copertina di tranquilliti base hotel & casino su flaneri

Decongelare il canone

Tranquility Base Hotel & Casino non può non dividere. Per come suona e per essere arrivato dopo cinque lunghi anni da AM. Proprio perché è arrivato dopo cinque anni e suona in questo modo. I fan più ortodossi, rifacendosi a certe categorie bloccate, reazionarie, possono leggere quest’ultimo lavoro degli Arctic Monkeys come un affronto di Alex Turner nei propri confronti e, paradossalmente, a sé stesso: carnefice degli Arctic Monkeys e, per estensione, dell’ultimo grande gruppo di quell’indie rock sviluppatosi agli albori del 2000 per mano degli Strokes, nonostante quell’indie rock, per forza di cose, non vesta più i costumi di oggi.

Quel ragazzo poco più ventenne, che altro non voleva essere – per l’appunto – se non uno degli Strokes, nel 2018 decide di virare completamente rotta. Sta a Los Angel e il manager gli regala uno Stainway Vertegrand. Niente chitarre, niente riff, niente Arctic Monkeys. Niente Arctic Monkeys per quella che è l’idea che gli Artic Monkeys hanno perpetuato da a Whatever People Say I Am, Thst’s What I’m Not a AM.

Allo stesso modo, per i fan meno intransigenti (o, in generale, per un pubblico meno intransigente), Tranquility Base Hotel & Casino è l’emblema per cui, nonostante un gruppo possa essere riconducibile fortemente a un certo genere, caratterizzandolo e essendone caratterizzato, nulla vieti di provare a cercare soluzioni artistiche che non ricalchino necessariamente quelle percorse in passato.
C’è un adagio sotterraneo, diffuso, per cui l’azione stessa di cambiamento sfoci in un’azione di tradimento: non ci sono promesse da mantenere, se non quelle filtrate dalla qualità. Cambiare non è un oltraggio.

È chiaro che questo, comunque, non va a significare che il cambiamento è di per sé è sinonimo di qualità o di bellezza. Il nuovo non è aprioristicamente meglio del vecchio. Bisogna saper cambiare, bisogna avere, sì il coraggio, ma soprattutto la sensibilità e la capacità per farlo.
Trovarsi un album del genere tra le mani, dopo lavori come Hambug o lo stesso AM, spiazza, inizia una riflessione dove è netto un prima e un dopo dei quattro di Sheffield: per quanto AM sia stato un’apertura a un pubblico più vasto (esempio più lampante, “Do I Wanna Know?” ), sempre gli Arctic Monkeys parlavano, sempre degli Arctic Monkeys si parlava.

In Tranquility Base Hotel & Casino c’è molto David Bowie, i Beatles, a tratti certe sfumature vocali alla Bob Dylan (“The Ultracheese”) ma soprattutto, diffuso lungo tutto l’album, un chiaro modo di coniugare gli arrangiamenti dei pezzi a quelli dei Grizzly Bear – palesi i riferimenti a Veckatimest in “One Point Prospective”, “The Word’s First Ever Monster Truck Front Flip”e “Golden Trucks”, che sembra in tutto e per tutto un brano dei Grizzly Bear.

Ciò che gli Arctic Monkeys avevano da dire attraverso l’indie rock, con AM si è esaurito. Dagli inizi, riuscendo sempre a interpretare i propri tempi, fino al 2013, gli Arctic Monkeys sono stati in grado di essere garanti di una generazione musicale e culturale.
Un passaggio verso un’altra interpretazione musicale e narrativa era dunque fondamentale per non ristagnare in una continua riproposizione dello stesso linguaggio, con il rischio più che probabile di iniziare una parabola discendente che li avrebbe portati a invecchiare artisticamente in maniera precoce.
Da “Star Treatment” a “The Ultracheese”, però, l’impressione è che Alex Turner, nonostante abbia intuito di dover stabilire un nuovo anno zero, non sia riuscito a bilanciare un nuovo linguaggio – per gli Arctic Monkeys, non in assoluto – con un prodotto che funzionasse completamente. La strada intrapresa ha le sembianze di quella esatta, ma l’interpretazione e l’attuazione sembrano ancora un po’ acerbe.

Avere tra le mani un lavoro che suona come David Bowie (“Four Out of Five”, sembra uscire da Heroes se fosse stato scritto a Brooklyn nel 2009) che canta a volte nei Beatles, a volte nei Grizzly Bear, il tutto in un atmosfera simil festa lounge bar a tema anni ’50, intuitivamente può affascinare. Ma se avessero voluto stravolgere realmente e incidere nel processo iniziato dagli Strokes e portato avanti da loro, dando una svolta decisiva, gli Arctic Monkeys avrebbero dovuto puntare più in alto e scardinare le regole dell’indie rock; non adagiarsi – certamente con talento – a qualcosa che è stato già chiarito in passato. Questo, al massimo,  può essere il risultato di un’improvvisa conversione di Matthew Bellamy che, dopo Black Holes & Revelations, rinsavisce e non scrive The Resistance ma, appunto, Tranquility Base Hotel & Casino.

Tanto sono stati bravi a essere negli anni ’00 l’indie rock, tanto oggi non sono stati capaci di saper spiegare il presente.

Con Tranquility Base Hotel & Casino, non si va avanti, non si va indietro: si congela il presente in un lavoro che ha le fattezze di un’opera di rottura e di apertura verso il futuro, ma che non lo è. Alex Turner e soci sapevano e sanno di dover fare qualcosa di nuovo: purtroppo non sanno ancora in quale modo. Un bel lavoro che rimane sospeso in attesa di essere rivelato.

Libertà e impegno civico

Sostiene Pereira è un libro senza tempo. Antonio Tabucchi ha plasmato il romanzo per eccellenza, dove si intrecciano morte, vita e consapevolezza di sé. Con uno stile del tutto personale, in cui i personaggi si muovono al suono ritmico della prosa, ci troviamo dinanzi al libro della verità, quella degli uomini e della loro condizione.

«La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro». Pereira, giornalista, in una sfavillante ed afosa giornata d’estate conosce Monteiro Rossi, un ragazzo appena laureato con una tesi sulla morte, carico di vita e di ideali, e innamorato di Marta. Monteiro entra nel cuore di Pereira di sottecchi, si insinua nella sua anima ormai stanca di combattere con la vita. Vecchio e solo, Pereira pensa costantemente alla morte. È bloccato in una fotografia, come quella di sua moglie che tiene nel suo appartamento e a cui parla confessandosi. Istanti infiniti, istanti che odorano di un lasciarsi andare lento ed inesorabile alla deriva. In un tunnel abitudinario, vive placidamente la sua esistenza, convinto di esserne alla fine. Come una tiritera, si interroga costantemente sulla morte e sulla resurrezione, quella della carne. Ormai in là con gli anni e in sovrappeso, Pereira non vuole risorgere con la carne, vuole poter essere libero di rivivere quei sogni della giovinezza che lo vanno a trovare nel sonno. Sogni che non svela, perché troppo personali e lontani da quella che è apparentemente la storia principale del romanzo.

Pereira passa dunque le sue giornate a redarre la pagina culturale del giornale Lisboa e a pensare alla morte, chiacchierando col ritratto di sua moglie, anche lei, solo un vecchio ricordo. Monteiro Rossi, con la sua vitalità, innesca in lui una lotta interna. Il suo io egemone viene tirato giù da un altro, più forte e deciso a voler prendere il suo posto. Tabucchi infatti elabora «la teoria della confederazione delle anime» prendendo spunto dalla psicoanalisi di Freud, ovvero la constatazione che in noi, non ci sia un uno, unico ed indivisibile, ma una pluralità di io che lottano fra loro per affermarsi come quello egemone. Ciò che oggi definiamo personalità e carattere, qui è inteso come una parte di anima, o meglio, diverse anime, ognuna con una propria caratteristica unica ed irripetibile.

E Pereira è in preda ad una crisi dell’io egemone. Monteiro ha rotto quella barriera fatta di sogni, ricordi e passato, per portarlo verso una sorta di elaborazione del lutto, dove il passato diventa sempre più lontano, fino all’affacciarsi del futuro.

