Lo sguardo edulcorato di un flâneur al rovescio

Le vite descritte nel romanzo La manutenzione dei sensi (Fazi Editore, 2018), ambientato nell’antico villaggio delle Alpi torinesi di San Sicario, sono quelle di un mondo in miniatura, al centro di una solitudine che trascina ogni cosa nel proprio vortice con tutta la violenza delle sue bufere di neve, con le loro «raffiche di schegge di vetri taglienti», male di vivere quale moderna condizione esistenziale di cui l’autore, il giornalista Franco Faggiani, è al contempo lucido cronista e filosofo.

Eppure dolore, apatia, rassegnazione, asocialità finiscono per confluire in una storia a lieto fine che, nel disegnare la parabola positivamente evolutiva dei suoi personaggi – in particolar modo quella di Leonardo Guerrieri, vedovo cinquantenne protagonista e voce narrante del libro e del figlio adottivo Martino Rochard, affetto dalla sindrome di Asperger – sembra inizialmente avviarsi sul solco del classico romanzo di formazione ottocentesco o Bildungsroman, (tra i cui esempi più noti ricordiamo di passata Il rosso e il nero di Stendhal e L’educazione sentimentale di Flaubert) per poi tradire le aspettative distaccandovisi gradatamente durante il corso della narrazione. Infatti, a differenza di questi capisaldi della letteratura, Faggiani smantella e ricompone il genere in una sorta di romanzo di formazione edulcorato, in cui la trama viene a perdere l’impatto propulsivo e la grandezza della sua forza tragica in favore di una attenta e partecipe riflessione sui valori del dialogo, della coesione sociale e della solidarietà umana.

È dunque a causa dell’intento divulgativo di un preciso messaggio etico – peraltro esplicitamente dichiarato da Faggiani stesso – volto ad attirare il più possibile l’attenzione di lettori, genitori, insegnanti e media sul delicato quanto spesso tralasciato tema degli asperger, al contrario di  Frédéric e del suo amico di gioventù Deslauriers, i quali in L’educazione si ritroveranno, sconfitti, ad ammettere l’un l’altro l’insuccesso delle proprie vite, o del giovane Julien Sorel che in Stendhal finirà ghigliottinato, che Leonardo Guerrieri supererà il dolore della perdita della moglie e saprà aiutare il piccolo Martino a confrontarsi con i propri disturbi comportamentali e fobie sociali; così come la figlia maggiore Nina, giovane osteopata in carriera, scoprirà insieme al padre e al fratello acquisito i solidi valori umani della comunità montana nella quale sono stati accolti e integrati.

Orientamento strutturale e contenutistico che, se pur paga un chiaro prezzo in termini artistici, d’altra parte offre un valido richiamo al confronto su uno degli argomenti di attualità più intenso e dibattuto degli ultimi anni, quell’accoglienza del diverso in tutte le sue declinazioni che, al di là del focus sulla sindrome di Asperger, possiamo chiaramente leggere in filigrana nelle duecentocinquanta scorrevoli pagine che ne compongono il testo.

Similmente all’autore – non a caso reporter – agisce il ribaltamento di un suo personale sguardo di flâneur perché, scavalcandone tanto il significato più aderente datogli da Benjamin di attento osservatore del paesaggio cittadino, dal quale raccoglie osservazioni sociali, culturali ed estetiche, quanto quello dell’accezione che ce ne offre  Edgar Allan Poe in L’uomo della folla, vale a dire di chi non è a proprio agio con se stesso e perciò cerca la massa, nella quale può nascondere la propria solitudine osservando senza essere osservato, qui il Leonardo Guerrieri protagonista del romanzo è un flâneur al rovescio, un uomo inizialmente asociale che via via evolve il suo atteggiamento aprendosi agli altri e la cui visuale, sfuggendo all’orientamento dell’ambiente urbano, che detesta in quanto vissuto come simbolo di un’omologante spersonalizzazione, si indirizza alle montagne del borgo cinquecentesco di San Sicario non già per disvelarvi un mondo, quanto piuttosto limitandosi a denudarlo.

Le cose, ma in ugual modo le persone, i sentimenti, le situazioni della vita, la stessa sindrome di Asperger, perdono l’inafferrabilità del loro senso, cosicché alla propria impenetrabile polivalenza di significato viene sostituito il valore univoco di una lettura ottimista che ricompatta il quid che sfugge, ciò che della realtà ci affascina e insieme atterrisce proprio perché ambiguo e frammentato. Eppure, se in questa storia agile che non sa di letteratura Faggiani tralascia l’osservazione fantasmagorica e critica dell’intellettuale, in compenso rivendica alla natura il suo diritto elementare di madre, il ruolo consolatorio e unificante che il suo spettacolo ci regala, quella necessaria manutenzione dei sensi che ci predispone all’ascolto dell’altro e del diverso, a partire da quel grumo oscuro che ci vive nel profondo ed è innanzitutto a noi stessi estraneo e non compreso.

 

(Franco Faggiani, La manutenzione dei sensi, Fazi Editore, 2018, pp. 250, € 16.00)
Poster di La stanza delle meraviglie su Flanerí

La stanza delle meraviglie è vuota

Dopo Hugo Cabret, i romanzi di Brian Selznick tornano al cinema con La stanza delle meraviglie. Presentato al Festival di Cannes nel 2017, il film diretto da Todd Haynes è stato accolto con deciso scetticismo. Siamo molto lontani dagli standard di Haynes, uno dei registi visivamente più sorprendenti ed eleganti di Hollywood. Un autore, anche, capace di stupire e confondere con i suoi film.

La stanza delle meraviglie segue due piani temporali paralleli. Nel 1927, a Hoboken, New Jersey, Rose è una bambina sordomuta che colleziona articoli su un’attrice del cinema. Schiacciata da un padre severo, decide di partire per New York per cercare la sua attrice preferita e il fratello che è andato lì a lavorare. Ben, invece, cresce nella campagna del Minnesota del 1977 senza aver mai conosciuto il padre. È proprio un indizio su chi potrebbe essere che lo spinge a New York. Tra i due bambini non c’è nessun legame apparente, ma il destino li lega in maniera profonda.

unC’era una volta Todd Haynes, un regista provocatorio e visionario capace di andare sotto la scorza della società statunitense per mostrarne la vera pelle. Nel 1987 aveva raccontato in un cortometraggio la storia di Karen Carpenter, cantante morta di complicazioni cardiache collegate all’anoressia, usando solo delle Barbie. Nel 1991 aveva inaugurato il New Queer Cinema con Poison. Poi ci sono stati Velvet GoldmineLontano dal paradiso e il recente Carol, oltre a Io non sono qui, in cui tra i tanti attori chiamati a interpretare Bob Dylan c’era anche Cate Blanchett (la migliore anche in quel ruolo).

Con La stanza delle meraviglie Haynes ha deciso di abbandonare ogni tentativo di sguardo più profondo sulla società statunitense. È una storia per bambini senza seconde chiavi di lettura. Una storia triste – eccessivamente – di quelle in cui il dolore diventa chiave per la crescita. Una storia che vuole essere complicata – troppo –, per poter apparire più di quello che è.

Bloccato dal copione curato dallo stesso Selznick, Haynes ha trovato spazio di manovra soprattutto nella messa in scena, dando libero sfogo a tutto il suo talento visionario. La parte del 1927 è un omaggio al cinema muto, senza dialoghi, con la musica – a tratti ossessiva – a sottolineare i momenti chiave, con una recitazione enfatizzata. La parte del 1977 è un’esplosione di colori e caos, di luce e rumori. È un omaggio alle diverse anime del tempo di New York, la vera protagonista del film, mostrata in ogni suo centimetro nel fantastico panorama conservato al museo del Queens realizzato per l’esposizione universale del 1964.

Le immagini sontuose, però, sono a sostegno di una storia che non riesce mai a raggiungere il giusto slancio. Il parallelismo tra le due storie appare, soprattutto nella prima parte, forzato e basato sulla pura e semplice giustapposizione anziché su qualche tipo di struttura narrativa effettiva. È probabile che il limite più grande di La stanza delle meraviglie sia proprio nel suo sceneggiatore. Sembra paradossale che chi ha scritto un romanzo di successo non sia in grado di raccontare in un altro modo la sua stessa storia, ma è così. Hugo Cabret era stato riadattato per il grande schermo dallo sceneggiatore John Logan. Selznick, in questo caso, non è stato in grado di dare una forma nuova alla sua storia. Haynes non ha saputo trovare un equilibrio per mediare, e anzi la sua ricerca sulla forma finisce per essere uno sfoggio eccessivo di manierismo.

Peccato, perché gli elementi per un film emozionante ci sarebbero, a partire dalla selezione musicale che vede, ancora una volta al cinema, Space Oddity di David Bowie in un ruolo centrale, insieme a Also sprach Zarathustra in chiave fusion di Eumir Deodato, fino alle immagini dei diorami e panorami dei musei. Così com’è, resta la sensazione che di meraviglie, in questa stanza, ce ne siano ben poche.

 

(La stanza delle meraviglie, di Todd Haynes, 2017, drammatico, 116’)

 

La vita è semplice

«Capita, talvolta, di avere l’onore e la fortuna di tradurre uno dei propri scrittori preferiti, com’è capitato a me con il romanzo-diario di Mihail Sebastian De două mii de ani…» scrive Maria Luisa Lombardo, la traduttrice di Da duemila anni, nel numero di maggio 2018 della rivista Tradurre. E aggiunge: «Perché un traduttore, non dimentichiamocelo, è in primo luogo un lettore, con i suoi gusti e le sue passioni. E capita anche ai traduttori, quantomeno così è nel mio caso, di sprofondare nell’atmosfera del romanzo, di mettersi nella pelle dello scrittore, con la speranza di poter trasmettere quanto più fedelmente il suo messaggio, o anche solo perché si viene travolti dal vortice della scrittura».

