltura per l’immaginario. Le sirene sono state mostri teratomorfi simili alle arpie, alate creature con viso di fanciulla, contemporaneamente lasciano l’etere e il cielo per vivere nell’acqua da donne/pesce. La sessualizzazione della sirena è uno degli sguardi possibili (maschile?). Una delle sue narrazioni. Nemmeno la più interessante. Magritte si diverte a provocare in questo senso: la sua famosa sirena boccheggiante sulla spiaggia ha gambe e pube di ragazza e testa di branzino.

Fin dalla più remota antichità le sirene, pur prive di anima e di coscienza, vengono associate con il loro canto a messaggere dei misteri e del sapere di un mondo altro, quello infero, il cui oscuro accesso e tutti i suoi segreti sono preclusi ai vivi. Nondimeno, lungo il corso dei secoli l’iconografia tradizionale le ha spesso rappresentate con uno specchio in mano, nell’atto di guardarvi la propria immagine riflessa, come ad esempio ritroviamo nel bellissimo Salterio di Luttrell del XIV secolo oggi conservato al Paul Getty Museum di Los Angeles. Ma al di là della più facile interpretazione di ciò come vanità o immagine illusoria, inganno e tradimento, sappiamo che lo specchio – dal latino speculum – nel suo significato primigenio è strumento di riflessione ovvero appunto speculazione, considerazione attenta, pensiero. Dunque, una volta di più, sirene come millenarie custodi di una forma di saggezza e conoscenza. In questo senso di che tipo di sapienza crede siano in grado di essere testimoni nella nostra contemporaneità, qual è il messaggio che possono trasmetterci e di cui noi oggi abbiamo più bisogno?

Non si tratta di offrire messaggi ma di indicare un cammino, un modo di leggere, ascoltare, guardare il mondo dentro e fuori di sé. Direi che bisogna coscientemente lasciare da parte la ricerca della verità come possesso e concentrarsi sulla vitalità della metamorfosi, sulla variazione del tema che è continua approssimazione al culmine. Dico coscientemente perché senza l’amore lucido per le cose, per gli oggetti, le opere, è pericoloso affrontare i terreni della metamorfosi. La sirena è la figura resistente di un altrove, di un’ombra che sempre ci accompagna. Lasciando la voce alla poetessa americana Mary Oliver vorrei citare i versi che concludono il suo testo Oche selvatiche:

Chiunque tu sia, non importa quanto solo ti senta,

il mondo si offre alla tua immaginazione,

ti chiama come le oche selvatiche stridenti ed eccitanti-

annunciando ripetutamente il tuo posto

nella famiglia delle cose.

Cada il velo: a cosa serve la filosofia?

A cosa serve la filosofia? A niente, direbbe qualunque studente di liceo, probabilmente ignorando che perfino Pitagora la pensava allo stesso modo: era fermamente convinto, infatti, che i filosofi fossero creature incapaci di fare e di agire, lusingate solo dal fascino dell’inutilità delle cose superflue. A fargli eco, oggi, è Tony Brewer nel suo Non so di non sapere. Revisioni semiserie alla filosofia (effequ, 2018): poco più di 150 pagine (inclusa una delle più oneste e complete bibliografie mai scritte), in cui le aporie del pensiero vengono analizzate con dissacrante ironia, proprio da chi la filosofia la insegna ogni giorno.

Ed è esattamente nelle scuole, sostiene Brewer, che vengono raccontate le bugie più crudeli: la filosofia non ci aiuta a ragionare, o perlomeno non lo fa più delle altre materie scolastiche, o di tutto ciò che impariamo spontaneamente nella nostra vita. La filosofia non è neppure una scienza rigorosa che ama circondarsi di razionalità: la strada del pensiero, infatti, è lastricata di incoerenze, imprecisioni e fragili certezze. E questo libro ne raccoglie molte: dagli stravaganti motti cartesiani, ai dialoghi surreali di Sant’Agostino, senza dimenticare le incomprensibili pagine di Hegel e Kierkegaard, su cui Brewer si sofferma con la giusta dose di irriverenza.

I filosofi talvolta sono individui effimeri, deboli, distratti. Basti pensare a Talete, caduto in un pozzo mentre pensava all’universo e per questo rimproverato di essere troppo interessato alle cose lontane per accorgersi di quelle vicine. O a Diogene, sulla cui morte esistono varie versioni, una più imbarazzante dell’altra; o a Marx, che dopo una notte di bevute, si mise a tirare pietre ai lampioni londinesi. Gli uomini raccontati da Brewer sono eterei e confusi, privi di senso pratico e a volte anche di logica; un po’ vigliacchi e sicuramente maschilisti, al punto da rendere necessario dedicare un intero capitolo al loro malsano rapporto con le donne. Il filosofo, contrariamente a quanto abbiamo sempre pensato, ragiona di rado, e la maggior parte del tempo si nutre di assiomi e verità mutuate dai suoi predecessori, dei quali, però, non esita a parlar male appena può.

Abbiamo allora amato un’idea della filosofia che non esiste? Abbiamo desiderato qualcosa che in realtà sfuggiva alla nostra comprensione? Si dice che l’amore sia solo un abile gioco di proiezioni, destinato a finire non appena smettiamo di trasferire parti di noi sull’Altro. Ebbene forse il ruolo di Brewer è proprio quello di risvegliarci dalla pericolosa illusione della passione, per mostrarci l’aspetto reale  del nostro amore. Ma allora a cosa serve la filosofia? Una possibile risposta potrebbe venire dal francese Gilles Deleuze, tanto caro a Michel Foucault: il senso della filosofia non sarebbe da ricercare nell’utilità pratica, né tantomeno nel dogmatismo di matrice accademica, bensì nella sua capacità di diffondere le idee, radicandole con forza nella mente umana e rivestendole di affettività. Il filosofo è perciò una creatura libera dal peso del tempo e della Storia, che indugia sui dettagli, sui particolari nascosti e non visti, per svelarli al mondo e trasformarli in idee capaci di essere comprese razionalmente, e soprattutto emotivamente.

 

 

(Tony Brewer, Non so di non sapere. Revisioni semiserie alla filosofia, effequ, 2018, 168 pp., € 12.00)

I bambini nella notte sociale

«Che ne sarà dei nostri figli buttati nella prossima notte sociale, fatta di nuove intolleranze e nuovi fascismi, nel futuro imminente dei crolli ambientali e dei deserti? […] Una società che regala un futuro puramente simbolico ai propri figli mentre di fatto sta lasciando loro in eredità un mondo di risorse esaurite, ambienti compromessi, povertà endemica, ineguaglianza sociale, radicalismo etnico-religioso, populismo totalitario, analfabetismo emotivo, ignoranza». Bambini, il nuovo libro di Matteo Meschiari (Armillaria, 2018), ha del categorico, del perentorio.

Non ci accorgiamo purtroppo che tutto è politico e che tutti fanno politica, ogni giorno, quasi sempre senza averne cognizione. Anche il percorso che porta alla nascita di un bambino, perfino i periodi del concepimento e della gravidanza, del parto e dello svezzamento, quindi, sono intrinsecamente politici. Ogni bambino, nascendo, irrompe in una società che non gli dischiude, come potrebbe sembrare, il grado zero della vita, non gli dà cioè tutte le possibilità esistenziali che dovrebbe conoscere.

I neonati non sono piccoli uomini da indottrinare. «Egoisti, asociali, amorali» e ancora «muti, rumorosi, sporchi, irrazionali», non sono solamente creature amorevoli o doni del cielo. Meschiari vuole decostruire gli stereotipi che vogliono i bambini come una metonimia imperfetta degli adulti. Siccome nascendo portano disordine e creano un potenziale eversivo in un determinato orizzonte culturale, i membri della società reagiscono imponendo loro un’educazione più o meno conforme a quella del pensiero dominante. Tale potenziale eversivo, rivoluzionario e creativo insieme, sta proprio negli interstizi che si aprono durante il passaggio dalla natura alla cultura, dall’animalità biologica del bambino alla sua vita sociale.

Come avviene in La lettera rubata di Poe, dove la soluzione all’enigma è quella più semplice, a cui nessuno pensa, «per distogliere l’attenzione dalla carica eversiva del bambino basta metterlo in primo piano». Abbiamo così tutto un universo che ruota attorno al bambino, in cui viviamo senza lo straniamento, il distanziamento necessario per capire che questi è al cuore dell’agire biopolitico.

«Sono adulto quindi sei piccolo, sono tuo padre quindi taci». Chi contesterebbe l’autorità paterna? Chi riuscirebbe a immaginare il bambino in sé, senza immaginarlo come un piccolo uomo?

Il bambino oggi viene deresponsabilizzato, è inoperoso, socialmente subordinato ai genitori, economicamente improduttivo. La sua è insomma un’identità diminuita, compromessa dalle ingerenze della famiglia e della società.

Attraverso le sue domande, retoriche o vere, Meschiari cerca di destare il nostro senso critico e ci induce a ripensare la dialettica asimmetrica tra padri (anche simbolici) e figli. In una società strutturalmente patriarcale, le narrazioni sulla nascita vengono strumentalizzate e le madri non vivono liberamente nessuno dei momenti fondanti della propria maternità. «Molto di rado ci si imbatte in un’analisi politica seria perché la questione del corpo madre-bambino è stata sdoganata come un problema di salute e non come un problema di potere, quale invece è».

