[Best 2019] Gli album

Cinque nomi stranieri, cinque nomi italiani. Divisione equa per cercare di dare spazio ai nostri album preferiti di questo 2019.

Tutto rigorosamente in ordine sparso.

 

 

 

Ghosteen di Nick Cave: album strepitoso per il musicista/scrittore. In questo 2019 raggiunge vette elevatissime probabilmente mai toccate prima. Ispirato dalla morte del figlio, Ghosteen sembra un’enorme preghiera laica, dove la voce dell’ australiano va a confondersi con panorami musicali iper eterei che ti spezzano il cuore.

i,i di Bon Iver: quest’anno è venuto a trovarci in Italia, nel bellissimo castello di VillaFranca di Verona. i,i è un album meno cerebrale rispetto al suo predecessore 22, a Million, ma cento per cento Bon Iver. Ispirato come sempre, costruisce un lavoro che va a mischiare gli esordi con il passato più recente. Rimane stampata in questo 2019 la struggente “Hey, Ma”.

Anima di Thom Yorke: Anche lui è passato in Italia, ma per un mini tour nella penisola, dove ha toccato anche Roma. “Anima” è il suo lavoro individuale più sperimentale e riuscito: lasciato da parte il pop elettronico del passato, scrive un album coraggioso, ansiogeno e paranoico. Il tempo sembra non fermarsi mai per il leader dei Radiohead. Da guardare su Netflix, se ancora non è stato fatto, il corto diretto da Paul Thomas Anderson con Thom Yorke nelle vesti di attore.

Norman Fucking Rockwell! di Lana Del Rey: ennesimo grande disco per l’autrice di Ultraviolence, cantante oramai realizzata in uno  stile che la rende unica e fondamentale nell’universo pop di qualità.

LP5 di Apparat: Sascha Ring con LP5 scrive  un album semplicemente bellissimo. È probabile che non inciderà sullo sviluppo e nei meccanismi della storia della musica, ma poco importa. A ogni ascolto ci si accorge di quanto il musicista tedesco sia bravo. Con quest’ultimo lavoro lo conferma: la bellezza di LP5 è una rarità.

Il nuotatore dei Massimo Volume: se c’è qualcuno, oggi, di veramente indie, quelli non possono essere che i Massimo Volume. Emidio Clementi e soci scrivono un lavoro profondissimo e di forte impatto, ispirati dalla grandezza di John Cheever e del suo Nuotatore. Da riascoltare, i Massimo Volume, per apprezzare ancora una volta la loro bellissima discografia.

Liberato di Liberato: chi è Liberato? Che vuole? Perché il cappuccio? Perché non lo possiamo vedere? È tutta una fregatura. No, non lo è. Questo 2019 è un nuovo punto di svolta per la musica italiana. In Liberato, Napoli si mischia con Jamie XX e SBTRKT. Album notevole coadiuvato dai bellissimi video di Francesco Lettieri.

Smog di Giorgio Poi: itpop sì o no? Forse entrambe. Smog è il suo secondo album e conferma le buonissime impressioni del suo esordio, Fa niente. La psichedelia pop che spazia tra Tame Impala e Mac De Marco ha punti in comune con il mondo creato da Calcutta, ma al tempo stesso ne prende le distanze. Giorgio Poi è il pioniere di un itpop mai accaduto.

Afrodite dei Dimartino: album clamoroso dei Dimartino: Hegel di Battisti e Tame Impala fanno da guida a uno dei migliori lavori italiani degli ultimi cinque anni. Antonio Dimartino si conferma ancora una volta bravissimo poeta e sensibilissimo cantautore. Questo è il suo lavoro migliore e aspettiamo con ansia il prossimo.

Persona di Marracash: la voce campionata di Greta Thunberg che dice “Right Here, Right Now” alla Fat Boy Slim nella canzone, appunto, “Greta Thunberg”, è un’ulteriore testimonianza di come l’impegno, in questi anni, deve essere ricercato più nell’universo hip-hop/rap/trap rispetto a quello canonico pop/cantautorato. Marracash con Persona arriva al suo apice, mischiando questioni private e sociali.

[BEST 2019] I libri

Il 2019 rimarrà l’anno del doppio Premio Nobel a Peter Handke (2019) e a Olga Tokarczuk (2018), del Premio Strega ad Antonio Scurati con M. Il figlio del secolo, del Premio Campiello ad Andrea Tarabbia con Madrigale senza suono.

Ma è stato anche l’anno degli esordi di giovani autori tra cui Francesco Iannone (Arruina, il Saggiatore), Andrea Donaera (Io sono la bestia, NNEditore), Giovanni Bitetto (Scavare, ItaloSvevo), Serena Patrignanelli (La fine dell’estate, NNEditore).

Come ogni anno ci troviamo a confrontarci su quali sono stati secondo noi i migliori libri del 2019. Ecco di seguito la nostra decina, in rigoroso ordine alfabetico.

 

Casa di foglie di Mark Z. Danielewski (66thand2nd)

Romanzo di culto per anni introvabile in Italia e ora ripubblicato da 66thand2nd, Casa di foglie è un mosaico narrativo onirico e labirintico, definito da Stephen King «il Moby Dick del genere horror».
In attesa  della nostra recensione, potete leggere un articolo del Post sulla vicenda editoriale del libro.

 

Gli occhi vuoti dei santi di Giorgio Ghiotti (Hacca)

I brevi racconti di Ghiotti immergono il lettore in un complesso nodo di reminiscenze, pulsioni, ricordi ancestrali e legami ambigui, narrati in una forma estremamente controllata con un occhio impietoso e dolente.

 

Le furie di Janet Hobhouse (Neri Pozza)

In quarantadue anni Janet Hobhouse ci ha lasciato quattro romanzi e un desiderio impossibile di leggerla ancora. Le furie è una biografia familiare e personale. Acuta, sapiente, fulminante come un prodigio.

 

Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli (La Nuova Frontiera)

Quasi sovrapponendosi al precedente saggio Dimmi come va a finire, Valeria Luiselli sconfina tra generi letterari differenti e fluidi, in una narrazione continua e a più voci in cui non si distingue più tra storie reali o inventate, lette e ascoltate o davvero vissute.

 

Remoria di Valerio Mattioli (minimum fax)

Allo stesso tempo diario affettivo dei feticci di borgata e manuale di demonologia per il turbo proletariato contemporaneo, ottimo per disinnescare l’ideologia della gentrificazione e la retorica del decoro.

 

Come cambiare la tua mente di Michael Pollan (Adelphi)

A metà tra un saggio divulgativo e un diario di viaggio verso altre dimensioni della coscienza, il libro di Pollan è una testimonianza completa sul mondo delle sostanze psichedeliche e in particolare sulla dietilamide dell’acido lisergico (Lsd).
Potete leggere un interessante articolo di Carlo Mazza Galanti uscito su Esquire.

 

Notte a Caracas di Karina Sainz Borgo (Einaudi Stile Libero)

Distopico e realistico, possente e doloroso, il romanzo di Karina Sainz Borgo offende di bellezza e crudeltà. Il Venezuela allo sfascio e l’urgenza di una singola vita che sgoccia tra le sue crepe.

 

Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia (Bollati Boringhieri)

Vincitore del Premio Campiello 2019, il romanzo di Tarabbia, tra le voci più interessanti della narrativa italiana, ruota intorno alla figura di Gesualdo da Venosa, noto madrigalista che, per difendere l’onore, compie un efferato assassinio che trascinerà l’omicida in un vortice ossessivo di nostalgia e tormento.
In attesa della nostra recensione, qui trovate un’intervista ad Andrea Tarabbia.

 

Necropolis di Giordano Tedoldi (Chiarelettere)

Una galleria di allucinazioni che investe ogni campo del sapere occidentale, riportandoci i detriti di un patrimonio simbolico irrimediabilmente corrotto. Un libro dal carattere sublunare.