Per raccontare Da duemila anni ho preferito dar voce alla persona che forse meglio di tutti conosce il libro, avendolo amato e sviscerato: la sua traduttrice. Ringrazio quindi Maria Luisa Lombardo per aver accolto le mie domande, e per le sue risposte precise, sensibili e illuminanti.

 

Che cosa ti ha colpito di più nell’opera di Sebastian?

Un aspetto che più mi affascina del romanzo Da duemila anni è la maestria con cui Sebastian esplora i molteplici aspetti che può assumere il dramma identitario. In primo luogo, c’è la lotta contro quella “traumatica eredità ebraica” che affliggeva, fra tanti, anche l’amico drammaturgo Eugène Ionesco e che Sebastian definisce, nel romanzo, il «supplizio [di] essere figlio di un popolo di martiri». E a questa pesante eredità si aggiunge la coscienza di appartenere a due sensibilità romene discordanti: quella del Danubio e della Muntenia (rude, forte, resistente) da un lato e quella della Bucovina e della Moldavia (malinconica e dalla salute precaria) dall’altro. Il protagonista del romanzo annaspa fra tutte queste identità, alla ricerca della sua patria, di quel noi romeni che, essendo ebreo, gli viene negato sin dai banchi di scuola. Se questi, tuttavia, sembra accettare la sua sofferta identità romeno-ebrea reagendo stoicamente alla violenza e agli insulti, e soprattutto adottando una filosofia di vita all’insegna della massima “la vita è semplice”, altri personaggi si afferrano con forza ai propri ideali, vuoi per affermare il proprio status vuoi per preservare la propria identità. Esemplare è la struggente lettera che Dogany, lo studente ungherese-romeno, discriminato dalle leggi razziali dell’università di Budapest, invia al protagonista:

«Giovedì dovrò presentare i miei documenti alla segreteria della facoltà, per un nuovo controllo. Mi lasceranno restare? Sarò cacciato via? Mio padre minaccia di ridurmi la paga se non ritorno a Satu Mare. Ma non posso, non posso. Cosa vuoi che faccia lì, in un paese che non mi appartiene? Ma l’Ungheria è la mia patria? Sì, mille volte sì, qualsiasi cosa dica mio padre e per quanto tu possa ridere».

E persino la piccola comunità di inglesi in uno sperduto villaggio romeno manifesta l’ostinata necessità di preservare la propria dignità e identità attraverso il rispetto di un rigido codice dell’abbigliamento, di apparentemente buffe manie mondane. A Parigi, poi, incontriamo il cinico Maurice Buret, che sembra sottrarsi a questa lotta seppellendo il proprio Io sotto camaleontiche e schizofreniche personalità e nutrendosi del riflesso delle vite altrui.

Interessante è che tutte queste piccole battaglie per la propria identità sono accomunate, alla fin fine, dalla disperata voglia di sfuggire al soffocante e al contempo consolatore sentimento di una “dignitosa solitudine”, e a cui alcuni sembrano sottrarsi, con o senza esito, aderendo ciecamente a ideali politici o religiosi.

 

Quali difficoltà hai incontrato durante la traduzione e come hai potuto superarle?

La principale difficoltà è stata emozionale, vista la durezza di immagini e sentimenti presenti nel romanzo, che si è tradotta nella necessità di trasmettere nella traduzione questa intensità di emozioni. Spero di esserci riuscita, anche solo in parte.

Non so, poi, se si possa considerare una difficoltà la ricchezza di riferimenti storici, ma sicuramente è un elemento che ti porta a fare un lavoro di ricerca e approfondimento soprattutto di quegli accadimenti che conosci solo superficialmente, per la necessità di una correttezza non solo storica ma anche terminologica.

Così come avviene anche nel caso di riferimenti ad altre culture. Non sono francesista, quindi quando nel romanzo mi sono imbattuta nella parola gousa ho avuto delle titubanze. Dopo una accurata ricerca, e visto il contesto, ho scoperto (questo è anche il bello della traduzione) che si trattava del termine gousse. Un francesista sicuramente lo avrebbe colto al volo.

 

Mi incuriosisce la scelta di tradurre dal romeno; cosa ti ha spinto a scegliere una letteratura cosiddetta minore?

Be’, molto banalmente, ho scelto il romeno perché conoscevo molto poco di questo paese e della sua cultura. Diciamo che è stata una scelta dettata dal desiderio di scoprire qualcosa di nuovo. Poi, vista la mia passione per lo yoga, il richiamo di Mircea Eliade è stato non trascurabile…

 

 

Da duemila anni è la cronaca del terribile e al contempo consolatore sentimento della solitudine ebraica nella Romania, e nell’Europa fra le due guerre. Un tema su cui è bene sempre ritornare.

 

(Mihail Sebastian, Da duemila anni, traduzione di Maria Luisa Lombardo, Fazi Editore, 2018, 278 pp, € 17.00)
Copertina di “La Trinità bantu” di Max Lobe

Che Dio ce la mandi buona

Quando le cose si mettono davvero male non resta che rivolgersi alla Trinità bantu: c’è Nzambé, Dio Padre, Élôlombi, «Dio degli spiriti che planano sulle nostre anime», e i Bankóko, «gli antenati che vegliano sulle nostre vite ed esaudiscono i nostri desideri più profondi». Basta pregarli, e loro una mano te la danno sempre, ripete mamma Monga Míngá al figlio Mwána, che ne asseconda la devozione con distratta accondiscendenza. Mwána Matatizo vendeva cosmetici sbiancanti porta a porta per conto della Nkamba African Beauty ma da un giorno all’altro è stato licenziato; vive con Ruedi, studente e figlio di banchieri, orgoglioso di non essere mantenuto dai genitori ma totalmente disinteressato a trovarsi un lavoro; fa un tirocinio nella Ong della combattivissima signora Bauer, rivoluzionaria di vecchio stampo, ma lo stipendio basta appena per pagare le fatture arretrate; gravita tra le file dell’ufficio disoccupazione, degli aiuti sociali e delle distribuzioni alimentari delle associazioni di beneficienza. Eppure si è laureato alla prestigiosa Università di Ginevra! Tiene una foto della cerimonia di fine master nel cassetto, ma la valanga di lettere di rifiuto dei datori di lavoro l’ha ormai seppellita. Come se non bastasse Monga Míngá è costretta a volare in Elvezia dal Bantuland per curare un brutto cancro, e Mwána ormai piange spesso, mentre lo stomaco gorgoglia per il costante appetito.

L’occorrente per una storia dagli eccessi lacrimosi c’è tutto in La Trinità bantu (66thand2nd, 2017), eppure Max Lobe riesce a evitarne magistralmente il rischio. Il tono della narrazione si mantiene tragicomico senza però cadere nel sarcasmo, e le priorità di Mwána sanno essere immancabilmente frivole, come al primo versamento dei sussidi statali: «Basta Pacchetti del Cuore. Basta lenticchie. Basta miseria. Possiamo finalmente provare a vivere come tutti. Sto perfino pensando di comprarmi un nuovo paio di scarpe. Mi prenderò delle Louboutin oggi pomeriggio».

Ogni personaggio agisce con una punta di ipocrisia che aiuta a evitarne l’idealizzazione e diverte per le considerazioni inopportune, l’omofobia più o meno celata, il razzismo latente, le lodi al maschilismo. La signora Bauer, che nonostante stia dalla parte degli oppressi mantiene «in fondo in fondo, una patina di borghesia di cui vorrebbe tanto sbarazzarsi», la sorella Kosambela, che si dispera per non avere come marito un uomo vero, ma una mezza calzetta che piange mentre le dice di amarla e si occupa delle faccende casalinghe, le suore manager della clinica in cui è ricoverata Monga Míngá, che boicottano l’addio al celibato dell’oncologo perché si sposa con un uomo, sono tutti attori di una trama politicamente scorretta e per questo così seducente.

La scelta di ambientare le azioni tra due paesi non del tutto reali, l’Elvezia e il Bantuland, aiuta a condensare in modelli unici il Nord e il Sud del mondo e i luoghi comuni che li contraddistinguono. L’Elvezia è l’antico nome della Svizzera e di questa mantiene alcune caratteristiche, come i cantoni, il multilinguismo, lo status di meta migratoria, ma contrariamente allo stereotipo sui servizi pubblici impeccabili qui la gente è frustata per la disoccupazione e i bus arrivano in ritardo. Il Bantuland è uno stato africano, anch’esso multilingue, dove in tanti sognano l’Europa e la ricerca di lavoro è impresa ardua, con un governo militare e un’amministrazione corrotta che si trascina sin dalla partenza dei colonialisti. Coincidenza vuole che questi due stati così distanti celebrino la festa nazionale nello stesso giorno, e, sebbene apparentemente senza nulla in comune, nemmeno i bantu e gli elvezi siano poi parenti tanto lontani.

Con uno stile che ricorda Mabanckou – eppure non si riduce a omaggiarlo, trovando una sua perfetta autonomia nel raccontare – La Trinità bantu è un ottimo romanzo per riflettere su temi caldi senza pesantezza, e ricorda al lettore che, quando tutto sembra disperato, si può sempre provare a fare un fischio alla Provvidenza.

 

(Max Lobe, La Trinità bantu, trad. di Sándor Marazza, 66thand2nd, pp. 180, euro 15)
Copertina di “Le stelle cadranno tutte insieme”

Schiavi del desiderio

La dicitura “giovane scrittore” non è molto lusinghiera, come se il fatto di essere giovane costituisse di per sé una motivazione dello scrivere. Più corretto sarebbe dire “scrittore giovane”, ovvero scrivente padrone dei propri mezzi, e con un’età anagrafica tale da avere uno sguardo sul mondo diverso. Ciò non qualifica uno scrittore in maniera migliore o peggiore, ma può dare un’idea del cosmo che gira nella testa di chi prende la penna in mano. Ebbene: Iacopo Barison è uno scrittore giovane, e per nostra fortuna nella sua prosa la capacità di prendere in considerazione fenomeni nuovissimi si sente.