Le ambiguità e le contraddizioni, le difficoltà del percorso che porta una donna a partorire, sia legate al corpo che all’immaginario, vengono infatti nullificate, sacrificate ai bisogni sociali. Le madri stesse, eterodirette anche dopo la nascita, perpetuano certi rituali lesivi per il loro rapporto con il bambino, ormai educate da una tradizione incancrenita e da una società connivente a un determinato sistema chiuso di relazioni madre-figlio. La donna viene alienata da sé stessa e dal suo bambino ed è proprio per questo che bisognerebbe ragionare a fondo oltre le forme più ortodosse di educazione, perché anche e soprattutto il bambino dovrebbe imparare altro rispetto a ciò che gli viene convenzionalmente insegnato, senza coercizioni: liberamente.

«La prima strategia di controllo non è quella che induce una separazione tra cittadino e straniero, tra uomo e donna, tra ricchi e poveri, tra vecchi e giovani […] la prima e più importante cesura è quella tra madre e figlio, perché fonda il vero taglio su cui operare ogni taglio futuro. Non una separazione ideologica ma carnale, emotiva, e un’abitudine all’assenza sentimentale dell’altro come paradigma di autonomia e autosufficienza».

 

 

(Matteo Meschiari, Bambini, Armillaria, 2018, 100 pp., € 10.00)
copertina di Grande trampoliere smarrito di Arthur Cravan

Il poeta-pugile

Per la prima volta in Italia arrivano, tramite uno smilzo volumetto Adelphi intitolato Grande trampoliere smarrito, i testi di Arthur Cravan: poeta, conferenziere, pugile, avventuriero di origine svizzera. Descrivere Cravan non è facile, l’attività letteraria è infatti solo una delle mille incarnazioni di questo uomo di nervi primonovecentesco, capace – grazie alla stazza imponente – di raggiungere buoni risultati nel pugilato e allo stesso tempo, ispirato dalla parentela con Oscar Wilde, redigere un giornale di cui era unico editore, direttore e redattore. La vita di Cravan si snoda fra Parigi, gli Stati Uniti, il Messico e poi il Sudamerica, terra in cui scompare misteriosamente all’età di trentun anni. Egli lascia dietro di sé una serie di testi istrionici, da poesie di ispirazione dadaista, a invettive contro l’attività poetica o pittorica. Edgardo Franzosini, da sempre attirato dalle vite fuori dal comune, ha introdotto Cravan in Italia, curando l’edizione Adelphi e riunendo le molteplici sfaccettature dell’uomo. Quella di Franzosini è una curatela che esibisce testi preziosi e gustosi, non solo la produzione poetica ma anche le lettere che Cravan mandava alle sue amanti. Ne è venuto fuori un racconto che somiglia ai romanzi di Franzosini, un dialogo fra due autori lontani nella storia ma vicini nella penetrazione fra arte e vita. Poiché si tratta della prima curatela di Franzosini, l’ho raggiunto via mail per chiedergli delucidazioni sul progetto.

 

La prima curiosità è d’obbligo: come hai incontrato Arthur Cravan? Cosa ti ha spinto verso di lui?

È successo in una libreria di Barcellona, diversi anni fa: venti forse anche di più. La libreria era La Central di calle Mallorca. Appeso a una parete c’era un grande manifesto, e credo che sia ancora lì, su cui erano raffigurati due pugili mentre combattono, corpo a corpo. Sotto c’erano i loro nomi: Jack Johnson e Arthur Cravan. Si erano incontrati e battuti, secondo quel che era scritto sul manifesto, il 23 aprile del 1914 nella Plaza de Toros Monumental di Barcellona. La boxe mi ha sempre interessato, ovvio quindi che conoscessi il nome di Johnson, uno dei più grandi campioni di questo sport. Cravan era invece, per me, un nome assolutamente sconosciuto. Mi sembrava piuttosto insolito anche il fatto di trovare le loro immagini, in mezzo agli scaffali zeppi di libri e accanto alle foto di Beckett, Borges e Thomas Mann. Quando chiesi la ragione di quella presenza, uno degli addetti della libreria mi spiegò che Arthur Cravan era stato non solo un pugile, ma anche un poeta. Due attività che sembrano in apparenza avere pochi punti in comune. In apparenza appunto, poiché, in fondo, coraggio, passione, resistenza, gusto della sfida, sono indispensabili per praticare sia l’una che l’altra. Poi, scoprii che aveva avuto uno zio illustre: Oscar Wilde; che nel 1912 aveva creato una rivista, Maintenant!, di cui era contemporaneamente editore, direttore, e, dietro un certo numero di pseudonimi, unico redattore e giornalista ̶ la vendeva per le strade di Parigi utilizzando un carretto da ortolano ̶ e che la sua morte era avvolta dal mistero. Scomparso mentre attraversava, in un giorno di tempesta il Golfo del Messico? Annegato nel Rio Grande? Ucciso dalla polizia di frontiera messicana? Assassinato in un dancing, o forse all’interno di una palestra, con un colpo di pugnale al cuore? Non ci voleva altro per accendere la mia curiosità e per far sì che mi appassionassi al personaggio. Quando lessi i cinque numeri, tanti ne uscirono, della sua rivista, e che costituiscono quasi l’intero corpo della sua produzione letteraria, mi trovai di fronte,comunque, a un poeta di primissimo piano. Un dadaista con qualche anno di anticipo su Tristan Tzara e compagnia; ammirato, non per nulla, tra i tanti, da Breton, Cendrars, Sollers e Guy Debord.

 

Nel tuo lavoro di scrittore la documentazione è un momento fondamentale. Quando scrivi narrativa le fonti sono, però, occultate. In questo caso le hai dovute esibire. Come hai inteso la curatela?

Sì, a differenza di ciò che ho fatto altre volte, ma non sempre, nel racconto biografico che ho aggiunto alla scelta di poesie, prose e lettere di Cravan, ho indicato con precisione le fonti. Anche perché in questo caso non ho immaginato né inventato quasi niente, e nell’unica volta che mi è accaduto di farlo, l’ho ammesso. Non ho mescolato verità e finzione, non ho sfidato il lettore a scoprire quali fatti, quali parole, appartengono all’una e all’altra. Non ho mentito, non ho mistificato. Non ho, come si dice, “aumentato” la realtà. Le vicende del pugile poeta erano, del resto, già di per sé talmente estreme, esagerate, formidabili, che non ce n’era bisogno.

 

Grande trampoliere smarrito è un verso di una poesia di Cravan: pensi che sintetizzi la sua figura?

Credo di sì. Sebbene Cravan ritenesse di essere in consonanza e di avere profondi legami anche con altri animali, meno docili e delicati, come elefanti e cavalli. E sebbene, soprattutto, proclamasse di sentirsi indistintamente «flora e fauna…tutte le cose, tutti gli uomini, tutti gli animali».

 

Da curatore, a quale dei testi scelti ti senti più vicino?

Penso soprattutto alle lettere, che sono per lo più lettere d’amore e che Arthur spediva contemporaneamente a tre donne diverse. Lui la chiamava la sua «funesta pluralità», ma non ne poteva fare a meno. Sono molto belle a mio parere, e ci fanno scoprire al di là del personaggio, eccessivo, scandaloso e sopra le righe, il carattere più vero, la natura più intima del “poeta dal pugno pesante”, e la sua vita, finalmente, si rivela per quel che è stata: tragica, lirica e anche, direi, come capita per tutte le esistenze che mi affascinano, non priva di comicità.

 

(Arthur Cravan, Grande trampoliere smarrito, trad. di M. Balmelli e N. Nuschitello, a cura di E. Franzosini, Adelphi, 2018, pp. 196, euro 13)

 

Cosa leggeva Italo Calvino: i libri degli altri

È un giovedì di maggio del 1942 quando Italo Calvino, non ancora ventenne, prende «una storica decisione: tirato fuori dal cassetto dove giaceva lo sgualcito manoscritto» di una sua raccolta di racconti, si presenta dall’editore Einaudi per proporne la pubblicazione: «Anticamera di quasi un’ora. Sfogli “Tempo” senza capire un accidente di quel che leggi… Impiegati, dattilografe che entrano escono. Signore che cosa desiderate? Io vorrei parlare col signor… Ah, dovrebbe arrivare a momenti, attendete. (Fuori dalla finestra dei muratori lavorano su un’impalcatura…) Chi devo annunciare? Oh, fa niente, tanto non mi conosce… Ecco: io ci avrei qui… Veramente noi non pubblichiamo libri di racconti; però vogliamo leggerlo… dateci il vostro indirizzo… sì, tra tre o quattro giorni vi faremo sapere qualcosa… piacere, signor Calvino, buongiorno».

Mentre racconta l’episodio in una lettera all’amico Eugenio Scalfari, non sa ancora che tra quegli uffici trascorrerà oltre trent’anni della sua vita, di qua e di là dalla scrivania dell’editore. Da qualche mese ha lasciato il nido familiare per frequentare senza troppo entusiasmo la Facoltà di Agraria a Torino, ma dovrà aspettare fino al 1945 prima di trasferirvisi stabilmente, perché gli eventi bellici lo costringeranno a spostarsi tra Firenze e Sanremo.

La formazione culturale, morale e politica di Italo Calvino si compie durante la guerra, la Resistenza e l’immediato dopoguerra. Ricordando gli inizi del suo percorso in un’intervista del 1979 a Marco d’Eramo dirà: «Quando ho cominciato a scrivere ero un uomo di poche letture, letterariamente ero un autodidatta la cui “didassi” doveva ancora cominciare. Tutta la mia formazione è avvenuta durante la guerra. Leggevo i libri delle case editrici italiane, quelli di “Solaria”».

