«Lo sguardo è spietato, ma il cuore gli batte forte in gola»

«Lo sguardo è spietato, ma il cuore gli batte forte in gola» Con queste parole Gábor Halász, uno dei migliori saggisti ungheresi fra le due guerre, disegnò il ritratto del poeta, scrittore, giornalista e traduttore ungherese Dezső Kosztolányi (1885-1936), suo contemporaneo. Kosztolányi era con ogni probabilità l’intellettuale più versatile nell’Ungheria del ventesimo secolo. Alcune sue opere accompagnano gli ungheresi da decenni; suoi versi ricorrono nelle conversazioni quotidiane almeno da tre generazioni e i protagonisti dei suoi romanzi, in particolare la domestica Anna Édes del romanzo omonimo, sono figure familiari e comuni punti di riferimento in Ungheria.

Ho avuto il privilegio di co-tradurre, con Mónika Szilágyi, Anna Édes per la casa editrice Anfora, e con l’occasione ho rispolverato le mie reminiscenze scolastiche. Avendo frequentato le scuole in Ungheria mi cullavo nell’illusione di conoscere bene l’autore, invece ho avuto solo la conferma che la storia della letteratura è una disciplina scientifica come le altre, soggetta a continue nuove scoperte e elaborazioni, al punto che grazie a fonti divenute accessibili di recente, il volume appena uscito in Ungheria della ricercatrice Zsuzsanna Arany (dal titolo che in italiano suona come Vita di Dezső Kosztolányi) rettifica anche le monografie uscite pochi anni or sono.

Essendo stato Kosztolányi testimone della prima guerra mondiale, della breve parentesi comunista del 1919, del trattato di Trianon, e in punto di morte anche del nazismo nascente, la sua figura e le sue opere, la sua stessa persona, venivano interpretate, valutate e rimodellate secondo la politica dominante del momento. In particolare la Repubblica dei soviet e il trattato di Trianon determinarono la vita e la creazione artistica di Kosztolányi – e ovviamente di tutti i suoi contemporanei – e la conoscenza di questi fatti storici è imprescindibile per potersi avvicinare a tutta la produzione letteraria ungherese dell’ultimo secolo.

Kosztolányi era una pietra miliare della poetica ungherese ed era anche un narratore di prim’ordine. «Una sfrenatezza tenuta a freno» diceva della sua opera Aladár Schöpflin, il grande critico letterario di “Nyugat”, “Occidente” in italiano, la rivista letteraria e il movimento culturale più incisivi del Novecento ungherese. L’autore nasce nel 1885 in una famiglia borghese a Szabadka, oggi Subotica nella regione autonoma in parte magiarofona della Voivodina in Serbia. Frequenta filosofia all’università di Budapest, che però abbandona per il giornalismo. Residente della Budapest mitteleuropea effervescente e bohémienne, esordisce nel 1907 con una raccolta di poesie, e nell’anno seguente diventa collaboratore stabile di “Nyugat”, appena nata, che molti anni dopo ospiterà a puntate qualcuno dei suoi romanzi, come era consuetudine dell’epoca, prima della pubblicazione sotto forma di libro. Pubblica altri tre volumi di poesie e nel 1913 sposa Ilona Harmos, attrice e scrittrice, in seguito anche sua biografa, nonché madre del loro unico figlio. L’anno delle nozze coincide con l’uscita di un’antologia di traduzioni di poeti stranieri che lo immortala anche nei panni di traduttore di straordinario talento.

Fortemente influenzato dagli eventi storici occorsi fra il 1918 e il 1921, quali la tragica fine della prima guerra mondiale, le rivoluzioni, le controrivoluzioni, l’epidemia di spagnola e la dissoluzione della Monarchia, negli anni Venti scrive cinque romanzi che segnalano il culmine della sua arte di prosatore, ben nota anche grazie a numerosi racconti. Nel 1930 viene eletto a primo presidente del Pen Club ungherese, quindi acquisisce autorità indiscussa anche a livello internazionale. Nel 1933 cambia ancora: abbandona il romanzo per un ciclo di novelle con un unico protagonista, Kornél Esti, «veicolo per superare di slancio i crepacci del tempo», lo definisce Bruno Ventavoli. L’ultimo racconto, apparso l’anno prima della morte dell’autore per cancro, si intitola profeticamente La fine del mondo, ed è il suo «giudizio universale sulle rive del Danubio blu». La definizione è ancora di Ventavoli, il primo traduttore in italiano di Kornél Esti.

La prosa di Kosztolányi ha colori inquieti, i personaggi prendono vita con poche pennellate tratte con mano sicura. Percepiamo ogni fremito, ogni pulsione dei suoi personaggi, è il risultato della tecnica adottata che vede l’alternarsi fra studio analitico a macchie impressioniste, per produrre una narrazione avvolta in atmosfere misteriose. E Kosztolányi sa mantenere l’attenzione desta anche laddove altri scrittori annoierebbero a morte i lettori.

Sono disponibili in traduzione italiana, qualcuno persino in più edizioni, tutti i titoli di prosa di Kosztolányi tranne L’aquilone d’oro (titolo originale: Aranysárkány), che però fortunatamente è in corso di traduzione per le Edizioni Anfora. In alcune biblioteche è reperibile ancora il volume di sue poesie in traduzione italiana a cura di Guglielmo Capacchi per Guanda, del 1970; altre poesie di Kosztolányi in italiano fanno parte di antologie nelle traduzioni dei migliori magiaristi degli ultimi decenni.

La prima opera in prosa di Kosztolányi è il romanzo breve Il medico incapace (titolo originale A rossz orvos), del 1921, tradotto in italiano nel 2009 da Roberto Ruspanti per l’editore Rubbettino, edizione arricchita anche di poesie tradotte sempre da Ruspanti. In Il medico incapace, in poche pagine troviamo già anticipati alcuni temi e le atmosfere dei romanzi che renderanno immortale il prosatore Kosztolányi. È la storia di un matrimonio felice che con la nascita e la malattia del figlio si trasforma in incomunicabilità, egoismo, indifferenza, lutto, e infine in rimpianto.

Segue in ordine cronologico Nerone il poeta sanguinario (titolo originale Néró a véres költő) uscito in ungherese nel 1921, in italiano per la prima volta nel 1933 tradotto da Antonio Widmar, con prefazione di Thomas Mann, e ripubblicato da Elliot nel 2014 nella traduzione di Silvio De Massimi. Questo romanzo storico ripercorre la vita di Nerone, imperatore controvoglia che non riesce a realizzare l’ambizione più grande della sua vita: quella di diventare poeta sinceramente acclamato. Nerone si rivela invece un uomo emotivamente fragile, schiavo della sua corte corrotta e divorato dal senso d’inferiorità nei confronti del fratellastro Britannico, poeta di talento.

Allodola (titolo originale Pacsirta), del 1924, è disponibile nella traduzione italiana di Matteo Masini, pubblicata nel 2000 da Sellerio. Ambientato in una immaginaria città di provincia della pianura magiara, questo bellissimo romanzo parla dell’ipocrisia, causa di un dramma familiare, ed è un atto d’accusa del vuoto esistenziale della piccola nobiltà di provincia.

L’indagine della vita di provincia prosegue in L’aquilone d’oro (titolo originale Aranysárkány) del 1925, che vedrà la luce in Italia nella traduzione di Alexandra Foresto per i tipi delle Edizioni Anfora, e che racconta la tragedia di un professore spinto al suicidio dal provincialismo intriso di odio meschino; un delitto che resterà impunito.

Anna Édes (titolo originale Édes Anna) del 1926, finora ha avuto tre edizioni italiane: nel 1937, nella traduzione di Ilia Stux e Franco Redaelli per Baldini e Castoldi, nel 2014 per Anfora nella traduzione di Andrea Rényi e Mónika Szilágyi, di cui l’edizione riveduta, quindi la terza in Italia, con la postfazione di Antonella Cilento, è uscita pochi mesi fa.

«Nel tumultuoso periodo del primo dopoguerra ungherese, tra rivoluzioni e controrivoluzioni, in un tranquillo quartiere di Budapest, una famiglia borghese e benestante assume una giovane cameriera, Anna. Il quotidiano sembrerebbe procedere sereno se non fosse che lentamente la dura condizione di serva corrode l’animo docile e benevolente della ragazza, che si trova persino sedotta e abbandonata da un membro della famiglia. Per i padroni il culmine sarà inatteso e disgraziato». Così recita il risvolto, e come tutti i risvolti dei romanzi di Kosztolányi non può che essere un’idea di massima della ricchezza dei contenuti.

L’ultima grande opera di Kosztolányi è il ciclo autobiografico di novelle Kornél Esti (titolo originale Esti Kornél) pubblicato nel 1933 e in Italia edito in parte da e/o nel 1990 nella traduzione di Bruno Ventavoli, poi in traduzione integrale da Mimesis nel 2012 a cura di Alexandra Foresto , con la postfazione di Péter Esterházy, uno dei più grandi scrittori ungheresi contemporanei. «Viva il frammento! – grida Esti. La letteratura ungherese raggiunge la prosa del XX secolo con Kornél Esti. Kosztolányi è più radicale di Szerb o Márai, ma è radicale in maniera amichevole, ed è “filolettore” proprio come costoro» sono le preziose parole di Esterházy, che parla anche del rapporto fra Esti e la capitale ungherese: «Kornél Esti è un cosmopolita e un cittadino appassionato di Budapest; possiamo leggere meravigliose descrizioni e confessioni su Budapest, questa città in Kosztolányi è almeno tanto misteriosa, magica, piena di fascino ed eccitante, quanto lo è l’Italia in Antal Szerb».