L’autore aveva esordito qualche anno fa nella prima talentuosa covata della Tunué. Stalin + Bianca era un romanzo di viaggio in cui si sentiva forte la presenza dell’universo cinematografico, le scene avevano una composizione e una dilatazione di movimenti tale da essere immaginate come proiettate su uno schermo. Forse è uno dei motivi per cui Daniele Ciprì ha deciso di trarre un film dal romanzo.

Non so quanto l’esperienza abbia influito sull’autore, sta di fatto che il protagonista di questa seconda prova è uno sceneggiatore, seguiamo la sua voce narrante e ci inabissiamo nella contemporaneità. La prima differenza rispetto al precedente sta proprio in questa precisa focalizzazione: se nel romanzo d’esordio la realtà era presa in considerazione attraverso il campo lungo di una prosa dalla forte componente visuale, in Le stelle cadranno tutte insieme (Fandango Libri, 2018) ogni avvenimento è filtrato dallo sguardo del protagonista.

È come se prendessimo posto nello scafandro della sua testa, e assistessimo al dialogo semiserio fra il narratore e la propria coscienza. Nelle riflessioni del giovane si agita una sincerità che può essere colta dal lettore, un mare di considerazioni che debbono tacersi nel contesto sociale, perché fuori luogo in una realtà così complessa da essere schiava delle interdipendenze.

La tematica del desiderio si configura come il nucleo portante del romanzo, giacché è motore per le azioni del narratore, ma allo stesso tempo fonte di disagio. Nel mondo contemporaneo il desiderio si manifesta come ambizione: si tratta del tentativo di un’ascesa sociale, o anche solo del raggiungimento materiale dei propri sogni. Il narratore vive questa ambivalenza: sostenuto dal suo sogno di potersi esprimere (nell’arte, nella possibilità di vedere riconosciuti i propri talenti) ma allo stesso tempo – quando sopraggiungono i cedimenti – spaventato dai sogni troppo grandi.

L’ambizione diviene una spina nel fianco, e sopraggiunge l’apatia, il trauma nella relazione fra io e mondo.

Tanto più che ambire a qualcosa significa sfidare un reale evanescente, e prendere in considerazione le mille variabili del mondo sovrastimolato dai media. Al dialogo con se stessi si aggiunge la dissociazione, la frammentazione di un io moltiplicato sui social, nel flusso di informazioni che rendono il cosmo troppo piccolo e troppo grande, il tempo simultaneo, ripiegato su se stesso e dunque sfuggente.

Barison sa rendere bene – e con invidiabile leggerezza – la sensazione di proliferazione di mondi coevi di un solo istante di vita passato su questo pianeta. Basta prendere l’incipit del romanzo per accorgersene: «E poi? L’acqua defluisce dalle grondaie, le buche diventano pozzanghere e i lampi illuminano le villette a schiera. Qui, nel mio letto, sono le 3.44. A Los Angeles, invece, le 18.44 e Cameron Diaz ha appena twittato un articolo sulle vittime della diarrea in Etiopia. Vorrei parlare con qualcuno, sentire una voce in risposta alla, mia. A New York sono le 21.44, il cielo è nuvoloso e più scuro del solito e Hugh Jackman ha ordinato un dolce che su Instagram sta riscuotendo un ampio consenso. Al televisione a volume zero, le lenzuola gettate sul pavimento».

Si tratta di una realtà percepita sugli schermi, una solitudine privata che si apre al dialogo fittizio con attori-feticcio, simboli lontanissimi. E questo è solo uno spaccato di vita di un flusso continuo, quel «e poi?» iniziale ci dà l’idea dell’impossibilità di stabilire un’origine della storia.

Accanto ai sogni del narratore ci sono le stralunate facezie di Aria, ragazza ingenua e profonda al tempo stesso, convinta di poter parlare con i defunti. Aria intrattiene un rapporto di incontro-scontro con suo fratello, prototipo del nerd paranoico, spaventato da una imminente invasione aliena. A completare la combriccola Danny, aspirante attore dai comportamenti spiccatamente edonisti, con il pallino di percepirsi sempre nel mezzo di un kolossal, come se la sua vita si appiattisse sui blockbuster con cui è cresciuto, e a cui vorrebbe tornare da interprete.

Le parabole raccontate da Barison hanno traiettorie strane, scarti improvvisi che ci ricordano la moltiplicazione di elementi fittizi tanto cari al postmodernismo americano. La prosa dell’autore incrocia l’attenzione ossessiva al dettaglio materiale di DeLillo – ma svuotato della componente metafisica – e la pasta melodrammatica della scrittura di Eggers. Non stupisce che Barison sia finito su McSweeney’s, perché l’universo a cui rimanda è quello bizzarro della famosa rivista americana.

Se avete visto BoJack Horseman saprete quanta delicatezza c’è nella narrazione di un mondo di cartapesta che può indurre all’apatia, se non proprio alla depressione. In questo romanzo ci si cala nella testa di un personaggio simile a BoJack, e si sperimenta la quotidianità alle prese con i proprio desideri indirizzati dall’entropia di un Occidente materialista e competitivo. Barison, con la sapienza di un narratore rodato, ci dà l’illusione che quei pensieri siano proprio i nostri.

 

(Iacopo Barison, Le stelle cadranno tutte insieme, Fandango Libri, 2018, pp. 279, 17 euro)

Vedi alla voce Rivoluzione

Dalla A alla Z possono accadere cose burrascose. Sciami di fatti chiamati a parole, perché è così che proviamo da sempre a condensare le memorie. Succede quindi che un vocabolario rappresenti un armadio di concetti in sequenza. Di strumenti ben pettinati. A Bruno Osimo (autore di Breviario del rivoluzionario da giovane, Marcos y Marcos, 2018) questa formula piace. Alba e tramonto tra due capi di lettere.

Scrittore e traduttore, autodefinitosi «diversamente ebreo tra gli ebrei», abituato fin da subito a vivere e restituire la differenza.

Lo ha già fatto felicemente, con il suo Dizionario affettivo della lingua ebraica (Marcos y Marcos, 2011); materna, sanguigna e uguale solo a se stessa. Quell’amalgama fibroso impastato di timori, nubi, imbottiture, tutto ciò che può servire ad attutire la realtà. Proprio per questo quello incarnato e trasmesso da sua madre, è un idioma dissimile da ogni altro cuore, ribattezzato dall’autore come tampònico.

Una lingua cuscinetto, per cospargersi di porte e non doversi esporre al sole.

Questa invece è un’altra storia. Nel Breviario del rivoluzionario da giovane, siamo a bordo di altri impulsi. E innanzitutto di un’età, l’adolescenza, appositamente colata per scortecciare le paure da bambino. O quanto meno per deriderle. Il momento biologico eccellente in cui impugnare tutti i maligni congegni familiari e cominciare a manometterli.

Questa poi è la storia di un tempo, o meglio forse di un’era geologica (come sembra a scrutarla da qui) in cui quella giovinezza si è diffusa come un gas. Anni socialmente complessi, anni spinosi, d’Italia elettrica, spaccata, sempre sull’orlo dello scoppio.

Bruno, sbarcato a Milano da Padova, è un quindicenne nel ’73, in quell’epoca perennemente infiammata, incastonata come uno spillo tra le urgenze del ’68 e i pruriti degli anni Ottanta.

Tutto nel suo liceo X, dove studiare è secondario e non conta di certo quanto seminare ogni giorno il germe della ribellione, è altamente politicizzato.

Dai discorsi alle giacche, dalle pose all’igiene. Tutto, fino all’ovvio parossismo, è passato sotto il vaglio del dirigentino in carica. E anche al di fuori della scuola, tutto è dettato e vigilato dall’occhio acuto di un giudice invisibile. Tribunale e metronomo, presente più dell’aria. Per imporre ritmo e misura di ciò che davvero sia di sinistra. Osimo è perfettamente efficace a ritrarre la messa in scena dell’assurdo, con il suo morbido e scanzonato registro di commedia.

«Insomma, quando piove ti accorgi della maggioranza silenziosa. Perché è insopportabile tutta questa organizzazione che mettono ad agghindarsi per un evento meteorologico. Segno che hanno un forte individualismo e ci tengono molto a non bagnarsi, dando priorità a queste preoccupazioni egocentriche rispetto all’imminente avvento della rivoluzione. Ehi, voi, maggioranza silenziosa! Non lamentatevi poi se quando viene la rivoluzione non saprete come vestirvi.»

E in questo quaderno di ricordi in ordine alfabetico, Bruno si ritrova in mezzo.

Schiacciato dal massiccio calcareo della sua formazione, come si evince deliziosamente ad esempio alla voce Esproprio proletario: «mi vergogno profondamente di non aver mai rubato nulla, attribuisco questa mia lacuna curriculare all’inesperienza, alla maleducazione, all’ingenuità e all’ambiente borghese che senza volere ho frequentato (che senso di colpa!) e in qualche angolo remoto della mia mente intuisco che se mai un giorno una donna […] potrà anche solo vagamente essere interessata a me […] – questo succederà solo se io primo mi tolgo il fardello di questa mia maleducazione perbenista».

È tentato dalla cosmogonia di un sistema scardinante, dove nuovi istinti sono pronti ad essere addentati.

La gita a Salò ce lo dimostra a pieno: «Le pulsioni non sono soddisfatte in ordine alfabetico, ma in ordine di pulsione, ed è questa la novità, che mi lascia sempre con la sensazione di non aver fatto la doccia, d’essere in viaggio, d’essere in preallarme, d’essere in emergenza, un’emergenza bella, un’iniezione di calcio nelle ossa che dopo sei più forte per forza, come dopo l’antivaiolosa, e marchiato».