 

Il colibrì di Sandro Veronesi (La nave di Teseo)

Il racconto di una vita fatta di continue sospensioni ma anche di coincidenze fatali, di perdite atroci e amori assoluti: «Tu sei un colibrì perché metti la tua energia nel restare fermo».
In attesa della nostra recensione, ecco un articolo di Alessandro Piperno uscito sul Corriere della Sera.

 

Fonte immagine di copertina:
https://bit.ly/2Qa4Tb6

[BEST 2019] I film

Finisce un altro anno di cinema e si afferma un nuovo protagonista delle grande produzioni: Netflix. Dopo il successo agli Oscar 2019 con Roma di Alfondo Cuarón, la piattaforma di streaming ha alzato l’asticella della qualità schierando nomi importanti come Martin Scorsese e Noah Baumbach. Il loro film stanno già dominando la stagione dei premi e praticamente ogni classifica dei migliori film dell’anno. Ci sono anche nella nostra, ovviamente.

Ecco i nostri migliori film del 2019. Come sempre, non sono in ordine e parliamo dei film distribuiti in Italia nel corso dell’anno. Iniziamo.

 

Parasite di Bong Joon-ho

«Bong Joon-ho aggiorna la lotta di classe alle differenze sociali contemporanee. Non parla solo della Corea, ma di tutto il mondo, e lo fa spiazzando lo spettatore ogni volta che può».

 

Copia originale di Marielle Heller

«Copia originale riesce con semplicità a unire generi e a proporsi come un film interessante sulla falsificazione della realtà e la sua percezione».

 

Noi di Jordan Peele

«Dopo Scappa – Get Out, Jordan Peele si conferma nuovo maestro dell’horror con Noi. Ancora una volta va oltre il genere apre il film a molti livelli di lettura, forse troppi».

 

Suspiria di Luca Guadagnino

«Senza cercare il confronto con Dario Argento, Luca Guadagino ha fatto con il suo Suspiria un’opera d’arte complessa e stratificata più vicina al cinema di David Lynch che agli standard del cinema horror».

 

Il traditore di Marco Bellocchio

«Marco Bellocchio torna a guardare alla storia del Novecento italiano con un altro ritratto personale dei suoi protagonisti. Il traditore unisce grande scrittura e regia sorprendente per esaltare un Pierfrancesco Favino semplicemente grandioso».

 

C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino

«Arrivato al nono – e penultimo? – film della sua carriera, Quentin Tarantino definisce una volta per tutte la sua idea di cinema. C’era una volta a Hollywood è un film-manifesto sulla potenza anarchica e liberatoria della fantasia».

 

Storia di un matrimonio di Noah Baumbach

«La grandezza di un film come Storia di un matrimonio sta nella capacità di raccontare il quotidiano. Peccato si allontani dalle sue migliori intenzioni con troppe digressioni legali, ma gli straordinari interpreti mantengono il livello molto alto».

 

Martin Eden di Pietro Marcello

«Animato da un grande Luca Marinelli, Martin Eden inventa un nuovo linguaggio per il cinema d’autore con un grande coraggio sperimentale».

 

Free Solo di Jimmy Chin ed Elizabeth Chai

Documentario premiato con l’Oscar 2019 sull’impresa di Alex Honnold, free climber che per primo ha completato la scalata senza protezioni di El Capitan, una delle montagne più verticali al mondo nel parco naturale di Yosemite. Dietro all’avventura sportiva c’è un racconto di morte come pulsione costante e di perfezione come ossessione. Potete leggere un bell’articolo su Ultimo Uomo.

 

The Irishman di Martin Scorsese

Scorsese richiama Robert De Niro e Joe Pesci e schiera al loro fianco Al Pacino. Il risultato è un film lunghissimo e denso, anti-epico, un canto finale del grande cinema criminale del regista italo-americano, senza lirismi, senza nostalgia.

Poster italiano di Star Wars L’ascesa di Skywalker su Flanerí

L’indegna conclusione di una saga infinita

Se si dovesse parlare di L’ascesa di Skywalker, l’atteso nuovo episodio della saga di Star Wars come un semplice, isolato film, se ne potrebbero lodare le scene d’azione, gli effetti speciali, la fantasia scatenata. Si parlerebbe di un film non perfetto, ma efficace nel suo scopo primario di intrattenere il pubblico.

Non si può, però, parlare del nono titolo di una serie cinematografica che va avanti da più di quarant’anni senza metterlo nella giusta prospettiva con tutto quello che è venuto prima. Da quando la Disney ha rilevato la Lucasfilm nel 2012 per la modica cifra di 4 miliardi di dollari, i fan sparsi per il mondo sono entrati in fibrillazione nell’attesa di una nuova trilogia del mondo di Guerre stellari inventato da George Lucas nel 1977.

Nel 2015, il primo film, Il risveglio della forza, diretto da J.J. Abrams, aveva esaltato la maggior parte del pubblico con un sapiente gioco sull’effetto nostalgia. Due anni più tardi, Rian Johnson aveva cercato di definire una nuova strada con Gli ultimi Jedi, demolendo la mitologia consolidata dai sette capitoli precedenti.

Il risultato era stato un plauso della critica e la rabbia al limite del fanatismo da parte degli spettatori più radicali. Presa dal panico all’idea di scontentare di nuovo la legione globale di appassionati, la Disney è corsa ai ripari licenziando il regista incaricato per il nono film, Colin Trevorrow (Jurassic World), e richiamando in fretta e furia Abrams.

Non parleremo della trama di L’ascesa di Skywalker. Non ci interessano i dettagli della storia, comunque debole e discutibile, ma l’impostazione generale degli Star Wars targati Disney. È incredibile che un colosso simile non abbia saputo pianificare l’evoluzione di questa nuova trilogia. Risulta ancora più incomprensibile se si pensa che la casa di Topolino è proprietaria anche della Marvel, che ha fatto invece della programmazione il punto di forza del suo successo cinematografico, culminato nel titanico Avengers: Endgame lo scorso aprile.

Arrivati alla conclusione di questa terza trilogia, si può dire tranquillamente che i due (quasi tre) registi e le relative squadre di sceneggiatori sono andati avanti alla cieca nella definizione dei loro film, senza una voce esterna che li aiutasse a fissare i punti fondamentali per stabilire la trama generale del progetto di trilogia.

Episodio VII aveva lasciato delle domande che avevano bisogno di risposte. Chi è la protagonista Rey? Il giovane Kylo Ren è ormai divorato dal lato oscuro o è ancora salvabile? Chi è il Leader Supremo Snoke? L’ottavo episodio si era preoccupato di liquidarle in modo brutale, senza pathos e nessun tipo di epica.

L’ascesa di Skywalker torna indietro a Il risveglio della forza, cancellando le contestate novità del capitolo precedente come se non fossero mai esistite. Il risultato è un film che si preoccupa di condensare in due ore e mezzo una quantità di informazioni, scene d’azione, novità, drammi, rivelazioni, ritorni, sentimenti, tradimenti, pentimenti, risentimenti, che sarebbero stati stretti in una trilogia.

Episodio IX è il tentativo frenetico di riconquistare il cuore nostalgico del pubblico senza nessun tipo di sforzo di raccontare qualcosa di inedito o sorprendente.

La trilogia originale di Guerre stellari ha determinato l’evoluzione del cinema contemporaneo e di grandissima parte dell’immaginario collettivo. Il secondo gruppo di film concepito da Lucas a inizio millennio aveva scontentato praticamente tutti, ma la visione di insieme della serie era evidente. La strada per arrivare dal punto iniziale a quello finale era stata quanto meno tratteggiata prima di iniziare a girare.