Con diciassette opere portate sul grande e piccolo schermo, Kosztolányi è fra le muse più feconde del cinema ungherese. La versione cinematografica di Anna Édes del 1958, nella regia di Zoltán Fábri, è uno dei film più noti nella storia della filmografia ungherese.

Anche le ultime, conclusive parole sono della postfazione già più volte menzionata di Esterházy: «Il lettore italiano ha conosciuto Sándor Márai e solo ora Kosztolányi; a noi ungheresi, invece, è accaduto esattamente l’inverso; è dall’angolazione di Kosztolányi che guardiamo alla letteratura ungherese del ventesimo secolo. Tutti stanno un po’ nella sua ombra, e anche quelli che non ci stanno vorrebbero starci».

Poster italiano di l’uomo che uccise don chisciotte su Flanerí

Sconfiggere i mulini a vento

Don Chisciotte, o meglio L’uomo che uccise Don Chisciotte, è il fantasma che ha accompagnato l’ex Monthy Python Terry Gilliam per tutta la sua carriera da regista. Ci sono voluti venticinque anni perché il  film vedesse le sale. Venticinque anni in cui la sceneggiatura e il cast sono cambiati, ma non la determinazione di Gilliam di vedere il suo progetto diventare realtà.

Nel 2000, L’uomo che uccise Don Chisciotte avrebbe dovuto vedere Jean Rochefort nei panni del personaggio di Cervantes e Johnny Depp in quelli di Toby Grisoni, un uomo del ventunesimo secolo che si trova all’improvviso indietro nel tempo e viene scambiato dal cavaliere per il suo scudiero Sancho Panza. Di quel primo progetto rimane un documentario, Lost in La Mancha, che racconta le enormi difficoltà che portarono all’annullamento della produzione, tra nubifragi, allagamenti e la malattia di Rochefort. Dopo una lunga pausa dovuta a problemi legali e finanziari per ritrovare un budget, Gilliam ha ripreso in mano il film nel 2017 chiamando Jonathan Pryce come Chisciotte e Adam Driver nei panni di Toby Grisoni.

Grisoni è un regista di spot pubblicitari al lavoro su un set in Spagna. Durante una cena ritrova il dvd del suo primo film, una versione del Don Chisciotte di Cervantes realizzata senza attori professionisti. Ritornando sui luoghi del film viene a sapere che il vecchio calzolaio che aveva interpretato Chisciotte è impazzito ed è rimasto prigioniero del personaggio. Quando lo ritrova diventa, suo malgrado, il suo Sancho Panza in una serie di avventure.

Il Don Chisciotte di Cervantes (ma lo ha scritto davvero lui?) è solo il punto di partenza per Gilliam per riversare sullo schermo tutta la sua fantasia visionaria. Fedele alla sua idea di cinema fantastico popolato di ultimi incompresi, di cavalieri disarcionati e sognatori insonni, Terry Gilliam ha trasformato L’uomo che uccise Don Chisciotte in un racconto metacinematografico sul senso che questo progetto/sogno ha avuto nella sua carriera.

C’è un’immedesimazione forte del regista con il cavaliere dalla triste figura, nella sua lotta contro i mulini a vento, nel suo vedere il mondo per quello che non è. L’ostinazione del Chisciotte calzolaio di rifugiarsi in un mondo di dame e castelli, di antichi valori, lontano dalle logiche del mondo, è la stessa di Gilliam che combatte per il suo film incurante di tutto il mondo esterno, delle questioni legali, delle ragioni economiche.

Il regista ci mette tutto se stesso per dare finalmente corpo al suo sogno. Nei momenti migliori, L’uomo che uccise Don Chisciotte riporta agli antichi fasti il talento immaginifico di Gilliam, supportato da delle location incredibili scelte in giro per la Spagna e dall’impegno dei due protagonisti. Troppo presto, però, il film sembra perdere una direzione precisa, un’identità, un senso. Realtà e fantasia iniziano a sovrapporsi senza continuità logica, le suggestioni si ammassano una sopra l’altra, nascondendosi a vicenda, confondendosi, perdendosi.

Le migliori intenzioni vengono presto annegate dalle troppe idee e suggestioni che inondano lo schermo senza nessuna diga. Le varie dimensioni del film – letteraria, cinematografica, metacinematografica, personale – diventano un semplice pretesto per dare sfogo a una fantasia troppo a lungo repressa. Dopo averlo cullato per venticinque anni, il Chisciotte di Gilliam è diventato una creatura smisurata e incontrollabile

(L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam, 2018, avventura, 132’)

 

Una passeggiata di quarant’anni attraverso l’Argentina

La Storia di Roque Rey di Ricardo Romero (Fazi editore, 2017) è una storia che inizia da lontano e che sembra non finire mai. Ha radici distanti nel tempo e nello spazio, inizia con Roque bambino e con la sua scelta improvvisa di rubare le scarpe allo zio appena defunto e andarsene con quelle in giro per il mondo, abbandonando istintivamente quello che sa non riuscirebbe a renderlo ciò che invece è – il paesino di provincia, la zia rimasta sola e mai amata, la tradizione, la mediocrità.

Un giro per un mondo che si riduce alla sola immensa Argentina, che nelle peregrinazioni del ragazzo si espande e rallenta sulla base degli incontri fatti per strade mai calpestate. Sono incontri di una notte, di qualche mese, di tutta la vita, che Roque si porta dietro o che sembra dimenticare all’incontro successivo, che non lo abbandonano mai sul serio, senza che lui se ne accorga.

Non lo lasceranno le confessioni del prete parricida con cui si trova a percorrere i primi giorni dopo la partenza. Il prete sparisce, ma le lettere in cui affida alla madre le proprie colpe restano sempre con Roque, gli pesano nelle tasche per gli anni successivi, fungono da monito o da mero ricordo di qualcosa di non compreso. Rimarranno sempre con lui i fantasmi – Los espectros – dei musicisti con cui attraversa un pezzo di Paese e un pezzo delle storie di ciascuno. In un ballo sconosciuto che sembra infinito, Roque impara a cos’altro possono servire quelle scarpe rubate, che anno dopo anno gli calzano sempre meglio. Fino a stargli strette e a spingerlo nelle scarpe e nella vita – attraverso la morte – di qualcun altro. Senza pietismo né luoghi comuni, senza neanche una eccessiva tristezza, Romero racconta di Roque inserviente in un obitorio, di un uomo che impara a indossare le scarpe dei morti e delle vite che scorge per riviverle al loro posto.

«Roque non credeva alla propria fortuna. Il suo salario sarebbe diminuito drasticamente, ma che altro poteva chiedere se non la possibilità di avere accesso ovunque, nelle ore in cui non c’era nessuno, per organizzare un mondo dove i vivi non erano che fantasmi che avevano lasciato orme, posacenere sporchi, cesti pieni di cartastraccia, panini mezzo sbocconcellati abbandonati sopra schedari, tazze sporche con macchie di rossetto e resti fangosi di caffè freddo. Tutti sarebbero diventati dei fantasmi per lui e lui sarebbe diventato un fantasma per gli altri».

In un cammino perpetuo che ha tutti i suoni e i colori e le luci del realismo onirico sudamericano, l’autore – originario del Paranà – crea un personaggio dalla solitudine imperfetta, un uomo che cresce solo e contemporaneamente in mezzo alla gente – gente che continua ad incrociare, gente che non c’è più, troppe donne di troppe età diverse con cui si trova a convivere – che pratica il rito del distacco e della separazione anche da se stesso, che riesce a prendere decisioni solo in momenti che non esistono, che cammina sempre con le stesse scarpe che non gli appartengono, che si trova a coltivare troppe vite che restano in fondo solo la sua.

 

 

(Ricardo Romero, Storia di Roque Rey, trad. di Vittoria Martinetto, Fazi editore, pp. 526, euro 18,50)
Cover La bambina falena

Fiabe: istruzioni per il riuso

Comincia tutto così. Da una partenza che sembra un parto. Un atto creativo a squartare la quiete nel pieno del petto. Sono le favole a innescare la vita, a tirar dadi nel buio. Quel «c’era una volta» ogni volta spiazzante, che ci spagina il cuore e non lo sfama abbastanza.

Ce l’hanno insegnato anche Vladimir Propp e Bruno Bettelheim, ma in fondo ciascuno di noi lo sa sottopelle, senza averlo mai teorizzato. Siamo nervi di storie e poche altre cose. Dalla Genesi al mito al teatro di ovunque, ogni forma di racconto attinge a quel pozzo.

Poi ci sono quelli che lo fanno apertamente, che bevono favole al punto da volerle riscrivere. Rigurgitarle col proprio dialetto e impastare il modello di altre scintille.

Mi ha divertito anni fa Martino Ferro col suo C’era una svolta; ho annaspato con Antonio Moresco nella deriva ansiogena delle sue Fiabe e Michael Cunningham non è stato da meno, orlando di crimine e perdizione i contorni ben poco fatati dei suoi personaggi nella raccolta Un cigno selvatico. Ora è il turno di Luca Bertolotti. Operaio specializzato nel settore del mobile, questo recita la nota biografica. Ma siamo anche di fronte a un falegname di avventure?

La bambina falena (Fandango, 2018), così s’intitola il suo esordio letterario. Cresciuto (come il suo autore?) nel solco di Hänsel e Gretel e di quel grembo un po’ torvo tipico dei Fratelli Grimm.