«Io non mi sento colpevole di niente di speciale, eppure ho desiderio di pentirmi, sento nostalgia del pentimento». Pereira infatti è tormentato dalla voglia di pentirsi. Più volte si reca da padre Antonio per chiedere di confessarsi, ma non sa cosa ammettere. Peccati non ne compie ma ha la necessità di pentirsi. Pereira deve necessariamente elaborare e andare avanti attraverso il mezzo appunto del pentimento. Di rinnegare la non vita che conduce ancora legata alle sue abitudini e alla sua carne che tanto disprezza, per far prendere vita ad un nuovo io egemone in grado di «fare qualcosa».

Quel qualcosa che ha a che fare con la lotta per la libertà e la parola. Monteiro Rossi infatti, a causa del suo amore per Marta, impegnata civilmente a contrastare il regime salazarista, si farà coinvolgere in un’operazione rischiosa, che comprometterà la sua libertà di vita. Pereira, unico suo aiuto, verrà scosso dal suo sacrificio e dell’epilogo della sua storia. Perché Tabucchi non scrive soltanto ad un romanzo pregno di coscienza, anima e vita, ma anche ad un romanzo civico che racconta un Portogallo e una Lisbona alla soglia della Seconda guerra mondiale, in pieno regime.

Il nuovo io egemone di Pereira prenderà coscienza della situazione di chiusura, paura e terrore del regime molto tardi. Situazione rifiutata dal vecchio scrittore, alienato nella sua condizione di solitudine, sogno e morte. La sua presa di coscienza sarà infatti file rouge del romanzo, insieme alla forza di agire e alla consapevolezza di sé: fare qualcosa per il Portogallo, per la sua Lisbona, per il suo popolo e soprattutto per Monteiro Rossi.

Tabucchi, maestro della parola, condensa la sua passione per Portogallo e letteratura in un romanzo che unisce le più grandi paure di un uomo quando questi si trova di fronte a scelte di libertà e di impegno civico. Un romanzo composto da un linguaggio e da strumenti (brevità dei costrutti, ripetizioni, assenza del discorso diretto) necessari per far arrivare dritti nella mente e nel cuore del lettore la potenza delle parole e del loro significato.

 

(Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira, 1994)
Copertina di Cometa

La realtà è sopravvalutata

Da qualche giorno tiene banco – attraverso interventi e riflessioni varie – il dibattito sul fantastico italiano. La categoria di fantastico agisce in modo sotterraneo nella letteratura italiana – basti pensare alla linea novecentesca di Savinio, Landolfi, Morselli, Buzzati – ma, da quello che rilevano commentatori e canonizzatori, oggi lo sconfinamento di tali fascinazioni nel romanzo realistico genera opere ibride quantomeno interessanti.

Si parla di weird: categoria che in sé racchiude gli elementi della grammatica fantastica e fantascientifica e anche della speculative fiction tornata in auge a livello internazione grazie ad autori-teorici come Jeff VanderMeer (nel mio piccolo ne parlavo a proposito di un padre dimenticato come Clark Ashton Smith).

I nomi nel carniere italiano sono ben noti: Andrea Gentile, Orazio Labbate, Luciano Funetta, Gabriele Di Fronzo e – come nobile pioniere afferente a una certa idea di “letterarietà” – Michele Mari. Una categoria così ibrida può essere interpretata e stiracchiata verso lidi più lontani, e allora a questo ventaglio ci aggiungo anche le narrazioni umbratili – borghesi e antiborghesi al tempo stesso – di Giordano Tedoldi, che a parer mio è uno degli autori italiani più interessanti, o per usare una metafora spicciola uno che riesce ad “accendere la luce della prosa”, solo che la luce illumina solo ombre.

Mi chiedo se alle cinquanta sfumature di fantastico non se ne possa aggiungere l’ennesima, quella del “fantastico virtuale”. Si potrebbe obiettare: sì, tu stai parlando di fantascienza. Più che a mondi ulteriori o linee temporali in cui agisce una tecnologia diversa dalla nostra, io penso a un fantastico che distorce la realtà in quanto psichedelico, ovvero che agisce sui sensi e mette in dubbio lo statuto del reale. Non so come altro definire un’opera come Dai cancelli d’acciaio, romanzo-mondo di Gabriele Frasca, o La vita riflessa di Ernesto Aloia, opere in cui la virtualità diviene la categoria narrativa primaria, l’ambiente che sconfina nella vecchia realtà materiale fino a corroderne le categorie epistemologiche alle fondamenta. Questi romanzi hanno l’ardire di mettere in scena l’architettura del social network e di sperimentarne la distorsione cognitiva, il nuovo patrimonio simbolico ibrido, simulato e dissimulato, in transizione verso la molteplicità del simulacro. In quello che chiamo “fantastico virtuale” (categoria faceta e inventata sul momento, mi si perdoni la poca organicità) non si inventano mondi altri, non si costruiscono territori che sconfinano nell’ignoto, ma si dà conto delle ripercussioni dei molti mondi a noi sconosciuti – o conosciuti tramite strumenti che non controlliamo pienamente, come gli algoritmi – a cui quotidianamente accediamo tramite le finestre tecnologiche. Non si tratta di essere pirati dell’Internet, di magnificare le potenzialità della virtualità come nei decenni precedenti, ma di prendere atto del cambiamento del nostro paradigma, e accettare la natura ibrida di umani (de)potenziati dalle appendici tecnologiche – fisiche e cognitive.

A tali spunti di riflessione faccio risalire L’impero del sogno l’ultimo romanzo di Vanni Santoni , un romanzo che di fantasy ha solo l’universo di appartenenza, ma che si dispiega come un gioco intertestuale, una foresta di simboli che riunisce l’immaginario pop dagli anni Ottanta fino a oggi, esplodendo in citazioni televisive, ludiche o videoludiche. Poco ci manca ad affermare che Santoni abbia scritto – con maggior onestà di Spielberg – un Ready Player One formato libro (che esiste già, è il romanzo di Cline da cui è tratto il film, ma di cui io non ho memoria). Il romanzo di Santoni funzionerebbe bene come ipertesto, librogame, esperienza in VR.

Devo gettare la maschera: ho inventato la categoria di fantastico virtuale per parlare dell’ultimo nato in casa Neo Edizioni, Cometa di Gregorio Magini. Il romanzo di Magini è un concentrato di cinismo, arguzia, fantasia, rivisitazione di modelli, dal pop videoludico alla letteratura postmoderna. Un piccolo spaccato della sua prosa ci fa capire subito il tono adottato: «I miei genitori scopavano sempre e mi piaceva guardarli. Il mio primo ricordo è mamma in ginocchio che sussulta sotto i colpi del bacino di papà. Mi godevo lo spettacolo e mi succhiavo le gengive». L’incipit dissacrante ci colpisce e dà inizio a una storia sfuggente, una commedia grottesca in cui l’iniziazione sessuale – molto materialista, non c’è dubbio – di due amici nerd si presenta come l’occasione per ripercorrere in maniera sarcastica trent’anni di storia italiana: dalla bambagia degli anni Ottanta, all’impegno politico dei Novanta, fino al grand guignol del movimentismo dei primi anni Duemila. Ma questa è solo la prima parte: fino a qui Magini ci ha intrattenuto, ci ha fatto ridere strappandoci qualche sorrisetto cinico, un’operazione lodevole ma ancora sotto la sua portata.

È nella seconda parte che si concretizza l’attacco corrosivo alle categorie della realtà. L’elemento virtuale – che già si infiltrava sinuosamente nella prima parte come segmento delle vite dei due amici – si fa preponderante fino a divenire totalizzante, un climax ascendente che a rivelarne gli esiti toglierebbe fascino al romanzo (no spoiler, suvvia). Posso solo anticipare che la dinamica di accumulo grottesco raggiunge le estreme conseguenze, portandoci in mondi altri poco apparentati con il reale di tutti i giorni.

Quello di Magini è quasi un romanzo di formazione di due startuppari della Silicon Valley, ma in salsa italiana. Solo che alla fine non sono i geek a modellare il mondo – come vorrebbe l’ideologia corrente – ma è un multiverso imploso a spalancarsi come un baratro policromo di fronte ai protagonisti dai sensi tecnologicamente aumentati. Il nume tutelare di Magini sembra essere Houellebecq: l’autore toscano prende la poetica del francese e la svuota dei cascami filosofici, estremizzandone il cinismo, la componente tecnocratica e la riflessione sul corpo. Dal metronomo che oscilla tra iniziazione sessuale dei protagonisti e iniziazione al rito della virtualità scaturisce una concezione del reale evanescente, come soggetta all’entropia di un’antenna sintonizzata a intermittenza. Non so se Magini creda che il reale è sopravvalutato, di sicuro l’architettura ibrida del suo romanzo rende la realtà – intesa come verosimiglianza – obsoleta. La transizione verso una nuova concezione di rappresentazione è iniziata – se non addirittura compiuta. Non rimane che sperimentarne le possibilità e godersi la scena o – come direbbe qualcun altro – la scenicchia.

