Copertina di Racconti ritrovati di Carnevali

Antologia di un poeta riemerso

Tanto tempo fa, in una recondita terra chiamata “libertà”, m’innamorai di un poeta operaio. Nota figura mitologica, metà magazziniere e metà artista, rabbioso e squattrinato quanto basta per annerirsi le mani e rovesciare quel buio in un ventre senza rime. Schiaffeggiato prima ancora di conoscere carezze, allevato a morsi, rimbalzato da un rifugio all’altro e costretto a chiamarlo “casa”, è cresciuto con gli occhi più notturni che avessi mai incontrato, soggiogato da un dolore che lo metteva in scena, come un regista incontentabile.

Ecco, diciamo che è così che mi sono sempre modellata la platonica idea dello scrittore perfetto. Un magnifico perdente, un bastonato cronico, bambino maltratto che bistratta la realtà, pantocratore della mia follia tardoadolescente.

E quando approccio un autore (ovviamente sotto il profilo letterario, avendo imparato la lezione), mi piace circumnavigare attorno alla sua storia, fiutare il marcio sotto le suole e trovarlo quasi sempre un odore dolcissimo.

Impossibile non appassionarsi al meschino finale di Tennessee Williams, morto, a quanto emerge, per aver inghiottito il tappo di un collirio; oppure restare immuni alla biografia di Dorothy Parker, orfana perfino della matrigna, spanciata da due aborti e da vari tentativi di suicidio, osteggiata per le sue simpatie politiche e imprigionata in un bicchiere perennemente pieno. Per non parlare di Zelda Fitzgerald, deceduta dopo aver preso fuoco nella clinica dove era spiaggiata, perché la sua mente schizofrenica era in fiamme già da anni.

Quindi non può stupire molto che apprendere la vicenda di Emanuel Carnevali abbia innescato un atomico amore. Chi di voi (compresa me fino a poco fa) può affermare di averlo già praticato o di accostare il suo nome alla furia tuonante dei mostri intoccabili della letteratura americana?

Eppure è così, ma Emanuel Carnevali è stato un’ombra viziata da mille pruriti, un essere tiranneggiato dalla sorte, che lo ha condotto giovanissimo in America, dopo un’infanzia in apnea dentro bocche di collegi sempre in lutto. Ha vissuto al limite, barcamenandosi tra troppo poco e meno di niente. Calzando i mestieri più spezzanti, scrostando pavimenti, spalando neve e scegliendo la scrittura come un lavoro sporco.

A 25 anni la miseria non gli basta e allora per popolare il suo futuro sbarca anche la malattia. Si chiama encefalite letargica e scandisce altri 20 anni. Gli ultimi, stagnati tra camere ammobiliate e ospedali psichiatrici.

Se ne va per un tozzo di pane, che lo affoga come una tempesta; se ne va come se tutta la sua vita pesasse quanto quel boccone. Se ne va seminando brandelli, muscoli di versi e racconti fatti a pezzi pubblicati in riviste quali Poetry Magazine o Little Review. Dopo Il primo Dio, questa raccolta, dal necessario titolo Racconti ritrovati (D Editore, 2019, traduzione di Emmanuele J. Pilia), è furto e frutto di scavi archeologici.

Perché si ha l’impressione che restituirli allo sguardo significhi sottrarli a un sonno viscoso, a strati di civiltà distratte che passeggiano senza saperlo sopra un tesoro. Rivangare con mani clandestine, sloggiare la polvere in superficie e lasciare quel sangue incrostato e terroso che abita ogni sentenza. Tecnicamente, soprattutto in ambito archeologico, il processo si chiama anastilosi. Ricostruzione con pezzi originali della struttura antica. Chiara volontà di restaurare il battito. Lavoro tutt’altro che semplice con un autore come Carnevali.

Che impiega ogni testo non certo per raccontarci una storia. O quanto meno non solo. Quello che scalcia nell’incavo di ciascun brano è il ritmo della sua angoscia. La fatica di mettere in tasca un giorno dopo l’altro, tra pensioni cadenti e squallori raccolti come vetri.

“Inizio di una carriera letteraria” è la tomografia del suo stato di scrittore, circondato da personaggi bassi e da altri grandiosi, autori indegni del loro mestiere e altri virili e brucianti, come definisce ad esempio Lola Ridge, femminista d’avanguardia capace di scalfire. «Le parole delle sue poesie sono così intensamente vive, sono così palpabili, così fisicamente tangibili che frustano e pugnalano – fanno male. […] È una donna che soffre – ma lo fa ringhiando come una leonessa. È una leonessa folle che si lancia contro le mura dell’orrida città». Perché probabilmente non esiste altro modo di scrivere.

Il suo è un mondo scalcinato, con la bocca ubriaca, di vino, di ruggine, di liti furenti.
Un mondo in cui ci si sgozza per un rumore molesto, perché la notte è più ingrata dei risvegli e ti lascia rantolare disperato all’inquilino del piano di sopra che tiene acceso tutto il tuo orrore. Un mondo efferato di solitudini, dove gli italiani immigrati restano sempre dei mangiaspaghetti, sprofondati in «un grande corteo di crimine, povertà, baraccopoli e canzoni». E la residenza ufficiale di Carnevali è e rimane il margine.

La condizione del diverso, in quanto straniero, in quanto artista, in quanto figlio e amante della strada e delle sue lesioni. Più compiuti narrativamente sono i tre “Racconti di un uomo che ha fretta”, aperti con la vicenda della zia Melania Piano, donna fiera e straziata. Da passioni avide e ingannevoli. Sbilanciate e mal corrisposte. Dalla sua durezza di madre e dal suo gracile cuore d’innamorata.