Gli anni dell’apprendistato letterario sono documentati da una fitta rete di lettere, e soprattutto quelle a Eugenio Scalfari sono utili per ricostruire la biblioteca dello scrittore: «A poco a poco, attraverso le lettere e le discussioni estive con Eugenio venivo a seguire il risveglio dell’antifascismo clandestino e ad avere un orientamento nei libri da leggere: leggi Huizinga, leggi Montale, leggi Vittorini, leggi Pisacane: le novità letterarie di quegli anni segnavano le tappe d’una nostra disordinata educazione etico-letteraria».

Calvino aggiorna l’amico sui suoi progressi: «Ho letto Conversazione [in Sicilia] di Vittorini […]. Magnifico oltre che per lo stile “all’americana” anche per la profondità di pensiero»; «Ho letto i drammi marini e L’imperatore Jones di O’Neill. […] Adesso mi sento a posto nei suoi riguardi e posso metterlo accanto a Ibsen e a Pirandello tra i grandi drammaturghi dialettici». E dispensa a sua volta liste di consigli letterari: gli raccomanda di leggere Cesare Zavattini, T.S. Eliot (Assassinio alla Cattedrale), Ugo Betti (Frana allo scalo nord), Fernand Crommelynck (Cucu magnifique), James Joyce (Gente di Dublino).

L’esperienza della guerra partigiana agisce da detonatore della vocazione di Italo Calvino alla scrittura, come ricorderà in un’intervista del 1985: «Le circostanze mi scaraventarono nel mezzo di un mondo avventuroso e tragico che mi dette la giustificazione per scrivere. Avevo conosciuto e sperimentato il mondo che vedevo descritto nei libri di autori americani, come Hemingway e Dos Passos, che leggevo in quel periodo». Al rientro a Torino, non ha più dubbi su quale sia il destino cui andare incontro: lascia Agraria per iscriversi a Lettere e si dedica a una tesi su Conrad, autore al quale rimarrà legato per tutta la vita e che gli fornirà uno stimolo importante nella ricerca della propria voce.

 

 

È solo a partire dal 1946 che Italo Calvino comincia a «gravitare attorno alla casa editrice Einaudi» vendendo libri a rate, come racconta in una lettera ai genitori: «Ho parlato oggi a Einaudi in persona per l’impiego. Per un posto in redazione non c’è nulla da fare […]. Dovrei girare nelle fabbriche, nelle associazioni, negli uffici e cercare di sistemare libri e pubblicazioni della casa. Non un commesso viaggiatore, ma una specie di propagandista culturale, un mestiere per cui occorre un intellettuale, non un commerciante».

Il suo tirocinio editoriale coincide con un periodo di letture voraci. Scrive a Silvio Micheli nel 1946: «Se hai il sistema di farmi avere i libri gratuitamente dalle case editrici, io recensisco tutto quel che vuoi, anche l’orario ferroviario». Di lì a poco avvierà una collaborazione con diverse testate giornalistiche che gli permetterà di affinare lo spirito critico sugli autori che gli stanno più a cuore: Conrad, Hemingway, Nievo «e altri miei pallini», come scrive ad Alfonso Gatto nel 1947.

L’impegno con Einaudi diventa organico a partire dal 1950 e lo porterà a ricoprire in un arco di oltre trent’anni i ruoli di ufficio stampa, traduttore, dirigente e consulente editoriale: «Il massimo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento», dichiarerà nel 1979 a Marco d’Eramo. Un modo di intendere il mestiere di fare i libri che sarà vissuto sempre con la dedizione di una missione: «Sono uno che lavora (oltre che ai propri libri) a far sì che la cultura del suo tempo abbia un volto piuttosto che un altro. Credo molto in questo aspetto della mia vita», scrive nel 1964 a una giovane autrice, Antonella Santacroce, che gli propone in lettura alcuni suoi racconti.

Man mano che si intensifica la sua attività in casa editrice, si susseguono gli scambi epistolari con i colleghi scrittori e le lettere di Calvino diventano una miniera di suggerimenti di lettura. A Marcello Venturi, per esempio, scrive: «M’ha detto Natalia Ginzburg che doveva scriverti e le ho detto di mandarti dei libri. Le ho consigliato di mandarti Sherwood Anderson: Storia di me e dei miei racconti e Ragazzo negro di Wright. Guarda che l’Anderson è un gran bel libro e piacerà a te come è piaciuto a me. Perché è la storia di un narratore con tutto l’amore per il nostro fottutissimo mestiere, per la tecnica del nostro mestiere». A Elsa Morante nell’estate del 1950: «Passo dei pomeriggi a pancia al sole su certi scogli solitari, leggendo Thomas Mann, che parla molto bene di molte cose a me del tutto incomprensibili».

 

 

Preziosa per ricostruire un profilo dello scrittore e dell’uomo di editoria è la raccolta I libri degli altri – da tempo fuori catalogo – che documenta la fitta rete di corrispondenza con scrittori, traduttori, critici letterari, editori ed è uno spaccato sul fermento culturale della stagione più felice della narrativa letteraria del Novecento.

Scrive ad Anna Maria Ortese nel 1953, a proposito della raccolta che di lì a poco sarà pubblicata con il titolo Il mare non bagna Napoli: «Stia allegra: lei ha scritto un libro bellissimo, dovrebbe ridere e cantare tutto il giorno, per un anno di seguito, almeno! Se no, a cosa serve scrivere dei bei libri?». A Giovanni Carocci nel 1954 segnala «un maestro elementare di Racalmuto che mi sembra molto impressionante e interessante per “Nuovi Argomenti”» (Leonardo Sciascia). A Giuseppe De Robertis nello stesso anno: «Vorrei raccomandarle di leggere, se già non l’ha fatto, il Seminara, che a me pare un notevole libro [si riferisce a Disgrazia in casa Amato, uscito tra i Gettoni], con gran risalto su ogni altra cosa di quell’autore». Al traduttore Lev Veršinin nel 1957 consiglia, tra gli altri: Pavese, Vittorini, Cassola «che talvolta ricorda la limpida tristezza del Tolstoj di certi racconti»; Brancati, «il piccolo Gogol dell’Italia sotto il fascismo» e Landolfi, «il migliore “surrealista” italiano».

Lo scaffale torinese continua a riempirsi a gran velocità e tra i molti libri che Calvino riceve, come editore e come scrittore, opera una selezione rigorosa che deve rispondere inevitabilmente anche a esigenze di spazio. Alla sua morte, i libri della casa di Torino (in via Santa Giulia) saranno donati alla casa editrice Einaudi: tra oltre un migliaio di volumi raccolti in quindici scatoloni si trovano titoli di Borges, Julio Cortázar, Silvina Ocampo; libri italiani di Arbasino, Banti, Cassola, Gadda, Landolfi, Morante, Pasolini, Pavese, Sciascia, Tobino, Vittorini e molti altri. Una mole di titoli non semplicemente posseduti e collocati in libreria, ma funzionali al suo lavoro di scrittura perché costantemente consultati, citati, riletti, sfogliati.

Seduto alla sua scrivania nell’ufficio di via Biancamano, l’immagine più nitida ed emozionante dell’artigiano editoriale Italo Calvino è il ritratto che ne traccia Giulio Bollati – apparso nel 1993 nel volume Calvino e l’editoria:

«Amava la pagina (parlo sempre di quella “servile”) come una costruzione dell’architettura coerente e organica e dalla materia straordinariamente duttile e leggera. Misuratissimo negli avverbi (“togli tutti quegli affari in ‘ente’”), prediligeva l’aggettivo nitido (ma non amava se ne facesse abuso: pochi e traslucidi), e lavorava di bulino soprattutto sui verbi. Per un verbo esaustivo, che lo appagasse con la pregnanza della sua carica semantica (meglio se complessa, e dunque stratificata e naturalmente ambigua), era capace di alzare il capo dalla scrivania, abbandonarlo all’indietro e lasciar trasparire dal volto un’infantile sazietà.
Era il momento del “Lo abbiamo trovato”».

copertina di Cammino doppio di Serenella Baldesi

Sfidarsi per ritrovarsi: itinerario (laico?) alla volta di Santiago di Compostela

Cammino doppio (Augh!, 2017) è la prima prova letteraria di Serenella Baldesi, architetta romana che, forte dell’interesse per la scrittura creativa – frequenta infatti da due anni la Scuola di Scrittura Omero – traspone in narrativa un’esperienza in parte autobiografica, quella del Cammino per Santiago di Compostela, da lei intrapreso più volte.

Non è, come si potrebbe pensare, un romanzo di impostazione religiosa, né un pretesto per dare adito a riflessioni di sapore filosofico o trascendentale: è la storia di Alex, una cinquantenne dinamica e schietta alle prese con alcuni nodi irrisolti della propria vita.

Anche Alex è architetto, ma il suo lavoro non le piace. È impantanata in un matrimonio insoddisfacente che l’ha portata a cercare altrove un appagamento sentimentale ed emotivo, eppure, anche l’uomo con cui ha tradito il marito l’ha delusa.

La tragica morte del fratello carissimo, collega oltre che amico, è forse la motivazione più profonda che la spinge a questo viaggio: un cammino di ottocento chilometri che lei è decisa a percorrere da sola, come a interporre un diaframma tra sé e il mondo o disegnare uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”.