Questi tre episodi finali sono un susseguirsi casuale di eventi, una corsa corretta in continuazione per cercare di non scontentare nessuno. Molto poco per quella che è stata la più grande saga della storia del cinema.

 

(Star Wars: L’ascesa di Skywalker, di J.J. Abrams, 2019, fantascienza, 155’)

Cover-La meravigliosa lampada di Paolo Lunare

Seduta ipnotica
da realismo magico

Ipnotica: la definizione più adatta per la scrittura di Cristò. Ipnotica come può essere un’opera letteraria che trasferisce continuamente il significato servendosi nient’altro che di una materia tanto semplice quanto la realtà: prendendo spunto dalla quotidianità la narrazione innesca un meccanismo di metamorfosi che si tramuta in fantasia per rivelare l’inedito. Per averne un’idea basta leggere La meravigliosa lampada di Paolo Lunare (2019), ultima uscita TerraRossa Edizioni che accoglie di nuovo Cristò nel suo catalogo dopo Restiamo così quando ve ne andate.

Petra e Paolo assistono a un mondo che si sgretola: dietro la facciata di un matrimonio lungo e felice, qualcosa s’incrina. Quelle stesse mura che proteggevano la vita di coppia tra due personalità compatibili iniziano a far emergere crepe a causa di rivelazioni inaspettate. Tutto sarà tacitamente innescato da un elemento fantastico.

Anche in una storia così breve lo stile di Cristò stabilisce le regole per una seduta ipnotica che affonda le radici in un dualismo fondamentale: il tempo della narrazione e quello spaziale ed emotivo dei protagonisti. L’alternanza dei punti di vista dei due personaggi non fa che generare altrettante linee temporali ognuna delle quali avrebbe potuto minare l’equilibrio della trama, come troppi pezzi di una matrioska impossibili da contenere nell’involucro finale.

L’incedere narrativo innesca un meccanismo di continua scoperta grazie al quale, alla conclusione di ogni capitolo, i piani temporali anticipano o tornano a coincidere con il presente e una piccola rivelazione solletica la curiosità per iniziare quello successivo. Tale combinazione tiene testa anche al lettore più esigente senza riempire la storia di accorgimenti stilistici complessi e limitanti nel ritmo.

Il concepimento dell’elemento fantastico non è altro che un bisogno generato e alimentato dalle vicende umane. Il realismo magico di Buzzati si accompagna alla padronanza di una narrazione in cui la fantasia come deus ex machina è perfettamente integrata nell’ordinario: non è mai presenza che prevale sulle sue conseguenze, ma esiste e si sviluppa in funzione di una vita umana i cui contorni, col procedere della vicenda, si fanno più sfumati.

Le potenzialità dello stile di Cristò s’intuivano sin dalle sue prime opere. In La carne (Intermezzi), l’impianto narrativo di un’apocalisse zombie lasciava spazio a un susseguirsi di colpi di scena che facevano emergere temi umani di morte e perdita. Ma è con Restiamo così quando ve ne andate che l’autore raggiunge la piena maturità: il romanzo conferma una più sicura maestria nell’asservire la storia di Francesco, personalità al limite dell’autoemarginazione, al ritmo di piani temporali che, grazie a elementi fantastici e realtà alternative, s’intrecciano senza sosta.

Una narrazione semplice e l’assenza di orpelli linguistici immotivati non sarebbero niente senza la costellazione umana che ne viene fuori. Anche laddove la finzione domina librandosi nella fantasia pura, tutto è riportato a terra da protagonisti dolorosamente reali. La crisi dell’identità, la morte, la perdita di se stesso o dell’altro, sono i sottotesti che creano un’idea di letteratura molto semplice: la condivisione di esperienze umane universali come antidoto alla solitudine. L’equilibrio tra sperimentazione e linearità permette a Cristò di entrare nel novero degli autori italiani da tenere d’occhio nel panorama editoriale contemporaneo.

 

(Cristò, La meravigliosa lampada di Paolo Lunare, TerraRossa Edizioni, 2019, pp. 102, euro 13, articolo di Fabrizia Gagliardi)
Copertina di Milkman di Anna Burns

Di cosa parliamo quando parliamo d’orrore

Ne dicemmo già, del calderone etichettato distopia. Degli stregoni folgoranti e delle loro profezie. Di tutto un ribollire di visioni. La carovana ardente dove torreggiano a varie altezze campanili chiamati George Orwell, Aldous Huxley, Philip Dick, ma anche Anthony Burgess o Antoine Volodine. E gli architetti di mondi poco auspicabili sono parecchi, probabilmente in crescita nelle più recenti uscite editoriali. Chissà perché…

Margaret Atwood, Bruno Arpaia, Louise O’Neill o Karen Thompson Walker ci propinano universi cariati dall’invasione antropocenica, laboratori del delirio dove all’improvviso un’allucinazione diventa un progetto e poi una legge. Ma, e lo accennammo proprio qualche anno fa, non c’è solo questo.

Esistono altri libri, a bruciare senza fiamme di verità solforiche. Libri in cui si capisce ineludibilmente come l’incubo, la distorsione, spesso nascano piano, in un letto di realtà comune, senza destare clamore o occupare giornali. Si nutrono delle nostre stesse cellule e si fanno pane, dettagli, ovvietà, piccolezze del quotidiano. Si fanno malattia. Cronicizzata, installata in sordina, immunodeficienza del vivere distratto.

Sono le deformità possibili, quelle descritte ad esempio da Michel Houellebecq in un romanzo, Sottomissione, come forma sottile di futuro imminente. Come creatura serpiforme che frisa e sorride intorno ai nostri passi. Sono, stavolta, le assurdità già state, immortalate da Anna Burns in Milkman (Keller, 2019, traduzione di Elvira Grassi), vincitore del Man Booker Prize.

Si racconta una storia. Ed è quello che ci aspettiamo. Ma la si estrae dal corpo dolente di quella maiuscola. La Storia di quello che sembra più di un secolo fa. E che invece è solo un pugno di decenni maldestri sparsi alle spalle. Siamo nell’Irlanda del Nord degli anni Settanta. Ci siamo, lo avvertiamo, lo palpiamo, è orbitante nell’aria col suo stormo di sintomi e segnali. Ma né il dove né il quando vengono mai esattamente menzionati.

Che anno è e in che città? Ma non sono solo le due coordinate essenziali a restare imprecisate. Ogni elemento, ogni ingrediente della composizione narrativa è privo di un nome proprio.

La protagonista è appunto sorella di mezzo, diciottenne ingoiata in una voragine di altri figli prima e dopo di lei. Non è facile esistere in quella scorza di globo, in quella infausta intersezione spaziotemporale. Il Paese è in guerra, col Paese oltre l’acqua, con gli atolli di paesi dentro lo stesso Paese. Rinnegatori contro difensori, traditori contro esercito. In un vortice che confonde i colori e disorienta chi li indossa. L’importante è puntare un nemico. E fabbricarlo diventa un mestiere. Per scampare dal mirino.

La normalità presunta è tutta condita da una selva di regole non scritte, ma totalizzanti. Decaloghi del buon agire e del buon pensare che codificano ogni aspetto del privato, mescolandolo col pubblico senza chiedersi del risultato finale. Umori, abitudini, territori dell’animo, non c’è nulla che sfugga alla catalogazione in questa storia anonima, eppure mai per un attimo indefinita.

Ed è fin troppo semplice ritrovarsi fiondati al di là del recinto. Passare il guado e non saperlo e non poter più intervenire per ricomporre l’impressione di ciò che era prima. Restare spezzati, restare per chiunque solo l’istante della frattura. Dover badare a tutto, anche ai propri aggettivi. «Insomma, “luminoso” non andava bene, ma neanche “troppo triste” andava bene, né “troppo gioioso”; in poche parole dovevi andartene in giro senza mostrare alcunché, e oltretutto senza pensare, perlomeno non più che superficialmente; ecco perché tutti tenevano i pensieri personali al sicuro nei recessi della propria mente».