Il più bello e lancinante è comunque il secondo racconto. Parabola dell’impossibile purezza. Della conservazione di qualsiasi incantesimo. La compagna porta a casa una colomba ferita e accudirla diventa un’ossessione, senza traccia d’affetto o riconoscenza. La creatura è leggera come «una piccola nuvoletta di nebbia», ma si nutre con sforzo, miete sporcizia e vuole solo scappare. Mantenerla per entrambi vuol dire resistere all’oblio, alla meschinità senza piume di chi striscia e non può volare. «La colomba non ci conosceva. Eravamo due persone tristi, che rimpiangevano una dolcezza volata per sempre via dalla portata delle nostre pesanti dita».

Chi è in cerca di trame rompicapo o turning point inattesi alzi rapidamente i tacchi.
Questo si dice, questo c’è. La realtà di Carnevali è crudele e accecante: «Piango lacrime che sono diamanti e gocce d’argento e di zaffiri quando un raggio di luna ne forgia il profilo: così dietro il mio dolore c’è la bellezza, e io la seguo. Sono un vagabondo, e grido tra i relitti dei miei ricordi e i miei fallimenti come un bambino pazzo tra i suoi vecchi giocattoli, sempre nuovi per lui».

Niente di meglio per chi, come me, è un cultore della sconfitta. Sono reperti che tagliano, perché respirano ancora. E stavolta nessun trancio di pane si metterà di traverso.

 

(Emanuel Carnevali, Racconti ritrovati, D Editore, 2019, trad. di Emmanuele J. Pilia, euro 13,90, recensione di Cristiana Saporito)

 

Copertina di Il regno dei fossili di Davide Orecchio

Il corpo, la Storia, l’ossessione

Dirò una banalità: Davide Orecchio è uno degli autori più interessanti del panorama contemporaneo. Non solo perché in grado di maneggiare una lingua complessa, ma anche per visione e capacità di intessere una poetica riflessiva, volta a definire ciò che è la letteratura oggi.

Sin dal suo esordio – Città distrutte Orecchio ha cercato di colluttare immaginazione e Storia, vertigine dell’archivio e fascinazioni aliene. Non si tratta, come da prassi postmoderna, di giustificare le possibilità della finzione tramite le pietre di inciampo del documento, come invece avviene in generi quanto mai in voga quali non-fiction e autofiction. Espedienti tali – arrivati ormai a un certo grado di frequentazione, e quindi di usura – finiscono con l’invalidare realtà e finzione, rendendo inservibile le capacità ermeneutiche di entrambe.

Al contrario in Orecchio il gioco è scoperto: è la finzione a porsi in rapporto dialettico con la Storia, risolvendo il conflitto non sul piano di una contro-storia “più vera del vero”, ma su un piano estetico che liberi le potenzialità utopiche e immaginative di ogni evento realmente accaduto. In Città distrutte questo è evidente: il gioco borgesiano di fonti vere e fittizie serve da corollario per le biografie infedeli orchestrate dall’autore, che interessano tutte momenti precisi e importanti della storia. Una visione poetica avanzata anche in Mio padre la rivoluzione dove, a far da matrice storica è l’idea di comunismo, concetto applicato nelle sue più svariate forme, e vagliato dall’autore persino in ipotesi fantascientifiche.

In Il regno dei fossili (ilSaggiatore, 2019) la ricerca di Orecchio prende corpo ulteriormente, saldando i vettori del reale, dell’onirico e dello stile raffinato in un orizzonte unico, ricco di riverberi poetici quasi estranei alle categorie della prosa.

Al centro della narrazione c’è la figura di Giulio Andreotti, un prisma da cui si irradia la molteplice matrice del romanzo. L’Andreotti di Orecchio è corporeo ed evanescente allo stesso modo, artefice della storia della Prima Repubblica e vittima della consunzione del tempo.

Come abbiamo detto a Orecchio interessa liberare le potenzialità immaginative insite nell’ipotesi storica, la figura di Andreotti è il lasciapassare per mondi ulteriori: la narrazione, tramite il suo diario fittizio, ripercorre le vicende di un cinquantennio di storia italiana che intreccia complesse dinamiche di potere e passaggi mai chiariti della cronistoria istituzionale.

Ma non è il viatico per il solito romanzo delle stragi, in Orecchio l’arco narrativo prende una piega diversa, fantascientifica, tesa all’onirico. La corporeità di Andreotti si perderà lungo l’incedere delle pagine, complice l’avvicinarsi della morte e le azioni messe in atto per sfuggire a essa. Rimarrà solo una voce, come l’incarnazione della coscienza ubiqua, il fantasma del potere liberato dalle vestigia mortali, che testimonierà la ferita italiana tramite la propria presenza ectoplasmica.

Dicevamo: un romanzo senza centri. Alla vicenda di Andreotti si lega quella di Albina, una ragazza che idolatra il politico, non tanto per ciò che è, ma per come si irradia nel panorama dei rapporti di forze degli anni Settanta, Andreotti è un corpo vivo, eppure è anche simbolico, è il referente di ogni desiderio di dominio, o di sottomissione. A suggerircelo è la coscienza di Albina e la dialettica che mette in atto con i suoi due amanti: Simone, uno studente che vorrebbe laurearsi proprio con una tesi su Andreotti, e che si lascia sedurre dalla ragazza, e dall’altra parte il suo professore, il barone accademico che domina Albina psicologicamente ed emotivamente, un referente in sedicesimi, reale, del desiderio di potere che lei esprime al massimo grado nell’adorazione andreottiana. Le vicende di Albina si legheranno a quelle del politico, regalandoci una narrazione polifonica, giocata sulle ragioni delle vittime e dei carnefici, in una sorta di sismografia del desiderio.