«Cammino per liberarmi, ma mi sento soffocare come una quercia dentro una noce», dirà a un certo punto la protagonista. E questo tipo di affermazioni, lapidarie, simili a espressioni proverbiali, è molto indicativo del suo carattere, di donna sbrigativa, autosufficiente, molto allenata, ed estremamente concreta. L’inizio del romanzo la vede anzi intenta a ringhiare verso qualsiasi altro essere umano che incroci la sua strada, in maniera totalmente contraria allo spirito del Cammino e all’etica dei Pellegrini che lo percorrono: mentre gli altri, anche se sconosciuti, manifestano apertura, solidarietà e interesse verso l’umanità, Alex è concentrata in se stessa, ipersensibile, ostile, una bomba a orologeria sul punto di esplodere. Osservazioni poco civili e scatti di nervosismo ingiustificati sono il suo tratto caratteristico per tutta la prima parte del libro, assieme a un senso critico sviluppato e mordace che in realtà la rende molto simpatica.

«Non capirò mai le verità dei matrimoni altrui e, forse, neanche del mio. A parte la legge universale per la quale nei matrimoni vale la regola dei cani: ogni anno da sposati ne vale sette», può capitare che dica, oppure: «Se questa è l’evoluzione della specie, sono contenta che almeno la cazzata dei figli, nella mia vita, non l’ho fatta», o ancora: «Io non ho dubbi. Vado in uno dei piccoli alberghi. Sono seguita da Claire, Aidan, Martina e, in sequenza, la remora, la vegana, il pennuto austriaco e il coglione toscano».

Quest’ultima infilata di tipi umani sarà quella con cui un po’ per caso un po’ controvoglia Alex si troverà a condividere tutte le tappe del viaggio: mancano all’appello Massimo, anziano e garbato signore col quale creerà un rapporto profondo di reciproca cura, e una coppia di omosessuali francesi, colti e di mondo. Aidan è invece l’uomo che risveglierà in Alex il desiderio di costruire qualcosa di bello e di vero.

L’autrice padroneggia la tecnica narrativa e ha una certa sensibilità per la natura e il paesaggio – ci regala infatti scorci affascinanti del territorio percorso, dal sud della Francia attraverso i Pirenei sino al nord della Spagna e la Galizia, quasi un confine ultimo oltre che il punto d’arrivo – e sembra non curarsi particolarmente di mediare, attraverso la lingua, con il flusso di coscienza della protagonista o con espressioni prettamente pertinenti al mondo del parlato. Sono frequenti incursioni nel colloquiale, citazioni da canzoni, aforismi reperibili online, massime da blog, tutto un repertorio diciamo popolare della cultura, che risulta immediatamente rassicurante per il lettore medio.

Mentre i dialoghi suonano alle volte poco realistici, perché composti di frasi troppo lunghe e a effetto che nessuna persona pronuncerebbe nella vita vera, riserva che esprimerei anche nei confronti della maniera in cui è trattato il nascente amore di Alex con Aidan, davvero molto “rosa”, è godibilissima la forte carica di analisi sociale e la disamina dei vari tipi che possiamo incontrare tutti i giorni, dal trentenne pseudo-alternativo e iperconnesso alla vegana integralista minatoria.

Decisamente apprezzabile la presa diretta con la fatica fisica e anche il raccontarsi senza filtri: l’autrice non ignora l’importanza dei dettagli di tipo pratico, e ci informa con molto realismo su cibi particolari di ogni tappa, difficoltà di tipo fisico e motorio come influenze, strappi o muscoli doloranti, accessori e ritrovati per il trekking come scarponi, cerate, zainetti tecnici, torce, sacchi a pelo e orologi intelligenti che «fanno anche il punto nave, se glielo chiedi». Alex oltre a ciò ha con sé una scorta invidiabile di medicinali per ogni evenienza, che assume con spirito pragmatico e sbrigativo ogni volta che il suo corpo richiede un aiuto: lo sforzo di camminare per chilometri con ogni condizione atmosferica è ben presente nella mente del lettore.

Cammino doppio è quindi un libro sull’effettiva sovrapposizione del cammino come atto fisico e del cammino interiore dell’individuo narrante, che si avvia alla scoperta di un nuovo sé un po’ migliore di quello che ha iniziato il viaggio. Anche l’accettazione e l’apertura verso persone e filosofie diametralmente opposte al proprio vissuto è un messaggio di questo romanzo, nonché una delle conquiste della protagonista, costretta a entrare in contatto con soggetti che, per quanto in alcuni casi poco affini, hanno comunque qualcosa da insegnarle.

I paesaggi incontaminati della Spagna, il magnetismo di alcuni semplici riti comuni come le varie messe benauguranti disseminate lungo l’intero cammino, in piccole spartane chiesette o in monumentali, spettacolari cattedrali – non dimentichiamo che sia l’autrice che la protagonista hanno l’occhio dell’architetto! – e gli scorci colorati e vari su panorami silenziosi, borghi, alberghi e piazze raggiunti dai Pellegrini impreziosiscono la fiction.

In ultima analisi, è un libro molto sincero che attinge con generosità al dato autobiografico, sin nelle somiglianze fisiche tra personaggio e autore.

Fa sorgere spontaneamente la domanda su cosa significhino le età e le generazioni nel nostro presente – una cinquantenne che assomiglia a una ragazzina per la sua impulsività – e anche su quanto sia ordinario e normale al giorno d’oggi avere delle vite “componibili”, non statiche e definite una volta per tutte, ma soggette all’errore, al ricalcolo, allo stand-by, al cambio diametrale dei suoi capisaldi, siano l’amore, la famiglia o la carriera.

È una lettura che non ha la pretesa di cambiare la vita, ma che intrattiene e fa risuonare rispondenze a vari livelli, per alcuni magari i più profondi, come la riflessione sulla morte e sulla malattia, per alcuni i più leggeri, e non per questo irrilevanti, come la ricerca di se stessi attraverso le relazioni sentimentali o attraverso le prove di diverso genere cui ogni essere umano, ciascuno secondo i propri strumenti, si sottopone nel tentativo di capire qualcosa di sé.

 

(Serenella Baldesi, Cammino doppio, Augh!, euro 15, articolo di Teodora Dominici)

Poster di Maniac su Flanerí

È arrivato il momento di parlare di “Maniac”

Il primo istinto che viene subito dopo aver finito l’ultimo episodio di Maniac è quello di tornare indietro e rivedere subito tutte le puntate dalla prima all’ultima, una dopo l’altra. Il motivo è doppio: da un lato per essere sicuri di aver capito bene cosa si ha appena visto, nel senso di “Ho davvero visto questa cosa?”; dall’altro per cercare di cogliere tutti gli elementi sparsi in questo labirinto visionario al limite della follia. Arrivata su Netflix lo scorso 21 settembre, Maniac è una miniserie in un’unica stagione di dieci puntate ideata da Patrick Somerville e Cary Joji Fukunaga e ispirata, in parte, a una serie norvegese con lo stesso titolo del 2014.

Basterebbe, per far emergere Maniac dall’oceano di novità in arrivo ogni mese su Netflix e sulle varie piattaforme televisive e di streaming, dare un’occhiata al cast. I due protagonisti sono Emma Stone, che oltre ad aver vinto l’Oscar per La La Land è una delle attrici più interessanti e versatili in giro, e Jonah Hill, che ormai è passato dall’essere il ragazzo obeso delle commedie demenziali a un nuovo status di attore di riferimento per il cinema indipendente ad alto budget (e il merito è suo e alla sua ostinazione nel voler recitare in The Wolf of Wall Street anche a costo di farsi pagare il minimo sindacale). Fa sorridere, adesso, pensare che nel 2007 Emma Stone e Jonah Hill fossero già comparsi insieme in Superbad, commedia adolescenziale di enorme successo, e con discreti contenuti, che i distributori italiani avevano deciso di diffondere con il brillante titolo Suxbad – Tre menti sopra il pelo. Tornando a Maniac, in ruoli minori ci sono anche Gabriel Byrne, Sally Field e Justin Theroux, ma soprattutto dietro la macchina da presa c’è sempre uno dei due showrunner, Cary Joji Fukunaga, già acclamatissimo regista della prima stagione-capolavoro di True Detective e prossimamente alla regia del nuovo film di James Bond.

Maniac ha una strana ambientazione retrofuturistica, una specie di futuro prossimo immaginato da un film di fantascienza dei primi anni Ottanta, con una tecnologia molto più analogica che digitale piena di macchinari enormi e di luci. I due protagonisti, Owen e Annie, decidono di partecipare alla sperimentazione di un farmaco per motivi diversi. Owen è il rampollo meno amato di una famiglia ricchissima e bellissima perseguitato da allucinazioni paranoidi. Dopo aver perso il lavoro, non vuole chiedere aiuto ai genitori e si propone come cavia. Annie ha sviluppato una dipendenza da uno dei farmaci oggetto dell’esperimento e l‘unico modo che ha per ottenerne ancora è offrirsi come volontaria. Il test vuole verificare l’efficacia di una terapia farmacologica per curare la mente, per sconfiggere i traumi dell’inconscio senza dover più ricorrere alla psicanalisi. Il ciclo di pillole costringe al confronto con i fantasmi interiori attraverso un mix di sogno, ricordo, elaborazione e allucinazione. Tra Annie e Owen si crea subito un imprevisto legame che li porta a condividere tutte le fasi del test.