Alla nostra ragazza succede di condurre un’esistenza tra tante, con un forse-fidanzato con cui ha intrecciato una forse-relazione da più di un anno. Frequenta un corso di francese, va a correre, ma questo non la protegge dal rischio di essere notata. D’altronde ha l’insano costume di leggere-mentre-cammina, d’isolarsi dal suo secolo sprofondando nella letteratura dell’Ottocento.

E magnetizza l’attenzione di chi non dovrebbe. E di chi neanche sa. Un combattente, un fuorilegge (ma da quale legge è preferibile stare al di fuori?), uomo adulto, sposato, che la adesca in auto quasi senza guardarla. Non accade niente, ma viene scelta ed è più che bastevole per proclamarla amante del Lattaio. Per additarla mentre passa e tramarle attorno un reticolo di nuove certezze dove il popolo-mantide la tiene intrappolata, giocando col suo destino come fosse un topo di pezza.

È un passaggio automatico. Essere punta dal sospetto e infettarsi in breve tempo. Il contagio non prevede difesa. Lei stessa prova a confidarsi, con sua madre, con la sua storica amica, ma il ruolo è stato già assegnato e non resta che inglobarlo. Sorella di mezzo scivola in quell’alveo di colpevolezza, disarmando il suo diritto di replica. E quel poco che aveva si sbriciola di colpo. Fino alla fine?
Questo non lo sveliamo.

Funziona comunque così, in un sistema in cui interrogare un tramonto è sconsigliabile, perché vorrebbe dire rintracciare nel cielo qualcosa d’altro oltre l’azzurro: «Se ciò che diceva era vero, cioè che il cielo là fuori – non là fuori – da qualche altra parte – poteva essere di un qualunque colore, significava che qualsiasi cosa poteva essere di qualsiasi colore […], che qualsiasi cosa poteva accadere, in qualsiasi momento […] probabilmente era anche accaduta, solo che noi non ce ne eravamo accorti. Quindi no, dopo generazioni e generazioni, padri e nonni e bisnonni, madri, nonne e bisnonne, secoli e millenni di un solo colore ufficiale e tre colori non ufficiali, un cielo pieno di colori, proprio come quello, non poteva essere ammesso».

La degenerazione è naturale, implementata come terzo atto del respiro. E l’abilità di Anna Burns è costruire un telaio sempre più asfittico, ansiogeno, irreparabile, mescolando i registri linguistici con grande sapienza e cesellando personaggi laterali per nulla secondari.

Meravigliosa la lettera scritta da “ragazza delle pastiglie”, dedita ad avvelenare chi le stava attorno per trasmettere anche agli altri il dolore del suo baratro. Quel burrone che squaderna lo stomaco e diventa terrore batterico, terrore della guarigione, di sua sorella, luminosa e gentile tanto da dover essere fermata.
E riempita del suo stesso vuoto.

Raramente un romanzo riesce a disegnare una geometria del deforme così potente e routinario, così ben camuffato, illustrato come fosse un antimodello sociale, mappatura del disagio da obbedienza costante. Archetipo anonimo. Così lontano, sperduto in un anfratto oltremare di un conflitto che poco conosciamo e comunque così accanto ai nostri giorni, spesi forse a pensare meno, a pensare leggero, a stordirsi di finti colori senza inciampare in quelli del cielo, incappottati in una dittatura confortevole a portata di palmo.

Questo succede quando si legge un libro come Milkman, esplode una mina e ciascuna delle schegge è interamente nostra, è pelle mischiata ad angoscia, è bellezza tradita a basso costo, impurità e bagliore, colpa e benedizione. Ecco il suo merito, ricordarci quanto siamo liminari, creature al confine, mezzi miserabili e mezzi eroi, a domandarci ancora quale potrebbe essere la metà di oggi.

 

(Anna Burns, Milkman, Keller Editore, 2019, trad. di Elvira Grassi, 456 pp., euro 19,50, articolo di Cristiana Saporito)

 

Copertina di Carmel di Riley

Il tempo di non morire, nella spettrale, fascinosa Manchester

La Manchester notturna di fine millennio affiora nitidamente davanti agli occhi rileggendo Carmel di Gwendoline Riley (Fazi, 2003) per la bella traduzione di Federica Bigotti.

La storia è semplice, esile al punto da diventarne il valore aggiunto. Carmel Mckisco lavora di notte in un dive bar di Manchester, un posto disadorno, con tavoli e sgabelli scheggiati in procinto di cedere. Poco più che ventenne, affranta da vicende famigliari da cui è fuggita, deve ora superare il dolore per la rottura della relazione con Tony, uno dei tanti clienti del locale.

È stata Margi, stessa età di Carmel, a convincerla a lavorare insieme al dive bar, poco da fare e lungo tempo per chiacchierare e leggere e ascoltare musica. Carmel e Margi condividono non solo gli spogli appartamenti in periferia ma soprattutto gli stati di umore regolarmente alterati dall’alcol e gli splendori e le miserie d’animo comuni ai giovani nel loro farsi adulti.

Le due amiche condividono anche il desiderio di fuggire dalla tristezza che le avvinghia e dallo squallido e opprimente panorama urbano che le circonda. Ma è proprio il fascino decadente e nichilista della Manchester notturna, dei suoi tanti personaggi svalvolati e evanescenti in cerca di illusori successi in ambito musicale, che le costringe a non andare, a non trasferirsi nell’agognata Cornovaglia.

Agghiaccianti nella loro crudezza sono i primi paragrafi del secondo capitolo, da cui emerge lo stato di terribile solitudine che opprime ciascun componente della famiglia di Carmel. Sono pagine di profondo malessere, che danno il senso e la misura del vuoto contro cui Carmel deve quotidianamente lottare: paure e mostri invisibili sorvolano, abitano e ghermiscono la sua giovane mente.

Quando poi arriva l’amore, Tony sembra riuscire a condurla – per voli e istanti di possibile serenità – in altri mondi, in paesi lontani, esotici. Ma dopo qualche tempo, e nessun preavviso, con poche parole Tony le dichiara il suo disinteresse per la loro relazione; cosicché Carmel si ritrova di colpo nella cupa, piovosa, dolorosa Manchester. Il tutto avviene senza che Carmel provi a chiederne il motivo o obiettare qualcosa, azzardare magari il finto, estremo tentativo dell’innamorato affranto. Niente. Bocca cucita, o quasi.

Molti dei personaggi che (non) agiscono nel romanzo sono giovani e giovanissimi. All’apparenza, essi hanno già dichiarato la propria resa incondizionata; si vedono vivere, inermi, senza alcuna prospettiva se non per il presente immediato, fatto di alcol droga e rock’n’roll. Non molto diversa è la condizione di Katja, che, arrivata da Praga per imparare l’inglese, finisce con lo starsene rintanata tutto il giorno nel suo minuscolo e spoglio flat di Hulme, preda della disperata attesa di qualcosa che la liberi da quelle catene.

Una delle speranze segrete di Carmel è – ovvio – incontrare l’uomo che possa scacciarle il ricordo di Tony, di cui è ancora profondamente innamorata. Il caso la porta a incrociare Lucas, un ragazzo americano con la camminata da cowboy di rientro a Austin il giorno successivo, ma sarà il caso stesso a far abortire la loro probabile storia d’amore.

Nel romanzo tutti i personaggi, pur con sembianze di spettatori inermi, sono in realtà artefici del proprio destino: incatenati dalle inettitudini, dalle debolezze e dalle illusioni che parrebbero isolarli per sempre da sé stessi, oltre che dagli altri. A sottrarre, probabilmente, Carmel da un finale così nefasto, quando non in preda a depressioni e hangover distruttivi, è il materializzarsi con icastica plasticità del terrore di vedersi diventare come qualcuno dei clienti del dive bar, vecchie spugne derise e consapevoli; o come Steven Unsworth, uno dei molti musicisti bruciati dalla droga a cui aveva legato il suo amore di ragazzina.