Ci troviamo in Liguria e una bimba sbuca dal mare. Come fosse una conchiglia o una dolcezza anfibia. Un po’ Venere e un po’ Colapesce. Zuppa di sale come il bambino ostrica di un racconto di Tim Burton. Non si sa niente di lei, da dove provengano quegli occhi voraci macchiati di prato. È piccola, non parla un granché. In bocca ha solo avanzi di parole che sembrano briciole. E ricordi ancora più piccoli e più avariati. «Fanti biacchi» le torna tra i denti e quando qualcuno le chiede il suo nome lei risponde «Glete». Nient’altro. Poi lei e quella nube d’insoluto che si porta addosso vengono adottati. Da una brava coppia milanese che però muore in fretta e la lascia sola intorno ai vent’anni.

Greta sceglie di non accontentarsi della sua seconda vita. È una creatura speciale, lo ha imparato dal suo corpo. Che spesso imbarca dolore come una chiglia squarciata e la lascia spossata e senza risposte. Quel corpo mobile e iperesteso che la rende troppo elastica, quasi abitasse dentro a un fumetto. La sua è la sindrome di Ehlers-Danlos. Lassità legamentosa e cute molle, praticamente liquida. Un regalo genetico e perciò irreversibile. Da chi e da cosa l’ha ereditata? Si muove per capirlo e riapproda alle sue origini, in quel paese di spiagge dove tutto è iniziato. San Michele Arcangelo è un groppo di muri corrosi, ma quello che cerca Greta è una casetta nascosta (in pieno stile fiabesco) scavalcando un campeggio e addentrandosi nel bosco.

Fiutando solo la memoria e a dire il vero un po’ troppo agilmente malgrado le sue condizioni (il tutto grazie a folate di intuito e ai già citati elefanti bianchi), la ragazza rintraccia il suo nucleo, quella famiglia che l’ha generata e poi sganciata lontano.

È un gruppo clandestino, infognato tra gli alberi per provare a non esistere. Composto da un fratello minore, che (ovviamente) si chiama Hänsel, dalla mamma Miriam, dal padre Paolo e dalla piccola Sissi. Con la schiena che sembra un prodigio: «Si era sfilata la casacca del pigiama, si era afferrata la pelle fino alle costole e l’aveva tirata fino a formare due vele, come quelle che venivano utilizzate per buttarsi dai dirupi per planare». Con la sua stessa sindrome elevata all’infinito. Da bambina falena.

Quei quattro si rintanano, scansano la luce, perché il passato di Miriam, lo stesso da cui è sgorgata Greta, è ruvido da raccontare. E illecito da vivere. È stata una tossica (ribattezzata la Santa), poi una prigioniera, infine una complice in un omicidio. Ingravidata per capriccio e inscatolata nel silenzio di una stanza. Quella famiglia non può comparire e scoprirlo costringe Greta a ingabbiarsi con lei. Dentro una cantina che non è di marzapane. Per fortuna non è sola, ma con un ragazzo appena conosciuto e già innamorato fino al midollo, tanto da farsi incarcerare assieme a lei.

Diventa ostaggio di chi dovrebbe proteggerla e che non trova impensabile zavorrarla con un’incudine, incarnando quel tratto di crudeltà genitoriale tipico del registro dei Grimm.

Allora sì che quelle ali sarebbero un miracolo, un’ingegneria di fuga pronta a essere carpita. Basta mettere a punto un piano, tanto folle quanto artigianale. E spetterà a Greta in qualche modo infornare la sua strega e consegnarsi senza appello al mondo adulto.

Esperimento interessante e nel complesso riuscito, con qualche ingenuità disseminata soprattutto nei dialoghi (con Lorenzo nell’Ostalgic Pub) e nei passaggi iniziali. Molto più valida la ricostruzione della giovinezza di Miriam, il triangolo inquieto tra lei, Paolo e il suo “padrone” Andrion e il rapporto tra Paolo e suo fratello Andrea.

Quello di Bertolotti è un linguaggio asciutto, ma spesso ficcante, che mescola estratti densi e realistici a elementi fiabeschi. Alcuni molto convincenti.

Sul perimetro intero del libro si stende l’ombra di Mothman, l’Uomo falena, avvistato negli anni ’60 tra la Virginia e l’ Ohio e poi ancora una volta, come duplice creatura, metà angelo e metà arpia, la mattina del’11 settembre 2001. Un graffio volante sul cielo che fuma. A ricordarci che ogni storia degna del suo plasma sopravvive ogni giorno grazie a quello che non riesce a spiegarsi.

 

(Luca Bertolotti, La bambina falena, Fandango, 2018, pp. 319, euro 18)

Il punto sull’accoglienza #5

Nel precedente articolo avevamo anticipato, prima ancora che venissero resi pubblici e approvati all’unanimità dal Consiglio dei ministri, i contenuti nel decreto Salvini. Sono stati confermati i provvedimenti che avevamo preannunciato, su tutti quello che, se passerà indenne al vaglio del Parlamento e del Capo dello Stato, avrà un impatto drammatico sul tessuto sociale italiano: l’abolizione della protezione umanitaria.

Per una spiegazione più esaustiva sui tre tipi di permesso di soggiorno ai quali può aspirare un richiedente asilo rimandiamo al nostro primo articolo. In questa sede ci basta ricordare che la protezione umanitaria entra in gioco quando la commissione territoriale, o il giudice in fase di ricorso, ritengono che il richiedente non abbia diritto alla protezione sussidiaria o all’asilo politico. Vengono dunque valutati indicatori di maggior discrezionalità che vanno dalle fragilità di ordine psicologico a una comprovata integrazione durante il periodo di accoglienza.

Se il decreto Salvini venisse confermato così com’è, la clandestinità potrebbe aumentare del 25%, e non stiamo parlando di delinquenti o potenziali terroristi, ma di persone normali che dopo una traversata dolorosa hanno fatto parte del nostro circuito di accoglienza impegnandosi in percorsi di alfabetizzazione e formazione lavorativa.

Ma facciamo degli esempi concreti di richiedenti asilo che, con il decreto Salvini, si vedrebbero negati il permesso di soggiorno per motivi umanitari (al netto delle storie specifiche che, in molti casi, sono davvero angoscianti):

Caso 1: Sono orfano, nel mio paese non c’è guerra (almeno sulla carta) ma sono fuggito da povertà e dalle bande del mio quartiere. Ci ho messo tre mesi per raggiungere la Libia dove sono stato arrestato. Più volte ho subìto torture prima di riuscire a imbarcarmi per l’Italia. Da quando sono sbarcato e sono entrato nel circuito di accoglienza mi sono sempre impegnato a scuola di italiano e in poco tempo ho raggiunto un livello di lingua soddisfacente. Ho anche fatto un corso di formazione professionale come facchino e un tirocinio presso un albergo. Sono stato seguito da una psicologa che ha constatato delle fragilità dovute al mio vissuto traumatico.

Caso 2: Sono scappata dal mio paese perché mio padre mi picchiava. Mi aveva promesso in sposa a un altro membro della sua tribù e non voleva sentire ragioni. Così con l’aiuto di mio fratello sono riuscita a raggiungere la Libia e poi a imbarcarmi per l’Italia. Il viaggio è stato duro e ho pensato che non sarei mai arrivata. Voglio lasciarmi alle spalle il passato e spero di potermi costruire una vita qui. Sto andando a scuola di italiano ma ho grosse difficoltà perché sono analfabeta anche nella mia lingua madre. Sono brava a cucire e mi hanno anche fatto fare un corso di sartoria.

Caso 3: Nel mio paese non avevo niente. I miei genitori mi hanno abbandonato e ho vissuto di espedienti. Dormivo per strada. Un amico mi ha aiutato a partire per l’Italia. È stato un viaggio difficile ma quando sono sbarcato ho ringraziato Dio e mi sono rimboccato le maniche. Ho studiato subito la lingua italiana e appena possibile ho chiesto aiuto agli operatori del mio centro per cercare dei corsi di formazione professionale. Ho appena concluso un corso per pizzaiolo e spero che questo diventi il lavoro della mia vita. Vorrei costruirmi una famiglia in questo paese.

Sono soltanto tre esempi, ma di storie dello stesso tenore ce ne sono tante. Su tutte è valido un principio sancito dalla Corte di Cassazione: per la concessione della protezione umanitaria è doveroso accertare il livello di vulnerabilità effettuando il bilanciamento tra l’integrazione sociale acquisita in Italia e la situazione oggettiva del Paese di origine del richiedente. E ci sembra un discorso sensato considerando che nella maggior parte di casi sussiste una reale volontà di integrazione proprio perché ciò che si è lasciati alle spalle rappresentava una prospettiva di vita poco dignitosa.

Ecco, senza la protezione umanitaria Caso 1, Caso 2 e Caso 3 e le decine di altri Casi si ritroverebbero clandestini, fuori dal circuito di accoglienza ed esposti a sfruttamento lavorativo e illecito. Centinaia di brave persone, dunque, che hanno subìto sulla propria pelle una navigazione lacerante e vissuto con speranza il periodo di accoglienza in Italia si ritroverebbero per strada con un destino che va addirittura al di là dell’incertezza.

Ci sembra inverosimile recludere tutti in qualche Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), sia per un discorso di costi che soprattutto di diritti umani, dunque ci auguriamo che il Parlamento e il Capo dello Stato facciano il possibile affinché si possa restare umani(tari).