 

(Gregorio Magini, Cometa, Neo Edizioni, 2018, pp. 248, 15 euro)
Posteri di Loro 2 su Flanerí

Il desiderio inarrestabile di voler piacere a tutti

Non è semplice, non dovrebbe essere nemmeno possibile, sicuramente non è giusto, dover valutare un’opera incompleta. Che senso ha parlare della prima parte di qualcosa che si sa già diviso in due? Qual è il motivo di concentrarsi sulla parte visibile di un oggetto quando la sua vera essenza potrebbe essere racchiusa in quello che ancora non si può vedere? Parlare di Loro 1, la prima parte del nuovo ambizioso film di Paolo Sorrentino sugli anni finali di Silvio Berlusconi premier e sul berlusconismo, non può portare a nient’altro che a un giudizio incompleto. Lo stesso se si analizzasse solo la seconda parte.

Dopo aver visto Loro 1 e 2 si può dire subito che non c’è un motivo, uno solo, per cui il film sia diviso in due parti. Con poche accortezze di montaggio si sarebbe potuto ottenere un film unico, magari dal minutaggio importante. Con più coraggio, si potevano tagliare ampie parti inutili nell’economia generale del progetto e ottenere un film unico di durata normale. Siamo di fronte a un film che non è torrenziale, che non offre un mondo enorme che meriterebbe di essere esplorato in ogni suo angolo. Loro, malgrado quello che il titolo vorrebbe suggerire, è un film su Berlusconi, non sulle persone intorno a lui (i “Loro”, appunto). E questa presenza centrale, magnetica e magmatica, risucchia tutto il resto.

Loro 1 si apre con una prima, lunga parte dedicata a una coppia che aspira a entrare nella corte berlusconiana a suon di cocaina e prostitute. Partendo dalla vicenda di Gianpaolo Tarantini, Sorrentino affida a Scamarcio il ruolo di un faccendiere disposto a tutto per andare via da Taranto. Sembra lui il protagonista, una specie di Wolf of Wall Street in ambiente romano. Caotico, spregiudicato. Ma è un’illusione, perché negli ultimi venti minuti del primo film entra in scena Berlusconi, e tutto quello che si era visto fino a quel momento viene spazzato via.

È un Berlusconi ferito, quello che appare nella sua villa in Sardegna. Le elezioni del 2006 hanno riportato al governo Romano Prodi per un pugno di voti. La moglie Veronica Lario si è trincerata in un’ostilità palese, stanca delle continue voci di tradimenti. Scavalcata la soglia dei settant’anni, Berlusconi vede, enorme, davanti a sé la fine.

La storia politica ha dimostrato che il declino non era ancora arrivato, ma a Paolo Sorrentino interessava concentrarsi su quell’attimo, quello in cui in maniera invincibile la vita politica dell’ex Cavaliere ha iniziato a intrecciarsi con la sua vita pubblica. Il momento in cui gli scandali hanno iniziato a demolire un impero politico.

Come per l’Andreotti di Il divo era centrale, soprattutto, la capacità corrosiva del potere come pulsione a fare anche il male nella convinzione di perseguire il bene, in Loro il potere che Berlusconi incarna è una concezione infantile della soddisfazione di sé e della fuga dalla solitudine. Il Berlusconi di Sorrentino vuole piacere a tutti regalando a tutti ciò che di sé ama di più e ciò che più ama. Un vulcano, una giostra in giardino, una dentiera, la barzelletta. È un uomo incapace di elaborare tutto ciò che è verità, che allontana il vecchio amico di tanti anni di televisione perché gli ricorda il declino, che lascia appassire un matrimonio che è il segno quotidiano della fine della giovinezza. La spinta costante al narcisismo più estremo è il motore con cui allontanare il tempo.

In Loro si sommano alcuni degli argomenti standard del cinema di Sorrentino. Le riflessioni sul potere, sulla decadenza, sulla vecchiaia, sulla solitudine che ha portato avanti in forme diverse in tutti i suoi film, rendendole più esplicite a partire da Il divo e cristallizzate nella serie tv The Young Pope si incontrano con il reale incarnato da Berlusconi. L’ex presidente del consiglio è l’uomo pubblico italiano in cui il confine tra realtà e finzione, tra bugia e verità, tra mistificazione e manifestazione è il più sottile.

A Sorrentino è cara la celebre tripartizione di Arbasino: «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”». L’età, oggi, non gli concede né di essere “brillante promessa” né “venerato maestro”, e sembra essere consapevole di essere un “solito stronzo”. Con l’intelligenza che gli appartiene, il regista ha abbracciato la categoria arbasiniana calcando la mano su alcuni elementi tipici del suo cinema e della sua scrittura. Molti momenti di Loro  sono esasperazioni di quanto già visto in La grande bellezza. Molte delle critiche standard mosse a Sorrentino (forma che sovrasta la sostanza, estetizzazioni forzate, Fellini come spirito guida) vengono qui prese e cavalcate anziché rinchiuse in un recinto. Sembra buttarsi in bocca a chi lo vuole sbranare. Non è solo coerenza: è una scelta di stile, un insistere sulle proprie convinzioni.

In Loro, però, c’è un contrasto troppo marcato tra le intenzioni d’autore e la loro concreta realizzazione. Senza discutere gli enormi e consolidati meriti di scrittura e regia, l’eleganza della messa in scena, le prove d’attore con Toni Servillo – che sembra fare la caricatura di Berlusconi, ma che si limita, in realtà a interpretare quel Berlusconi, quello delle barzellette, di «Mister Obama!»–, c’è una divisione troppo netta tra quel lungo prologo sui “Loro” e la successiva forza centripeta di Berlusconi. Il rapporto tra le due parti è sbilenco, sproporzionato, dispersivo ai fini narrativi. Loro 1 sembra lavorare, nella sua prima parte, verso la costruzione di un mito invisibile. Berlusconi non viene nominato, non viene mostrato. Si parla di lui sottovoce, ci si avvicina solo per interposta persona. Sembra che Scamarcio/Tarantini sia Willard e Servillo/Berlusconi sia Kurtz. Quando però l’ex cavaliere esplode sullo schermo, tutto cambia, incluso il senso dell’intero progetto Loro.

Rimangono da capire le reali motivazioni che hanno spinto Sorrentino e il produttore Nicola Giuliano verso la divisione in due parti. Al termine di una visione complessiva non si può non pensare che si sia trattata di una pura e semplice manovra commerciale per un film che avrebbe voluto essere tutto e che si è perso nelle sue troppe idee.

 

(Loro, di Paolo Sorrentino, 2018, biografico, 100’ + 100’)

 

 

L’industria delle mostre

Contro le mostre è un pamphlet scritto a quattro mani da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione uscito nell’ottobre del 2017 nella collana Vele per Einaudi. «Nasce da un’urgenza quasi “politica”», così dichiarano i due autori nell’introduzione, quella di non chiudere gli occhi di fronte alla malversazione dell’organizzazione, della gestione e dell’ideazione delle mostre in Italia.

Prima di entrare nel merito del testo, corre l’obbligo per chi scrive di affermare che le intenzioni del libro sono sacrosante. È indispensabile che per la difesa del patrimonio culturale esistano posizioni come quelle sostenute dai due autori, il cui intento finale è quello di smascherare alcuni casi di mala gestione dei beni culturali e di porre attenzione sulla deregolazione e la leggerezza nella gestione del circuito delle mostre.

Il libro si compone di sei capitoli e gli interventi degli autori compaiono in ordine alternato, mentre introduzione e conclusioni sono scritte da entrambi. La diversità di stile tra i due è evidente, si passa dalla scrittura giornalistica e incalzante di Trione, che divide in brevi paragrafi i suoi capitoli, a quella più morbida e organica di Montanari, costruita intorno ad aneddoti più estesi. Questa non omogeneità alla lunga confonde e infastidisce nella lettura. Riguardo gli argomenti trattati, Trione è più centrato sul tema del pamphlet rispetto a Montanari che dedica parte delle sue invettive alle scelte politiche sbagliate degli ultimi governi.