Le premesse di Maniac sono quindi quelle di una fantascienza medica, chiamiamola così, un po’ alla Strange Days Hai mai jackato? Hai mai zigoviaggiato?»). L’intuizione fondamentale, però, è che lo spettatore si trova immerso nelle proiezioni degli esperimenti all’improvviso. Le varie pasticche portano all’elaborazione del trauma fondamentale in sogni carichi di valore simbolico che assumono i connotati di piccoli film di genere (noir, fantasy, azione). Annie e Owen sono sempre i protagonisti, ogni volta in panni diversi, con una storia diversa alle spalle, e ogni volta gli elementi delle loro vite personali appaiono come frammenti da interpretare.

Questo mix di generi rende Maniac  un prodotto di intrattenimento unico, non classificabile. Sembra – e non è un caso che Somerville fosse uno dei produttori – di essere negli episodi più allucinati di The Leftovers, come l’ottavo della seconda stagione, International Assassin, in cui l’elaborazione della morte di Patti passa attraverso una trama completamente a parte. I riferimenti che vengono in mente sono tanti, da Inception a tutto il cinema di Spike Jonze e a tutto quello che ha scritto e/o diretto Charlie Kaufman. Si tratta di una forma di rappresentazione del disagio mentale allo stesso tempo semplice e complessa, carica di sottotesti e allusioni.

Maniac riesce, però, a non prendersi mai troppo sul serio, ad alternare i registri così come i generi, a far ridere e commuovere, a essere ridicola e serissima. Emma Stone e Jonah Hill sono liberi di esibire tutta la gamma del loro talento muovendosi tra i diversi generi, mentre Fukunaga si conferma un regista unico.

Senza un genere unico, senza una durata standard per gli episodi, senza una sigla, Maniac sovverte gli standard delle serie tv proponendosi come qualcosa di molto più vicino a un film. Non può piacere a tutti, come è normale che sia. Le caratteristiche principali su cui si basa – complessità, linguaggio metaforico e una bella dose di pazzia – si prestano allo stesso modo e come sempre a entusiasmi e critiche, ma è una serie che comunque non può essere ignorata.

 

(Maniac, di Cary Joji Fukunaga e Patrick Somerville, Netflix, 2018, fantascienza/commedia/drammatico, 10 episodi)

Copertina di “Il nuovo ordine erotico”

La turboretorica di Diego Fusaro

Ci narrò il Pascoli che dentro di noi è un fanciullino che non solo ha brividi, ma lacrime e tripudi suoi, e che la sua voce e il suo sguardo di meraviglia permangono intatti mentre cresciamo. Eccetera. Ci spiegarono più in dettaglio prima Jung e poi Hillman di quell’archetipo, il puer aeternus, legato alla comprensione immediata, alla sensibilità edenica di un mondo senza tempo, prima della caduta; della difficoltà che un simile genio, un Icaro dell’intuizione, ha nel calarsi nella dimensione orizzontale, nel divenire della storia e nelle geometrie razionali. Mentre il suo sguardo sorvola i cieli dello scibile umano ed è in compagnia del Padre, vi è in lui un’oscura diffidenza per ciò che sta sotto – lo ctonio, dove alberga la Grande Madre – ed è percepito come oscuro, invischiante, innaturale. Questa asimmetria, dove la pura contemplazione e l’intuito stentano non appena dallo psichico si passa al relazionale, conduce l’eterno fanciullino a comportamenti bizzosi, eccentrici, persino distruttivi, tali che il genio finisce per offuscarsi, o peggio. Ecco perché Hillman vide quell’archetipo in dialogo con quello del senex. Se i due aspetti non trovano equilibrio sono guai.

C’è nella lingua di Diego Fusaro qualcosa che evoca il dualismo tra senex e puer, ma come scissione o conflitto represso. Ciò che Fusaro mostra nelle apparizioni televisive o sui social può sembrare ridicolo – il ditino alzato per parlare, come a scuola, «Aristotile», la monocorde nenia rossobruna, i composti di «turbo» alla stregua dei Puffi che mangiavano torta di puffbacche e puffavano la qualunque – mentre in realtà è studiato, come per un personaggio del wrestling: un heel o una comedy gimmick che puntano a provocare ed essere derisi, perché un performer muore se il pubblico è impassibile. Ma il personaggio mediatico nella dimensione libro mostra il vero volto. Quello di un puer aeternus che nel divenire adulto ha perso qualcosa di fondamentale per strada, e ora incarna un senex negativo: il bigotto.

Il bigotto aderisce con zelo a un’ortodossia che gli provoca un piacere succedaneo, e lancia strali contro ciò che la offende. Non scende sul terreno della dialettica, piuttosto moraleggia contro ciò che gli appare eretico. La sua però è un’ortodossia solo esteriore, da fariseo. È il prete di provincia che sì, ha studiato molta teologia e filosofia, sa persino citare ampi stralci di Sant’Agostino e Tommaso D’Aquino. Ma poi, chiusi i libri e una volta sul pulpito, non può fare a meno di guardare l’umanità che gli si presenta: vecchie prefiche, mariti e mogli a braccetto sulle panche, ma in guerra nel confessionale, bambini iperattivi che si scaccolano, addirittura gente che osa dormire nella casa del Signore. Nulla di ciò che legge può sanare ciò che avverte erompere sotto la crosta, e che prima o poi lo vedrà sbracare lontano dal pulpito.

Prendiamo dunque Il nuovo libro di Fusaro, Il nuovo ordine erotico – Elogio dell’amore e della famiglia (Rizzoli, 2018), che in quarta recita: «Un manifesto filosofico per capire il presente, combattere la precarietà sentimentale e riappropriarsi dell’etica amorosa, nell’epoca in cui il capitale ha trasformato anche l’eros in merce globale». Il libro dovrebbe denunciare l’attacco contro la famiglia tradizionale e il ruolo del maschio-padre condotto dalle forze del «turbocapitalismo», a braccetto con la «gendercrazia» e il suo «clero» («la Sinistra dell’eroticamente corretto»), che promuove l’abbattimento del dualismo maschile-femminile in favore di «consumisti unisex neolibertini» votati all’accumulo di «plusgodimento». Un ordine instauratosi dopo il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino. Ma la maschera del filosofo, parte facile da reggere nei pochi minuti di un’apparizione televisiva o di un’intervista, o negli spazi di un tweet o di uno status Facebook, non regge lungo le quattrocento pagine di Il nuovo ordine erotico. Ci consegna il sopracitato bigotto sulla scia di derive stilistiche, incongruenze, reticenze, omissioni e toni che oscillano dalla devota osservanza dei Padri filosofi all’acritica denigrazione di ciò che, invece di essere nominato per poi procedere a confutazione, è attaccato con veemenza e malcelato disprezzo.

La maschera già traballa nel titolo, ambiguamente in contrasto col sottotitolo, tanto che l’elogio sembra rivolto a questo fantomatico «Nuovo ordine erotico». È solo il gioco di parole da koinè complottara, che rimanda al «Nuovo ordine mondiale», a permetterci di decifrare il significato. Avrebbe avuto più senso un titolo come «Contro il Nuovo ordine erotico», esplicitando l’opposizione. Siamo già dunque introdotti in un mondo linguistico di contrasti in cui non si danno i rapporti, le relazioni, dove i nemici sono talmente evidenti che non hanno bisogno di essere contestualizzati: basta appellarli dal pulpito perché il pubblico recepisca il messaggio, rafforzando la comunità e distogliendo l’attenzione dai conflitti che la lingua apparentemente copre.

Prendiamo alcuni vezzi del linguaggio fusariano, che estetizza con esiti grossolani e autoparodianti, assecondando piacere personale e sovraeccitazione psichica. Nel Nuovo ordine erotico abbiamo forme desuete o italianizzate dei nomi stranieri, come a nazionalizzare nostalgicamente – facendolo proprio – un passato ideale: «Aristotile», l’assenza di apostrofo tra articolo ed «Hegel», «Carlo Marx». Ciò si ferma grossomodo ai filosofi della tradizione, non ai contemporanei e certo non alle poche citazioni legate agli Studi di genere – troviamo «Butler», non «Giuditta Butler». C’è poi un puntellare i periodi con arcaismi: «vieppiù», «rinunzia», «a tal guisa», «siffatto», «danaro». Vi rientra anche l’abuso del participio al posto della subordinata, sul modello latino («determinantesi nella forma di una fisiologica separazione»; «Con le parole di Tommaso, liberamente riarticolanti»).

Sono stilemi di chi vorrebbe innalzare il registro del discorso, come per un distinto e patriottico signore borghese col panciotto tricolore e l’orologio da taschino, che camminando a testa alta per strada dopo il primo passo inciampa malamente. Al posto di un ramo o di un sasso, l’inciampo avviene su un tripudio di forestierismi, da Azzeccagarbugli cui non basta il solo latinorum per abbindolare il pubblico di Renzi e Lucie. Oltre alle lingue classiche, abbiamo inglese, francese e tedesco, talvolta accompagnati dalla loro traduzione:

«[…] autocelebrandosi compulsivamente e a piè sospinto come panglossiano meilleur des mondes possibiles o come ordo sempiternus rerum»;

«[…] consumato nel fugace spazio dell’hinc et nunc»;

«[…] deve potersi affermare in forma absoluta»;

«Esso si pone realiter […]»;

«[…] la pratica à la page dei mail-order marriages.»;

«[…] governato da leggi e logiche sue (iuxta propria tecnica)».