Ogni vocabolo del Breviario è un capitolo efficace, autocritico e brillante, tutto da godere, capacissimo di immortalare i contrasti invincibili tra i modelli d’ispirazione e le sue applicazioni nostrane.

Da un lato la tendenza abituale di molta gioventù studentesca a dimenticare la posizione eretta («segno di scarsa autocoscienza»), preferendo pose arricciate, introflesse, innamorate del proprio ombelico e dall’altro il portamento fiero e impettito dei monumentali operai russi. Da contemplare ancora, come candele sempre accese.

Da una parte la versione originale e dall’altra l’impropria fantasiosa traduzione italica.

E forse in questo iato, in questo continuo voler emulare gli archetipi ed abbattere le regole, senza riuscire a coniugare desideri opposti, sta il senso consapevole del fallimento ideologico, del progetto collettivo fatto a pezzi in favore dello spicciolo benessere del singolo.

Così come il giovane sogna, e all’adulto resta l’agro del risveglio. Incontestabile nella sua schiettezza questa considerazione, che basterebbe da sola a dischiudere il succo: «Mentre nel Sessantotto stava per venire la rivoluzione e non avevano niente da mettersi, noi cominciamo a sentirci depressi, perché la rivoluzione non è ancora venuta e cosa metterci lo sappiamo fin troppo bene».

(Bruno Osimo, Breviario del rivoluzionario da giovane, Marcos y Marcos, 2018, pp. 240, € 18.00)
Poster di Dogman su Flanerí

Il sacrificio della vittima

La realtà è solo un pretesto, per Matteo Garrone. Lo è sempre stata, in tutti i suoi film, anche quando si è confrontato con Gomorra, partendo dal libro che aveva aperto una finestra privilegiata sul cortile della delinquenza italiana, anche quando il film si chiamava Reality.  Per questo non c’è nessun canaro nel suo ultimo film, ma un Dogman, come un supereroe possibile.

I fatti sono noti, anche perché questa recensione arriva in ritardo per i tempi sempre più frenetici dell’approfondimento all’epoca di internet. Per il suo ultimo film Matteo Garrone è partito da un fatto di cronaca tra i più noti, efferati e sviscerati del giornalismo nero italiano, quello del cosiddetto “canaro della Magliana”. Una storia di vessazione e vendetta sullo sfondo di una periferia romana nota per i fatti della banda criminale già portata in letteratura, al cinema e in televisione. Dogman è arrivato in concorso al Festival di Cannes, è stato molto apprezzato e si è aggiudicato il premio per l’interpretazione maschile per il suo protagonista, Marcello Fonte, attore e regista molto più noto nel settore che al pubblico. L’interprete perfetto per il cinema fisico di Matteo Garrone.

In un quartiere degradato come una periferia bombardata, Marcello porta avanti la sua vita normale. Cura i cani nel suo negozio, pranza con i bottegai suoi vicini e progetta vacanze, in Calabria o alle Maldive, con l’adorata figlia Alida. È una vita semplice e felice, puntellata da un piccolo giro di criminalità e spaccio di cocaina per mantenersi. L’unica variabile imprevedibile è Simoncino, gigantesco ex-pugile che imperversa per il quartiere pretendendo, minacciando e picchiando. Marcello si trova, come tutti gli altri, a essere vittima della sua violenza imprevedibile. A differenza degli altri, però, finisce per essere suo complice, per salvargli la vita, per illudersi di poter avere un rapporto di amicizia. Ma è solo un’illusione.

I fatti di cronaca della vicenda del canaro avevano attirato e scosso l’opinione pubblica per la violenza spietata della vendetta. A Garrone non interessa il sangue, gli interessa la natura umana, i lati più oscuri delle dinamiche interpersonali, della proiezione e della percezione di sé. Tutto il suo cinema riflette sull’uomo, su come si vede e come vuole essere visto. Sono molti gli aspetti in comune tra Dogman L’imbalsamatore, il film della notorietà nazionale. Anche lì partiva da un fatto di cronaca (l’omicidio del “nano della stazione Termini”), anche lì al centro c’era un rapporto sbilanciato e una vendetta, anche lì la fisicità aveva un ruolo fondamentale. Il cinema di Garrone è un cinema di corpi più che di persone. La magrezza come ossessione di Primo amore, la bellezza a tutti i costi di Il racconto dei racconti nell’episodio con Vincent Cassel. È la fisicità a determinare il destino.

Il rapporto tra Marcello e Simoncino è unilaterale. Marcello si illude di poter ragionare con il pugile, di ottenere qualcosa mostrandosi disponibile, pronto a subire senza ribattere. Non si rende conto che non c’è nessun livello umano nelle loro interazioni. Simoncino, non è l’archetipo dell’orco, è l’archetipo del bullo, del disordine illogico. Non può essere inquadrato in dinamiche codificate, agisce senza passato e senza futuro, conta solo l’istante. Animato da una bontà che lo porta a voler essere amico di tutti, Marcello si ritrova più volte nel ruolo di vittima consapevole di Simoncino. È terrorizzato dalla semplice presenza dell’ex pugile ma è allo stesso tempo affascinato dalla differenza fisica che li separa.

È questo livello malato del rapporto che ha affascinato Garrone. Il suo Dogman riflette sulla componente volontaristica dell’essere vittima. Marcello non si limita a subire, ma diventa complice e salvatore volontariamente perché pensa di poter riscattare la sua posizione subalterna. Pensa che dando più di quanto gli viene chiesto possa ottenere una nuova dinamica di rapporti, di poter liberare il quartiere dalla presenza minacciosa di Simoncino riuscendo a codificarlo, a imprigionarlo in una dinamica sociale convenzionale.

La vocazione al martirio di Marcello trova una nuova direzione nella parte finale del film. È il poster di Dogman a farci capire che Marcello si assume la croce di Simoncino, se lo carica, non solo metaforicamente, in spalla per liberare se stesso e tutti gli altri dal male alla ricerca di una salvezza che non è dato sapere se ci sia, da qualche parte.

Se Marcello Fonte è la vittima perfetta non si può non dire nulla su Edoardo Pesce che ci mette tutto il fisico e la cattiveria nel suo Simoncino, concentrato di irrazionalità, di istinto e di violenza.

 

(Dogman, di Matteo Garrone, 2018, drammatico, 100’)

 

Alla ricerca dell’Hemingway romantico da Parigi a Pamplona

C’eravamo prefissi, in questa nostra particolare ricostruzione della storia del romanticismo americano, di procedere attraverso ciascuna transizione storica significativa del Novecento con una serie di articoli monografici, nel rapporto di uno a uno: pure, questa volta saremo costretti a fare un’eccezione e a sostare ancora in quella Parigi degli anni Venti che abbiamo già descritto nel contributo precedente. Qui infatti accanto a F. Scott Fitzgerald si muoveva anche, e con maggiore fede del primo, un altro autore destinato a colpire duramente quella corrente romantica che proprio grazie a Fitzgerald in quegli anni pareva troneggiare indisturbata in America: stiamo parlando di Ernest Hemingway.

Se è vero che, per usare la definizione di Henry Murger nella prefazione a Scene della vita di Bhoème, questa «è esistita in ogni tempo e in ogni luogo» e che sia la provvisoria condizione esistenziale di «chiunque entri nelle arti, senz’altro mezzo di sussistenza che l’arte stessa», allora non faremo fatica a definire il trascorso di Hemingway a Parigi come bhoémien, a prescindere dalla suggestione stessa che la capitale francese potrebbe evocare. Abbiamo già visto, con le parole di Pietro Citati, quanto il cambio della moneta fosse conveniente per tutti quegli americani che in quel periodo si recassero in Francia: ciò vale ancora di più per chi come Hemingway cercava di proporre al mercato editoriale una nuova forma di scrittura. Dal momento cioè che come risposta ottiene il silenzio delle case editrici, in qualche modo diviene necessario mitigare i danni. Lo scrittore quindi si arrabatta con il giornalismo: quella originale scrittura schietta e scevra da ogni lirismo infatti pareva funzionare meglio per la cronaca, che per la narrativa. Ecco quindi che la tecnica (o l’arte della tecnica, per dirla come Murger) diviene per Hemingway strumento di sussistenza, in attesa di giorni migliori.

Ci sono almeno tre stereotipizzazioni con cui la critica ha colpito l’immagine di questo autore, una delle quali nasce proprio durante il suo soggiorno a Parigi: l’idea cioè che Hemingway sia il maggiore rappresentate di quella che è stata definita come generazione perduta. La definizione viene coniata da Gertrude Stein, ma sarebbe meglio dire che viene estesa dalla donna all’ambiente artistico e letterario di allora, perché in realtà era stato il capo-meccanico di una officina a pronunciarsi per primo in quei termini nel rimproverare uno dei suoi operai che non era riuscito a riparare per tempo la macchina di Miss Stein. E a questo proposito, credo che convenga allora dare la parola direttamente a Hemingway, citando per intero un passo da quello strano diario che è Festa mobile:

Il patron gli aveva detto: «Siete tutti una génération perdue».

«Ecco che cosa siete. Ecco che cosa siete tutti quanti» disse Miss Stein. «Tutti voi giovani che avete fatto la guerra. Siete una generazione perduta».

«Davvero?» dissi io.

«Sì» insistette lei. «Non avete rispetto per niente. Vi uccidete a forza di bere…»

«Quel giovane meccanico era ubriaco?» chiesi.

«Certo che no».

«E me mi hai mai visto ubriaco?»

«No. Ma i suoi amici si ubriacano».

«Anch’io mi sono ubriacato» dissi io. «Ma non vengo qui ubriaco».