A coagulare il panorama multiforme c’è una prosa imperiosa, chiusa in paragrafi fiume che funzionano da cellule narrative e che si tengono insieme tramite le catene del ritmo. Sembra quasi di leggere un poema in prosa, e allo stesso tempo di seguire su carta lo sviluppo materico di una narrazione che solo una penna così attenta riesce a rendere concreta, solida anche nei suoi passaggi più onirici o volti all’esplorazione dell’incorporeo. Il divenire della prosa sopravanza il farsi della Storia, non più mera cronaca dei vincitori ma, nella pratica dell’autore, corpo su un tavolo operatorio, attraversato dal bisturi del desiderio dei vari personaggi.

Ne viene fuori un’operazione particolare, capace di riaffermare il dominio ermeneutico della letteratura sul reale, perché proprio nel reale si origina la disfunzione simbolica, lo scarto di senso che la prassi estetica colma, trasfigura.

Viene da pensare che un giorno, attraversato questo periodo clandestino, l’opera di Orecchio sarà riscoperta come referto dei nostri tempi di lotta per l’affermazione della parola su un mondo che finge di aver abdicato a essa, allora libri come Il regno dei fossili saranno pietre angolari di qualcosa che non possiamo neanche immaginare.

 

(Davide Orecchio, Il regno dei fossili, il Saggiatore, 2019, pp. 290, euro 20, articolo di Giovanni Bitetto)
Cover di Piccole Apocalissi di Livio Santoro

Antitaccheggio

Orecchie nell’angolo di pagina, graffi in copertina, sedicesimi a stampa sghemba, sottolineature indelebili a penna, per non parlare delle glosse a bordo testo. Carla mal tollerava simili cose. Le davano gli incubi. Infatti, quando dopo la lettura de I topi di Buzzati, tra pagina 122 e 123, trovò la fascetta antitaccheggio nascosta in profondo, quasi nella rilegatura, trasalì. Con cautela provò a eliminare l’obbrobrio e tirò piano dall’orlo l’odiosa striscia, per levarla nel rispetto della carta. A metà lavoro, una colla tenace le impedì di proseguire. E allora decidere fu orribile: lasciare l’indecorosa fascetta visibile, pendula nel libro, o tirarla via con strappo secco e irreparabile strazio del testo? Incollerita, scelse la seconda, e con mano tremante, la striscia tra le dita, fece come si fa col filo di cotone e i denti dei bambini. Ma che oscena lacerazione! E l’enorme squarcio continuava ad allargarsi, corrompendo per sempre pagina 122, 123 e tutto il libro. Carla non ebbe però tempo d’avvilirsi: da quel tremendo buco, nero come latebra, presero a uscire, liberi, i topi del racconto. E, proprio come aveva scritto Buzzati, erano voraci, enormi.

 

 

 

“Antitaccheggio” è tratto dalla raccolta di racconti Piccole Apocalissi di Livio Santoro, pubblicato da Edicola.

Livio Santoro (Spoleto, 1981) è cresciuto a Napoli e lavora come sociologo a Roma. Suoi racconti sono comparsi su: effe – Periodico di Altre Narratività, Nuova Prosa, Achab, Crapula Club e altre riviste. Ha scritto per doppiozero, Quaderni d’Altri Tempi, Flanerí e il lavoro culturale. Dal 2012 è redattore della collana di letteratura latinoamericana Gli eccentrici di Edizioni Arcoiris. Piccole apocalissi è la sua prima raccolta di racconti.

Il volume: Un accumulatore di spazi vuoti da riempire di aspettative, una donna a cui – persi tutti i sensi – rimane solo quello di colpa, un’infausta pace all’origine di una guerra tra corpi, la rivincita del limbo, che diventa ricovero ideale per le anime dei cloni.
Nella dimensione fantastica e bizzarra in cui Santoro mette in scena le proprie apocalissi individuali e collettive si riflettono i desideri più oscuri, le paure più profonde e le ossessioni più distruttive dell’animo umano. Una perfetta sequenza di allucinazioni letterarie dove si respira il senso della fine immanente e dove la parola – sempre accurata, elegante e affilata secondo lo stile della micronarrazione – si fa gioco e detta il ritmo.
Che siano usciti da una fiaba, da un incubo, dalle pieghe del mito o dalla non meno sorprendente quotidianità, i personaggi di Santoro ci mostrano come ogni stagione della vita possa godere di una piccola sorprendente apocalisse.

 

 

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Grazie, Kobe

(Per quanto l’accusa di stupro nei confronti di Kobe Bryant sia una questione importante nella vita di un personaggio del genere, non entrerò nello specifico, cercando di parlare di cosa lui sia stato per me come giocatore di pallacanestro).

Non so contro chi fosse, ma parliamo di una ventina di anni fa. Giocavo per una squadra di Roma. Contro un’altra squadra di Roma. Avevo in mano la palla del possibile pareggio. O addirittura della vittoria. Eravamo sotto di due. Una di quelle partite punto a punto, quelle partite stressanti in cui devi essere lucido in attacco, ma soprattutto devi esserlo in difesa. Ricevo da un mio compagno dopo esser passato dietro a un blocco. A ripensarci, oggi, mi viene da sorridere con una dose enorme di malinconia, e non potrebbe essere diversamente.

Ho sempre avuto una mia tecnica di tiro, la riconoscevo e la riconosco tuttora. La immaginavo mentre andavo a scuola. Mentre mangiavo. Mentre andavo agli allenamenti. Cercavo come poterla migliorare anche solo costruendola mentalmente. Quando vedete certi ragazzini che sembrano pazzi mentre palleggiano per strada con una palla invisibile o che si alzano mimando un tiro, cosa pensate stiano facendo? Cercano di migliorare. Perché la pallacanestro è un demone bellissimo che si irradia sotto pelle e che influenza le tue scelte quotidiane, per cui faresti qualsiasi cosa, anche  palleggiare per strada con una palla invisibile o mimare un tiro in mezzo alla strada.