Copertina di Un marito di Michele Vaccari

Il realismo possibile: una conversazione con Michele Vaccari

Frequentando l’editoria da semplice amatore mi sono imposto sin da subito una regola aurea: ama i libri, non gli scrittori. I libri ti sorprenderanno, gli scrittori ti annoieranno facilmente, impegnati come sono a incartarsi nei propri riferimenti per questioni d’ego. Non capita spesso che gli scrittori abbiano reale coscienza di ciò che scrivono, che sappiamo intessere un discorso più ampio della storia che hanno immaginato, e – in fondo – è giusto così: nessuno chiede loro di essere i critici di se stessi. Ci sono però dei casi eccezionali, persone in grado di maneggiare alla perfezione l’immaginario che evocano. Generalmente sono autori che hanno fatto gavetta, la cui esperienza si nota non solo su carta, ma anche dalla parola. Considero Michele Vaccari – Un marito (Rizzoli, 2018) – uno di questi. L’opera di Vaccari si è sempre mossa sul crinale fra invenzione e resa allucinata della realtà circostante. I suoi romanzi sono vicende private, ma che non disdegnano di trattare questioni politiche, come la povertà, il cambiamento tecnologico, l’esercizio del potere, e in definitiva tutti i dispositivi sociali che ci generano come individui. In Un marito si seguono due direttive: da una parte il racconto di una classe lavoratrice impoverita, dall’altra lo spauracchio del terrorismo. Temi di forte impatto e su cui c’è molto da dire, per questo sono stato felice di poter rivolgere qualche domanda all’autore.

 

«Marassi vuol dire palude» e «Marassi è forse l’unico quartiere del pianeta in cui, per toglierti ogni illusione, lo stadio e il carcere si trovano nella stessa via, uno di fronte all’altro». All’inizio del tuo racconto c’è un quartiere, ancor più che una città. Guardi Marassi con occhio critico ma con estremo sentimento. Oltre a essere il tuo luogo di nascita, cosa vuol dire per te originare la narrazione da questo quartiere?

Molti autori, forse la maggior parte, iniziano dai propri luoghi e poi si aprono a una narrazione più eccentrica. Io ho sempre avuto un pudore verso me stesso che mi ha portato a non essere mai autobiografico. Superati i trent’anni, ora posso dire anche per fortuna, ho sentito come il bisogno di tornare a casa, di guardare in faccia anche un certo orrore a cui inevitabilmente sono legato. È un discorso più ampio, di cui mi auguro questo romanzo rappresenti un prologo. La complessità era restituire una forma di compiutezza letteraria, di lirismo, a un luogo che è nato per castrare ogni aspettativa di estetica, ogni volontà di pensare al bello in termini di appartenenza. Chi ha creato i quartieri come quello in cui io sono nato, e a me è andata anche discretamente bene, aveva l’obiettivo di una dolce segregazione, una segregazione di cui solo crescendo, vedendo altri luoghi, banalmente altri quartieri, ho capito la portata. Con la scusa dei servizi, dei negozi, della tanto venerata comunità, a Genova sono stati creati dei ghetti in cui le persone sono felici di vivere, al punto di avere repulsione al solo immaginarsi a vivere in altri posti. Così facendo, in un’eventualità di scalata sociale, nessuno originario di Marassi penserebbe comunque di trasferirsi altrove. L’obiettivo, chiaro, delle dirigenze cittadine solo plasticamente egalitarie è stato quello di rendere immutabile la densità e l’estrazione delle zone storicamente più benestanti. Il gioco ha funzionato per più di sessant’anni, fino a quando la congiuntura tra crisi economica e crisi demografica ha creato i presupposti della bolla immobiliare di fine anni ’10 che ha fatto crollare i prezzi delle abitazioni, aprendo la possibilità di compravendite prima impensabili. Ma è un fenomeno ancora in divenire. Genova rimane profondamente classista e questo, politicamente come bacino elettorale e narrativamente come pozzo di storie possibili, non è mai stato raccontato. Ho sentito fosse arrivato il momento di chiedersi perché e come si potesse fare, e farlo.

 

Patrizia e Ferdinando hanno una rosticceria, ne descrivi il lavoro quotidiano con precisione. Mi sembra che in Italia, salvo rari casi (Falco, Cisi, Dezio e pochi altri ) e a fronte della gloriosa tradizione della letteratura industriale, abbiamo contratto un’allergia a descrivere la vita di gente che lavora. Secondo te qual è il motivo? Come hai cercato di ovviare nella tua scrittura?

Giorgio Falco e, aggiungerei, Peppe Fiore hanno rinverdito il filone, secondo me, dando avvio a una nuova letteratura del terziario, più che industriale tout court. La frustrazione del lavoratore nelle loro opere si trasforma in acquiescenza verso lo status quo. Nei loro romanzi il discorso sul lavoro è molto, quindi, uno sguardo sulla società dei consumi, sulla trasformazione del mondo in un esercito monocolore di soldati delle multinazionali, evidenziando la nostra obbedienza alle routine del commercio, la capacità del mercato globale di farci sentire una grande famiglia a servizio dell’impero dei marchi. Il quartiere è diventato il prodotto, cui apparteniamo, come all’azienda che ci nutre col lavoro e dotandoci di tutti quegli strumenti per costruirci la nostra zona comfort piena di mobili Ikea e divani Maison du Monde. Come capirai, quindi, parlare di lavoro in un romanzo, mostrare la gente che lavora è un fatto politico, che ti obbliga a schierarti, a dire al lettore come la pensi. Non sono molti gli autori disponibili a farlo, ancora meno sono gli editori disposti a immettere libri sul mercato che vadano a rompere un determinato equilibrio che rischi, in qualche modo, di compromettere una previsione di vendite ormai endemicamente fragile. La nostra letteratura ha una forte matrice borghese. Quindi è difficile che la maggior parte degli autori si avventurino a raccontare qualcosa che non gli appartiene rischiando operazioni grottesche. È successo, succede ancora, e i risultati sono imbarazzanti. In ultimo, ci sono i lettori, che magari sono negozianti o rosticcieri e hanno anche piacere a sentirsi protagonisti, e dicono anche finalmente qualcuno parla di noi, ma nello stesso tempo guardano, giustamente, con un po’ di diffidenza all’intellettuale del caso, di cui non possono sapere la provenienza, che dall’alto della sua comoda scrivania pretende di essere la voce del loro mondo. Non c’è una risposta sola al problema, sempre che di problema si tratti. Credo molto nella vocazione. Apprezzo molto chi non si sente costretto ad affrontare certe tematiche e non chi si impone di farlo per un qualche obbligo di categoria partitica a essere a tutti i costi impegnato, come avveniva per tessera fino a quarant’anni fa.

 

«Ferdinando sa quanto è dura per chiunque, ed è per questo che crede sia giusto non avere tempo per nessuno, se non per se stessi. Non è egoismo, come ha spiegato senza successo a Patrizia», la psicologia della classe media è resa senza piaggeria, cinismo o autoindulgenza. Patrizia e Ferdinando sono la fantomatica “gente”, e sono incredibilmente simili a noi. In poche parole la gente siamo noi, è ora di renderci conto che aver letto due libri in più non significa niente, non ci rende migliori o più profondi. Almeno questo è quello che ho avvertito io leggendo il tuo romanzo. Come sono nati Patrizia e Ferdinando?

Sono nati da una domanda: togliendo la strage di cui si sono resi colpevoli, chi erano Olindo e Rosa? Erano gli italiani, quelli che magari un anno hanno votato Democrazia Cristiana, l’anno dopo il Psi, poi si sono trovati confusi e D’Alema li ha convinti a credere nei Ds. Soprattutto, hanno creduto nell’amore italiano, quello di un uomo e una donna che credono nei valori, nella bella immagine da cartolina dello schiavo che si suda lo stipendio, che si accontenta di pochi spiccioli, che però è felice di sacrificarsi, il modo di godere dei poveri che ci ha inculcato la Chiesa. Ferdinando la domenica guarda «come il mister ha messo giù la Samp». Questo mito di normalità esasperata è, negli ultimi tempi, tornato a essere un’ossessione, fino a inventarci minacce che ne giustificassero l’esistenza. Nel romanzo, sono sparsi i simboli di questa retorica di mondo felice e perfetto in cui si annida un’ombra, quella della conservazione della specie. Patrizia e Ferdinando creano affezione perché ci assomigliano, o perlomeno assomigliano all’idea che, dal duce, ci è stata inculcata come idea di buono, di giusto, di sano. Più che sviluppare dei caratteri o delle psicologie io volevo raccontare delle mentalità: Patrizia e Ferdinando mettono al primo posto la loro esistenza e vedono come minaccia tutto ciò che attenta alla tradizione di cui sono testimoni con la loro esistenza. La nostra storia, la conservazione di questa pesantissima tradizione, ci ha portato a identificarli come la coppia perfetta, la coppia ideale. Se fossero stati due maschi con lo stesso tipo di amore, la prima cosa che avremmo detto è la storia d’amore di due omosessuali. Se Ferdinando fosse stato cinese, Marassi sarebbe andata al secondo posto perché avremmo subito pensato che non era una storia d’amore ma una storia di integrazione. Le etichette sono come le preghiere, una stanza protetta in cui non sentiamo le nostre paure che urlano e in cui il nostro egoismo può dominare. Ma cosa succede quando qualcosa rompe questo equilibrio, questa retorica? Da lì, la loro genesi.

 

A un certo punto avviene quella che chiami la Tragedia, un attentato che squarcia la trama della quotidianità dei due protagonisti. L’impostazione del racconto mi ha ricordato Giocatori di DeLillo (tu infatti citi Rumore bianco), un libro in cui si immaginava con qualche decade d’anticipo l’attentato alle Torri Gemelle. E allora pensi anche tu, come DeLillo, che il terrorista abbia sostituito lo scrittore nella produzione di immaginario occidentale? Anche in altri tuoi libri hai affrontato la questione, ti chiedo allora in maniera forse massimalista: secondo te quali sono le possibilità mitopoietiche che rimangono all’Occidente?