[…] Pensavo a Miss Stein e a Sherwood Anderson e all’egotismo e alla pigrizia mentale contrapposti alla disciplina e pensavo chi è che chiama chi una generazione perduta?

 

 

L’errore nasce dal fatto che si continua ostinatamente ad accostare la prima produzione di Hemingway all’influenza del salotto di Gertrude Stein. Ma a ribaltare tale impasse critico entra in gioco il ruolo decisivo che F. Scott Fitzgerald ha avuto in questa storia: in Un finale alquanto strano infatti, lo scrittore ci fa intendere il suo allontanamento dalla cerchia di Stein. Così come nel capitolo Un agente del demonio, Hemingway ci dimostra di essere del tutto contrario alle idee di Ezra Pound sul suo Bel Esprit e sulla necessità di finanziare con un sussidio quegli scrittori esordienti che parevano destinati a cambiare le sorti della letteratura mondiale. La verità è che a Parigi Hemingway, così come Fitzgerald, era un isolato: ed è per questo motivo che i due si intesero da subito. Si potrebbe anzi dire che la coppia Scott-Ernest sia la seconda protagonista di Festa mobile, dopo la descrizione del rapporto con la prima moglie Hadley Richardson e il figlio Bumby. I capitoli infatti in cui Fitzgerald compare assieme a Hemingway, oppure solamente citato in una discussione con altre persone, sono numerosissimi. Tuttavia, non è la quantità che qui ci interessa, quanto piuttosto il ruolo decisivo che quella amicizia ebbe nella storia della produzione editoriale di Hemingway. Festa mobile è ricca di situazioni comiche tra i due, come quando la coppia si chiude nel bagno per misurare il pene di Fitzgerald, dopo che Zelda lo aveva redarguito per le dimensioni, o ancora la loro complicità nell’ubriachezza e la tendenza di Scott a non reggere l’alcol come il secondo, tuttavia c’era una qualità che più di ogni altra ognuno riconosceva nell’altro: il duro lavoro, ciò che cioè distanziava Hemingway dalla definizione generazionale di Stein. Si legga a titolo di esempio questo passaggio:

«Scott Fitzgerald ci invitò a pranzo con sua moglie Zelda e la sua bambina nell’appartamento ammobiliato che avevano preso in affitto al numero 14 di rue de Tilsitt. Non ricordo molto dell’appartamento se non che era tetro e soffocante e che non vi era niente che sembrasse appartenere a loro se non i primi libri di Scott rilegati in pelle azzurra con i titoli in oro. Scott ci fece anche vedere un grosso registro con tutti i racconti che aveva pubblicato ordinati per anno con i compensi che aveva ricevuto per ciascuno e anche gli importi ricevuti per ogni cessione dei diritti cinematografici, e le vendite e i diritti d’autore dei suoi libri. Erano tutti accuratamente annotati come su un giornale di bordo e Scott li mostrò a noi due con orgoglio impersonale come se fosse il curatore di un museo. Scott era nervoso e ospitale e ci fece vedere la contabilità dei suoi guadagni come fosse stato il panorama. Non c’era nessun panorama».

Sarà Fitzgerald a raccomandare al suo editore una raccolta di racconti dell’amico: Torrents of Springs, lanciando così a tutti gli effetti Hemingway come scrittore. Eccoci quindi alla seconda stereotipizzazione di cui abbiamo parlato in apertura: l’idea cioè che con Hemingway nasca quel nuovo filone letterario che in America mette fine alla supremazia indiscussa della scrittura romantica, in nome di un approccio esclusivamente realistico. Se questo da un lato è sicuramente vero, perché Fitzgerald e Hemingway sono i giganti di queste due tendenze, è vero anche che la seconda si genera da una filiazione diretta dal romanticismo americano: Hemingway infatti farà completamente suo il metodo Fitzgerald (o potremmo dire il metodo Scribner), cioè la capacità di rendere la scrittura una professione redditizia a tutti gli effetti – e come abbiamo cercato di spiegare nei primi due articoli di questo percorso critico, è il romanticismo che ha il merito di trasformare lo scrittore in un vero e proprio «mestiere».

Ma l’influenza del romanticismo in Hemingway non si esaurisce solo nell’approccio professionale: se con Jack London assistevamo alla «invenzione continua della propria biografia» e con F. Scott Fitzgerald a un esclusivo «romanticismo biografico», sarà Hemingway a mescolare questi due approcci, in favore di una biografia che si costruisce di volta in volta (e realmente) sulla scorta di una ideale prospettiva romantica. Qui il discorso si complica ulteriormente, perché non solo contribuisce a mettere in crisi la nozione stessa di realismo hemingwayano, ma soprattutto in quanto coinvolge anche l’ultima stereotipizzazione di cui lo scrittore fu vittima: l’accusa di machismo. Proviamo allora a spiegarci meglio: se guardiamo alla maggiore produzione di Hemingway dal punto di vista esclusivamente stilistico, pare indubbio di trovarci di fronte a una scrittura profondamente diversa da quella di un Fitzgerald – valga per tutte una costatazione: l’assenza esplicita cioè di una costruzione lirica. Ma nella letteratura americana l’equazione «letteratura come vita» di cui ha parlato più volte Carlo Bo, almeno fino a quel momento, era ancora inscindibile.

Hemingway allora, proprio come fa Jack London, ha precisamente davanti agli occhi una biografia ideale del sé: ma, a differenza di London, per tutto il corso della sua vita cerca di aderirvi in pieno. E ci riesce così bene che ancora oggi in film come Midnight in Paris (2011) o il più recente Genius (2016) l’immagine rimasta per la maggiore nell’immaginario comune è ancora quella macchiettistica del macho. Ma torniamo al nostro discorso: ciò che cerco di dire è che l’agens di questo ideale del sé agisce tanto sull’uomo quanto sulla sua scrittura, fino a far coincidere l’uomo e il personaggio, e viceversa… fino a trasformare infine Hemingway nel delirante Papa (soprannome con cui decide lui stesso di farsi chiamare quando finalmente diventa uno scrittore famoso).

Eppure… eppure qui ci viene in aiuto anche il testo: chiunque abbia letto Festa mobile credo sia rimasto stupido dal trovarsi di fronte a una persona completamente diversa, o quanto meno dalle asimmetrie tra la vita privata dell’uomo e il personaggio pubblico. Il problema principale tuttavia per la critica più o meno coeva è stato il fatto che Festa mobile è un libro postumo. Come scrive Federico Leoni, «al Ritz, nel 1956, Ernest Hemingway aveva scoperto di aver lasciato ventotto anni prima due bauli da marinaio pieni di appunti». Quando lo ritrova, l’uomo rimane sbigottito dallo specchio di ciò che era stato: così si mette a riscrivere interi capitoli, a correggerli, a tagliare selvaggiamente porzioni intere di testo nel tentativo di farne un libro che aderisca al contrario a ciò che invece era diventato. E il lavoro è talmente ampio, che il diario rimane teoricamente incompiuto e ci vorrà una prima edizione e poi infine una edizione restaurata per arrivare a una forma quanto più possibile vicina a quella che Hemingway avrebbe voluto. La domanda tuttavia rimane: a quale Hemingway?

E non bisognerà stupirsi nemmeno che l’uomo accusato di machismo abbia esordito allora con un romanzo in cui viene dibattuta con una grande profondità critica una difficile questione di genere: Fiesta (Il Sole sorgerà ancora). Cerchiamo così di arrivare a una conclusione: né Hemingway, né Fitzgerald sarebbero mai esistiti, almeno come li conosciamo oggi, l’uno senza l’altro. Se la scrittura del secondo si avviava verso l’inaspettato insuccesso degli ultimi anni di vita di Fitzgerald, mentre quella di Hemingway a giganteggiare il mercato da allora in avanti, ciò non avviene per caso, ma per la precisa acquisizione di un metodo professionale; solo che, a differenza di Fitzgerald,  Hemingway riuscirà a evitare di scrivere per le riviste ciò che le riviste si aspettavano da uno scrittore di successo. Infine, se il realismo sembrerà avere la meglio sul romanticismo, nonostante come vedremo negli articoli successivi la tendenza romantica non morirà mai definitivamente, bisogna comprendere che non si tratta da subito di una opposizione, ma che al contrario siamo davanti a una filiazione diretta, come ci dimostra la prima produzione di Hemingway e l’agens (pseudo) biografico sulla produzione successiva. Chissà del resto se lo stesso Hemingway non abbia da sempre voluto dirci qualcosa, per una volta senza trovare mai il modo giusto di raccontarla:

Molti anni dopo al bar del Ritz, molto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Georges, che è il barman di adesso e che era lo chasseur quando Scott viveva a Parigi, mi chiese: «Papa, chi era questo Monsieur Fitzgerald di cui tutti mi chiedono?»

«Non lo conoscevi?»

«No. Ricordo tutta la gente di quel periodo. Ma adesso tutti mi chiedono solo di lui».

«E tu cosa gli dici?»

«Tutto quello che a loro interessa sentire. Che può fargli piacere. Che cosa desidera? Ma mi dica, chi era?»

«Era uno scrittore americano dei primi anni Venti e anche dopo, che è vissuto un po’ di tempo a Parigi e all’estero».

«Ma come mai non me lo ricordo? Era un bravo scrittore?»

«Ha scritto due libri molto belli e uno mai finito che i migliori conoscitori delle sue opere dicono che sarebbe stato molto bello. Ha scritto anche dei bei racconti».

«Veniva spesso qui al bar?»

«Credo di sì» […] «Voglio scrivere qualcosa su di lui in un libro che scriverò sui miei primi tempi a Parigi. Ho promesso a me stesso che lo scriverò».

«Bene» disse Georges.

«Ce lo metterò esattamente come me lo ricordo la prima volta che l’ho visto».