Esco da quel blocco, quindi. E l’immaginario enorme che Kobe Bryant aveva già plasmato nelle teste di milioni di ragazzini si palesa in maniera feroce nella mia. Invece di tirare come ho sempre tirato, provo a farlo tipo lui. Sì, tipo Kobe Bryant. Quanta presunzione, ma quanta ingenuità. L’uscita da quel blocco è un’occasione troppo grande, un buzzer beater da cinque metri. Esco bene, piede sinistro, piede destro, mi alzo, torsione in aria, corpo leggermente piegato all’indietro, gamba destra in avanti. Proprio tipo Kobe. Dio mio, sono Kobe! La mia percezione è esattamente quella. Nella mia testa sono una copia di Bryant. Anzi, sono proprio Kobe Bryant!

La palla lascia le mani e va verso il canestro.

Ferro.

Partita persa.

Nessuno chiaramente si è accorto di quanto fosse successo in quei pochi istanti. Sono sicuro che quel tiro lo ricordo solo io e probabilmente non sarebbe cambiato nulla se avessi tirato come ho sempre fatto. La palla avrebbe preso comunque il ferro, chi lo sa. Non importa. Quello che importa è che solo ora capisco cosa sia stato quell’istante. Solo l’assenza di Kobe Bryant, oggi, mi ha fatto capire cosa sia stato lui per me e probabilmente per un paio di generazioni di giocatori di basket sparsi lungo tutto il mondo.

Cosa ha spinto un ragazzino di quindici anni, in quel preciso momento, a rischiare in quel modo? Perché la tecnica di tiro è qualcosa con cui hai a che fare ogni giorno. È un movimento che devi costruire, migliorare, perfezionare quotidianamente. Devi tirare, tirare, tirare. Devi passare ore in palestra. E quando hai raggiunto una buona idea di come tu possa esprimerti in questo sport attraverso questo gesto, il tiro, e puoi manifestarlo durante una partita, lasci perdere tutto per emulare qualcosa che non sarai mai. Per godere interiormente di quello che stai facendo. Perché?

Quel ragazzino è stato spinto dal fatto che Kobe Bryant è uno di quei momenti fondamentali della storia dello sport. Perché lui non è esclusivamente un giocatore di pallacanestro. È una fase storica, con lui c’è un prima e un poi. È la Storia che si manifesta in una delle sue molteplici forme. Su di me, in quel momento, ha preso la forma di quel tiro.

Io ci ho provato con la pallacanestro. Per una fase della mia vita è stata la vita stessa. E ho passato gli anni del mio maggior innamoramento di questo sport sotto i colpi di Kobe Bryant. Era un riferimento iconico, perché incarnava al cento per cento l’idea di simbiosi tra pallacanestro ed essere umano, tanto da essere tranquillamente due concetti interscambiabili. Era un fenomeno. E io, anche senza un briciolo del talento di Kobe Bryant, avevo la necessità materiale e spirituale di un modello del genere per costruire la mia idea di vita-pallacanestro.

Kobe Bryant, per dirla breve, è stato quello che è riuscito a reggere il confronto con colui che è stato/che è/che sarà la pallacanestro: Michael Jordan. Un Dio che lascia l’eredità dell’esistenza a un altro Dio.

Vent’anni da quel giorno. Da quel mio tiro, da quella stramba e istintiva voglia di essere Kobe Bryant. Vorrei dire a quel quindicenne qualcosa, ma finirei per dargli solo una pacca sulle spalle. Perché in fondo lo capisco. Forse avrei fatto la stessa cosa, oggi.

Vent’anni da quel momento: un paletto sulla scansione del tempo, degli anni, della vita. Kobe Bryant alla fine ha vinto cinque titoli, è stato un difensore incredibile e un attaccante stratosferico, Mvp della stagione una volta, Mvp delle finali due volte, nel miglior quintetto undici volte, dal ’98 fino a fine carriera ha sempre partecipato all’All Star Game, ha avuto quattro figlie, ha vissuto un’accusa di stupro, si è ritirato, ha fatto tante cose che non saprò mai ed è morto.

Il modo lo sappiamo, in elicottero tra i monti della California, insieme alla figlia Gigi e a altre sette persone. Le prime immagini dei resti di quell’elicottero rimbombano ancora in maniera irreale davanti ai miei occhi. Perché quando la sensazione che non fosse un’allucinazione collettiva ha iniziato a farsi sempre più ingombrante nella mia testa, sentivo che una parte di me, quella parte che è rimasta attaccata alla pallacanestro in maniera così viscerale, che ha visto in Kobe Bryant qualcosa di più di un semplice giocatore da ammirare, quella parte ha finito di pulsare.

Ho smesso di giocare poco più che ventenne. Dopo la morte di Kobe Bryant, come fosse la cosa più naturale del mondo, ho smesso di giocare per la seconda volta.

poster italiano di 1917 su Flanerí

La guerra è un piano sequenza

«Dedicato al maggiore Alfred Mendes, che ci ha raccontato le storie»: questa è la frase posta in calce a 1917. Non potendo sapere con certezza se Alfred avrebbe apprezzato il lavoro di suo nipote Sam Mendes, che dirige il film, formuliamo un’ipotesi: il maggiore sarebbe orgoglioso del modo in cui la sua testimonianza è stata utilizzata. Missione compiuta per Sam Mendes, dunque, che centra tutti i suoi obiettivi.