Trione descrive tre tipologie di mostre: blockbuster, biennale e crossover e dichiara di volerne parlare perché ha avuto modo di curare almeno una mostra per ciascun genere. Nella nota che precede il testo afferma: «spesso dietro molte nostre opzioni e intenzioni interpretative si nascondono ragioni segrete, private». Se, quindi, da una parte c’è onestà nel dire che è naturale considerare accorto e positivo il proprio operato, magari una maggiore autocritica renderebbe meno difficile credere a tutti gli esempi negativi usati per contraltare. Sono forse troppi gli exempla addotti da Trione a supporto delle tesi relative il distorto utilizzo delle gallerie e dei musei, sui giochi d’interesse e la scarsa qualità dietro l’ideazione delle mostre. Gli innumerevoli casi di cui Trione parla distraggono il lettore dal tema centrale tendendo a una pericolosa “vertigine della lista”.

Fuori luogo è anche l’uso eccessivo delle citazioni per corroborare le proprie tesi, soprattutto nel primo capitolo, quello dedicato alla business art. Trione usa le parole di Jean Clair, Theodor Adorno, Roberto Longhi, Federico Zeri, Cesare Brandi, Eric Hobsbawm, e altri mostri sacri della storiografia e della storia dell’arte che si sono pronunciati sulla degenerazione della missione civile delle mostre, che risulta dunque in crisi da almeno un centinaio di anni. Affidando a personalità così differenti le affermazioni riguardo un tema circostanziato, il messaggio dell’autore ne esce depotenziato.

I capitoli scritti da Montanari sono meglio costruiti dal punto di vista dell’organicità dell’esposizione e sono quindi più coinvolgenti. Lo storico dell’arte racconta di gravi danni a opere d’arte utilizzate in mostre il cui solo scopo è quello di richiamare visitatori attratti dai soliti grandi artisti o da movimenti divenuti popolari, senza che vi sia una vera ricerca o un’esigenza di studio nell’ideazione. Montanari cita Gramsci e Calamandrei laddove descrive il patrimonio in relazione alla sua territorialità e le sue infinite e complesse particolarità. Insiste nella difesa dell’articolo 9 della Costituzione e tuona contro la demagogia nascosta dietro la sbandierata democratizzazione della cultura, che si riduce a uno scadimento della proposta culturale. Montanari, poi, fa la voce grossa contro le aberrazioni di un sistema ministeriale che dovrebbe orientarsi verso una statalizzazione di tutte le funzioni legate ai beni culturali in vece di una sempre più evidente devoluzione. Cita come esempi virtuosi alcuni sistemi ibridi dove la valorizzazione o la promozione vengono affidate ad associazioni di volontari che entrano a vario titolo nel sistema cultura. Queste associazioni avrebbero il merito di essere radicate nel territorio e quindi più adatte alla promozione di quel patrimonio delocalizzato lasciato in ombra dall’amministrazione centrale. Il rischio è che anche queste formazioni miste non sempre si innestino o nascano in modo trasparente, proprio perché demandate a terzi su territori locali. Insomma, chi è il giudice di questi sistemi extra istituzionali? Chi ne garantisce la virtuosità? Sembra che Montanari si consideri il solo capace di discernere tra bene e male, ma la sua è una posizione politica ben precisa ed è compito arduo analizzare questo testo senza essere influenzati dal pensiero tout court dello storico dell’arte e dalle sue innumerevoli lotte politiche, alcune delle quali, condivisibili.

Il libro si conclude con il racconto della mostra: Banksy & Co. L’arte allo stato urbano e delle reazioni che ha provocato tra artisti, cittadini e intellettuali. I due autori usano la street art come esempio di cultura «straordinariamente carico di futuro. E diametralmente opposto a quello sviluppato dall’industria delle mostre», dove «i writers continuano a pensare che la loro arte civile e pubblica valga più del mercato, dell’industria culturale, e del loro stesso egotismo».

Il messaggio a cui affidano le conclusioni di questo pamphlet suona retorico e ingenuo, un finale di speranza verso una forma d’arte che sarebbe “più pulita” rispetto alle altre e che, pur di essere coerente, è capace di smarcarsi autonomamente da un sistema sempre più corrotto.

Si conclude così un testo interessante che aiuta a riflettere sulle aberrazioni delle mostre nate negli ultimi decenni, a tenere alta la guardia sulla ricerca di qualità culturale e a difendere il patrimonio da politiche inadeguate e dall’ingerenza dei privati con i loro interessi. Un testo che ha il limite di essere a sua volta un testo “politico” non solo nel senso più alto del termine ma, purtroppo, anche nell’accezione di uno scritto frutto di un situazionismo.

 

(Tomaso Montanari – Vincenzo Trione, Contro le mostre, Einaudi, 2017, pp. 184, € 12.00)
copertina di dub lub su Flaneri

La saggezza degli …A Toys Orchestra

La scelta della lingua inglese, per un gruppo non inglese, è sempre complessa e, a posteriori, viste le premesse e i pre concetti, coraggiosa. Per quanto un ipotetico successo – tralasciando la questione sulla maggiore adattabilità della fonetica inglese rispetto a quella italiana nella costruzione e nella realizzazione della melodia – oltre i confini italiani possa affascinare e spingere verso la decisione di adottare l’inglese, questa non è automaticamente un pass per il trionfo. Lo stesso aspetto, infatti, è da tenere in considerazione per tutti i musicisti non di lingua inglese che prendono questo via. Il mercato globale è saturo e solo poche eccellenze riescono a sfruttare a pieno la propria scelta.
Il nostro mercato, a conti fatti, risulta sempre restio nell’assorbire e assimilare fenomeni del genere.
Proprio per questo, nonostante il sottobosco musicale italiano sia pieno di gruppi che tentano di farcela sfruttando l’inglese, non sono moltissimi quelli che, a livello nazionale o internazionale, ci sono riusciti: l’esempio più eclatante è sicuramente quello dei Lacuna Coil; c’è il doppio caso reggae Mellow Mood e Alborosie; I Giardini di Mirò; gli Aucan – si potrebbe citare il recente successo dei Måneskin con “Chosen”, ma non è un caso che il secondo pezzo, “Morirò da re”, sia in italiano.
In questo contesto, poi, ci sono quattro ragazzi di Agropoli, gli …A Toys Orchestra, che in quasi vent’anni di carriera sono stati in grado di descrivere la propria parabola musicale andando ad attingere dalla tradizione anglofona, rinunciando a quella italiana, riuscendo a riscuotere un discreto successo. E oggi, a quattro anni dal riuscito Butterfly Effect, tornano con Lub Dub.

Nonostante possa suonare retorico e stucchevole, è impossibile non soffermarsi sulla scelta linguistica e su ciò che comporta per l’ascoltatore italiano avere a che fare con un gruppo italiano che decide di cantare in inglese – a maggior ragione in questi anni in cui l’itpop ha stravolto e sta stravolgendo i cardini della fruizione e del rapporto indie/mainstream. Lub Dub suona in tutto e per tutto come un prodotto estero riuscito: come il suo predecessore, ma andando indietro negli anni, da Technicolor Dreams ai due Midnight, non ci si sofferma mai a pensare di trovarsi di fronte a un lavoro fatto da italiani che vogliono fare gli inglesi o gli americani. Non ci sono tracce di pressappochismo o provincialismo, inteso come tentativo goffo di essere altro da ciò che si è, raffazzonando un’imitazione patetica di un falso mito. Non c’è imitazione. Benché meno il tentativo dell’imitazione. Ciò che esce dal talento dai quattro campani, a prescindere dalla riuscita o meno di un lavoro, è pieno di una bontà frutto di sensibilità e cultura. Le condizioni che hanno fatto sì che gli …A Toys Orchestra riuscissero a emergere nonostante la lingua – qui il centro dell’idea di coraggio attorno a questo tipo di scelta – derivano dalla sincerità che riescono a esprimere in ogni loro album.