Così ora, nel tentativo di recuperare gli intermezzi di serenità perduta, Carmel si costringe alla ricerca dello squat dove vive Steven, a Macclesfield, e con qualche sotterfugio riesce infine a individuarlo. Quella che appare agli occhi di Carmel è una scena terribile, tenera e drammatica allo stesso tempo, che può considerarsi emblematicamente conclusiva: «Steven dormiva rannicchiato su un letto da campeggio, completamente vestito. Non c’erano mobili eccetto il letto, anche se c’erano alcune candele, un registratore e una scatola di cartone piena di cassette. Mi sono avvicinata un po’ e guardandolo ho sentito qualcosa scorrere dentro di me […]. Ho poggiato la mia borsa per terra e mi sono inginocchiata vicino al letto. Ho notato che aveva dei cerchi scuri e lividi sotto gli occhi, e che le sue labbra erano pallide e piene di croste; respirava, a scatti, dalla bocca socchiusa.
“Gesù, cosa hai fatto?”, ho sussurrato, “Guarda che cosa hai fatto!”
Mi sono seduta sul bordo del letto e mi sono sfilata le scarpe. Poi, con cautela, mi sono stesa accanto a lui e ho messo il suo braccio esile attorno a me, tenendo la sua mano fredda e delicata, e chiudendo gli occhi, nella sua stanzetta, illuminata soltanto dalle fiamme danzanti e morenti di due candele da chiesa che stavano per terra accanto al letto insieme a un posacenere, e a un block-notes».

Ciò che non fa sprofondare Carmel nel più cupo disfacimento è dunque la fiammella sempre accesa dell’amore, da dare e ricevere, e quella dell’aspirazione fintamente nascosta di una carriera da scrittrice; ma è anche la scoperta di una imprevista spiritualità avvenuta tramite il libro di preghiere regalatole da uno dei suoi stravaganti amici.

Il romanzo di Gwendoline Riley, attraverso un linguaggio scarno e poetico, e una costruzione quasi diaristica che sottrae al racconto il romanzesco, restituisce con forza il palpito di ragazzi e ragazze in bilico sulle proprie vite, negli anni considerati sempre i più belli soltanto quando li si guarda retrospettivamente.

 

(Gwendoline Riley, Carmel, Fazi, 2003, 136 pp.,  trad. di Federica Bigotti,  art. di Rino Garro)

 

 

Copertina di Kentuki

Spiare o essere spiati, questo è il problema

Negli ultimi anni, la convergenza tra narrazione distopica e osservazione della realtà risulta sempre più evidente, come se la tecnologia avesse compiuto un balzo talmente improvviso da acciuffare persino le più visionarie tra le inquietudini partorite dall’immaginario fantascientifico.

E così ecco che per scrittori, registi e sceneggiatori diventa difficile prevedere, anticipare o profetizzare il male del futuro; la distopia si trova a rincorrere con un certo affanno il presente, il più delle volte a commentarlo e, nel migliore dei casi, a stargli davanti di pochi passi. In Kentuki (Sur, 2019), Samanta Schweblin ha il merito di intuire questa difficoltà e di costruire, a partire da un’intuizione vagamente futuristica, una storia con i piedi ben piantati nell’attualità.

Tra le voci in ascesa della letteratura argentina, seppur residente da alcuni anni a Berlino, Schweblin è, al pari di Mariana Enriquez, l’esponente principale del racconto weird sudamericano. Kentuki arriva in Italia dopo La pesante valigia di Benavides (Fazi, 2010) e Distanza di sicurezza (Rizzoli, 2017) sotto forma di raccolta mascherata da romanzo.

A unire le numerose vicende che popolano le pagine di questo libro sono soltanto loro, i kentuki, animaletti di peluche a rotelle che potrebbero ricordare i tamagotchi, se non fosse per un piccolo dettaglio: sono manovrati da essere umani. Il padrone di un kentuki accetta quindi di essere osservato da un’altra persona di cui non conosce l’identità e, al tempo stesso, beneficia del privilegio di poter esercitare il proprio potere su una “cosa animata” che non è in grado di parlare e che necessita di essere ricaricata per non perdere la propria “vita virtuale” perché, una volta disconnesso, non si torna indietro, e il kentuki è perso per sempre.

Le ragioni per le quali si sceglie di essere padrone o peluche sono molteplici: Marvin vorrebbe toccare per la prima volta la neve dalla sua cameretta di Antigua; Emilia ha ricevuto una connessione in regalo da un figlio lontano desideroso di ripulirsi la coscienza; Enzo è costretto a comprare un topo-kentuki per il figlio su suggerimento della psicologa e della ex moglie; Grigor vorrebbe avviare un business di “connessioni predisposte”; Alina ha bisogno di compagnia.

Queste sono soltanto le cinque linee narrative principali, interrotte di frequente da altri racconti, brevi o brevissimi e autoconclusivi. In ogni situazione, a prevalere è uno sconfortante senso di solitudine e un desiderio disperato di voler entrare in contatto con gli altri attraverso nuove modalità di comunicazione, a metà strada tra le chat e il tipo di attenzioni che si riserverebbero a un animale domestico.

«Senza email né messaggi né metodi di comunicazione concordati il suo kentuki non era altro che un animaletto da compagnia sciocco e noioso, tanto che a volte lei si dimenticava perfino che era lì, e che dietro il Colonnello Sanders c’era una videocamera e qualcuno che guardava».

Ma cosa accade quando una persona realizza di trovarsi al cospetto di un peluche “umanizzato”? Schweblin passa in rassegna con cura sociologica tutte le combinazioni possibili generate da questa strana interazione, dalle psicosi («Sono pedofili. Tutti. È venuto fuori adesso. Ci sono centinaia di casi», pag. 124) alle concrete minacce in materia di privacy («Quella persona, chiunque fosse, poteva scattare fotografie, poteva fare un video allo schermo, poteva masturbarsi dentro un corvo di plastica pelosa», pag. 115), passando per interrogativi etici come la violenza sui kentuki e i movimenti che, al contrario, ne promuovono la liberazione.

Alcuni dei personaggi riescono ad affrancarsi dalla tentazione di spiare o essere spiati, altri riescono persino a innamorarsi, ma il quadro tracciato da Samanta Schweblin è perlopiù inquietante. L’unica via di uscita sembra essere quella di staccare la spina e tornare alla realtà, una realtà che può essere altrettanto incerta, ma che, almeno, è autenticamente vissuta e spoglia di simulacri, come sottolineato in un passaggio significativo del romanzo:

«Non voleva più vedere sconosciuti mangiare e russare, non voleva più vedere un solo pulcino gridare di terrore mentre gli altri lo spiumavano isterici, non voleva più spostare nessuno da un inferno all’altro».

 

(Samanta Schweblin, Kentuki, trad. di Maria Nicola, Sur, 2019, pp. 200, euro 16,50, articolo di Martin Hofer)
Poster di Storia di un matrimonio su Flanerí

“Storia di un matrimonio” è un film di dolorosa normalità

Storia di un matrimoniodi Noah Baumbach è uno di quei pochi, grandi, film capaci di raccontare la normalità in tutti i suoi aspetti. La vicenda ordinaria al centro del film è la fine di un matrimonio senza colpa.

I due protagonisti, Charlie e Nicole, prendono semplicemente atto di non amarsi più e di non poter stare più insieme. Al centro c’è il figlio della coppia, Henry, e le rispettive carriere che li portano ai due punti opposti degli Stati Uniti, New York e Los Angeles, con tutto quello che comporta.