Non in un’unica direzione si muove infatti 1917: si tratta di un film capace di inserirsi a pieno titolo nel solco di un genere ben definito come il war movie, ma anche in grado di allargare quello stesso solco, ritagliandosi uno spazio di manovra ed un tono propri, una entusiasmante libertà che altri registi, in precedenza, avevano solo tentato di raggiungere.

Con implacabile circolarità, 1917 offre allo spettatore una finestra di circa 24 ore su uno degli anni peggiori della Grande Guerra, teatro di alcune delle battaglie più terribili del conflitto.

È il 6 aprile, e il caporale Blake scuote il soldato al suo fianco, appoggiato ad un albero con gli occhi chiusi: sarà il suo compagno per la missione che gli è stata assegnata. I due dovranno farsi strada nella terra di nessuno fino alle linee nemiche, superarle e attraversare la cittadina di Ecuste, per portare al Secondo Devon – 1600 uomini, tra i quali milita il fratello di Blake – un ordine diretto del generale: sospendere l’attacco previsto per l’alba del 7 aprile, poiché il battaglione sta per cadere in una trappola.

È a questo punto che 1917 prende il via, per non fermarsi più: è il caso di considerare la corsa contro il tempo dei due soldati semplici come, letteralmente, un dipanarsi; un arrancare, nel fango e tra i cadaveri, che non può essere fermato. Il senso del movimento che traspare dalla visione del film è quello dell’avanzata: disperata, inesorabile, costellata di momenti di stasi labile; del tutto cieca, come soltanto la guerra, e nella fattispecie la guerra di logoramento, sa essere.

La forza del film di Mendes risiede nella volontà di far scontrare idee di cinema differenti: il coraggio è stato quello di girare un film eminentemente tecnico, che però mai avrebbe dovuto risultare tecnicistico, pena una distanza che un war movie non si può permettere.

Molto si è già scritto e letto a proposito dell’utilizzo, nel film, del piano sequenza. Vale la pena ricordare, però, che la tecnica non è estranea al cinema di Mendes, essendo già stata sperimentata negli ultimi due film di 007, Skyfall (2012) e Spectre (2015).

Inoltre, va tenuto presente che già un’altra opera recente, Birdman di Inarritu (2014), aveva deliziato gli spettatori e l’Academy con l’illusione di un film senza stacchi.

Perché, allora, l’uso del piano sequenza in 1917 colpisce così tanto?

È innegabile che l’utilizzo di questa tecnica sia la caratteristica preponderante del film: non tanto perché esso sia costituito da un’unica sequenza senza tagli di montaggio – che infatti, a ben vedere, ci sono: sono solo genialmente “nascosti” –, quanto per il particolare valore che l’espediente registico assume.

Questo è il colpo di teatro di Mendes: utilizzare un significante specifico per veicolare un ventaglio di significati che, come in ogni grande storia, trascende il mezzo attraverso cui è espresso, per restare nella mente. In altre parole: raramente, negli ultimi anni, un film si è caratterizzato per la sovrapponibilità di forma e contenuto come 1917, in cui la tecnica non solo è al servizio della storia, ma ne diventa il dispositivo di trasmissione principale.

Molti hanno accostato 1917 ad un suo illustrissimo predecessore nella categoria war movie, ossia Salvate il soldato Ryan di Spielberg (1998). Il paragone è scorretto sotto molti punti di vista.

Prima di tutto, non è un caso che Spielberg abbia scelto di occuparsi della seconda guerra mondiale, e Mendes abbia optato per la Grande Guerra: il secondo conflitto porta con sé, inevitabilmente, un bagaglio di retorica che quello del ‘14-’18 non avrà mai.

Da questa prima grande differenza, derivano tutte le altre: Salvate il soldato Ryan è un film epico, magniloquente, animato da nemici della libertà e da eroi che si sacrificano per essa, pure con il volto di grandi attori (Tom Hanks su tutti); 1917 è un film non scarno – giacché la tecnica è preminente – ma secco, non crudele né troppo sanguinolento, ma crudo e implacabile, anche quando lirico. Un film che parla di due soldati qualunque, talmente spersonalizzati che il nome del protagonista – Will Schofield – si arguisce solo alla fine. Un film dove i grandi nomi (Colin Firth, Benedict Cumberbatch per citare i maggiori) compaiono per lo spazio di un cameo, o poco più.

L’opera di Mendes risulta di una bellezza difficile ma mai cervellotica: a rendere la visione positivamente estenuante è proprio l’utilizzo del piano sequenza (all’apparenza) unico, che trascina lo spettatore nel film, lo rende un terzo soldato nel fango, e ci dice che, se vogliamo la guerra, dobbiamo vedere tutto, perché la guerra non è fatta di tagli di montaggio.

Questo principio è ciò che differenzia 1917 dall’altro grande titolo a cui è stato paragonato: Dunkirk di Nolan (2017). Quest’ultimo spiccava per la precisa volontà del regista di piegare, per così dire, i canoni estetici (e non) di un genere cinematografico al proprio (cerebrale) modo di fare cinema: un meccanismo, del resto, al quale Nolan ci aveva già abituati in altre occasioni, da The Prestige a Inception.

In 1917 si assiste al movimento opposto: Mendes mette le sue idee e la sua sapienza registica al servizio del war movie, con le sue regole.

Il risultato è una tecnica del tutto funzionale alla narrazione, una forma che si fonde con il contenuto senza ovattarlo, e senza essa stessa perdere forza.

Così, assume l’importanza che merita – da manuale di tecnica cinematografica – la corsa espressionista di Schofield per fuggire da Ecuste, tra il ralenti, l’incedere della musica, le ombre dei ruderi e le luci dei flare.