Sono due direttive di ipersemantizzazione in conflitto tra loro, pur avendo lo stesso obiettivo: lo sfoggio di competenze linguistiche.

C’è poi l’iperattribuzione, che si presenta tanto più il centro del discorso si allontana dai padri della tradizione. Il presente in particolare, e ciò che riguarda il «turbocapitalismo», le sue brutture, vede una liquidità di sostantivi: invece di svolgere un concetto, lo si rafforza per elencazioni o composti accrescitivi. Nella formazione dei termini ricorre la prevalenza del significante, il gioco di parole, fino ai casi limite della rima, dell’assonanza e della paronomasia; stilemi che attenuano o neutralizzano il piano semantico lungo la direzione dell’omofonia, o della sintassi cantilenante, infarcita di accrescitivi («turbo-», «ultra-»).

I sintagmi nominali e verbali abbondano di aggettivi (anche due o tre) o avverbi; i concetti che definiscono Il nuovo ordine erotico si formano per somiglianza linguistica, per derivazione («neolibertinismo», «liberoscambismo», «eroticamente corretto») e successivo accumulo. Se nell’Eden il puer aeternus conosce il nome di tutte le cose, nel mondo dopo la caduta il sentore di corruzione crea sfiducia e sospetto; la voce, che interiore risuona come un canto, all’orecchio risulta un balbettio cacofonico. Nella manipolazione linguistica è espresso ciò che all’intuito è lampante: l’epoca in cui viviamo è corrotta – «postborghese», «postproletaria», «postmoderna», «posterotica», «postfordista», postqualcosa – ed è dominata dal «cosmomercatismo», dal «totalitarismo» (quest’ultimo sempre aggettivato); non si contano poi i rimandi a 1984 di Orwell, da cui Fusaro mutua il fantomatico «Ministero dell’amore». Il pensiero logico fatica a compenetrare ed esprimere, e allora si ha una bulimia espressiva dove le qualità della sostanza sono più importanti della sostanza stessa:

«Alla famiglia l’integralismo economico sostituisce l’utilitarismo erotico»;

«[…] l’altro è svilito al rango di puro oggetto, di merce da cui ricavare plusvalore in ambito economico e plusgodimento in sede erotica.»;

«[…] nel trionfo dello sviluppo della società dell’insocievole socievolezza a cinismo avanzato, in cui l’individuo autocratico e autistico è attore del consumismo e oggetto di una manipolazione totale.»;

«[…] puro godimento individuale e cinico, aprogettuale e utilitaristico, liquido e precarizzato.»;

«È questo l’identikit essenziale del nuovo uomo senza qualità e senza gravità».

Come accennato, in Il nuovo ordine erotico c’è un duplice registro, legato ad aree tematiche: da una parte la Tradizione, che è una massa acritica positiva o comunque dotata di senso, legata al ruolo di uomo e donna, marito e moglie, padre e madre; dall’altra il presente della «gendercrazia» al servizio delle «oligarchie finanziare», dipinto come un totalitarismo i cui aspetti sono privi di qualsivoglia contesto. Confrontiamo un passo, tratto dal capitolo «Nostalgia della Totalità» con un altro tratto dal capitolo «La donna a una dimensione». Il tono professorale del primo sembra appartenere a un’altra persona, se si confronta col tono dileggiante del secondo. Siamo nell’area dell’invettiva da sermone:

«L’amore, dunque, si pone come tentativo della singolarità di raggiungere un’unità che le annulli, ma che le innalzi a una diversa prospettiva, quella del duale: dove l’unità stessa, raggiunta, lungi dall’annichilire l’individualità degli amanti, la potenzia e la porta alla sua pienezza d’essere, innalzandola al grado di una Totalità differenziata a cui si apre l’esperienza duale del mondo».

«Tesa alla produzione di una massa di servi con profilo remissivo e docile, passivo e vittimistico, privi della virilità proletaria (antagonismo, conflittualità, resistenza) e di quella borghese (patriottismo, onore, fedeltà), la svirilizzazione del’uomo occidentale è oggi attivamente promossa dall’oligarchia finanziaria, dal suo clero regolare e secolare e da fenomeni circensi strettamente connessi (Pussy Riot, Femen, girotondi “Se non ora quando?”)».

È ricorrente la denigrazione mistificatrice delle forme di lotta odierne, tutte viste al servizio del «cosmomercatismo» e altre forze oscure, esterne e sovrastanti, senza che venga mai spiegata la natura di questo rapporto, i loro attori, come operano. Ci si limita ad avvolgerli in un’aura funesta:

«La variante liberal della donna in carriera coesiste, come espressione opposta del medesimo fenomeno, con la figura anarchica e new global del femminismo alla moda delle bad girls antiborghesi e ultracapitalistiche, tra le quali, per onor di cronaca, si possono rammentare le Pussy Riot, le Femen e numerose altre cubiste del mondialismo […]».

Ciò naturalmente fa presa nella misura in cui il lettore si immedesima nei toni e negli atteggiamenti. Si oscilla così tra bias di conferma, argomenti fantoccio e fallacia di autorevolezza, talvolta richiamandosi a fantomatiche statistiche:

«I dati disponibili dimostrano che anche le donne, e in quote non marginali, sono protagoniste attive della violenza, tra loro ma anche a danno degli uomini. Ciò impone una volta di più l’esigenza di prendere congedo dalla «vuota profondità» delle attribuzioni manichee di genere […], per tornare a ragionare in termini di responsabilità individuali, a prescindere dal sesso di appartenenza.»

Questo dualismo acritico tra passato idilliaco, dove ancora era possibile l’esperienza di «Verità», e il presente apocalittico presta il fianco a sonori sfondoni, debolezze di pensiero, o concetti che alla fine provocano persino imbarazzo allo sguardo critico. Abbiamo per esempio un ipse dixit degno del miglior Simplicio:

«La sessualità separa l’uomo dalla donna e li rende parti diverse della medesima unità, o se si preferisce, espressioni differenti del genere umano, come anche la Bibbia ci ricorda.

Il fatto che la donna sia “ricavata” dalla costola dell’uomo, è, al di là della rappresentazione religiosa, la prova a suffragio della comune e uguale appartenenza dei due sessi alla razza umana, oltre che dell’ineludibile differenza ontologica che li caratterizza: e che è, per ciò stesso, il fondamento del genere umano».

Va da sé che citare nel 2018 la Genesi a sostegno dei ruoli di uomo e donna nella coppia ha senso solo in The Handmaid’s Tale. Anche perché la Genesi è quel libro in cui la specie umana ha origine da Adamo ed Eva e dai loro figli – non a caso si omette il nome della moglie di Caino. Quindi, per la stessa logica, possiamo citare la Bibbia per fare apologia dell’incesto.

Altro esempio è la denigrazione della nonviolenza, in apparenza marginale rispetto al tema del libro, ma coerente rispetto a un’idea di virilità più spartana che ateniese:

«Così deve anche essere inteso, inter alia, l’oggi imperante “pacifismo” delle sinistre arcobaleno: che, nell’oblio integrale della lettera e dello spirito di Gramsci e di Lenin, al conflitto del Servo in cerca della propria emancipazione hanno sostituito la belante e impotente via dell’accettazione vittimistica delle ingiustizie; e alla lotta contro l’imperialismo made in Usa hanno preferito l’elogio salmodiante di quella “non violenza” che, di fatto, non è se non il riconoscimento del monopolio della violenza dei dominanti e la convergente negazione, per i dominati del diritto di resistere, di difendersi, di lottare e di vim vi repellere».

Ora, a parte che «di fatto» si scrive «nonviolenza», o al limite «non-violenza» (per motivi noti a chiunque mastichi minimamente il concetto), da notare in primo luogo l’uso superfluo delle virgolette: marcano distanza da concetti avversati, non riconoscendo loro una qualsivoglia plausibilità. Premesso ciò, l’autore ha della nonviolenza un’idea approssimativa e storicamente falsa. Eppure la nonviolenza si basa sulla pietas, da lui stesso decantata in precedenza, e sull’approcciare la dialettica Servo/Padrone senza i cavalli di battaglia cari a Fusaro – lo schema desueto Destra/Sinistra, la critica all’«antifascismo in assenza di fascismo» (per cui CasaPound dovrebbe essere un club di cosplayer, si suppone). Eppure Tolstoj, in Il regno di Dio è in voi basa il cristianesimo come filosofia morale a partire dal “Discorso della montagna”, dove il porgere l’altra guancia e la non resistenza al male sono interpretati come strada da percorrere attivamente. Propugna persino la disobbedienza civile radicale (rifiuto di pagare le tasse) contro gli Stati che attuano politiche repressive e guerrafondaie. Capitini elabora il concetto – forse troppo femminiello per Fusaro – di Persuasione, di verità interiore e dei mezzi necessari per portarla fuori, come azione politica: lo fa in opposizione a un presente totalitario, l’Italia fascista, tanto che il suo Elementi di un’esperienza religiosa (1936) è un testo chiave dell’antifascismo. La stessa lotta nonviolenta contempla azioni tutt’altro che pacifiche come il sabotaggio e il boicottaggio, e certo il passo sopracitato potrebbe avere senso in un mondo dove non è vissuto Nelson Mandela, che proprio nell’abbandono del vim vi repellere e nell’abbracciare la nonviolenza è riuscito a sconfiggere in Sudafrica l’apartheid – tra l’altro dopo il 1989, anno in cui si sarebbe insediato il nuovo ordine erotico. E che dire di quel Socrate così caro all’autore? La scelta di bere cicuta non è allora una «accettazione vittimistica delle ingiustizie»?