Parliamo, ovviamente, di una normalità relativa. Perché Baumbach soffre della stessa sindrome del suo mentore ideale Woody Allen. I suoi protagonisti sono sempre artisti o intellettuali piuttosto benestanti, che appartengono a un mondo che di normale ha molto poco. Qui Charlie è un affermato regista di teatro indipendente, pronto al grande salto a Broadway. Nicole è la sua musa e attrice di riferimento. Una proposta per una serie tv a Hollywood, però, la mette su un aereo per la California.

Quello che, però, è ordinario è il racconto della fine di questo amore che possiamo immaginare essere stato grande. Succede, anche spesso, che due persone si accorgono di non poter più stare insieme, senza colpevoli, senza un grande evento che arriva a sconvolgere la normalità. Per Charlie e Nicole funziona così. Lui sul divano, lei a letto, lunghi silenzi e tante incomprensioni.

Baumbach riprende il tema delle famiglie che si disgregano che già aveva affrontato nel suo primo film di successo, Il calamaro e la balena, del 2005. Qui sposta il focus dai figli ai genitori, prendendo ampio spunto dalla vicenda personale di divorzio dall’ex moglie (l’attrice Jennifer Jason Leigh).

I veri attori del divorzio sono gli avvocati che li armano uno contro l’altra con una ferocia che non ha nulla a che vedere con il loro rapporto. Storia di un matrimoniosi apre con una sequenza perfetta in cui le voci fuori campo di Charlie e Nicole elencano i pregi l’uno dell’altro. C’è ancora tanto amore e rispetto, anche al momento della fine. Gli studi legali a cui si rivolgono, invece, li trascinano in una spirale di accuse, rivendicazioni e offese.

Ci sono elementi sparsi qua e là che fanno capire che non tutto andava alla perfezione. Forse per sottolineare l’incapacità degli artisti nella vita reale, Baumbach lascia che i due protagonisti si lascino risucchiare dagli avvocati. Il film si concede così troppi spazi per l’ennesima descrizione dello spietato mondo legale statunitense.

Non che siano scene che si possano definire fuori luogo, anche grazie alle perfette interpretazioni dei vari legali, Laura Dern su tutti, ma anche il mite Alan Alda e il frenetico Ray Liotta. Tolgono però il focus dal rapporto di Charlie e Nicole, li rendono due pedine di un gioco a cui non partecipano.

Rimane, però, la rappresentazione perfetta della spietata solitudine di una separazione. Baumbach ha scritto il copione perfetto e ha trovato in Adam Driver e Scarlett Johansson due protagonisti superbi.

Johansson si cala in panni normali, lontani dall’immaginario di sex symbol ed eroina d’azione a cui si è lasciata relegare negli ultimi anni, e torna alla qualità dei suoi primi film.

È Adam Driver, però, a brillare con tutto il suo talento. Sono anni che è destinato a diventare uno dei più grandi attori della sua generazione, se non il migliore. Il grande pubblico lo conosce per il Kylo Ren della nuova trilogia di Guerre stellari, ma Driver continua a scegliere i film che preferisce.

DaHungry Hearts di Saverio Costanzo fino a Silencedi Scorsese, per dirne due, non si è mai preoccupato della visibilità ma ha continuato a costruire il suo percorso con consapevole autonomia.

Ci sono almeno tre scene in cui è straordinario in Storia di un matrimonio: l’aspro confronto con la moglie nel nuovo appartamento di lui; il piano-bar; la lettura finale della lettera.

Dopo la presentazione a Venezia sono arrivate sei nomination ai Golden Globe per il miglior film drammatico, i due protagonisti, Laura Dern, la sceneggiatura e la colonna sonora. In attesa degli Oscar.

(Storia di un matrimonio, di Noah Baumbach, 2019, drammatico, 136’)

Beck e quel vago senso di incompletezza

Insomma, Beck sta dentro a Scientology o no? Ad anticipare l’ultimo lavoro dell’artista americano, Hyperspace, un’intervista in cui in cui dice di non farne assolutamente parte, nonostante in altre abbia detto l’esatto contrario.

Controverso Beck, come controversa è la sua produzione artistica: sembra aver passato una carriera a cercare di capire chi è, con il risultato di alcuni picchi, chiaramente Mellow Gold e Odelay, ma anche The Information, a cui ha alternato momenti in cui è rimasto a vivacchiare su una sufficienza striminzita. Colors, per esempio, o Guero.

Hyperspace non ha nulla di chiaramente speciale, è un lavoro fiacco, che alla lunga annoia l’ascolto. Ci sono degli spunti interessanti, come l’entrata prepotente del basso di “Saw Lightning”, alcuni generici richiami ai Tame Impala e Flaming Lips, una voce che qui sembra muoversi tra quella di Chris Martin e John Grant. Molto bella “Stratosphere”, con un arrangiamento semplicissimo e centrato. Un album che avrebbe potuto dire molto altro, ma che invece soffre di un qualcosa che sembra suonare come un freno a mano tirato. O meglio: come qualcuno che non sa esattamente dove sta andando.

Hyperspace potrebbe essere il manifesto di una  sorta di sindrome di Beck: sapere di ascoltare qualcosa di follemente valido, che poi va a sgretolarsi ascolto dopo ascolto. Lasciando qualcosa che non è stato, se non l’ennesima riprova di avere a che fare con qualcosa di incompiuto.

Oggi scrive un album piuttosto eterogeneo, a metà tra Morning Phase e Colors, in cui si diverte a cercare qualche soluzione vintage che però suona un po’ di plastica. Hyperspace è il suo tipico album in cui non riesce a fare quello che potrebbe fare.

Beck è un genio, ma alcuni giri a vuoto hanno influenzato negativamente lo sviluppo della sua carriera. Perché i già citati Mellow Gold e Odey sono due pietre miliari: quella assurda commistione di folk, blues e hip hop che faceva impazzire intere generazioni rimane lì a testimoniare quanto sia bravo. Ma poi tante cose buttate un po’ a caso. Ritrovarsi tra le mani un lavoro come Hyperspace conferma questa tendenza.

E fa male, perché Beck è quello che è riuscito a incarnare lo spaesamento degli anni ’90 come solo altri due grandi hanno saputo fare: “Loser” è importante quanto  “Smells Like Teen Spirit” e “Creep”, due inni di gruppi iconici come Nirvana e Radiohead.

In Hyperspace, Beck si accontenta di una sufficienza, quando c’erano i presupposti per poter puntare ad altro. La collaborazione di Pharrell Williams  non ha dato quel quid necessario.  In definitiva, non si capisce cosa abbia voluto rappresentare veramente in questo album.

Ma Beck è anche questo, e ce lo teniamo così.

Marciare o uscire dalla fila?

Nato il 9 novembre 1929, Imre Kertész da più di tre anni non è più fra noi. Quando, nel 1975, è stato pubblicato il suo primo romanzo, Essere senza destino (pubblicato in Italia da Feltrinelli, ndr), pensava che «privato di qualsiasi effetto, esso sarebbe rimasto sepolto nello sprofondo ammuffito di una cantina ungherese», e si è rivolto al redattore della casa editrice con l’affermazione assurda: «Mi può salvare solo la fama mondiale». In quell’attimo – scrive nel gennaio del 1995 in un’annotazione nel suo diario – «era un’affermazione tanto assurda quanto era stata la decisione che avevo preso nel 1954 di fare lo scrittore, per giunta un tipo di scrittore qui inimmaginabile perché il suo punto di partenza non è la prammatica, non si adegua alle circostanze locali ma, per così dire, prende la misura dell’eternità».