Così, il piano sequenza (e la guerra) non ci lascia(no) un attimo di respiro e tragicamente, alla fine ci riporta(no) al punto di partenza: Schofield si appoggia ad un altro albero con gli occhi chiusi, è passato solo un giorno, 24 ore qualunque nella guerra.

 

(1917, di Sam Mendes, 2019, guerra 118’)

Carroll, Proust, Joyce e la filosofia della scienza

«Sta assassinando il tempo! Tagliategli la testa!» urla la Regina di Cuori al Cappellaio Matto, e da quel momento l’intero regno si ferma all’ora del tè: le sei, secondo la consuetudine britannica del XIX secolo. Con il suo cosmo rovesciato dove si entra in un nuovo spazio-tempo senza peso né numero, Le avventure di Alice nel Paese delle meraviglie (1865) e Attraverso lo specchio (1871) sembrano sorprendentemente anticipare Willem de Sitter e le sue porzioni di universo in cui il tempo è immobile, così come altre folgoranti scoperte della fisica dei decenni seguenti. Connessione tra scienza e letteratura – a partire da teoria dei quanta di Planck, equazioni della relatività di Einstein e psicologia del profondo di Freud – che Giacomo Debenedetti, nel fondamentale saggio Il romanzo del Novecento (1971), spiega come rappresenti ciò che Haftmann chiama «un nuovo sistema di coordinate dell’uomo nel mondo», indispensabile per comprendere opere potentemente innovative quali La Recherche (1913-1922) di Proust e l’Ulisse di Joyce (1922), basate sul gioco di una realtà ormai non più calcolabile ed esprimibile secondo l’antica legge di causa ed effetto.

La modernità, infatti, è pervasa dall’idea della connessione, dell’attualità, della contemporaneità, dell’intreccio di cose e avvenimenti nel continuum spazio-temporale di un universo relativizzato, tanto quanto il Medioevo da quella del rimpianto per un Eden perduto nel passato e l’Illuminismo dallo slancio progressista verso il futuro. Mai, nelle epoche precedenti, l’Erlebnis era stata una cosa sola con la consapevolezza del presente, quel confluire immanente e sincronico della coscienza che in Durata e simultaneità (1922) Henri Bergson, riferendosi alla teoria della relatività di Einstein, definisce la simultanéité des états d’âme.

 

Secondo A.N. Whitehead «il divenire della natura», cioè la forza creatrice dell’esistenza – quello che per Bergson è il tempo – alla luce delle acquisizioni della scienza e della tecnica non possiamo ormai che «immaginare attuale nel tutto, tanto nel più remoto passato quanto nel più piccolo tratto di qualunque durata presente; forse anche nel futuro non ancora realizzato. Forse anche nel futuro che potrebbe essere, oltre che nel futuro che sarà», come espone chiaramente in Il concetto della natura, (1920). «Ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato / mirano a un solo fine / che è sempre presente. Eco / di passi nella memoria giù per il corridoio / che non prendemmo verso la porta / che non aprimmo mai / nel giardino delle rose» scrive di rimando T.S. Eliot nel Burt Norton (1935).

Per comprendere il carattere rapsodico della moderna letteratura – a partire dai due giganti del XX secolo, Joyce e Proust – è cioè necessario considerare che, se «il mondo è un pullulare continuo e irrequieto di cose, un venire alla luce e uno sparire continuo di effimere entità […] dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta» – come ci spiega Carlo Rovelli in Sette brevi lezioni di fisica (2014) – ciò oggi vale tanto più per l’arte che per il nostro proprio universo che ciascuno di noi, minacciata ogni visione unitaria della vita, crea e ricrea incessantemente a sua misura.

Difatti ecco che per il reverendo Carroll lo spazio si sfalda, il tempo non esiste e le cose si dissolvono: Alice cresce smodatamente poi rimpicciolisce, per raggiungere un luogo si deve voltargli le spalle, per restare fermi bisogna correre, le torte vengono prima distribuite e poi affettate, ecc.; mentre in Proust questo fluire imprevedibile della vita nel qui e ora della percezione personale arriva ad assumere un’elasticità tale da farlo coincidere – ci dice Curtius in Marcel Proust (1925) – con ciò che il grande saggista tedesco chiama la durée réelle, la durata reale, vale a dire l’intera realtà dell’anima, tanto da renderci non solo relativa, ma addirittura indifferente qualunque cronologia degli avvenimenti.

Nella Recherche, infatti, il Narratore non dà mai alcun cenno di date o di età né riguardo a se stesso, né nei confronti dei circa duecento personaggi e della mole delle vicende che vi si snodano a comporre la complessa trama. Bambino o adulto, Proust sembra dirci che ciascuno vive sempre la medesima esperienza, il significato della quale non scopre se non dopo molti anni dall’averla vissuta e sofferta, e senza che riesca a distinguere i sedimenti del passato da quel che porta in sé l’ora attuale; in ogni istante della vita si è sempre lo stesso malato, lo stesso individuo solitario, lo stesso giovane dalla sensibilità inquieta. «Non si svolgono forse tutte le nostre esperienze contemporaneamente? E questa simultaneità non è proprio la negazione del tempo? E non è questa una lotta per recuperare quel mondo interiore che va perduto nello spazio e nel tempo?» osserva a questo proposito Arnold Hauser in Storia sociale dell’arte (1951).