Guarda, volevo proprio citare da Mao II quel passaggio incredibile in cui DeLillo svuota di significato l’idolatria che in qualche modo anche le sue opere hanno alimentato riportando tutto sul piano della realtà e dicendoci, con una forza che non ha eguali, che il nostro immaginario non lo crea neanche il più osannato degli scrittori ma è frutto dell’opera devastante di ragazzi votati, come Patrizia e Ferdinando, a un amore che non ammette rivali, un amore per se stessi e il proprio Dio che sfocia in un odio verso chiunque lo attenti. L’Occidente ha già giocato la sua partita, ha distrutto interi continenti e devastato per secoli popolazioni inermi urlando il proprio amore per se stesso. L’occidente è come un nonno che guarda i suoi nipoti, cresciuti a calci e pugni dai propri figli, diventare grandi incapaci di amarlo e rispettarlo. L’unico mito possibile, il solo modo per cui la narrazione di quel patriarca può continuare a essere plausibile, è la ricerca di un suicidio spettacolare, che susciti una reazione. Per questo, in Un marito c’è questo attentato, e i terroristi sono quelli che meno ti aspetti.

 

Quando la narrazione si sposta a Milano si avverte un cambiamento di stile e di voce. Un mutamento nella narrazione “dell’aria che tira”. Come se volessi rendere evidente la differenza fra Genova e Milano, fra una periferia dell’impero e il centro del potere, nonché il centro italiano del “terziario onirico” per dirla con un’espressione di Walter Siti. Nella tua scrittura sento una diretta corrispondenza fra il lato economico e quello cognitivo. Allo stesso modo avverto la triangolazione con la percezione del tempo. Come hai cercato di rendere questo legame fra tempo privato e tempo collettivo?

Era uno degli obiettivi. Cosa succede a una coppia così privata quando un evento così pubblico irrompe nelle loro vite riservatissime? Genova non è distante due ore da Milano. È distante duemila ore, mentalmente. Non esiste un viaggio tanto forte nel tempo in sole due ore tra due grandi città come tra Genova e Milano. Roma-Napoli, Torino-Milano, Palermo-Catania, Verona-Rimini. In due ore non passi da un’epoca all’altra come da Genova a Milano e viceversa. Questo era un racconto inedito che volevo fare per smontare l’idea di paese a due velocità nord-sud, quando per me c’è anche un nord a due velocità, se non a tre. Per fare questo, però, come osservi giustamente tu, dovevo ricostruire il rapporto con la conoscenza anche del mondo. Il genovese è atavicamente provinciale eppure, economicamente, è colui che ha fondato le banche e le assicurazioni. I genovesi appena fuori dalle proprie mura hanno conquistato qualunque posto dove siano stati. Volevo dire, in sostanza, che Genova è un luogo vetusto che ingabbia in un certo tipo di ragionamento perché è stata costruita per conservare un certo potere politico, per mantenere immutati certi domini e, per far questo, bisognava cristallizzare a 360 gradi il pensiero, rendendo distante millenni e perturbante un luogo dove la libertà di immaginario è da sempre senza limiti come Milano. Milano, non a caso, per il genovese è il male assoluto. È la casa del capitalismo cattivo contro Genova, la città dello stalinismo amico di tutti.

 

Ferdinando deve reagire alla tragedia, rielaborare il trauma. Qual è la sua risposta?

Non accettare la teoria ufficiale, restare ancorato ai fatti obiettivi. Andare contro il comune pensare significherà per lui andare contro se stesso, quindi cambiare. Diventare ciò che ha sempre evitato di diventare. Per questo, per lui, sarà come per Orfeo attraversare l’inferno.

 

La tua è una storia privata, ma che si apre all’incontro con lo spirito del tempo. Una vicenda tipica che esprime i rapporti di forza del reale. Purtroppo mi pare che molti autori italiani si fermino alla vicenda privata. Qual è il motivo di tanta autoreferenzialità? Paura di uscire dalla comfort zone o mero calcolo economico?

La mancanza di una scena e di un discorso culturale organico portano, inevitabilmente, alla drammatizzazione esasperata del sé. Freud ci ha illuso che tutti fossimo macchine da storie, senza dirci che era una cosa ben diversa essere narratori.

 

Non sei solo uno scrittore, sei un operatore culturale calato nel tessuto della letteratura italiana. Hai avviato una tua collana di narrativa contemporanea per Chiarelettere. Al di là dei tuoi autori, quali autori contemporanei – sia italiani che internazionali – guardi con più interesse?

Cerco di seguirli tutti, anche quelli pubblicati dal micro editore del paese invisibile sulla mappa. Ho sviluppato quasi una patologia e quando ne trovo uno che non conosco impazzisco. Mi è capitato due anni fa con un’autrice incredibile, Maria Rosaria Valentini. Mi accadde una quindicina d’anni fa con Ugo Cornia.
Vorrei appassionarmi a qualche letteratura europea contemporanea misconosciuta. Lettoni, greci e magiari mi attraggono decisamente ma credo saranno il Galles o la Scozia post brexit a stupirci.
C’è una letteratura delle periferie occidentali che dopo Welsh abbiamo perso, rinchiudendoci in storie sempre più intime. Lo sguardo di quei luoghi può mostrarci il vero lato oscuro del populismo cui stiamo andando incontro e porci domande che potrebbero offrirci una via di fuga da questo continuo ritorno al primitivismo cui sembriamo condannati.

 

(Michele Vaccari, Un marito, Rizzoli, 2018, pp. 235, euro 20)

Il celebre anglista

Pensavo di avere di avere tra le mani una sorta di biografia di Mario Praz, un piccolo libro di curiosità sulla figura del celebre saggista. Frutto del malinteso, probabilmente, il laconico titolo, appunto, Praz. Mi sono trovato, così, a tagliare le pagine (la collana Piccola biblioteca di letteratura inutile della casa editrice ItaloSvevo obbliga al taglio del quinterno) di un saggio che analizza in quattro capitoli – preceduti da un’introduzione – altrettanti temi legati all’attività del noto anglista: Croce e il diavolo, l’elzeviro, il viaggio, Roma.

Si tratta, quindi, di un testo sull’attività saggistica di Praz, ma grazie a un’analisi in qualche modo “decentrata”, come l’ha definita Fabrizio Coscia, Raffaele Manica inserisce qua e là curiosità biografiche per accendere l’attenzione del lettore. Tra queste, il racconto dello stesso Praz sull’inizio, quasi casuale, della sua carriera di saggista, che si deve a Giovanni Papini. Fu lui a spingere l’allora giovane traduttore a scrivere quello che sarebbe diventato I saggi di Elia di Charles Lamb, nel 1924. Riguardo, poi, la nota fama di jettatore – veniva in genere chiamato il “celebre anglista” –, si fa cenno alla sua consapevolezza e a come egli affrontasse la questione con grande intelligenza e spirito.

Da questo racconto non analitico di una parte della produzione di Praz, affiora il ritratto di un uomo eccentrico, con un gusto per epoche passate, un saggista dal punto di vista obliquo e raffinato, guidato da un metodo non ortodosso, capriccioso e in controtendenza con le mode del suo tempo. Questo suo non essere alla moda gli ha permesso di superare le mode e consolidare la sua fortuna di autore di alcuni importanti saggi, non solo in ambito anglistico, diventati sin da subito dei classici.

La scrittura di Manica non è sicuramente per il lettore distratto, né per chi si aspetta di poter leggiucchiare qualche parola qui e lì per poi arrivare alle conclusioni. L’autore costringe il lettore a seguirlo, non solo nei lunghi e complicati incisi, ma anche nelle continue erudite citazioni e talvolta in ardite similitudini.

«Ora al modo dell’aruspice ora con esperimenti elettrici su corpi morti, Praz può emettere diagnosi, ma senza segnare la cura; non medico ma esperto custode, si è dato il compito di chi apre gli armadi, mostrando quanto il tempo ha conservato sotto formalina».

Si può incontrare qualche difficoltà a seguire alcune allusioni a vicende critiche poco note, mentre, per altre più conosciute, come la famosa diatriba con Croce, la lettura risulta chiarificatrice. In definitiva, l’agilità del volume non si traduce in una velocità di lettura, ma la densità della scrittura di Manica restituisce nel contenuto più di quanto ci si aspetterebbe da un testo così breve.

 

 

(Raffaele Manica, Praz, ItaloSvevo, 2018, 86 pp., euro 12,50)
copertina di "Il gioco" di Carlo D'Amicis

Amore, desiderio e altri affanni

Nella sua irregolarità, la triangolazione tra cuckold, bull e sweet sembra tracciare un’area dell’esistenza sufficientemente vasta da coprire tutti i ruoli dell’umano vivere. Uno dei meriti di Il gioco (Mondadori), nuovo romanzo di Carlo D’Amicis, è proprio quello di descrivere in modo non superficiale le complesse trame che si vengono a intrecciare in una specifica tipologia di rapporto a tre.

“Il gioco” a cui fa riferimento l’autore ha regole molto precise, che vanno ben al di là di una semplice “scappatella assistita”. Il cuckold, per esempio, non è soltanto un “cornuto” che gode a osservare la propria donna tra le braccia di un altro, ma è anche un master, un benefattore e, perché no, un magnaccia.

E lo stesso vale per le altre due figure: il bull – incrocio tra De Sade e Casanova, maschio alfa e stallone da monta – e la sweet, nel contempo regina e ancella, geisha e dominatrice, adultera e compagna devota.