Se ci pensiamo, la vita di Imre Kertész è una sequenza di assurdità, e le sue opere rappresentano l’analisi di queste assurdità, accompagnata da una severa introspezione. Conclude la stesura di Essere senza destino il 9 maggio 1973, e già alla fine di luglio la casa editrice Magvető ne rifiuta la pubblicazione. Kertész tira le somme e prende in considerazione l’idea di far uscire il manoscritto clandestinamente dal Paese per farlo pubblicare all’estero: la copia originale di quel testo è andata smarrita ma l’autore ne usa alcune parti nel suo secondo romanzo, Fiasco (Feltrinelli, ndr), e la ricostruzione del manoscritto è fra i suoi ultimi lavori.

Lo scrittore vi riassume le circostanze assurde della propria nascita: «quando sono venuto al mondo il Sole era nel segno della più grande crisi economica fino ad allora mai conosciuta, la gente si buttava di sotto dall’Empire State Building, dal turul (l’aquila immaginaria della tradizione ungherese) in cima al ponte Francesco Giuseppe, e da tutti i punti situati in alto dell’intero globo; si gettava nell’acqua, nei precipizi, sul lastricato, a seconda delle possibilità; un capo partito di nome Adolf Hitler mi guardava torvo dalle pagine del suo Mein Kampf, la prima legge antisemita ungherese chiamata numerus clausus si trovava sullo zenit della mia costellazione prima che il suo posto fosse preso dalle leggi successive. Tutti i segnali terrestri (non so nulla di quelli celestiali) testimoniavano l’inutilità, o meglio l’irragionevolezza, della mia nascita. Ero un inconveniente anche per i miei genitori che stavano divorziando. Sono la manifestazione materiale di qualche incontro amoroso di due persone che non si amavano […]. Figlioletto di mio padre e di mia madre che non avevano più nulla in comune, alunno di un istituto privato dove mi avevano internato mentre loro sbrigavano le pratiche del divorzio; scolaro e piccolo cittadino dello Stato. […] Ero circondato, sovrintendevano alla mia mente: mi educavano. Mi allevavano per eliminarmi, a volte con parole affettuose, altre con rimproveri severi. Non protestavo mai, mi impegnavo a fare il mio meglio: mi lasciavo andare alla nevrosi della buona educazione con languida buona volontà. Ero un membro umilmente impegnato, seppure non sempre perfettamente allineato, della tacita congiura che attentava alla mia vita».

Deve a questa nevrosi della buona educazione se non scappa quando ne avrebbe la possibilità, e sale invece obbediente sul vagone diretto a Auschwitz. L’anno dopo, sempre beneducato, non rimane in nessuno dei Paesi occidentali che gli vengono offerti, sale invece a Buchenwald sul treno in partenza per Budapest, e remissivo, si adatta ancora. Inizia la promettente carriera di giornalista, scrive libretti per commedie musicali di successo; non si ribella e malgrado gli si presenti l’occasione non emigra né nel 1948 né nel 1956.

Per decenni abita con Albina Vas, la prima moglie, in un appartamentino di 28 metri quadrati, insufficiente per due persone, che assurge a simbolo di detenzione: prigione e nascondiglio dell’esistenza intellettuale da lui scelta. All’apparenza Kertész si adegua in tutto all’ambiente esterno, alle opportunità che gli si presentano, quando un evento romanzesco (e in seguito anche romanzato) lo costringe a prendere una decisione bizzarra che determinerà il suo destino: giornalista disoccupato, nel gennaio del 1956 il quotidiano Magyar Nemzet gli affida l’incarico di scrivere un articolo sui costanti ritardi dei treni.

Kertész tornava spesso su quest’episodio, lo racconta anche nel suo discorso di Stoccolma (pronunciato nel dicembre 2002 in occasione del ritiro del premio Nobel, ndt). Ed ecco come ha narrato lo scrittore l’episodio in una intervista inedita: «Stavo in un lungo corridoio completamente vuoto e all’improvviso sentii un rumore di passi provenire dall’ala più corta di questo corridoio a L, che naturalmente non potevo vedere. E questi passi scatenarono dentro di me… Di colpo ebbi una visione sul significato di questi passi, i passi che fino a quel momento avevano caratterizzato la mia vita: marciare e marciare in una grande marcia storica cui partecipano centinaia di migliaia, milioni, e o si marcia con la massa o ci si fa da parte. E io decisi di uscire dalla folla in marcia. Vivevo l’esperienza che avrei incontrato in seguito traducendo Nietzsche, ossia enthousiasmòs dionisiaco che in realtà è un’esperienza di massa, e quest’esperienza di massa è l’essenza della dittatura. Una dittatura come quella nazista o comunista, fatta di continue feste e autoinganno, è capace di trasformare l’odio selvaggio in manifestazioni orgiastiche, e esercita un’attrazione incredibile sulla folla impazzita. L’esperienza dionisiaca ghermisce, e l’uomo abbrancato non se ne esce più perché rinuncia a se stesso, alla sua individualità, diventa parte della massa, si abitua a essa e impara ad amare il caos. Ho capito […] che riconoscendo i pericoli dell’esperienza dionisiaca dovevo operare una scelta, perché mi rendevo conto di quanto fosse facile farne parte. Credo che sia stato un momento esistenziale, comunque in quell’istante fui fulminato dall’idea di dover fare lo scrittore.

In un certo senso era un’esperienza mistica, anche se ovviamente dentro di me qualcosa si stava preparando già da molto tempo: da mesi, persino da anni. Che venne alla luce in quell’attimo. Sentendo il rumore di quei passi dentro di me prese forma quel disegno che fece nascere anche i temi che avrei trattato da scrittore. Nacque quella distanza che sembra caratterizzare i miei lavori, e in quell’attimo ebbi la chiara percezione che il mio dovere era di stare in disparte e di osservare». (Per la cronaca: Kertész scrisse l’articolo commissionato da Magyar Nemzet che fu pubblicato nel giornale l’8 febbraio 1956).

Imre Kertész inizia la sua attività di scrittore autonomo (come figurava per molto tempo sulla sua carta d’identità) in uno spazio in cui la condizione primaria per raggiungere la meta era la rinuncia alla propria identità e corrompersi. A prima vista continua ad adattarsi alle circostanze ma va contro il regime: comincia a svolgere il suo lavoro apparentemente assurdo e privo di qualsiasi garanzia di successo di nascosto, praticamente in clandestinità, e devono trascorrere 19 anni prima che possa prendere in mano una copia stampata di un suo libro; inoltre ha sessant’anni quando viene insignito del primo riconoscimento, il premio letterario Attila József.

Il successo giunge tardi, non può più corroderlo né far sì che faccia concessioni, nemmeno a se stesso. Ha sempre considerato naturale l’esilio dello spirito e a esso adattava la propria vita e la sua strategia di scrittore: «Non avrei potuto sopravvivere, superare quelle condizioni di vita, se non mi fossi messo in disparte, se non avessi creato una forma di vita spirituale in cui quel vivere da outsider non fosse stato prima accettabile, e poi anche costruttivo per me. Quindi anche se risulta un paradosso, devo molto agli ultimi quarant’anni, al fatto per esempio che non mi hanno mai considerato uno scrittore, che anch’io mi sentivo un estraneo nel mondo letterario e non ho cercato di farne parte. Tutto questo mi dava una certa prospettiva…»

Citava sovente la definizione di Emerson secondo la quale eroe è colui che non si sposta dal proprio centro. Kertész la traduceva per sé pensando di dover formare prima di tutto la propria personalità, per poi trasformare la sua vita in un’opera. Come recita il risvolto di copertina (ungherese, ndt) di Fiasco: «La mia morale è vivere e scrivere lo stesso romanzo». Scrivere era ineluttabile per lui e la scrittura era anche il suo campo di battaglia della conquista e riconquista dell’identità. Kertész in tutte le sue opere parla, fornendone anche degli esempi, della grave responsabilità che pesa su di noi nel definire la nostra vita, su come renderla un destino individuale in ogni tempo, in particolare nelle dittature intente ad appropriarsene, e se la nostra storia può insegnare qualcosa anche ad altri.