Venendo ai contenuti chiave del libro, ci si trova costretti a stare il più possibile lontani dagli ampi sproloqui su «gender» e «ideologia gender» per una ragione precisa. L’autore omette o mistifica le fonti dirette di questa ideologia, non esplicita un singolo passo a corredo; al limite infila frasi estrapolate per sostenere il proprio discorso. Evidentemente finge di non sapere che il «pericolo gender» e «l’ideologia gender» nascono e prosperano nell’estrema destra e nei cattolici conservatori.

Eppure nelle citazioni sono più presenti un De Benoist (ideologo della Nouvelle Droite), uno Scianca (responsabile nazionale cultura di CasaPound e direttore del Primato Nazionale) o il caro vecchio Evola di una Butler o una Haraway. Un discorso critico su certi contenuti avvalorerebbe perciò la rimozione mistificatrice a monte, che spaccia per obiettività aree ideologiche ben precise, intanto che denuncia il «pensiero unico» e le sue fantomatiche reprimende.

Ora, il puer aeternus avrà i suoi motivi per essere debole in storia, e usare un borghese prussiano, per forza di cose scarso in antropologia, per teorizzare sull’amore e forma naturaliter della famiglia – in «natura» esiste la poligamia patriarcale e matriarcale, tanto per dire. Ma, a proposito di storia, un giorno i suoi tribunali ospiteranno la grande editoria italiana – Bompiani, Feltrinelli, Einaudi, Rizzoli – e a questi imputati eccellenti sarà chiesto: «In nome di cosa avete sdoganato il rossobrunismo nei vostri cataloghi, per mezzo di un uomo tutto sommato trascurabile, che nemmeno ha avuto l’astuzia di dissimulare la propria natura, un uomo cui già bastava il risalto del Carnevale mediatico imbastito da televisione, stampa e radio?». Si spera che gli imputati, quel giorno, abbiano una risposta migliore del furbesco: «Eh, però vendeva», se non altro perché la Storia avrà gioco facile nel replicare: «Appunto».

 

(Diego Fusaro, Il nuovo ordine erotico, Rizzoli, 2018, pp. 416, euro 19)
“Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera” copertina

“Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera”

I Cardiopoetica, collettivo formato da Fabio Appetito, Marco de Cave e Mariano Macale, si muovono sulla scena poetica italiana da ormai diversi anni, inseguendo il progetto di una poesia che modernizzandosi si faccia ancora spazio nel trafficato mondo della letteratura contemporanea. Traendo ispirazione da svariati autori, da Montale a Neruda, dalla Merini alla Beat Generation americana, i Cardiopoetica studiano un metodo promozionale del tutto innovativo, volto a portare “fisicamente” i propri versi tra la gente, muovendosi in lungo e in largo per l’Italia e cogliendo un bacino d’utenza, sempre in crescita, decisamente ampio e variegato.

Dopo l’esordio con State scherzando, vero? (Ensemble, 2012), volume pubblicato senza l’effige di Cardiopoetica, e il successo di Resushitati, sono tornati lo scorso anno in libreria con Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera (Ensemble, 2017) del quale dicono: «È il resoconto delle nostre possibilità, perché se la sola idea di poesia dimostra che tutto è possibile, allora perfino morire e scriverci un libro sopra è stata la nostra mimesi di felicità».

 

Come ha preso piede l’idea di dare vita al collettivo Cardiopoetica? Solitamente si ha della poesia un’idea di individualità…

Cardiopoetica nasce da un approccio comune alla vita, da una visione che, pur diversificata, ci trova in armonia su molti aspetti funzionanti, esattamente come un mosaico: ogni tessera mantiene la sua unicità ma a uno sguardo d’insieme risulta chiara la direzione di tutte le tessere. Ecco, Cardiopoetica è il mosaico delle nostre emozioni. Chiaramente abbiamo background (oggi vanno di moda questi anglicismi) differenti, eppure alla fine riusciamo a convergere sul tipo di mondo che vogliamo disegnare. Pensiamo infatti che fare poesia equivalga a fare politica. Il mondo non è lo stesso dopo che dei versi sono stati scritti: la scrittura raddrizza il ramo, decide se deve curvare in alto o in basso, dove far nascere i germogli, con quali altri rami intricarsi o separarsi. Fare poesia significa attuare un cambiamento. Persino una comune poesia d’amore, se scritta con un maturo linguaggio poetico, con una visione che nasce da un vissuto e non per relata referens, è un atto di cambiamento, un’azione che plasma. Prima non c’era, adesso c’è. E chi verrà dopo, anche senza saperlo, dovrà farci i conti.

 

A tal proposito, cosa vi accomuna e cosa vi diversifica?

Ci accomuna la passione per l’Umanesimo. Ognuno con i propri gusti, le letture personali, gli studi dissimili. L’interesse e la curiosità per tutto ciò che, muovendosi, trova posto nel reale e nel fantasmagorico. Certamente siamo diversi nell’approccio verso un’idea di letteratura e poesia e quindi, per forza di cose, nello stile. Soprattutto ci accomuna, come dicevamo, l’approccio. Per citare Brodskij, fare poesia non significa attuare una produzione tipografica, ma guardare il mondo, avere e proporre una visione del mondo. A questa visione convergiamo da diverse angolazioni.

 

Quanto vi sentite cresciuti, dai tempi degli esordi con State scherzando, vero?

Gli anni di pausa ci hanno portato un po’ di tutto. Sono stati una discarica, un letamaio dal quale abbiamo cercato di cogliere i fiori della prateria. Anche il male ha certo i suoi fiori, e abbiamo frequentato le aiuole più scure, l’abbandono, la sfiducia, la fine di una relazione, la disillusione, la depressione latente. Ci hanno tolto l’ingenuità, ma non ci hanno del tutto privato della curiosità: fortunatamente (giacché è necessaria anche una certa dose di fortuna), abbiamo trovato la forza di descrivere l’abisso, perché se oggi possiamo ammirare l’albero e i suoi frutti, è negli anfratti perduti delle radici che bisogna cercare l’origine. Non diciamo e non scriviamo che il peggio è passato, però possiamo dire che a un certo punto abbiamo trovato la forza comune di mettere nero su bianco quel che accadeva. Ed è straordinario capire come poi l’esperienza umana del dolore, della misura della forza, della ricerca della serenità sia universale.

 

Avete promosso ogni vostra raccolta con un tour, vi sentite soddisfatti di questo metodo promozionale, insolito nell’ambito della poesia? Cosa si prova a leggere direttamente negli occhi degli spettatori le sensazioni provocate dai vostri versi?

Siamo molto soddisfatti di questo metodo, per così dire, promozionale, perché è sia un modo per farci conoscere a tutti gli effetti e con noi ciò che scriviamo, il nostro libro, sia un modo soprattutto per conoscere, per accogliere, per continuare a cercarlo, questo mondo, spesso disprezzato, scansato. Si dice di voler tanto correggere la grammatica di molti valorizzando così un certo linguaggio oppure si dice di voler diffondere la lettura, ma se non ci si sporca le mani, come faceva Don Milani con i suoi ultimi, se non si va nel mondo a odorare, a toccare, a sentire, cosa si fa? Noi li vediamo, gli occhi delle persone che vengono a vederci, a sentirci. In ogni reading sembra di stare all’interno di una grande e improvvisata famiglia. A un certo punto non siamo neanche più noi il motivo reale di quell’incontro, noi, lo diciamo sempre, siamo solo un pretesto temporaneo della bellezza: se ci incontriamo è perché in comune abbiamo le paure, le disperazioni, le speranze. Questa è la materia più viscosa e vera, poi vengono i premi, la conoscenza letteraria, i curricula. Ma la vita è lì che accade, che comincia, in uno sguardo complice.

 

Cosa pensate della situazione attuale della poesia? Qual è il contributo che volete dare?

È un po’ come chiedere una diagnosi di un corpo che cammina, se facesse un po’ più di sport sarebbe certamente meglio. Sì, Mariangela Gualtieri, Milo De Angelis, Aldo Nove, Nanni Balestrini sono alcuni dei nomi che vivificano l’attuale panorama italiano, e certamente non possiamo dimenticare altri grandi del Novecento, non spetta a noi fare vane elencazioni. Ma se si vuole sensibilizzare i più all’ascolto della poesia, allora li si deve sensibilizzare al patrimonio, a delle chiare scelte anche politiche in senso lato, e questo passa anche, ma non necessariamente, dall’istruzione. Passa dal dialogo in famiglia, per esempio. Passa dal lottare contro una fretta sempre più vorace del sociale. Passa da una scelta radicale tra avere o essere, recuperando il discorso di Fromm. Non si può leggerlo e poi far finta che non esista. Afferma un detto ebraico che se stai vivendo la stessa vita che qualcun altro già vive o potrebbe vivere al tuo posto, allora stai sprecando la tua vita. Ecco perché non basta essere medici, avvocati, metalmeccanici o poeti, non basta. Alla fine la domanda è: sei soltanto quello che fai o sei così folle da riuscire a vedere altro? Ecco il nostro contributo: guardare altrove. Alzare gli occhi.

 

I titoli che scegliete per le vostre raccolte e i vostri tour sono molto particolari. Qual è il significato che hanno per voi?