Brevi considerazioni su Thom Yorke

Firenze, Via Ghibellina, Teatro Verdi. La sala non è ancora piena. Sul palco sale Oliver Coates. Producer e viloncellista inglese. Alterna techno e violoncello. Una combinazione straniante, che fa mutare costantemente la sensazione di cosa si sta guardando. Dalla totale indifferenza alle morse al cuore. Nonostante alcuni momenti di stanca – estremamente algidi, quasi noiosi – la convinzione è quella di trovarsi nell’anticamera giusta di quello che poi succederà. Coates riesce a fare il suo, riesce a essere ciò che deve essere.

La sala inizia a riempirsi. I palchi sono quasi tutti occupati, in platea c’è ancora qualche posto vuoto. Con qualche minuto di ritardo, si spengono le luci. Il teatro è pieno. Arriva Thom Yorke insieme a Nigel Godrich e Tarik Barri. I primi due dietro le consolle, centralissimi, il terzo leggermente defilato a disegnare al computer le immagini che verranno proiettate sui cinque pannelli alle spalle dei due Radiohead. Di Thom Yorke e Firenze, della passione della moglie Rachel Owen, deceduta due anni fa, studiosa di Dante, si sa tutto e se ne è parlato molto: anche questa volta non si può non constatare che sia vero. Firenze per Thom Yorke è qualcosa che trascende la performance artistica. Da sempre stato palcoscenico di grandi concerti (leggendaria quella dell’8 luglio 2003, non ultima quella dello scorso anno), questa volta accoglie il leader dei Radiohead nel suo Teatro Verdi, poco più di 1500 posti.

Da 50000 spettatori a 1500 in un anno. Thom Yorke riesce sempre a trovare la chiave interpretativa per riuscire a essere intenso indifferentemente dal contesto in cui si trova.
Tomorrow’s Modern Boxes, ultimo album solista, è del 2014. Da ascoltare durante viaggi notturni in metropolitane di megalopoli che verranno, riesce a sposarsi completamente con l’atmosfera ottocentesca di un teatro. In questo contrasto gran parte del fascino del concerto, un futuro e un passato che si congiungono in un presente che non è né l’uno né l’altro.
The Eraser, del 2006, un’era geologica fa, riarrangiato oggi, non stona. Anzi. In più, diversi brani inediti portati in giro per il mondo da tre anni e che fanno pensare a un possibile terzo Ep.
I progetti solisti di Thom Yorke – in forma leggermente diversa, gli Atoms For Peace – sono l’escamotage grazie al quale è riuscito a tirare avanti i Radiohead, cambiandoli senza snaturarli. Nel suo staccarsi temporaneamente dai Radiohead, è stato in grado di alimentarli, di ridargli vita. Un divertimento, ma una necessità. La funzione rigeneratrice che hanno le fughe dal pop rock, da ricordare ad esempio le vacanze con Flying Lotus del 2011, snodo della sua carriera e della sua concezione estetico/artistica (discorso analogo lo si potrebbe fare per Jonny Greenwood e le sue composizioni), sono fondamentali per quello che saranno (e comunque sono stati), in ottica futura, i Radiohead.

Elettronica. Radiohead. Kid A. Quando si dice che Kid A è un album elettronico, non si ha bene in mente cosa sia Kid A. Quello che sta facendo da solista oggi, il concerto nello specifico, può essere descritto come elettronica. La dicitura Kid A è la svolta elettronica dei Radiohead è sempre stata forzata; sarebbe più onesto parlarne di un modo per distinguere storicamente una fase del rock che stava finendo: il 2001 come nuovo inizio, nuova epoca del rock. Ma non di musica elettronica.

E lo testimonia quello che è successo dalle prime note di “Interference” fino all’ultima di “Default”: Yorke e Godrich rendono il Teatro Verdi un club di Berlino, un rave borghese.

Si inizia con calma: “Interference” vede Yorke al piano. La scelta di farne il pezzo d’aperura ricorda molto quella di “Daydreaming” dell’ultimo tour dei Radiohead. “Brain in a Bottle”, singolo di Tomorrow’s Modern Boxes, e “Impossibile Nots”, inedito, ci prefigurano il modo in cui si svilupperò il concerto – Yorke e Godrich iniziano a dare del loro meglio dietro le macchine. Con “Black Swan” e “The Clock” si ritorna a The Eraser, che sembra non essere invecchiato per nulla. Da “Not the News” a “Nose Grows Some”, è un alternarsi dell’ultimo Thom Yorke e quello che sarà. Contemporaneamente, Tarik Barri continua a disegnare immagini che regalano un’ulteriore dimensione a ciò a cui stiamo assistendo . Per quanto durante i concerti dei Radiohead, l’aspetto visivo ha sempre avuto una funzione importante, qui si trasforma in parte fondamentale: senza questo, gli sforzi di Yorke e Godrich non avrebbero modo di risultare così reali. C’è una precisa dipendenza: senza l’uno l’altro si svuota di significato, e viceversa. Il concerto si sviluppa parallelamente su questi due binari.

Con “Cymbal Rush” gli unici problemi della serata: salta qualcosa, Yorke si innervosisce, se la prende forse con Godrich, forse con i fonici, smette di suonare: ricorda certe sue uscite isteriche di qualche anno fa. Se non fossero nel tempo diventate folklore, potrebbero anche infastidire.
I tre escono dal palco. Pochi minuti e sono di nuovo a suonare. Yorke si scusa dicendo che il tour è appena iniziato: l’encore si apre con “The Axe”, esordio assoluto dal vivo, e si chiude con “Atoms for Peace” e “Default”. Dopo il crescendo di quest’ultima, Yorke saluta tutti in italiano con un Grazie e un Ciao.

Non un concerto rock, non un concerto pop, non un concerto propriamente elettronico: Thom Yorke si conferma, per carisma e statuto, paladino della loro fusione: un’ulteriore interpretazione della musica contemporanea di uno dei più grandi artisti degli ultimi venticinque anni.

Copertina di Dimentica di respirare di Kereen De Martin Pinter

Immergersi nelle storie

Impossibile parlate di un romanzo Tunué senza prendere in considerazione l’anima dell’intera collana. Il lavoro di selezione di Vanni Santoni predilige le storie con una lingua solida, ricercata, lontana dalla medietà comunicativa – che potremmo definire benissimo appiattimento – di molte altre realtà editoriali. La lingua dei romanzi Tunué è messa al servizio dell’atmosfera, di un complesso immaginario che si origina dalla precisione con cui sono curate e raccontate queste storie. Non si tratta però di uniformare la voce di ogni singolo narratore alla visione del curatore, anzi, di tirare fuori dalle ossessione di ciascun autore le potenzialità della visione che covano. Per questo, pur mantenendo un alto standard di qualità, i romanzi Tunué sono molto diversi l’uno dall’altro: Orazio Labbate modella la sua personale ricerca nel gotico siciliano, Francesco D’Isa si pone quesiti filosofici attraverso intricati paradossi, Luciano Funetta suona la prima nota di una sinfonia immaginifica che sappiamo avrà lunga fortuna. Così tutti gli altri si trovano a combattere con la propria storia, a forgiarla nella fucina della lingua.

È quello che fa anche Kareen De Martin Pinter, bolzanina al suo secondo romanzo, che con Dimentica di respirare (2018) si immerge – è il caso di usare proprio questo verbo – in un storia in cui il vero protagonista è il mare. Il mare è il luogo della sfida, un ambiente in cui misurare le proprie capacità, perché si è da soli, accerchiati dalla massa d’acqua intorno a noi, e che si chiude sopra di noi quando ci immergiamo. Il mare è un luogo di solitudine, ma può anche essere una metafora del’utero, un incavo materno in cui sentire per la prima volta – con chiarezza – il proprio corpo. Si parla di sfida perché l’autrice ripercorre la vita di Giuliano, bambino con la passione per l’apnea, che in giovane età conosce Maurizio, colui che diventerà suo allenatore, e che lo seguirà nella formazione agonistica. Giuliano diventa grande e partecipe alle competizioni, le vince, batte record su record, da solo e immerso nelle profondità blu dei mari di mezzo mondo. Giuliano è solo con il suo corpo, mentre si immerge non sente niente, se non il rimbombo del suo cuore. E un giorno quel corpo che tanto gli ha dato – che lui ha portato al limite, facendolo diventare il tempio delle sue vittorie – inizia a perdere colpi, qualcosa si rompe e Giuliano deve affrontare la malattia. Per la prima volta partecipa a una gara in cui sa di poter perdere.

Kareen De Martin Pinter è una narratrice minuziosa: pagina dopo pagina seguiamo la crescita di Giuliano, i suoi rapporti interpersonali, la scoperta del mare, il venire a patti con i limiti del proprio corpo, il superarli, per rilanciare le sfide, modificare i parametri, essere in competizione con se stessi e con l’enormità oceanica. E l’autrice ci dà modo di entrare nelle psicologia dell’agonista, in uno sport particolare, in cui non c’è partita, non c’è scontro con l’altro, ma solo con se stessi, immersi in un elemento naturale, senza nessun campo da gioco che lo delimiti. L’unico fattore da tenere in conto è il tempo: quello passato sott’acqua in apnea, quello trascorso ad allenarsi, e poi quello degli anni che passano, del corpo che si fa più pesante, delle giornate sacrificate mentre le persone attraversano la vita, e si avvicinano al campione, per poi allontanarsi.