L’intera vita e opera di Imre Kertész parla di questa lotta e del suo prezzo, e di quello che possiamo fare delle esperienze acquisite e del carico che ci viene lasciato in eredità. In virtù del destino e delle esperienze di vita, Kertész appartiene a quei pochi che possono esprimersi autorevolmente di due terribili dittature del ventesimo secolo; il valore delle sue opere sta nella testimonianza che in lui non si lega mai soltanto al passato e manda sempre un messaggio esistenziale al lettore. Rimanere un outsider ha avuto il suo prezzo ma gli ha garantito la libertà anche nei momenti storici più tragici, e i suoi libri sono stati concepiti in libertà.

Questo non glielo hanno mai perdonato e lui sarebbe stato dimenticato persino più velocemente dei consueti tempi dell’oblio, se non fosse arrivata la fama mondiale, una nuova svolta assurda, la «catastrofe-fortuna» come era solito chiamare il premio Nobel. È riuscito a completare la sua opera degnamente, malgrado l’aggravarsi della sua malattia che correva in parallelo con il crescente successo – l’ha terminata secondo i suoi parametri, come voleva vederla lui e come voleva che la vedessero gli altri.

Tuttavia, e ne era ben consapevole, questa forma nella sua segregazione rimane comunque frammentaria: non solo la sua eredità rivelata (che conosciamo bene o male e con fraintendimenti) è immensa e richiede cura costante, ma la somma delle opere inedite o addirittura dimenticate è di pari volume. L’istituto che porta il suo nome è nato anche per rendere fruibile la parte sconosciuta. Far diventare accessibile quest’opera straordinaria nella sua interezza non è solo rispetto per il morto, ma anche conoscere noi stessi.

Un breve cenno all’attività dell’istituto: è stata posta una targa alla casa dello scrittore in via Török, è stato allestito, secondo la volontà della sua vedova, Magda, il suo monumento funebre, inoltre è iniziata la lavorazione delle opere inedite e la raccolta dei documenti relativi allo scrittore. È disponibile online la raccolta di materiali inerenti e una mostra itinerante è dedicata agli anni fra il 1934 e il 1955 e alla commovente storia della prima moglie di Kertész. Abbiamo appena incominciato il lavoro e abbiamo ancora molto da fare per arrivare anche solo a stimare quanto dobbiamo a quest’artista eccezionale.

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(Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul quotidiano ungherese Magyar Nemzet il 10 novembre 2019. Articolo di Zoltán Hafner, direttore dell’Istituto Imre Kertész di Budapest. Traduzione di Andrea Rényi)

Copertina di Una volta ladro sempre ladro di Lorenzo Moretto

LE MANI PULITE DI NOSTRO PADRE

Una volta ladro, sempre ladro di Lorenzo Moretto (minimum fax, 2019) è un romanzo utile, oltre che ben scritto e concepito; utile tre volte: per l’autore, per il lettore, per la società che lo accoglie. L’opera d’esordio di Moretto ha il merito di sapersi posizionare in un punto ideale da cui è possibile riflettere sulle angosce personali, intime, come pure su quelle sociali, legate a un periodo drammatico per l’Italia, tentando nell’impresa di ricucire uno strappo grande quasi trent’anni, che ha fatto di noi i cittadini che siamo e dell’Italia il Paese controverso e spaurito che oggi si trova a essere.

«Al centro della mia vita c’è l’arresto di mio padre», questo l’incipit. Siamo all’11 giugno 1994, gli anni di Tangentopoli e di Mani Pulite. Giovanni Moretto, commercialista e padre della voce narrante, è tratto in arresto con l’accusa di ricettazione finalizzata al traffico d’armi internazionale. L’arresto avviene in casa dopo una meticolosa quanto educata perquisizione. È presente tutta la famiglia che, pudica, quasi imbarazzata più che violata, si mette a disposizione delle autorità. Inizia così un calvario fatto di viaggi da Monfalcone, dove vive la famiglia, al carcere San Vittore di Milano, fatto di lettere, di studio disperato delle carte processuali, di silenzi in casa difficili da gestire durante il giorno e ancora più insopportabili la notte, quando tra le mura domestiche non si sente più il forte russare del padre ora lontano. Un calvario lungo sei mesi, i mesi del Mondiale di calcio Usa ’94 che ricordiamo per le imprese di Roberto Baggio e del primo Governo Berlusconi passato agli annali, invece, per aver provato a ostacolare le indagini della Magistratura; periodo nel quale Lorenzo, un ragazzo di appena ventitré anni, affronta la sua prima estate da uomo.

Ai sei mesi di custodia cautelare ne seguo altri sei di arresti domiciliari, e poi ancora sette lunghi anni in cui Giovanni e la sua famiglia rimangono in attesa di un processo che non arriverà, in assenza di prove e di reato, mentre la vita e il tempo appaiono quasi sfumati, fiaccati, trascorsi in una sorta di oblio domestico che nessun ispettore, nessun PM potrà dare indietro. Ma non c’è rancore nelle pagine di Moretto, non c’è rabbia; ci sono invece delicatezza e una grande sincerità, la capacità di mettersi a nudo attraverso il racconto e la voglia, profonda, di comprendere con il racconto un po’ più di se stesso, e un po’ più del rapporto silenzioso e rispettoso che aveva con suo padre.

Questo è il cuore della narrazione: il tentativo di un figlio, ormai uomo e padre a sua volta, di ricostruire il rapporto paterno, logorato dagli eventi giudiziari e da una vita che lo ha condotto lontano da Monfalcone a svolgere la professione di attuario. Un tentativo, tanto narrativo quanto umano, che già nelle pagine del romanzo lascia intravvedere i suoi frutti e mostra come, con la scrittura e l’onestà, il disagio e il senso di colpa possano trasformarsi in pace e in perdono, verso il padre, verso lo Stato e, in fondo, verso se stessi.

Una volta ladro, sempre ladro sa essere anche occasione, per il lettore, di quando invece i capi d’accusa raggiungono noi o qualcuno della nostra cerchia, come ormai siamo abituati a vedere in tv dopo un omicidio o dopo che un avviso di garanzia è stato recapitato a un politico di qualsiasi schieramento. Questa malsana abitudine a farci tutti allenatori quando l’Italia gioca i Mondiali e tutti giudici quando uno scandalo colpisce i palazzi del potere, senza dare invece tempo ai giocatori e magistrati di fare il loro lavoro, di fare il loro dovere con serenità e rigore.

È, questo libro, un’occasione per la società italiana non già di chiudere i conti con il passato, con i caldi primi anni Novanta che interruppero la Prima Repubblica e che ci catapultarono in questa decadente Seconda, apparentemente orfana di ideologie e disperatamente orfana di veri leader e di reali valori politici, quanto di farci i conti, nel tentativo, magari tardivo ma necessario, di fare pace con i nostri padri, che fossero essi padroni e ladri o che fossero essi probi e innocenti. Un’occasione, insomma, come pare suggerire Moretto, di fare la pace con noi stessi e di comprenderci, una buona volta, come figli di questa società schizofrenica.

La scrittura limpida e sempre puntuale di Moretto può davvero porsi come uno dei primi tentativi letterari che prova a ricucire lo strappo con il passato più che enfatizzarne i lati oscuri, che prova a comprenderne il portato umano più che stigmatizzarne le cause e le conseguenze, come se la storia, soprattutto quella recente, non fosse altro che una banale autopsia fatta ora da una parte ora dall’altra delle fazioni politiche in campo.

(Lorenzo Moretto, Una volta ladro, sempre ladro, minimum fax, 2019, pp. 203, euro 16, articolo di Alessandro Chiappanuvoli)