In Lub Dub il massimalismo di Butterfly Effect fa posto a un minimalismo malinconico, che comunque non disdegna momenti corali particolarmente riusciti (“Believe”, “Candies & Flowers”). Quest’ultimo lavoro è sommesso, stratificato. L’arrangiamento non è immediato, ma complesso e ricco. C’è una diffusa tensione meditativa che percorre l’album, dalla prima traccia fino all’ultima. In tutta la loro carriera, gli …A Toys Orchestra non sono mai stati in grado di auto narrarsi e rappresentare il proprio messaggio artistico con tanta capacità e coscienza di sé. Rinunciando (volontariamente o involontariamente) a pezzi di sicuro impatto, come nel caso di “Celentano” in Midnight Talks, con Lub Dub il gruppo guidato da Enzo Moretto tocca vette solo sfiorate in precedenza – ed era difficile, avendo un antenato come Technicolor Dreams.

Lasciando da parte i guizzi alla Arcade Fire di Butterfly Effect, Lub Dub a volte gira come un qualcosa che può rimandare agli Wilco, ma pare avere lo stesso stigma di due gruppi: Get Well Soon e Syd Matters – entrambi musicisti non di lingua inglese con il cantato in inglese: tedeschi i primi, francesi i secondi. C’è un filo che collega i tre gruppi. Quel livello di comprensione di sé tramutata in pop, una propensione a dare un senso di ballata anche a brani che ballate non sono e che nei Get Well Soon è sfociata in Rest Now, Weary Head! You Will Get Well Soon e Vexations (importanti i rimandi di “Like a Matisse”) e nei Syd Matters in Ghost Days e Brotherocean . In “Lub Dub” sono vicinissimi i primi Get Well Soon: in entrambi il tentativo di declinare i climax alla Sigur Rós alla propria interpretazione del pop è più che palese; nonostante un passaggio in crescendo un po’ chiamato, ma di notevole effetto, gli …A Toys Orchestra disegnano il finale esemplare di un album serio, dove la maturità acquisita negli anni viene messa a disposizione al massimo delle proprie potenzialità.

Copertina Il grido di Luciano Funetta

Prima della distopia

Percorrere le strade del racconto dell’inquietudine è una delle sfide più interessanti della narrativa contemporanea. Soprattutto perché queste strade devono essere meticolosamente progettate con l’abilità di chi dissemina il percorso di simboli, segni che, astratti e accumulati, si mescolano allo stile tutto personale. Gli esempi di ultima pubblicazione vanno dalle ossessioni orrorifiche di Thomas Ligotti, alla distopia pura della Galaad di Margaret Atwood, fino al weird di Jeff VanderMeer. È l’ibridazione di generi come l’orrore e la distopia a costituire un campo di sperimentazione dalle potenzialità infinite: nessun limite se non quello imposto dalla capacità immaginifica dello scrittore. Guardando all’Italia autori come Luciano Funetta diventano protagonisti di una serie di discorsi editoriali e artistici che testimoniano un cambiamento. Nato dalla fucina di sconfinamento della collana di narrativa Tunué con Dalle rovine, che aveva conquistato la candidatura al Premio Strega, ora Funetta pubblica Il grido e approda ad Altrove, la collana di Chiarelettere diretta da Michele Vaccari.

L’obiettivo dell’editor è di scandagliare il panorama italiano per scovare la “narrativa di anticipazione”: non proprio distopia confezionata per rispondere alle tendenze del mercato, ma visioni che suggeriscono il futuro senza forzature moralistiche. Tutto, ancora una volta, con particolare attenzione allo stile come principale nucleo dell’evento artistico, difficilmente incasellabile in determinate pianificazioni editoriali.

Il grido di Funetta chiarisce meglio gli intenti della collana e acquista un’indipendenza tutta personale nella narrativa di anticipazione.

La protagonista, Lena Morse, convive con l’oblio delle sue origini di cui conosce solo la profezia di una vecchia zingara («sei nata di notte, nel mezzo di una caccia selvaggia»). Della vita sa di essere cresciuta in un orfanotrofio e di aver cercato le promesse per il ritorno all’ignoto, come l’uso di sostanze, nella dimensione quasi parallela dell’Orto botanico. L’universo lavorativo dopo l’orfanotrofio, come una selezione naturale di donne senza un inizio, si riduce all’impiego in un’impresa di pulizie, mentre il vagabondare per il putridume delle strade cittadine crea il mondo familiare e claustrofobico di Lena.

È proprio l’ambientazione a non allontanare così tanto da noi il futuro di Funetta. Già in Dalle rovine la città di Fortezza, da qualsiasi angolazione la si guardasse, era una perenne periferia, annerita dagli scarichi industriali e attraversata da presenze che si palesavano solo come ombre («L’estensione di Fortezza gli apparve come una dimensione orrorifica»).

In Il grido l’ambientazione abbandona il compito di semplice scenografia e acquista maggiore centralità stabilendo corrispondenze più profonde con la storia. Nell’innominata cittadina italiana i trasporti hanno smesso di funzionare all’improvviso, le rotaie abbandonate la attraversano come vene dal sangue coagulato: vengono percorse dai Dormienti, esseri, forse umani, considerati «apparizioni anomale» o semplicemente simbolo di emarginazione estrema: «Non avevano un ruolo, non avevano un’identità, non erano un’invasione né una minaccia, erano una musica o qualcosa di simile».

Nel suo epidemico diffondersi, la decadenza si traduce in prevalenze cromatiche, quasi olfattive che, una volta esplicitamente dichiarate, si espandono a tutto l’ambiente nella percezione del lettore («Finestre illuminate di rosso, di verde, di fasci dorati. Dappertutto c’era una musica ossessiva. Gruppi di persone che aspettavano di essere spinte dentro presidiavano gli ingressi di palazzi in cui erano in corso feste che, presumibilmente, sarebbero culminate con la sparizione di tutti i partecipanti», «Oltrepassarono alcune coppie che scopavano al riparo dell’ombra e sbucarono nel grande incrocio»).

La scrittura di Funetta procede per un contagio a due fasi: nella prima brevi periodi e descrizioni accurate assicurano contorni netti al mondo; nella seconda precipizi di parole, che alludono alla sfera onirica, creano atmosfere deliranti col risultato di guardare la realtà da uno schermo con pessima ricezione.

In fondo il fulcro del romanzo è questo: un costante esercizio di discernimento tra la finzione e la realtà. Prima vittima di tale meccanismo è proprio Lena: visioni improvvise, esseri oscuri aggrappati alle pareti di casa, presenze senza volto che la inseguono sin dall’orfanotrofio: «Il fatto che Lena sapesse con esattezza che tutto non era altro che un’emanazione della sua mente, e che la casa non era altro che una casa, non cambiava nulla».

Se da una parte la narrazione mantiene la sua unità seguendo le vicende della protagonista, dall’altra ci saranno elementi che ne aumenteranno la frammentazione. I differenti piani vitali sui quali vivono le Dame, le entità reggenti dell’orfanotrofio; i ritmi naturali di Mendel, l’essere vegetale motore dell’Orto botanico; la dimensione virtuale del Portale municipale, una piattaforma a cui si accede da terminale, che gestisce l’intrattenimento e le attività dei cittadini, sono tutti dettagli che generano una dimensione delirante in continuo sdoppiamento.

Il punto di origine dal quale il disorientamento crea cerchi concentrici sempre più grandi è una tendenza strisciante: «La popolazione si era trasformata, più che mai, in una smarrita orda di deambulanti, ma nessuno aveva chiesto spiegazioni». La passiva accettazione del mondo, l’omertà di un cambiamento incontrollabile, la spersonalizzazione e il disinteresse sociale, appiattiscono qualsiasi differenza tra bene e male e prosciugano la capacità di distinguerla.

Proprio per questo il lavoro di Funetta si pone in un punto immediatamente precedente alla vera e propria distopia: la rassegnazione umana e il livellamento delle contraddizioni sono gli indizi che generano più piani della realtà senza riuscire a definire quella che corrisponde al vero. Eppure una sola verità prevarrà sulle altre e sarà quella in cui avrà vinto il silenzio.

 

(Luciano Funetta, Il grido, Chiarelettere, 2018, pp. 176, euro 16)

Un libro mai celebrato abbastanza

«E come potrei? I fatti sono troppo numerosi: piraterie, sequestri di persona, rapine, grassazzioni, plagi, oscenità, stupri, eresie, sacrilegi, corruzioni… Ma questi sono solo i sintomi del vero male».

La troga (Adelphi, 1988) è il secondo romanzo di Gianpaolo Rugarli, fino ai cinquantacinque anni non scrittore bensì banchiere (così voleva il padre) dall’ottima carriera dislocata tra Roma e Milano. Non era quello il suo destino, o meglio: la sorte aveva in ballo qualcosa di più grande per lui. La troga ad esempio.