Organizzato in forma di intervista a un cuckold (Giorgio, detto il “Il Presidente”), un bull (Leonardo, “Mister Wolf”) e una sweet (Eva, “The First Lady”), con tanto di domande dell’intervistatore e n.d.r. che descrivono l’atteggiamento e le reazioni dei personaggi, il romanzo scorre in tutte le sue cinquecento pagine abbondanti senza mai dare l’impressione di trovarci di fronte a un tentativo di “opera scandalosa” d’autore.

Per quanto le scene esplicite non vengano certo a mancare – una torrida partita di ping pong tra minorenni immortalata da un prete, un tentativo di stupro, orge e scambismi di tutti i generi – Il gioco non è un romanzo che mira a svelare il fascino scabroso della borghesia. Più semplicemente, D’Amicis racconta l’amore, e le forze attraverso le quali l’amore trova il suo movimento: il piacere del gioco, con fantasie sfrenate e regole d’acciaio, e la libertà, talvolta assoluta, talaltre somministrata con i crismi dell’imposizione.

«Credo di essere un uomo generoso, perché concedo alla donna che amo il bene più ambito e prezioso: la libertà. Ma non mi piace vantarmene troppo, alla fine io sono solo un vecchio cornuto». (pag. 372)

«Avrei potuto concederla a chiunque, ovunque e in qualunque momento, e quella perfetta coincidenza tra possesso e dono mi svelava il senso profondo dell’amore – avere per dare». (pag. 417)

Delle tre parti, la più riuscita sembra quella del bull Leonardo. Cultore del sesso come arte della disciplina e del sacrificio, Mister Wolf acquisisce i gradi di samurai della fornicazione grazie a un addestramento militaresco appreso dal padre carabiniere e perfezionato in parcheggi, privè e camere da letto.

«Non mi dispiacerebbe se alla fine di questa conversazione lei e i suoi lettori riconosceste in me un valoroso, seppur stanco, guerriero». (pag. 10)

Un po’ Mickey Sabbath, un po’ samurai integerrimo, la storia di Leonardo rivela il destino per natura declinante di quella che, all’apparenza, dovrebbe essere la figura “forte” al vertice del triangolo. L’ansia da prestazione e la necessità di distacco sentimentale richiesti dal gioco a un bull segnano inevitabilmente una caducità che, nel caso di Leonardo, ispira una certa tenerezza, sia da parte del lettore che da parte degli altri personaggi. L’aspetto interessante di Mister Wolf sta anche nella netta divergenza fra l’immagine offerta dalla sua versione e l’immagine restituita dai capitoli dedicati alla sweet e al cuckold: giovane, prestante e disposto a tutto pur di soddisfare la fantasia di una coppia nel suo racconto, maturo, cardiopatico e innamorato man mano che la trama avanza con il passaggio del testimone alla coppia.

«Non riusciva a capacitarsi che il sesso con Mister Wolf fosse diventato un atto sentimentale (così lo definì) e ripeté incredula il concetto per altre due o tre volte.
In altre parole, la interruppi, non ti scopa…
Male, riconobbe Eva.
Hai presente, no?… La tenerezza, l’emozione, l’ansia di non riuscire…» (pag. 459)

Se Mister Wolf è il personaggio dall’interiorità meno accessibile, ma forse più lineare, Eva e Giorgio mettono in mostra la loro ambiguità senza alcun tipo di ritrosia. Come può una giovane ed eccentrica cubista innamorarsi di un dottore ossessionato dalla sua piscina e dal giudizio di un padre tiranno?

La risposta sta in una visione totalmente rovesciata di possesso e libertà: Eva trova la sua indipendenza nella manipolazione di Giorgio e, allo stesso tempo, patisce il controllo del marito quando è invitata (se non costretta) alla trasgressione.

«La troppa libertà spezza il collo» recita un detto popolare, ed è forse per questo motivo che in certi casi Eva preferisce inventarsi scappatelle, piuttosto che tradire realmente.

«…Immaginate di potere avere tutti gli amanti che volete…
…Immaginate di non essere proprio voi, a volerli…
…Immaginate che la vostra volontà conti davvero poco, diciamo pure niente…» (pag. 323)

Soltanto dopo aver prestato ascolto alle tre campane deduciamo che a tirare le fila del ménage à trois è in fondo il sottomesso: il professor Giorgio Spina, cornuto e mazziato in camera da letto, accentratore e maniaco del controllo fuori. Come giudicare quest’uomo avanti con l’età, mezzo impotente, assuefatto all’umiliazione eppure mefistofelico nel suo voler imporre agli altri le proprie perversioni e i propri desideri? Pienamente capace di ordire trame disgustose – ma anche tenero e altruista nei confronti dei suoi compagni di avventura – Spina è il più zelante seguace del gioco: il gioco è una filosofia di vita, e le sue regole non possono essere tradite (e così farà, almeno fino alla notte di Rimini…).

Da “Le Ore” ai club privè, fino a toccare le nuove frontiere di internet, Il gioco è anche un interessante trattato sociologico sul modo di vivere il sesso nel nostro paese dagli anni Settanta a oggi.

Meno riuscito, invece, il tentativo (ormai onnipresente nella narrativa italiana) di inserire la piccola storia degli individui all’interno del quadro della cosiddetta “storia con la s maiuscola”. I fatti di sangue legati a mafia e anni di piombo sembrano confondersi con i volti e gli eventi della storia pop – Marina Frajese, Paolo Panelli e Bice Valori e altri – non soltanto per fornire al lettore appigli temporali, ma anche per alimentare un progetto di narrazione tutto sommato poco funzionale alla trama principale.

Che cosa vuole suggerirci D’Amicis in questo romanzo centrifugo? Forse, che il desiderio non può essere sempre uguale a se stesso, che il gioco è bello quando ridefinisce di continuo le proprie regole.
Non c’è conformismo peggiore di una trasgressione reiterata, meccanica, non c’è repressione più grande di chi si nega l’amore.

Dopo decenni di frequentazione, quando Leonardo, Eva e Giorgio vedono andare in fumo la loro utopia libertina, i tre sembrano costretti ad accogliere la loro condizione.

Lo fanno quasi con stupore, come se fosse capitato per caso. Incredula, di fronte agli anni che passano e a un legame che li ha tenuti insieme per buona parte della loro vita, Eva domanda al marito: «Giorgio, tu pensi che l’amore sia quello che resta dopo il sesso?» (pag. 459)

 

(Carlo D’Amicis, Il gioco, Mondadori, 2018, pp. 528, euro 20)
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Paradiso minore

C’è un momento, nell’intervista di Alessandro Cattelan a Tommaso Paradiso nel programma Sky EPCC, in cui il cantante, parlando di come nascono le sue canzoni, dice di dare un suono alle parole che gli fluttuano in testa. Il presentatore, allora, gli chiede di improvvisare un testo e una melodia partendo da due parole a caso: termosifone e cacciavite. Il siparietto tra i due è in linea con la comicità del programma, Paradiso si presta e l’esperimento riesce sicuramente. Nonostante sia chiaro che ci voglia un talento per riuscire a fare una cosa del genere, quanto appena visto e ascoltato ci dà modo di capire cosa sono i Thegiornalisti che, in questo settembre, tornano con Love, due anni dopo Completamente Sold Out.

Dietro ogni testo di Tommaso Paradiso c’è un disagio e un male mai metabolizzati, capiti. Vengono a galla e vengono cantati, senza ulteriori passaggi. Quello che è successo da Cattelan è emblematico: è l’esperienza stessa dell’ascolto dei lavori dei Thegiornalisti. Le cose potrebbero raddrizzarsi sempre, ma in un modo o in un altro rimangono sempre uguali a loro stesse – anche la birra che si scalda in fretta diventa pretesto per parlare di una condizione di continua instabilità e, fosse per lui, mai dovrebbe smettere di andare così: dovesse non scaldarsi a quella velocità, il mondo di Paradiso si piegherebbe su sé stesso e scomparirebbe per sempre. C’è una rassegnazione sotterranea dove essere e vivere: lui cavalca questa instabilità, ci sguazza, la rende mito, sa domarla e (qui sta la magia) sa comunicarla d’istinto. Sa come darla all’altro. Essere profondi nel parlare superficialmente della profondità della vita. Paradiso non ti immerge mai nella disperazione, te la fa osservare dalla superficie del mare.

Perché la storia dei Thegiornalisti, il loro successo, arrivato dal basso, ruota attorno a uno spleen monco, mischiato a una musica che è solo spettatrice, perennemente ai margini, a una voce, invece, che è una voce, qualcosa che può essere in futuro collante tra generazioni e alla costruzione di melodie tanto semplici quanto azzeccate – parliamo dell’unico che, dopo vent’anni, è riuscito a mettere in discussione il grande proprietario dell’immaginario estivo: Luca Carboni.

Love è tutto questo: ed è esplicativo, ad esempio, in “Milano Roma”: «Non so quando e non so in che posto / Non lo so / Se poi mi fermerò». Milano e Roma come due opposti: tecnicamente l’afflizione dovrebbe derivare, ancora prima che dal non sapere che ruolo ricoprire in una storia d’amore, dal non avere neanche la certezza di dove vivere. No, Paradiso vuole continuare a fare avanti e indietro tra Roma e Milano. Dice di non saperlo, ma lo sa . Quella di Paradiso è un’angoscia, sì, ma sembra più una casa, non una cosa da cui fuggire. Se ne nutre, non si dispera perché non riesce a contenerla. Una poetica che può avere una sua dimensione, ma che, unita anche alla costruzione strumentale dei brani, risulta poco riuscita.