Ma se con Proust tutta la realtà diventa contenuto della coscienza e le cose acquistano significato unicamente nell’esperienza psichica, oltre il corso univoco e irreversibile del tempo matematico, l’Ulisse di Joyce si spinge fino a rinunciare tanto alla trama che al protagonista stesso. Niente più fluire degli eventi ma solo scorrere dei pensieri e delle associazioni in un interminabile, continuo monologo interiore in cui il vero eroe del romanzo non è questo o quel personaggio, piuttosto il giorno in cui si svolge – sorta di summa della cultura occidentale nel modo in cui si riflette in una giornata qualsiasi di una metropoli – quel 16 giugno 1904 che ci restituisce dunque la durata eterogenea, la stupefacente, immanente, caleidoscopica immagine di una dimensione disgregata.

Sia Joyce che Proust, di fatto, basano Ulisse e Recherche su un continuum disomogeneo, sull’immanenza del passato nel presente, sul costante congiungersi di vicende, ricordi e sensazioni in quel fluido amorfo che è l’esperienza interiore, sulla relatività di spazio e tempo, ovvero sull’impossibilità di discernere e spiegare in quale mezzo il soggetto si muova e agisca, così come nella realtà sottoterra od oltre lo specchio di Alice – libro filosofico quanto esoterico – con felice intuizione è già preconizzata un’analoga dissoluzione di persone e cose nell’atmosfera eternamente contingente di un sogno, ora meraviglioso ora sinistro.

Sospesi senza esserne consci tra sonno e veglia, i personaggi del soprammondo di Carroll in qualche modo anticipano la spazializzazione del tempo allo stesso modo dell’attualizzarsi e temporalizzarsi dello spazio, che saranno in seguito tema centrale delle opere di Proust e Joyce. Qui, varcata la soglia al di là dello specchio diventato morbido come nebbia, la Regina Rossa costringe Alice a correre con lei a perdifiato: «“Ci siamo quasi! L’abbiamo passato dieci minuti fa! Più svelta!”. “Ehi, ma secondo me siamo state tutto il tempo sotto quest’albero! È tutto esattamente com’era prima!”» Esclama stupita la bambina, quando dopo una lunga corsa finalmente si fermano: «“Certo! Perché, come dovrebbe essere?”» le risponde la Regina, e alla spiegazione razionale di lei su come accada sulla Terra, replica soavemente che nel suo regno, invece, per restare nello stesso posto devi correre più che puoi, e se vuoi andare da qualche altra parte devi affrettarti almeno il doppio. Stessa cristallizzata condizione spazio-temporale vissuta dal Cappellaio Matto, che rimpiange nostalgicamente l’epoca in cui, non ancora bloccato per sempre alle sei del pomeriggio, aveva il potere di far passare velocemente le ore oppure arrestarle di colpo, o a comando imporre ai minuti di tornare indietro.

Tale compresenza del carattere spaziale che assumono le dimensioni temporali, e viceversa, nell’Ulisse e nella Recherche arriva ad assumere una corposità e un’evidenza per cui non esistono più tempo taciuto né spazi vuoti alla coscienza, in quanto tutto è diventato coscienza, vale a dire durata mutevole e informe, in cui ogni cosa si smaterializza per scomporsi e ricomporsi, ma senza che vi sia una separazione tra dimensione dell’autore o dei personaggi e tessuto della narrazione. Non si pone cioè più un’Alice esterna alle vicende, spettatrice distaccata di quel Paese alla rovescia dal cui sogno alla fine si sveglierà, limitandosi a considerarlo il ricordo di «un dorato pomeriggio».

Diversamente, l’hic et nunc destoricizzato di Leopold Bloom o della moglie Molly, allo stesso modo che del Narratore proustiano, è pura energia psichica divenuta atomo, particella infinitesimale della costruzione letteraria e insieme vissuto personale, per cui da essa inscindibile. La giornata-Odissea di Bloom – non singolo personaggio ma insieme composito di sé frammentati – non descrive la vita dal di fuori, è la vita stessa nella consapevolezza di un qui e ora in cui i piani del raccontare si intersecano e mutano velocemente, senza soluzione di continuità, in una sorta di universalismo che non fa distinzione tra protagonisti e comprimari, io narrante e racconto.

Simile voce interna all’opera narrata, pertanto tutt’uno con essa, così come immediatezza e commutabilità dei contenuti dell’interiorità – alberi, campanili e tazze di tè – sottratte alla temporalità ed eternate in un enorme deposito di oggetti, presenze, ricordi, apparizioni, azioni, che il Narratore proustiano dissolve in uno sgorgare inarrestabile in cui ogni attimo è privilegiato: perduto, mai immobilizzato, perché risorge nel momento in cui lo si ritrova, confluire sincronico e immanente dei dati della percezione che costituisce l’essenza della modernità.

Copertina di Tutti i racconti di Malamud

Quello che viene dopo

Dopo la ripubblicazione di Il commesso (2017), L’uomo di Kiev (2017), Gli inquilini (2018) e Il migliore (2019), prosegue il lavoro di recupero di Bernard Malamud da parte di Minimum Fax, che a ottobre del 2019 ha riunito in un unico cofanetto di due volumi tutti i racconti dello scrittore americano. Il progetto, a cui hanno preso parte cinque diversi traduttori, riordina cronologicamente i racconti (dal 1940 al 1985) e comprende, oltre a un dettagliato profilo bio-bibliografico dell’autore, una prefazione firmata da Emanuele Trevi.

Ogni discorso su Malamud, oggi, sembra dover passare necessariamente dal legame che questi ebbe in vita con Philip Roth, e più nello specifico dalladiatriba ebraica” che nacque tra i due a seguito di un saggio di Roth apparso nel 1974 sul New York Times. Le parole di Roth, autore più giovane e senz’altro più votato alla modernità, espressero un ammonimento che Malamud definì «un problema non mio», e l’episodio raffreddò quella che all’epoca era un’amicizia decennale.