Addio ufficio, addio banca: nel 1988 – dopo aver pubblicato per Garzanti Il superlativo assoluto –  Rugarli pubblica con Adelphi la sua seconda opera. Uno dei romanzi più originali, intensi e avvincenti della recente storia letteraria italiana. Un vero e proprio cult da riscoprire e celebrare a dovere. Non vi nascondo che quest’opera è il mio romanzo italiano preferito in assoluto (dopo I promessi sposi, ovviamente) e dopo avervi accennato ad alcuni aspetti del libro, vi lascerò convincere direttamente delle parole dell’autore e dei personaggi da lui creati.

La troga è diviso in tre atti con prologo ed epilogo. Subito troviamo nella dramatis personae, come nelle tragedie teatrali, i nomi degli “attori” presenti, divisi tra I Vivi e I Morti. Tra i primi Carlo Pantieri, il commissario di polizia protagonista della vicenda: colui che ci condurrà negli oscuri abissi del libro. Una volta citati I Morti, Rugarli chiude precisando che: «L’azione si svolge a Roma, a Lavinio e in Calabria: qualche tempo prima dell’Anno Duemila. Notte, pioggia, neve, nebbia, attentati, epidemie, inflazione».

La fine del millennio è alle porte, accompagnata dalla televisione, dalla politica, dalla corruzione nelle più svariate forme e una Roma novella Babilonia. Come in tutte le grandi opere (da True Detective a Twin Peaks, passando per Chandler) il classico plot noir viene utilizzato come pretesto e tramite per narrare qualcosa di più ampio e complesso. Sì, avremmo le classiche domande su chi ha ucciso quello, chi ha messo la bomba lì e soprattutto cosa sia davvero questa troga, misto (forse) di massoneria, setta nera e complotto elitario. Abbiamo tanta violenza e altrettanto sangue ma non manca la bellezza, la poesia, l’amore, la musica. La ricerca della verità e del senso di rivalsa contro un destino cinico. C’è da risolvere un caso molto intricato ed oscuro e c’è da svelare un mistero ben più grande: quelle delle nostre vite.

L’uso del dialetto (soprattutto quello romanesco, ma non manca il calabrese) e dello stile poliziesco ci fa pensare subito al Pasticciaccio di Gadda e l’associazione è legittima. Anche La troga – come il romanzo gaddiano – ha un incipit geniale: « … »

Tre puntini di sospensione prima di un profondo discorso che troveremo più avanti nel romanzo (molto più avanti), dando una nuova chiave di lettura. Dopo, eccoci in media res. Commissariato di Polizia: Elvira Gatti da Tradate – in provincia di Varese, ci tiene a precisare Rugarli – si perde in una inquietante confessione: è convinta che la defunta moglie del nostro ispettore «se non fosse stato per la tragedia sarebbe diventata sacerdotessa di Monte Sacro», mischiando il tutto con altri discorsi su ipotetiche nomine occulte. Scettico ma con un ronzio in testa, il nostro Carlo Pantieri inizia a pensare davvero che qualcuno lo stia facendo sorvegliare da un po’. Eppure la questione, stando a quanto dice la signora Elvira, non riguarda solo lui: «Siamo spiati tutti, incombe su tutti un disastro. E perché? Perché alla radice di tutto c’è la troga».

Eccola apparire per la prima volta. La vecchia signora chiede aiuto, qualcuno sta minacciando lei e suo figlio ma il nostro commissariato non le crede. Vuole chiarimenti su quella parola, forse la signora voleva dire droga, ma la vecchia se ne va delusa e prima di chiedere la porta lancia un ultimo monito: «Commissario, lei verrà distrutto dalla troga».

Finito il prologo, la situazione inizia a crollare: «Odiava l’umanità o forse ne aveva paura. A Čajkovskij non poteva contestare due meriti straordinari: di aver composto musica e di essere morto».

Ad aggravare la misantropia del nostro Commissario – un misto tra Marlowe e il Bruce Willis di L’ultimo boy scout – ci pensa il  coinquilino “momentaneo”: il magistrato Biraghi. Nell’attesa di alcune ristrutturazioni nella sua villa si è trasferito dal nostro e ha appena collocato nello scantinato del palazzo una nidiata di topi. Un’altra peste sta per abbattersi sulla città: «Roma non era una città vera e propria con una fisionomia definita; semmai era un agglomerato di città accomunate dalla vocazione alla cancrena».

Il tempo di alcune discussioni su certi nomi politici “caldi” per la formazione del nuovo governo – uno su tutti Grato Sabbioneta: ricordate questo nome! – e arriva la chiamata. Una bomba ha distrutto la Banca di depositi e sconti in via Due Macelli. Recatosi sul posto, Rugarli constata sia la devastazione della scena, sia il fatto che molti hanno dei lapsus e usino la parola troga.

Tra sette occulte ed enigmistica, cinismo e poesia, amore e nichilismo, Rugarli tesse l’ispiratissima prosa plasmando immagini indimenticabili. Un circo italiano di trent’anni fa eppure attualissimo fatto di demoni e assassini, terrorismo e cardinali, mogli e poliziotti, politici e misera umanità calcati in una narrazione avvincente alternata da profonde riflessioni. Se ancora non lo avete letto, cercate di recuperare il prima possibile e scoprite cosa sia la troga. Ne vale davvero la pena.

 

(Giampaolo Rugarli, La troga, Adelphi, 1988)

Il pensiero orientale per uscire dalla crisi

Il 1° gennaio 2017 Anthony Atkinson è morto all’età di 73 anni: un segno del destino, quasi un monito per l’umanità. L’economista che si è occupato per tutta la carriera di disuguaglianza ha lasciato questo mondo all’inizio di un anno segnato fin da subito da cambiamenti difficili: la nuova presidenza di Trump; le elezioni francesi, con il fantasma del Front National a preoccupare l’Europa; la Brexit con le sue derive politiche e sociali; la questione migratoria e le polemiche che ne sono scaturite. La scomparsa di Atkinson è un  avvertimento per tutti: la disuguaglianza non solo esiste ma è destinata a durare e a crescere in maniera quasi incontrollata, come un’onda che si propaga, incurante di ciò che divora.

Eppure le lezioni dell’economista inglese, maestro di Thomas Piketty, sono rimaste indelebili, scolpite nella memoria culturale. Il primo insegnamento è che la disuguaglianza non è una casualità inevitabile, ma una scelta politica, sociale e individuale, un circolo vizioso consapevole, che può essere spezzato. Il secondo è che l’economia non è estranea al rigore etico, né tantomeno alle sue implicazioni comunitarie. Di questo ci aveva timidamente avvertiti anche il padre del capitalismo Adam Smith, che nella sua Teoria dei sentimenti morali, si era soffermato sulle relazioni pericolose e inattese tra felicità, ricchezza e benessere.

L’economia ci ha insegnato che la felicità ha sempre un prezzo, e spesso è l’infelicità altrui. La «scienza triste» permette di giudicare la nostra vita solo attraverso indicatori materiali, che restituiscono un’immagine diffratta della realtà, quella che i buddisti non esiterebbero a chiamare Māyā, l’illusione perpetua nella quale vogliamo vivere. Clair Brown, autrice di L’economia del Buddha. I suoi insegnamenti ci salveranno dalla crisi (Vallardi, 2018), unisce da anni nei suoi corsi all’Università di Berkley, due mondi apparentemente opposti come l’economia e il buddismo, per costruire un modello etico e sostenibile nel quale vivere. Ispirata dalle teorie di E.F. Schumacher e Amartya Sen, la Brown trova rifugio nei capisaldi del pensiero orientale: accettazione del dolore, abbandono del materialismo, consapevolezza e interdipendenza. L’individuo, ci avverte, è il risultato delle sue scelte, razionali o meno. Ogni uomo, con la sua dose di ragionevolezza ed emotività, esamina la realtà circostante e ne crea le categorie interpretative. L’economia è perciò indissolubilmente legata al lato umano, imprevedibile e creativo: ben lontano dall’essere un individuo perfettamente razionale (come ipotizzato dalla teoria classica), l’uomo compie delle scelte spinto non solo dalla massimizzazione dei propri bisogni materiali, ma dalla ricerca della felicità. Una felicità che non si nasconde nella ricchezza, come spiegato anche dal celebre paradosso di Easterlin: una volta soddisfatti i bisogni di base, con l’aumento del reddito, la felicità media nazionale tende a rimanere invariata.