Della combo Vasco Rossi-Venditti, in Love, rimane solo Vasco. Gli anni Ottanta rivisitati negli ultimi due anni non ci sono più e fanno spazio a un pop che sa di Coldplay post X&Y, noioso e furbo: soluzioni facili e poca ricerca che, alla fine, rendono l’album piatto. Dopo “Overture”, un intro alla Baustelle interpretato dai Thegiornalisti, c’è un lavoro staico: “Zero stare sereno”, “Milano Roma”, “Una casa al mare”, Controllo”, “L’ultimo giorno sulla terra”, sono canzoncine e niente di più. I singoli riescono sempre, ma emergono sempre come singoli, svettando a tal punto da rendere tutto il resto come un riempitivo – nota di merito, però, per la ballata alla Brunori, “Dr.House” dove l’elenco finale, almeno per i nati negli anni Ottanta, è più di un semplice elenco.

Love è un album da ascoltare volontariamente in maniera distratta mentre si fa altro, mentre magari ci si allena: «Vorrei mettere su un fisico bestiale / Ma lo faccio solo per rimediare». Perché non ci allena per migliorare il fisico, ma per mantenere un certo senso di insoddisfazione che per Paradiso è ispirazione artistica, per altri solo insoddisfazione.

Copertina Hamburg di Marco Lupo

La letteratura delle macerie

Le miserie della letteratura contemporanea sono ben note: ogni giorno le nostre librerie sono inondate di drammi privati di ogni sorta (se qualche anno fa andava il memoir sulla morte del padre, oggi va l’autofiction sulla nascita del figlio), romanzetti insulsi sulla vita borghese (che nessuno conosce più), gialletti stitici buoni per tutte le stagioni. Quasi verrebbe da difendere le biografie degli youtuber: nel loro essere universalmente odiate ci liberano dalla pomposa retorica che accompagna il lancio di questo o quell’altro libro.

Marco Lupo fa il libraio, deduco che abbia una discreta dimestichezza con le opere di cui sopra. Marco Lupo è anche un signor letterato, per questo ha dimestichezza con un canone particolare, talmente privato da diventare la carne del suo romanzo d’esordio. Hamburg (il Saggiatore, 2018) parte proprio dal dato autobiografico (debitamente trasfigurato): un gruppo di cacciatori di libri gravita attorno a una libreria nel tentativo di recuperare la produzione del misterioso M. D., scrittore maledetto autore di Hamburg e Uomini cavi. Quello che sembra un romanzo di ascendenza borgesiana muta ben presto in racconto storico. Il focus del romanzo non è la ricerca di questi testi, ma la ricostruzione del passato dell’autore attraverso i suoi libri.

L’architettura predisposta da Lupo è tanto semplice quanto efficace: a un certo punto smettiamo di seguire le vicende dei cercatori, e ci immergiamo direttamente nei testi dello scrittore. Ecco che il romanzo ne contiene tanti altri, storie che si dipanano nella ferita mai sanata della Seconda guerra mondiale. Ben presto sorge il dubbio nel lettore che quelle raccontate nei libri di M. D. non siano storie di fantasia, ma il tentativo – da parte dell’autore fittizio – di recuperare la propria memoria perduta. Si potrebbe obiettare che ci troviamo di fronte al più classico dei meccanismi di autofiction, vero, ma la bravura di Lupo sta proprio nel mantenere alta l’attenzione, evitando l’autoreferenzialità dell’invenzione formale insistita. Il punto di vista del narratore cambia spesso, le storie si intrecciano, formano un’epopea che è quella dell’uomo quando deve combattere un altro uomo. L’esperienza della guerra viene resa nella sua universalità, dando conto degli spostamenti militari attraverso l’Europa, raccontando storie private, intessendo la narrazione di aneddoti e ripescaggi colti.

I numi tutelari di Lupo sono Sebald e il più recente Énard: dal primo riprende la letteratura come confronto con il documento, l’invenzione come collante fra due schegge di realtà giustapposte nel meccanismo della narrazione; dal secondo la divagazione colta come metodo di accumulo, Lupo risulta ipercolto senza essere pedante, per questo evita le trappole di una scrittura fredda, seminando sul percorso tante parabole sugli scrittori amati (Cendrars, Lowry, Leiris, Nossack) ci fa sentire la partecipazione emotiva dell’autore che si misura con i maestri, lo scontro con il moloch della letteratura – Antonio Moresco avrebbe detto «l’adorazione e la lotta». D’altronde la prosa di Lupo è abbastanza calibrata da muoversi egregiamente fra riferimenti delicati, che avrebbero schiacciato un autore meno avveduto. Non stiamo maneggiando la prosa di un esordiente, la precisione e la pulizia sono quelle dell’autore maturo: «Questo è il ritorno, se sei un esule, sei hai abitato molte case, se conosci la confusione delle lingue affastellate nei ricordi, se chiudi gli occhi e ti rivedi bambino, se ti imma­gini nella stessa posizione di trent’anni prima, coperto e riscaldato come se il vento del Nord potesse gelarti la pelle e trasformarti in pietra, se lasci muovere quella sostanza che unisce il battito del cuore agli occhi in movimento, se la lingua ti aiuta e trasporta parole dimenticate che escono come fumo dalle labbra».

Ricorre per tutto il libro l’espressione “letteratura delle macerie”, le macerie del Novecento raccontato, quelle della nostra cultura atomizzata, le macerie della contemporaneità alla deriva, o le macerie salvifiche della nostra anima fra cui è ancora possibile celebrare il rito dell’incontro. Tra le molte accezioni di macerie si muove Lupo, come uno sciamano che vuole accendere un fuoco in ogni anfratto del tempio, in modo che i resti di un antico culto tornino a splendere di vita illusoria. Tra queste macerie ci aggiriamo meravigliati, seguendo la scia dell’autore e partecipando al viaggio iniziatico. Ancora una volta – non l’avremmo mai detto, eppure, guarda un po’, ci caschiamo sempre – l’incantesimo della parola ci rapisce, torniamo a riporre fiducia in questa benedetta letteratura. Fatevi un regalo, approcciate questo libro, rendetevi conto di quanto ancora può sussurrarvi la parola scritta.

(Hamburg, Marco Lupo, il Saggiatore, 2018, pp. 239, euro 21)

La duplicità del silenzio

«Poggiai un piede sopra lo skate e provai a stare in equilibrio. Non avevo dimenticato come si facesse, nonostante fossero passati tutti quegli anni»Parlare non è un rimedio di Valerio Valentini (D Editore, 2018), composto da ventuno racconti, ci consegna un intreccio di storie che seppur temporalmente e geograficamente distanti l’una dall’altra sono rilegate tra loro dal minimo comune denominatore della malinconia. I racconti che si mischiano nella spirale narrativa di Valentini hanno come protagoniste le relazioni, con ciò che queste comportano, causano e si lasciano alle spalle.

Non le banali relazioni d’amore che un certo tipo di editoria erge a prototipo di letteratura, nella quale mon Dieu – la sensibilità della figura maschile è incorporata in un machismo reduce dalla sofferenza causata da un destino familiare, o cosmico, ineluttabile e la figura femminile è inciampata in una confusione solenne e stanziale che altro non è se non la scusante d’un anelito d’alternatività (si veda Vedi Jojo Moyes e tutta la paraletteratura post-Moccia). Non quelle banali relazioni, dunque, ma rapporti consumati dal quieto quanto assillante ticchettio dei giorni trascorsi.

In Parlare non è un rimedio non c’è redenzione o salvezza garantita dall’amore, e se c’è si intravede solo nel ricordo di qualcosa che fu. Non necessariamente una persona, e non necessariamente una cosa che possa coincidere con il canone generale di bellezza. Non il ricordo del profumo delle margherite, ma lo stupore allo zoo, e quell’odore di carciofi che si mangiavano lontano dalla guerra, insieme alla nonna.

Il tempo è forse il vero protagonista di questi racconti. Si insinua nelle vite dei protagonisti senza che questi se ne possano rendere conto, lasciandoli alla deriva nel flusso insolubile di loro stessi.

Tutto cambia, e nel racconto Impronte, che narra la storia di una donna, Paola, che torna nella sua casa d’infanzia, Valentini esordisce con una minimalista ma notevole descrizione della sabbia, mutata anch’essa sotto la coercizione distruttiva del tempo. Una sabbia fasulla, quasi plastificata, che mette in dubbio le radici dei ricordi stessi.

In Parlare non è un rimedio la felicità, come nella vita reale, non consiste in una sfavillante dichiarazione d’amore o in una vincita al lotto, ma nell’evento inaspettato che interrompe la routine: è il caso di una nevicata, che riesce a convincere un lavoratore preoccupato per il futuro ad ammirare il mare mentre viene baciato dalla neve.

Infine non si può non parlare del silenzio, altro grande protagonista del romanzo. Il silenzio, nella sua ontologica seraficità, è soffocato quanto isterico.

Soffocato è quel silenzio che prova un padre, nel racconto Iride, quando si domanda se il figlio cieco abbia dimenticato i colori. Isterico quello che colpisce il protagonista del primo racconto (che dà il titolo alla raccolta), un silenzio dal sapore prospettico che conduce il protagonista a fronteggiare l’illogicità della situazione che sta attraversando, costringendolo, con una tristezza rabbiosa e impermalita ad ammettere che il giorno che sta vivendo, il giorno del matrimonio della sua ex, è un giorno triste. E non c’è niente da fare. E non c’è più niente da dire.

A volte si può scappare nei ricordi, quelli che recano in sé il lascito genetico avvolto dalla risacca dell’infanzia. In cui si corre via da tutto per scivolare, cadere e stare a guardare il cielo seduti su quello skateboard alieno che tanti hanno avuto da piccoli.