Alla tematica della sfida – e all’ambivalenza dell’elemento acquatico – si aggiunge la riflessione sul corpo. Sin dall’incipit ci mettiamo in connessione con questo elemento: «Il corpo si alleggeriva, si frammentava, sembrava volatilizzarsi pezzo dopo pezzo. Prima i piedi, poi le gambe, nelle orecchie il rumore di migliaia di minuscole bolle che scivolavano via. Iniziavo a sentire l’aria pesarmi addosso, mi soffiava in faccia crepandomi le labbra, infilandosi in bocca e asciugando le mucose delle guance, la gola. Masticavo sale». La vastità del mare, la piccolezza delle propri polmoni: l’autrice mette a confronto l’individuo e il mondo tramite la differenza di stato fra natura e uomo. L’acqua è una massa sempre in movimento, presente dall’inizio dei tempi. L’uomo subisce invece un cambiamento che lo porta alla caducità, che predispone l’incontro con la malattia, perché la caratteristica dell’uomo è il suo essere transitorio.

Un romanzo che lega bene la tematica del corpo all’orizzonte marino è Sirene di Laura Pugno: si tratta di una storia fantascientifica che vede – fra i personaggi – proprio le sirene: corpi ibridi a confronto con l’imprevedibilità del mare (e in quel caso anche degli essere umani che le sfruttano). Possiamo dire che la narrazione di Kareen De Martin Pinter si pone come una controparte realistica di quel romanzo, nella prosa dell’autrice si agitano le stesse inquietudini e la stessa resa delicata della solitudine, così bene messe in metafora dalla Pugno.

Dimentica di respirare è un romanzo completo: elaborato nello stile, esauriente nell’immaginario che evoca, sottile ed evanescente come la nebbia che ricopre la costa di mattina, mentre Giuliano va ad allenarsi per la prossima gara. La voce di questa autrice accenna una psicologia complessa, suggerisce delle riflessioni senza doverle esplicitare sulla pagina, e poi si dirige verso altri lidi, come una risacca che lascia dietro di sé qualche strano oggetto. Noi lo raccogliamo e lo mettiamo in tasca, forse un giorno ci servirà; allo stesso modo registriamo le sensazioni cangianti che abbiamo provato durante la lettura, forse un giorno ci serviranno.

(Kareen De Martin Pinter, Dimentica di respirare, Tunué, 2018, p. 114, 14 euro)

Benvenuti a Dinterbild, verso l’Altrove

Peppe Millanta, pseudonimo che per rispetto non cerchiamo di decifrare, esordisce come romanziere. Vinpeel degli orrizzonti è un romanzo sia malinconico che felice e questa sua ambiguità fa sì che valga la pena leggerlo: è il cammino di un ragazzo che cerca di scoprire il mondo anche attraverso la sua fantasia.

La parola, compromesso a cui scende il pensiero, assume un significato pieno e profondo se si prova a leggere questo libro dalla prospettiva di chi è al centro della storia. Vinpeel e il suo amico Doan, compagno di esperienze, per esempio sono soliti cancellare certe parole dal vocabolario nel momento in cui le scorgono rappresentate tra le nuvole. In un momento di introspezione. Vinpeel ascolta l’eco di una collina rada, o ancora imbastisce monologhi con le conchiglie che raccoglie in riva al mare, a ciascuna delle quali il padre di Vinpeel, Ned Bundy (sulla falsariga del serial killer Ted, omicida di numerose giovani) riconosce un suono speciale.

Il ragazzo proverà a condividere le sue esperienze con un padre da cui fatica a emanciparsi: il loro è un mondo con una grammatica imperfetta, o piuttosto ancora da scoprire. La Locanda del villaggio è goffamente chiamata Locanba, il suo proprietario la chiama così per una ragione strana e grottesca, mentre il paese di Dinterbild perde la lettera finale e diventa Dinterbil. Attraverso la ricerca delle parole, con la speranza di chi vive ancora la magia del meravigliarsi, vogliono capire i significati delle cose di un mondo ancora sconosciuto.

I ragazzi diventano perfino onomaturghi: da Krisheb, quello che è presentato come lo strambo del villaggio, un folle saggio, oracolare e profetico, avremo il sostantivo krìshebbata, l’avverbio krishebbatamente, e così via.

In questo romanzo c’è una certa libertà grafica. Per tradurre sulla carta le grida della folla, l’autore aumenta o diminuisce il corpo della scrittura, dà più spazi ai capoversi, oppure distribuisce diversamente le parole sulla pagina, alterando il rapporto consueto tra parole e spazi bianchi, lavorando quindi anche sui segni linguistici e grafici della forma libro. O ancora, con un uso forte e calibrato della ripetizione, egli giustappone i discorsi per dare l’idea di una simultaneità molto suggestiva.

Ma se prima leggiamo che tanti turisti, incuriositi da una magica o divina gamba di legno, accorsero un tempo al piccolo paese di Dinterbild, teatro della storia, poi l’autore pare contraddirsi, quando scrive che lì non era mai arrivato nessuno straniero. Anche se fosse una piccola contraddizione, comunque, al lettore non dovrebbe importare. Questa è globalmente una storia fantastica. L’immaginario degli abitanti del villaggio è permeato da narrazioni e aneddoti afferenti al mondo dei miti, attraverso cui gli abitanti provano a spiegarsi ciò che accade alle loro vite.

Con la loro creatività bambinesca, i protagonisti di questo libro cercano un altrove che abita lo spazio stagliandosi all’orizzonte. L’epifania di una bambina partorita dal cielo, Mune, aiuterà Vinpeel e Doan nelle loro peripezie. «In quel momento, mentre accarezzava con gli occhi il profilo di Mune, tutti quei pensieri svanirono, e gli fu finalmente chiaro il motivo per cui qualcuno – chissà quando e chissà dove – si era preso la briga di inventare una cosa come il silenzio. L’aveva fatto per permettergli di sentire il respiro di Mune, che andava su e giù, come le onde del mare».

Mune, una volta arrivata a Dinterbild, dopo le prime timidezze, incomincia a vivere in armonia con l’universo del piccolo paese. Imparerà, in sinergia con gli altri, a provare emozioni e conoscere sentimenti, combattendo insieme agli altri le farfalle che si librano nello stomaco.

A Dinterbild sembra che non si possa soffrire perché si dimentica tutto e il passato scompare. È un mondo empatico dove le vite sono intimamente connesse. Quelle di Vinpeel e Mune, per esempio, senza cui questa storia non sarebbe esistita.

 

(Peppe Millanta, Vinpeel degli orizzonti, Neo Edizioni, 2018, pp. 246, € 15.00)

Una festa di sangue nel giorno più lungo dell’anno

È un giorno in cui su Roma incombe un cielo grigio e carico di pioggia e il caldo estivo sembra un miraggio lontano quello in cui mi ritrovo a parlare con Luca Franzoni di Solstizio (AUGH! Edizioni, 2017), il suo terzo romanzo. Perciò è impossibile non cominciare da qui, dall’inizio dell’estate.

 

Il tuo romanzo si svolge tutto nell’arco di una giornata, durante la quale le vicende di personaggi molto diversi tra loro si incrociano fino a concludersi in un unico epilogo: una festa organizzata sui social network da una star del web, Arturo Cash Calesci. C’è una ragione narrativa, o magari personale per la scelta di una data precisa, il 21 giugno?

È più una ragione simbolica. Volevo scrivere una storia che parlasse di tempo; di tempo che finisce, di tempo che manca. Mi affascinano i simboli, e il solstizio d’estate è il giorno più lungo dell’anno, che segna però l’accorciarsi del giorno. Quindi è un po’ come una nascita che precede la morte. È come un ciclo. L’ho scelto per questo: per un valore simbolico, non personale, e forse neanche narrativo.

 

Nel tuo romanzo c’è molta vita, allo stesso modo in cui c’è molta morte e sin dall’inizio si avverte una sensazione di mancanza di tempo. 

Sì, esatto. Volevo dare proprio quello.

 

Se proviamo a pensare il romanzo come ad un intreccio di punti di vista diversi, non possiamo non soffermarci sulla molteplicità di prospettive: all’inizio esponi una vicenda così com’è vista da un personaggio, ma poco dopo questo racconto viene smentito da quello di un altro, che ne dà una visione opposta (e ciò è particolarmente evidente nel caso di Vanessa e di suo marito Paolo e, forse in modo ancora più scioccante, dei loro figli, i gemelli Kevin e Maicol).Questo artificio rende la verità difficile da decifrare fino alla fine, ma sottolinea come in fondo non sia importante la storia in sé quanto la percezione propria di ognuno dei tuoi personaggi, così diversi eppure accomunati da alcuni tratti. Mi puoi parlare un po’ di loro? Chi sono? Da dove vengono?

Vengono dal mio interesse per personaggi un po’ squilibrati, imperfetti. Realistici ma grotteschi, esagerati. Nel costruire un personaggio mi piace cercare un difetto ed esagerarlo, in termini magari non realistici, ma che mi permettono di creare un personaggio più tridimensionale e, paradossalmente più vero. In realtà mi interessano i perdenti. Nel caso di Solstizio lo sono tutti: sia i ricchi, coloro che hanno avuto successo, sia i poveri. I due personaggi principali, Federico e Arturo – il protagonista e l’antagonista, i due che stanno morendo – dovrebbero essere il fallito e l’arrivato, eppure sono entrambi due squilibrati che reagiscono in modi diversi al tempo che sta finendo. Mi interessa molto analizzare questi personaggi nella situazione limite, quando vengono fuori certe pulsioni nascoste, animalesche; anche nei gemelli viene fuori una violenza che di solito non si pensa di trovare in un bambino.

 

Questo minimo comun denominatore mi è sembrato riguardare più gli uomini che le donne, mi sbaglio?

Rappresento gli uomini sempre dal punto di vista della violenza, come se fossero la forza negativa. Le donne invece sono un po’ diverse. Per esempio, Vanessa è volutamente stereotipata: parte come vittima, ma poi si sviluppa in un altro modo. Il mio personaggio femminile preferito però è Maria, la ragazza vampiro: lei si contrappone per vendetta a un mondo maschile violento e prevaricatore ed è come se fosse una vendetta femminile animalesca su questo mondo dominatore, forse non in quanto femmina ma in quanto forza non umana, contro un’umanità che nell’intero romanzo non fa un’ottima figura.