Il denaro non ci rende più felici, dunque: lo dimostra il caso del Bhutan, stato poverissimo, che ha sostituito da anni il PIL con il Gross National Happiness (la Felicità interna lorda), un indicatore omnicomprensivo, che supera il particolarismo economico per abbracciare un’idea universale di benessere. Il risultato è stato lo sviluppo di un’economia realmente sostenibile, in grado di alleviare le sofferenze degli strati più poveri della popolazione, e di mitigare le disuguaglianze sociali. E se lo stesso Adam Smith ci aveva avvertiti che la felicità risiede nel desiderio di amare e sentirsi amati, L’economia del Buddha di Clair Brown non esita a mostrarci l’importanza della comunità e dell’interdipendenza, come valori da riscoprire. La corsa sfrenata dell’economia deve necessariamente arrestarsi di fronte all’esigenza di costruire un futuro sostenibile, in grado di attribuire un valore nuovo alle cose e di vivere una vita buona e consapevole.

 

(Clair Brown, L’economia del Buddha. I suoi insegnamenti ci salveranno dalla crisi, Vallardi, 2018, pp. 235 , € 14.90)
copertina di ATLANTE LEGGENDARIO DELLE STRADE D’ISLANDA

Guida patriottica dell’Islanda

Pronti per partire alla volta dell’Islanda? Percorreremo la statale n. 1 islandese, accompagnati dalla guida scritta dallo storico Jón R. Hjálmarsson, Atlante leggendario delle strade d’Islanda (Iperborea, 2017) tradotta in italiano da Silvia Cosimini.

Non siamo alle prese con una banale guida turistica: il termine leggendario presente nel titolo lascia intuire che il focus della narrazione si incentra su fatti leggendari e racconti popolari collegati al paesaggio osservato, piuttosto che sull’arte o su altri aspetti del luogo.

A tale scopo, come avverte l’autore nella breve introduzione, di tanto in tanto gli è necessario effettuare deviazioni su strade minori o poco battute: leggendo metaforicamente tale affermazione, Hjálmarsson potrebbe suggerirci che osserva la statale con occhi inconsueti, da storico e appassionato di miti, ritenendola a differenza degli altri automobilisti non semplicemente luogo artificiale di transito, bensì portale di accesso alle enormi meraviglie che la sua terra offre e che, con orgoglio patriottico, egli riferisce.

Nel dar inizio alla narrazione partendo dalle località più importanti, Reykjavík e i posti vicini, l’autore ha il suo antecedente nel periegeta greco di quasi due millenni fa Pausania, che, con l’intenzione di descrivere lo splendore della Grecia, cominciò il racconto da Atene e dai luoghi attigui.

L’atlante si divide in sei parti, una per ogni area dell’Islanda, e contiene sessanta tappe; accompagnano il testo una mappa geografica della zona interessata posta all’inizio di ogni sezione, nella quale sono segnalati i paesaggi in cui avvengono le leggende, e le illustrazioni di Felix Petruška che raffigurano i personaggi mitici trattati.

Allo scopo di immedesimare il lettore e metterlo a conoscenza della storia, della topografia, della cultura, degli usi, dei costumi della località, i racconti veri e propri di ogni tappa vengono introdotti da un breve excursus, che segue logiche di razionalità e di approccio scientifico all’argomento; spesso negli ultimi righi dell’excursus emerge però la prospettiva mitica, quando l’autore anticipa aspetti del racconto che si appresta a narrare, etichettandolo dall’alto della propria razionalità come “leggenda”.

A dire il vero, Hjálmarsson avrebbe potuto migliorare questa introduzione, che in certi casi appare più uno sfoggio (assai interessante) di cultura, il cui legame con il racconto seguente può apparire quasi pretestuoso. Tale sfoggio si presenta esteso, per chi se ne servisse come guida turistica, ma conciso per chi compie da casa un viaggio immaginario; nello sforzo di indirizzare l’opera alle categorie di lettori appena menzionate, come si legge nell’introduzione, sembra che Hjálmarsson le scontenti entrambe.

Eccoci dunque finalmente giunti ai racconti, che dovrebbero costituire l’essenza dell’opera. Questi, come spiegato nell’introduzione, sono stati adattati o sintetizzati, senza alterarne la sostanza; tuttavia, risultano alquanto brevi e occupano da mezza pagina a un massimo di cinque pagine, quindi si intuisce facilmente che il lettore non sempre riesce ad appassionarsi alla trama narrata e ai suoi protagonisti, che risultano in certi casi piatti e monodimensionali, senza alcuna descrizione fisica o morale.

Lo storico si immedesima pressoché totalmente nel pensiero popolare («Alla Scuola Nera il preside era il diavolo in persona e si potevano imparare magie e altri arcani misteri», così inizia la tappa 48), fornendo addirittura le prove che attestano la veridicità del racconto.

In tali storie si dispiega il fascino del mondo islandese: reverendi che gabbano sistematicamente il diavolo, elfe che si vendicano degli uomini fedifraghi trasformandoli in crudeli balene, elfi che celebrano messe precluse al popolo, mostri assassini che chiedono e ottengono clemenza dagli uomini perché «una pecora nera deve pur avere un posto in cui stare» (p. 36), troll e trollesse, Odino che passa vicino alla terra lasciandone un segno evidente, esseri mitici che cantano nei boschi rivelando ingenuamente la soluzioni a enigmi proposti agli uomini, guerrieri biblici che subiscono una metamorfosi in foche, espedienti usati per uscire da un assedio identici a quelli presenti nella storia dell’antica Roma, diuturne e affascinanti tenzoni poetiche con gravose punizioni per lo sconfitto, animali benevoli che con apparenti dispetti salvano dolci fanciulle, e poi una natura inusitata, con geyser, fenomeni peculiari di vulcanesimo e deserti di sabbia alluvionali.

Gli aspetti del libro che affascinano maggiormente, tuttavia, sono la tendenza eziologica, volta a spiegare le cause dei nomi delle località o dell’esistenza di alcuni edifici, paesaggi o usi, e la congerie di notizie sparse su cultura, storia, letteratura e particolarità dell’Islanda: la sua scoperta, la colonizzazione, la conversione al Cristianesimo, i poeti, i poemi ed i personaggi epici più celebri, l’origine dei Fiordi occidentali che formano una penisola poiché i troll non fecero in tempo a scavare un tunnel e a separare la zona dal resto dell’Islanda, la costruzione di un ponte che proiettò l’Islanda nel mondo contemporaneo.

Tali elementi, che potrebbero apparire come simpatiche chicche, soverchiano però a tratti i racconti; una scelta che potrebbe apparire insensata, ma che è dovuta con ogni probabilità agli obiettivi preposti dall’autore, da buono storico: mettere per iscritto e fissare il patrimonio esclusivo di testimonianze orali, leggende e gesta che inevitabilmente si perderebbero o quantomeno si modificherebbero se affidati all’oralità, e portare orgogliosamente a conoscenza dei lettori stranieri gli elementi che formano il folklore di uno Stato unico al mondo ma che non potrebbero entrare in un libro di Storia (come quello scritto proprio da Hjálmarsson, History of Iceland) tenuto a rispettare certi canoni compositivi.

D’altra parte, questi furono gli obiettivi che predilesse il già citato Pausania nella sua guida alla Grecia: è il genere stesso che, a discrezione dell’autore, permette di essere piegato a toni velatamente encomiastici dello Stato di appartenenza.

Al termine del viaggio, rimane una sensazione di malinconia, l’impressione che lo storico e professore non sia un narratore di professione e che non sia riuscito ad appassionare sino in fondo il lettore dinanzi a una materia entusiasmante: una materia, però, che il lettore, spinto dalle suggestioni narrate e dall’ingente numero di piacevoli divagazioni dotte, potrebbe manifestare la voglia di approfondire con un viaggio in Islanda, al fine di rivivere di persona le emozioni presenti nell’opera.