Allora lì il silenzio diviene parola, ed è dolce, come quando si inciampa in una madeleine della quale si era dimenticata l’esistenza.

 

 

(Valerio Valentini, Parlare non è un rimedio, D Editore, 2018, 286 pp, € 14.90)

Ray Bradbury: da Città del Messico a Marte

Dopo la crisi del 1929, il romanticismo americano sembrava sull’orlo della dipartita finale: niente infatti riusciva più a smuovere la scrittura di F. Scott Fitzgerald, seppure qualcosa brillava ancora nella prima produzione di Ernest Hemingway. Si avvicinava una nuova guerra e i giochi privati stavano per finire: la letteratura entrava ora in dialogo con la politica. C’era chi, come John Steinbeck, aveva cercato con Pian della tortilla (1935) di tornare indietro per guardare avanti: dove il socialismo si incontrava con il New Deal, il romanticismo europeo veniva messo faccia a faccia con quello proprio degli States. Ma non era bastato, la guerra era venuta comunque: e con essa, il realismo letterario dilagava.

Eppure, nell’immediato dopoguerra, le riviste letterarie americane cominciarono a ospitare anche alcuni brevi racconti di uno scrittore fino a quel momento poco conosciuto: all’anagrafe, Raymond Douglas Bradbury. Si trattava, a prima vista, di una scrittura quanto mai innocua, perché apparteneva al genere della fantascienza. Nessuno forse riusciva ancora a immaginare che quell’insieme sparuto di racconti, nella mente dell’uomo stavano trovando via via la compiutezza dell’opera decisiva. Ecco come Giuseppe Lippi (1990) ci descrive il momento: «nel 1950, Ray Bradbury raccoglieva in volume le sue Cronache marziane e sanciva l’inizio di una nuova era di rispettabilità letteraria per la fantascienza. A quell’epoca gli autori dell’età dell’oro erano tutti indaffarati a ristampare i propri racconti d’anteguerra presso piccoli editori amatoriali, pur di averne un’edizione rilegata e sottrarli all’oblio delle riviste. Bradbury non si accontentò di tanto poco: fece uscire le sue Cronache presso Doubleday (una delle maggiori case editrici newyorchesi) e conquistò immediatamente l’attenzione della critica. In Italia Giorgio Monicelli le tradusse nella Medusa di Mondadori. E il resto, come dicono gli americani, è storia».

Cronache marziane è una raccolta di racconti che ha cercato di farsi romanzo, senza mai riuscirci fino in fondo. Ma è proprio in questa peculiarità, che noi possiamo scorgere infine la sopravvivenza del romanticismo di stampo americano: anzi tutto, nonostante la supremazia indiscussa dello stile realista, la confusione sul genere non ha impedito a Bradbury di raggiungere con estremo entusiasmo il grande pubblico. Una ragione intrinseca è da ricercare nel fatto che gli anni Trenta e gli anni Quaranta, attraverso le opere di Aldous Huxley e di George Orwell, avevano spianato il terreno alla distopia letteraria. Se è vero, Cronache marziane parla di un futuro o, perlomeno, di un presente non troppo lontano da noi. Perché ciò che rendeva forte la scrittura di Huxley e di Orwell era proprio questa prossima immediatezza.

Eppure, una parte della critica americana è convinta che le Cronache raccontino il passato: a partire dal capitolo Dicembre 2001: il verde mattino di Benjamin Driscoll, dove il personaggio principale della sezione decide di seminare il terreno marziano – così che coloro che sarebbero arrivati dopo di lui avrebbero trovato sul pianeta un’aria simile a quella terrestre – si è voluto rintracciare nel testo una allegoria dell’avventura pionieristica della colonizzazione americana. Dalla bocca di Benjamin Driscoll infatti esce fuori all’improvviso un paragone più che mai esplicito: «È ben per quello che sono qui – disse Benjamin Driscoll. Il fuoco scoppiettò. A scuola, ricordo, ci raccontavano la storia di Johnny Aplleseed che attraversò a piedi tutta l’America piantando meli. Ebbene, io sto facendo qualcosa di più: io pianto querce, olmi, ippocastani, ogni specie di alberi, cedri, pioppi, castagni. Invece di creare soltanto frutti succosi per lo stomaco, fabbrico aria per i polmoni. Quando questi alberi avranno qualche anno, pensa all’ossigeno che fabbricheranno!»

Allo stesso modo però, si potrebbe obiettare che, con grande abilità, Bradbury si ricollega al proprio presente, perché mentre la colonizzazione marziana è ormai terminata, sulla Terra scoppia una gigantesca guerra mondiale: a questo punto, la popolazione che si era stabilita su Marte decide di tornare a casa per combattere: come gli americani che sbarcano in Europa. E potremmo andare ancora più oltre, cioè ai nostri tempi, quando l’imprenditore sudafricano Elon Musk, durante una conferenza stampa a Guadalajara, in Messico, annuncia che in venti o trent’anni sarà in grado a portare l’essere umano su Marte. Se così fosse, Bradbury ci avrebbe visto ancora più giusto – o quasi. Cronache marziane racconta della colonizzazione umana del Pianeta rosso tra il gennaio 1999 e l’ottobre 2026. Una differenza di circa un decennio allora; con l’aggiunta che l’operazione reale di Musk riguarderebbe l’acquisizione di una terra, e non di un territorio: non ci sarebbe alcuna popolazione nativa da assoggettare.

Ma ora conviene guardare alla scrittura di Bradbury con la lente di ingrandimento: benché sia sicuramente più trascurata di quella del romanzo successivo Fahrenheit 451 (e il motivo è legato in primis alla pubblicazione veloce sulle riviste), bisognerebbe fare i conti con il rapporto che la scrittura di Bradbury ha con il romanticismo americano. Forse John Noble Wilford non si sbaglia quando dice che: «probabilmente le Cronache sono il miglior libro che sia stato scritto su Marte. È una raccolta di racconti popolar-onirici che descrivono gli ultimi giorni dell’antica civiltà marziana e l’arrivo dei coloni terrestri. I suoi capitoli, di volta in volta, sono poetici e ricchi di humor, pessimistici e ottimistici. Nella descrizione dell’uomo visto come sfruttatore del pianeta, Bradbury è implacabile: i terrestri dissacrano le splendide città di cristallo, distruggono le loro torri usandole come bersagli; i marziani, al contrario, sono descritti con viva simpatia. Hanno la pelle bruna, occhi gialli come monetine, dolci voci musicali».

Rimaniamo sull’elemento onirico: in un momento di estrema difficoltà per il romanticismo americano a favore dello stile realista, Bradbury riprende quel particolare lirismo magico proprio di Fitzgerald per situarlo fuori dall’ordinario, anziché cercarne la forza a partire da una base biografica o dall’invenzione e il camuffamento di essa. Le Cronache marziane guadagnano cioè il favore dell’esclusività dell’immagine, una immagine magica, che sovrasta tutto il resto, rendendole simile a un album tenuto insieme da… già, da che cosa è tenuta insieme questa raccolta di racconti?

Credo che la chiave di lettura sia da ricercare in Giugno 2001: And the Moon be still as bright. Qui ci troviamo davanti a questa situazione: il giovane archeologo Spender decide di sterminare l’intero gruppo terrestre giunto in perlustrazione del Pianeta rosso, eccetto il capitano Wilder, da cui viene consapevolmente ucciso. È tra Spender e Wilder che si nasconde il nostro autore: entrambi i personaggi sembrano conoscere bene la natura umana, ma si pongono verso di essa in maniera del tutto differente l’uno dall’altro. Se il primo si ritira infatti nel proprio mondo immaginario, ma decide poi di farsi agens di un cambiamento impossibile; il secondo crede nella possibilità del cambiamento, ma sceglie di agire nel segno della distruzione. Wilder cioè comprende Spender, ma non fa niente per impedire la colonizzazione di Marte.

Bradbury è stato uno scrittore attento: sembra evidente come abbia ascoltato la lezione dell’esistenzialismo francese, laddove è l’agire che crea l’uomo. Pure, al contrario delle altre scritture del dopoguerra, è riuscito a collocarlo tanto più vicino a noi, quanto più lontano esso veniva rappresentato: la causa dell’agire di Bradbury è prima di tutto l’archetipo, l’immagine – ma anche la tradizione, si pensi per esempio alla balena bianca di Melville. Cronache marziane si conclude con una visione che sembra ottimistica, e insieme necessaria: Marte è ormai un pianeta abbandonato, ma durante la guerra alcuni esseri umani decidono di rifugiarsi lì e di ricominciare a vivere. Questi coloni diventano allora i nuovi marziani, che portano però sulle spalle il peso di ricostruire una umanità diversa. Ma la storia di Marte, in realtà, è già stata scritta e forse non può che ripetersi uguale a se stessa. Perché Bradbury racconta di una storia di profughi: gli esseri umani che fuggono dall’umanità. E forse allora, ciò che davvero è importante, non è se ci parlasse davvero dello sterminio dei pellerossa o della seconda guerra mondiale; forse cioè, ancora una volta, dobbiamo tornare a ciò che il comandante Spender dice a Wilder, laddove Wilder non è che una seconda faccia di Spender, e di Bradbury, e forse di tutti noi:

«Quand’ero bambino, i miei genitori mi condussero a visitare Città del Messico. Ricorderò sempre il comportamento di mio padre, chiassoso e spavaldo. Mentre mia madre non poteva soffrire i messicani, perché bruni di pelle e poco puliti, e mia sorella non poteva risolversi a parlare a un messicano, io ero l’unico che li trovasse realmente simpatici. E immagino benissimo mio padre e mia madre che vengono su Marte e si comportano allo stesso modo che a Città del Messico».