 

Si sente nella tua scrittura una delicatezza particolare nei confronti di Maria, le parti del romanzo in cui appare sono quelle che colpiscono di più. Il ritratto finale è quello di un personaggio feroce, che riesce a mettere a posto le cose in modo istintivo, senza il bisogno di una razionalità tutta umana che invece non risolve nulla. A questo proposito, vorrei soffermarmi sul filo conduttore di tutto: il sangue. È come una ricorrenza, dà vita a una sorta di pastiche di generi e l’emblema è proprio la vicenda della ragazza vampiro. Da dove nasce l’importanza di questo elemento?

Questa componente di natura verso cultura, o animalesco verso società civilizzata è un tema classico ma è anche un riferimento a Carrie di Stephen King, e al film di Brian de Palma. La vera natura di Carrie, il suo potere, si rivela con le prime mestruazioni, ma ritorna nel finale, con il sangue rovesciato su di lei come scherzo nella scena del ballo, in cui lei dopo si scatena e uccide tutti.

 

Ritorna in modo esplicito anche nella vicenda di Scimmia Sacra e Cane Kalvo…

Esatto, sì. Questo riferimento è qualcosa che mi è rimasto dentro nella lettura del libro e nella visione del film che dicevamo prima, ed è un elemento simbolico di potere. Il sangue è il potere contro cui questi piccoli uomini che partecipano a una festa senza senso, basata su Facebook – sul nulla – non possono fare niente. È come avere a che fare con un tornado: è una forza della natura contro cui non puoi fare nulla.

 

Un elemento singolare è la presenza di Facebook: torna più volte e tu lo definisci «il niente». Eppure questo niente appare in realtà come il contenitore di un vuoto di valori avvertito da tutti i personaggi, sebbene in forme diverse. Un vuoto che Arturo – un antagonista in apparenza anche piuttosto scemo, passami il termine – rappresenta attraverso una citazione di Petronio,e soprattutto attraverso l’epilogo della sua festa. Sembra proprio un tratto comune: ognuno ha bisogno di appoggiarsi a degli ideali, a delle ideologie, per sostenersi.

Non vorrei esagerare, il mio è un romanzo piuttosto leggero e di genere, pur giocando con la contaminazione, però si tratta di una rappresentazione piuttosto pessimistica del mondo e dell’umanità. Non c’è un giudizio morale esplicito, e quelli messi in scena sono certamente personaggi vuoti, ma non vorrei che fossero percepiti come annoiati dal vuoto esistenziale, quanto piuttosto colpiti dalla mancanza di qualcosa cui aggrapparsi, che pure cercano. Tutti (anche Arturo, che è l’antagonista ed è in un certo una macchietta, un cattivo dei film di James Bond) tendono verso qualcosa, cercano, anche se non si sa cosa: non si fermano, non si arrendono, anche in modo crudele, terribile e molto istintivo. Tutti, sia i personaggi positivi che quelli negativi – se è davvero possibile fare questa distinzione –, cercano in modo istintivo l’amore, la possibilità di uscire da una solitudine che non riescono più a sostenere.

 

Quindi per uscire dalla solitudine è necessario superare un certo individualismo?

Sì. Per questo è interessante che tutto trovi sfogo in un’esperienza comunitaria com’è la festa del solstizio d’estate.

 

Una festa molto realistica, molto attuale, potrebbe succedere domani…

Sì, molto realistica, molto à la Sorrentino. È una festa che guardo con occhi benevoli, rappresenta un desiderio disperato dei protagonisti di stare insieme.

 

La festa di Arturo Calesci ci porta inevitabilmente a parlare di uno dei temi più presenti in Solstizio: il nazismo. Neonazisti tra i personaggi, ragazzi che si sono incollati addosso un’ideologia, svastiche tatuate a cui ciascuno ha attribuito significati molto diversi, chiari riferimenti ai campi di concentramento e soprattutto alla razionalità dello sterminio. Come mai?

Ecco, queste cose che vengono fuori mentre scrivi,non hanno nulla di programmato. Ho inserito il personaggio di Mirco e in un momento in cui non esisteva né lui né il suo gruppo di amici. Che sono dei nazisti, ma da narratore non sono interessato al giudizio su questo: è scontato che siano cattivi. Però questi personaggi sono nati con una funzione: volevo rappresentare questo male attraverso giovani che ne sono attratti e plagiati. Volevo raccontare questo male, assoluto, inutile e immotivato, un male contro cui non puoi fare nulla, umanizzando i piccoli personaggi che lo rappresentano. All’inizio è facile esserne respinti, ma poi si finisce per seguirli nella loro avventura e soprattutto nella loro disperazione, perché agiscono da disperati, senza ragione. In parallelo con quello che sta facendo Arturo, tra l’altro: è per questo che ci sono i dottori, la metodologia con cui comincia questa specie di allegro sterminio, di allegro suicidio, il quale in modo grottesco ricalca i campi di concentramento. È un modo per rappresentare l’assurdità, la banalità del male, ancora più banale se si pensa che è banalizzata dai social, dall’idea di condividere tutto ciò che si fa. Quindi persino questo male ne esce ancora più svuotato.

 

Intendevo questo quando ti ho detto che potrebbe succedere domani. È proprio la ragione di fondo di questa banalità: tutti vanno con assoluta leggerezza a questa festa, a questo allegro suicidio e tu ad un certo punto dici che è come se questa fosse organizzata da un ingegnere – lo stesso principio alla base dei campi di sterminio. La razionalità e, al contempo, la leggerezza con cui tutto avviene fa spavento. Non trovi?

Sì, è senza responsabilità. Tutto viene fatto senza considerare le conseguenze, è slegato dai valori.

 

I neonazisti che parlano di Eva Braun si ricoprono di simboli svuotati di senso per dare voce a un male tutto loro e non sembrano neppure immaginare cosa sia davvero il male. Non sono loro, è Arturo il vero male.

Quello che fa Arturo è il male, sì, e loro sono in un certo modo moralmente superiori: in fondo cercano qualcosa. Questo gruppo di personaggi secondari grotteschi e non realistici è solo alla ricerca di qualcosa per riempire un vuoto. Lo trova nel nazismo.

 

Non sono in fondo così diversi Scimmia Sacra e Cane Kalvo, i due “neo post punk neo romantici’’ – quest’ultima una definizione bellissima per due adolescenti che cercano a ogni costo un modo per darsi un’identità.

Da questo punto di vista sono uguali, ma loro due hanno un’unicità che mi piace molto. La loro contrapposizione, il loro essere in due contro il mondo è una cosa molto adolescenziale. È l’elemento romantico che ho voluto inserire nel libro: mi fanno molta tenerezza questi due adolescenti che, come in Natural Born Killers, sono soli contro il mondo e hanno solo il loro amore, talmente acerbo che forse non può neanche essere definito amore. Qualcosa però di assoluto.

 

Il loro amore così assoluto si contrappone a quello che Federico prova per Eva, un amore adulto venato però di ossessione, inquietudine e follia.

È vero, mi ci fai pensare adesso, ma è così, l’amore di Federico ed Eva è contrapposto a quello dei due ragazzi perché non è assoluto: è adulto. E al di là della follia di Federico, che lo rende un rapporto deviato, è un rapporto complicato, in cui c’è l’amore, il desiderio, la vendetta e poi dalla vendetta si torna ad un’apertura, che non trova soluzione nel finale.

 

E quello tra Vanessa e Paolo che tipo di rapporto è, dove si può collocare?

Vanessa è piuttosto stereotipata, e anche Paolo. Ho preso il loro caso come un esempio quasi da cronaca el’ho sviluppato come tale ma deviando poi per approfondire i due personaggi. Il loro è un altro tipo di rapporto d’amore, sempre adulto: è un rapporto di potere, assai diffuso, prevaricatore, in cui l’uomo possiede la donna e la donna, fino a un certo punto, non è in grado di reagire.

 

Almeno fino a quando il rapporto non si rovescia: perché sì, Vanessa è stereotipata, ma si rivela in fondo molto più forte di lui.

È un rapporto di potere sul piano culturale: Paolo possiede Vanessa e crede di essere più intelligente, di avere più cultura. Quando poi entra in scena è anche lui un poveretto, un fallito, uno che voleva arrivare ma non ce l’ha fatta e ha sposato questa ragazza bellissima per poter sfogare le sue frustrazioni. Quando infine tutto accade, viene fuori la sua natura perversa e lui stesso si rivela una vittima.

 

Quindi un altro modo per dire che la razionalità e la cultura sono importanti, ma di fatto è l’istinto a entrare in gioco?

All’atto della sopravvivenza è una questione di sangue.

 

Ripensando più tardi alla nostra conversazione, mi viene in mente che Solstizio ha qualcosa di un puzzle: le figure che lo compongono si mostrano un pezzo alla volta, man mano che nuovi elementi si aggiungono a rendere il quadro più nitido, più leggibile.

Parlare singolarmente delle figure che ne fanno parte, dei pezzi di vite così diverse che rappresentano, mi era forse necessario per cogliere appieno questo quadro, per restituirgli un senso e riuscire a raccontarlo.

È forse questo a rimanere più di tutto del romanzo: non troppo le vicende, le singole scelte che i personaggi di Franzoni compiono, quanto i loro volti, le loro espressioni, le follie e inquietudini che li muovono e che li portano ai gesti più estremi.

La sensazione che ciò che vale per loro valga in fondo per tutti: che all’atto pratico sia tutto solo una questione di istinto.

 

(Luca Franzoni, Solstizio, AUGH! Edizioni, 2017, pp. 182, 13.00€)