 

(Jón R. Hjálmarsson, Atlante leggendario delle strade d’Islanda, trad. it. Di Silvia Cosimini, Iperborea, 2017, pp. 252, euro 16)
Copertina di “La gente per bene”

Il lavoro frammentato

La letteratura industriale vive una storia sotterranea: quando pensi sia sparita si coagula in nuove formazioni, produce ennesime filiazioni. È il caso di Andrea Cisi con La piena e Francesco Dezio con Nicola Rubino è entrato in fabbrica, opere che ci ricordano come i modi di produzione su cui si regge il capitalismo siano tutt’altro che liquidati. Ma nell’epoca della terziarizzazione il mondo del lavoro diventa atomizzato, sfuggente, materia ancora più difficile da afferrare. La letteratura che tratta il tema si trasforma in storia psicologica, più attenta agli effetti che il lavoro ha sul lavoratore. Giorgio Falco nel recente Ipotesi di una sconfitta dimostra che è possibile narrare la progressiva erosione cognitiva dell’impiegato soggetto allo stress dell’ordine aziendale, allo stesso modo Vitalino Trevisan in Works riesce a ridare dignità letteraria a un tema tanto bistrattato, riportandolo ai fasti della penna di Paolo Volponi.

Narrare il lavoro è difficile perché spesso implica maneggiare conoscenze non sempre alla portata dell’umanista. Pochi sono i narratori che si arrischiano in territori estranei, e che lo fanno con l’ambizione di riprodurne l’ontologia. Di qualche anno fa è stato il caso più ambizioso a livello nazionale – quel Resistere non serve a niente in cui Walter Siti si proponeva di raccontare la sfera della finanza; oggi Siti ci riprova con un saggio acutissimo – Pagare o non pagare – in cui si sintetizza il declino economico del nostro Paese, nonché l’isterilimento del mercato del lavoro.

Un’altra caratteristica di questo tipo di letteratura è la componente fortemente regionale: le aziende o i capannoni, gli uffici o gli istituti in cui il lavoratore svolge la propria mansione sono radicati in un tessuto produttivo ben preciso, rispondono a un determinato immaginario che non è esente da coloriture legate al territorio. Falco e Trevisan narrano il Nord che si fa vanto di essere il traino del Paese, più difficile raccontare un Sud in cui il mercato del lavoro è atomizzato. Francesco Dezio in Nicola Rubino aveva già ricreato il microcosmo dei capannoni nei non-luoghi del nord barese, attraverso la scansione spaziale e temporale dei ritmi di fabbrica era riuscito a riportare le caratteristiche di un polo industriale fortemente connotato. L’operazione di Dezio è una sorta di carotaggio: lo strato più esterno rimanda al luogo preciso – per questo è infarcito di espressioni dialettali. Dagli strati interni della narrazione si desume la condizione del lavoratore, dunque della catena di montaggio – reale e ideologica – in cui è costretto a inserirsi, ne viene fuori l’ideologia nazionale, la condizione assoluta del salariato nel capitale.

Nel nuovo La gente per bene (TerraRossa Edizioni, 2018) si compie il passo successivo: sono passati anni dal precedente romanzo di Dezio, la precarietà è esplosa in una serie di bolle che rimandano a diversi modi di approcciarsi al mondo del lavoro. Nella penna di Dezio si attua una sorta di romanzo di formazione del lavoratore, reso velatamente nei termini dell’autofiction – giacché il protagonista ha lo stesso nome dell’autore. Dezio affronta gli anni dell’apprendistato, il rapporto fra scuola e aziende, i primi lavori sottopagati, l’epica dei capannoni sperduti alle periferie delle cittadine pugliesi. E poi c’è l’inabissarsi nel lavoro nero, l’inevitabile terziarizzazione, l’avvento della nuova retorica del self made man digitale. La bravura di Dezio sta nel far convivere forme antichissime di sfruttamento con nuove forme economiche ibride. Nel mezzo c’è la crisi del sistema, Dezio racconta la crisi del settore manifatturiero attraverso il crollo di un’azienda di tappezzeria, infine dà conto della disoccupazione, e dei mille palliativi del nostro precariato esistenziale in cui «passi il tempo così, ti lasci per strada la vita così, a inviare via mail il curriculum».

Indubbiamente il lavoro di Dezio è prezioso, perché narra una terra che necessita di un immaginario per raccontarsi, e lo fa trattando un aspetto scivoloso, erroneamente ritenuto di scarso appeal – davvero un paradosso, giacché di fatto interessa tutti. Lo stile di Dezio è ricco, multiforme, capace di mutare dal tono tragico al colloquiale, di sporcarsi con espressioni dialettali e aprirsi a descrizioni dal tono epico, senza dimenticare l’ironia che serve per alleggerire i passi più densi. Per questo salutiamo un’opera ragionata, che delimita uno spazio quotidiano e ci arriva in modo genuino, nella fratellanza del precariato.

(Francesco Dezio, La gente per bene, TerraRossa Edizioni, 2018, pp. 214, 15 euro)

La mistica della felicità

«Per un istante un pensiero gli attraversò la mente, il concetto alla base de I favolosi anni ’85, e cioè che il meglio fosse passato e rievocarlo in ricordi privi di disperazione potesse essere l’unico modo per affrontare un presente insoddisfacente».

Anche il primo romanzo di Simone Costa, Precipitare (Bordeaux, 2015), ha come protagonista un giovane alle prese con l’impudente mondo dello spettacolo, dove arte e creatività si scontrano con le inumane leggi del mercato. Fino alla fine inaspettata della sua storia, infatti, Nick Donati cercherà di sopravvivere dignitosamente, arrancando, tra amori difficili e disillusioni esistenziali. Con I favolosi anni ’85 (Edizioni Spartaco, 2017) Simone Costa – conduttore e autore – racconta un’altra storia dove la soggettività del protagonista viene mortificata dal contesto, sia interpersonale che professionale. Questo giovane, come d’altronde altri della sua generazione, sembra credere ai sogni. Simone Costa scrive un libro intrinsecamente generazionale, perché quegli anni si raccontano a seconda di quando si vive o si è vissuto. Gli anni Novanta e i nostri giorni, per certi versi, sono stati o sono perfino più favolosi degli anni ’85, anche se cambiano i nostri feticci. Con il mondo globalizzato e la nascita degli individual media, la radio ormai ha perso quasi del tutto il suo potere comunicativo. A quella altezza cronologica, ormai trent’anni fa, molte soggettività sono state felici insieme, o comunque conservano del loro passato, una volta cresciute, solamente i momenti sereni.

Ora si tratta di capire se quella felicità fosse realmente esistita.

Il peso sociale e culturale della radio come mezzo di comunicazione ha vissuto una parabola discendente che va dalle emittenti rivoluzionarie e ideologiche degli anni Settanta a quelle impantanate nel riflusso stantio degli anni Ottanta. La trasmissione di grande successo chiamata I favolosi anni ’85 è esattamente questo, ovvero uno spazio dove con grande nostalgia vengono condivisi i ricordi mistificati di una giovinezza perduta che si vuole ricordare sempre come bella e piena di vita vera.

Il protagonista Marco Cocco partorisce però un aborto. La sua idea per la trasmissione si traduce in un programma radiofonico tristemente convenzionale, un coacervo di luoghi comuni quasi archetipici in cui gli ascoltatori possono crogiolarsi e rimpiangere una realtà falsa che nasce postuma, dopo che il tempo dell’esistenza ha soppresso e nascosto il dolore in un ricordo felice.

Dal dialogo grottesco e surreale con il futuro datore di lavoro al divismo asfissiante del conduttore Charlie Poccia, in un continuum di umiliazioni e mancanze di rispetto affiancate dal fantasma di una vecchia relazione amorosa, Marco cercherà di sopravvivere senza lasciarsi annientare dalla vita, resistendo a tutte le speranze tradite e alle illusioni che vivrà durante il corso del romanzo.

Neanche Irene Castello, la protagonista di una seconda storia apparentemente parallela che accompagna la prima, ha un rapporto sano con la felicità. Vive una metamorfosi anzitutto fisica attraverso una malattia sconosciuta al suo udito da cui scaturiscono le più strane meditazioni, piuttosto circolari, accomunate da una sensazione patente di incomunicabilità. Irene soffre perché non sa parlare con gli altri, nonostante i suoi disperanti tentativi di aprirsi all’alterità e di comprendere il senso delle cose.

Marco e Irene si chiedono cosa sia la felicità, nonostante tutto. Nei favolosi anni ’85 quella felicità, vera o fittizia, forse era possibile. Se pensassero al presente, piuttosto, sarebbero realmente felici?

 

(Simone Costa, I favolosi anni ’85, Spartaco, 2017, pp. 160, € 10.00)