I titoli nascono sempre da una forma che ripercorre ciò che nelle raccolte scriviamo. Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera è un titolo semplice e al tempo stesso poetico, di buon impatto uditivo, consapevolmente non erudito. Il tour Mica come Prévert trae anch’esso origine da una poesia all’interno del nostro libro. È una frase in grado di restare impressa nella mente, è una frase, per così dire, da tour. Il tour si basa sulle tappe, su un appuntamento. Nel giro di pochi secondi devi finire di dire il nome del tour. Non possiamo fingere di vivere in una società ottocentesca. Ci sono regole comunicative alle quali cerchiamo di adattarci come meglio possiamo, senza scadere in compromessi nazional-popolari.

 

Parliamo di Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera. La raccolta è divisa in tre sezioni: “Dubbio”, “Silenzio” e “Parola”. Che ruolo hanno nella vostra vita queste parole? E che ruolo ha la poesia nel vostro quotidiano?

È un ruolo, quello di Dubbio, Silenzio e Parola, che sintetizza le esperienze che abbiamo vissuto. Esperienze emotive nelle quali non sempre è facile discernere la luce dal buio, anzi impossibile. Non puoi dire, all’interno di una relazione, questo va bene, questo non va bene. Puoi illuderti di mettere ordine, ma il giorno dopo ti sveglierai nello stesso caos. Ecco, queste tre sezioni sono un illusorio ma efficace tentativo di ordine. Il lettore sa che c’è un momento per dubitare, uno per tacere, uno per parlare. Ma è avvertito: questi tre momenti spesso coincidono. La poesia è il nostro quotidiano, o uno è poeta sempre o non lo è. Non puoi dire «Sono poeta dalle otto alle dieci». Te lo porti dentro, e la cosa peggiore è che non puoi farci niente. Se sei abbastanza svergognato, al limite puoi scriverci un libro.

 

Questo libro avrà un seguito?

Questo libro, sin da subito, ha avuto i presupposti di una lapide. Del resto, la letteratura tutta deve essere un pugno sul cranio mentre si cerca di acciuffare una piuma. I fantasmi e gli avvenimenti che ci hanno assillato in questi anni hanno trovato, attraverso la pubblicazione, la loro fine definitiva. Ogni poesia che lo forma ora è una barchetta, un aeroplano di carta. Al di là della traiettoria, dei centimetri o dei chilometri che percorrerà, l’abbiamo lasciato andare. Ciò che ne seguirà sarà qualcosa di diverso che, ancora una volta, farà perdere le tracce di sé.

 

(Cardiopoetica, Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera, Edizioni Ensemble, 2017, pp. 98, euro 12)

“the blue hour”: il ritorno dei Suede

Tra tanti ritorni più o meno riusciti, motivati e necessari, quello dei Suede ha prodotto risultati molto significativi. Dopo lo scioglimento del 2003 e i non proprio imprescindibili esiti del progetto The Tears e del percorso solista di Brett Anderson, la bella doppietta Bloodsports – Night Thoughts (accompagnata da un indimenticabile live al Rock in Roma) ci ha ricordato quanto amassimo i londinesi e l’annessa importanza nella storia recente del rock. A conferma degli aspetti positivi del ritorno, ecco allora the blue hour, il miglior lavoro dalla reunion datata 2013.

Rinvigoriti dal successo di critica e pubblico dei precedenti album, i Suede, dopo aver riproposto in maniera viva e ispirata la riconoscibilissima miscela pop-rock, questa volta azzardano espedienti più “alti”, anticipati da alcuni indizi trapelati prima dell’uscita, come l’inedita produzione di Alan Moulder, la presenza della City of Prague Philharmonic Orchestra e la possibile scelta di un concept-album. Ascoltando l’opening “As One”, si ha infatti la sensazione d’essere davanti a un lavoro molto cinematografico, fatto di voci sussurrate e un bell’arrangiamento orchestrale. Anderson si presenta oscuro e affascinante come sempre, forse anche di più:

«Here I Am / Talking to my shadow / Head in my hands».

In realtà, proseguendo l’ascolto ci troviamo davanti alla solita impeccabile e trascinante sequenza di brani alt-pop intensi e incisi che solo gli Suede sanno comporre con tale costanza. Sì, ogni tanto appaiono intermezzi parlati/strumentali come “Roadkill”, ma a colpire sono i ritornelli delle iniziali “Wastelands” e “Beyond the Outskirts” o la chitarra di Richard Oakes in “Cold Hands”, che con i suoi cori ci riporta nella felice stagione del Britpop. Successivamente, uno dei passaggi più belli di the blue hour, quei brani che solo gli Suede – magicamente – sanno produrre: “Life Is Golden”, con quel «You’re Not Alone» capace di evocare il suicidio rock’n’roll di un certo Ziggy Stardust. Brividi.

Avvolto dal fascino e dall’immaginario crepuscolare e malinconico accennato fin dallo scatto di copertina, e nonostante il minutaggio corposo e la tendenza al melodrammatico, the blue hour – aiutato dal bel singolo “Don’t Be Afraid If Nobody Loves You” – scorre filato fino all’assolo finale di “Flytipping”. Il nuovo viaggio dei Suede giunge così alla fine, lasciando all’ascoltatore quel senso di appagamento che solo la grande musica riesce a consegnare.

Copertina di "Prima che te lo dicano altri" di Marino Magliani

L’origine è al termine del viaggio: l’epopea di Marino Magliani

A centro del nuovo romanzo della collana Altrove di Chiarelettere – Prima che te lo dicano altri di Marino Magliani (2018) – c’è un’amicizia, o forse sarebbe meglio dire la ricerca di una padre simbolico. Magliani è autore ligure che ha vissuto in giro per il mondo, il vettore della propria origine e quello dell’internazionalismo si intersecano anche nella sua scrittura. Nella Liguria degli anni ’70 si sviluppa l’amicizia-apprendistato di Leo Vialetti, all’epoca solo un bambino senza padre, e Raul Porti, un bizzarro possidente che di punto in bianco sparisce. La storia porterà Leo a spostarsi in Argentina sulle tracce del suo misterioso amico. Le vicende di Leo e Raul si incroceranno con la ricostruzione storica della vicenda dei desaparecidos.

La scrittura di Magliani è composita, si triplica. Sono tre infatti le epoche di cui racconta l’autore, e per ognuna di esse Magliani modula una voce e uno stile, per mettere in luce il cambiamento emotivo dei personaggi e la differenza di tempo e luogo. C’è il racconto dell’infanzia in Liguria – resa con i tratti della terra natia, ma senza eccedere nell’idealizzazione –, un contesto che fa da sfondo alla formazione di Leo e al progressivo generarsi del legame con Raul. In questo caso Magliani adotta una lingua scarna, volta all’azione, alla descrizione delle prime avventure del protagonista: «Da quando hanno tagliato il carruggio, il marciapiede è un insulto al pedone: due palmi scarsi di pietra sbeccata e cemento, che al passaggio di una macchina Leo deve tirare in dentro la pancia».

La Liguria torna anche nella linea temporale ambientata nel 2020: sono cambiate tante cose dagli anni ’70, il paesaggio è stato geometrizzato, reso docile e impacchettato per i turisti. La cartolina formato regione della Liguria diventa la metafora di un paese venduto come parco giochi. A Leo, ormai in età avanzata, non rimane che coltivare la sua passione: l’arte dell’innesto. La scrittura di Magliani scava in profondità, aprendo uno spazio narrativo, riportando con minuzia tutti i particolari dell’operazione. Qui la lingua si fa un contagocce, il ritmico ritorno alle poche certezze di una vita sfuggente:«Cercò il coltellino in tasca. Se lo fece girare nelle mani, come faceva con le batterie da bambino. Poi vagò un po’ tra gli arbusti e, individuato il rametto buono di un ciliegio d’altura, tagliò due marze, le tenne tra i denti e praticò un’incisione a forma di triangolo nel pruno».

Il filone narrativo più distante si perde in Argentina, una nazione sull’orlo della crisi, e per questo con i caratteri di un West dei tempi moderni. Ma Magliani non si limita alla critica sociale, in Argentina ritrova l’affinità con la sua Liguria, ed ecco che i paesaggi dei gauchos somigliano ai luoghi dell’infanzia, l’autore sembra voler descrivere la connessione fra il codice della natura e la patria interiore che ci portiamo sempre dietro. La lingua, in questo caso, si colora dei termini spagnoli, diviene lo specchio del romanzo picaresco che l’autore intesse per Raul e Leo: «Ne ricavava poco. Giusto un confronto su come avevano torturato e ucciso. Cose di cui peraltro sapeva già molto: la picana elettrica, la droga perché dormissero, il giro sull’aereo e i vuelos de la muerte».

Nel romanzo di Magliani convivono la perizia dello scrittore esperto, capace di cogliere le sfumature della realtà senza dover essere a tutti i costi magniloquente, e l’acume dello sperimentatore che maneggia alla perfezione il materiale narrativo evocato. L’autore riesce a cartografare il rapporto fra due uomini diversi – lontani nel tempo e nello spazio – eppure vicini. Allo stesso tempo lascia campo agli eventi storici che si riverberano nella vita dei protagonisti. Da questo incontro nasce un romanzo che sembra sussurrare le parole giuste proprio quando il silenzio diventa assordante.

 

(Marino Magliani, Prima che te lo dicano altri, Chiarelettere, 2018, pp. 336, euro 17,50)