Nonostante la riconciliazione – suggellata perfino da un bacio sulle labbra, come raccontò lo stesso Roth – questo precedente portò i due a non confrontarsi direttamente sulle proprie opere, edite o inedite che fossero. Nel 1985, ormai ridotto morente al proprio capezzale, Malamud chiese però a Roth di leggergli l’incipit di un romanzo che stava scrivendo, e quando questi gli domandò come continuasse quella storia, la sua risposta fu: «Non è importante quello che viene dopo». Questa frase, che suona come la replica stizzita di un vecchio malaticcio e prossimo a morire, contiene invero molta della poetica di Malamud, che trova nella sospensione del tempo uno degli elementi più essenziali alla sua riuscita.

Se Roth infatti attualizza la tematica ebraica – cambiandone lo sguardo, innovandone la forma – Malamud la universalizza. Questa scelta, che pure nasce da un pensiero elementare, modifica la conduzione della narrazione, che non può più limitarsi a essere un racconto, ma che deve farsi parabola – una parabola dell’Uomo. È chiaro che in questo senso le Sacre Scritture costituiscono il modello più eminente, ma Malamud riesce comunque a defilarsi, e lo fa con le sottigliezze proprie dei grandi autori. In “La dama del lago” (1958), per esempio, è l’empatia del narratore esterno che filtra attraverso un paio di annotazioni altrimenti pleonastiche: «Ahimè, queste parole cominciavano ormai a suonare un po’ comiche», o ancora, «gli innumerevoli ostacoli che sorgono fra stranieri, accidenti a questa parola».

Nello specifico, il racconto rappresenta una sorta d’inversione alla struttura classica di Malamud, che è solita poggiarsi su un incipit cupo e cronistico. Qui, invece, il protagonista ci viene presentato come un «trentenne bello e ambizioso», che sceglie di rinunciare alla propria identità di ebreo per costruirsene una fittizia. Il nome che il giovane prende, una volta arrivato a Parigi, è di immediata ricostruzione: Henry Freeman; quasi che possa servire al mondo come dichiarazione della propria libertà.

Il tentativo di Freeman, nato Levin, è quello di emanciparsi dalla propria eredità genetica, ma allo stesso modo è anche la possibilità di un riscatto tutto personale, una cesura netta tra prima e dopo. Questa divisione del tempo, che è un’operazione umana e quindi arbitraria, conferisce agli individui l’illusione di un potere che non possono scegliere. Di fatto, se pure ogni racconto evidenzia, più o meno segnatamente, la distanza tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere, a dominare è sempre lo status quo. C’è di più: questa distanza alimenta un interrogativo primordiale – cosa siamo e cosa siamo destinati a essere. L’intera filosofia ebraica, tuttavia, scongiura il fatalismo e si fonda sul valore della responsabilità individuale, e in ogni racconto Malamud si allinea a questa credenza.

Esistono però tre “sguardi” interni a una storia – a ogni storia, al di là di Malamud – e raramente si trovano a coincidere: ci sono i personaggi, c’è il narratore e c’è, naturalmente, l’autore. Se il narratore, come detto, empatizza con il proprio personaggio, l’autore resta al di sopra delle parti e si caratterizza soprattutto per un’ironia semplicemente disarmante (per i lettori quanto per i personaggi). L’autore inventa la storia e ne architetta i risvolti di trama, e il narratore la racconta. Al termine di questa storia, Freeman, che ha avuto la possibilità di compiere il proprio riscatto e abbracciare l’amore, si ritrova ad abbracciare «solo la pietra rischiarata dalla luna» – e, anche se il racconto termina qui, è facile intuire che questo fallimento si tradurrà con un ritorno alle origini. È facile, ma appunto non è importante quello che viene dopo. Si tratta di qui e di adesso, perché può valere per sempre – e perché forse vale per sempre?

Alla base, come detto, c’è un pensiero elementare: se l’ebreo è (semplificando) un emarginato, allora può essere il modello dell’emarginazione. Se l’ebreo è un colpevole, allora può essere il modello della colpa e della colpevolezza. Ma i racconti di Malamud si prestano anche a una riflessione interna al discorso ebraico, quantomeno nella relazione che c’è tra dogma e libertà, tra fede e credenza, e soprattutto fra tradizione e apertura al nuovo. Come sottolineato dallo stesso Malamud, la diaspora degli ebrei ha fatto sì che questi si ritrovassero a vivere in ogni parte del mondo. Ne consegue che la tradizione ebraica ha finito – o finirà – di rispondere ai precetti con la rigidità di un tempo – che è un destino, questo, comune a tutte le religioni.

L’America è dunque il luogo ideale della mescolanza («un posto che non conosce il concetto di esclusione»), e seppure sopravvivono i ghetti, anche gli ebrei arrivano a confondersi agli americani, tanto da influenzarne la cultura. In questo senso la memoria assume il valore fondativo dell’identità di un popolo, ma è anche lo strumento di lettura a un percorso individuale (“quello che sono” rispetto a “quello che ero”) quanto collettivo (“quelli che siamo” rispetto a “quelli che eravamo”). Questo valore di memoria si traduce presto in una logorante idea di fedeltà – a noi stessi, anzitutto, e quindi a ciò che abbiamo amato, a ciò a cui siamo appartenuti – il cui tentativo di affrancamento sfocia sovente in un nulla di fatto. Ma anche questa fedeltà gioca su una contraddizione intestina tra ciò che vogliamo e ciò che siamo portati a fare, e così ogni personaggio è il soppressore di una propria tentazione, dell’enunciazione di una frase, del compimento di un gesto.

Malamud catalizza molte tematiche del Novecento, dalla frantumazione della verità all’incertezza della parola, ma lo fa sommessamente, attraverso una prosa limpida che svela le mancanze degli uomini e dei rapporti senza però urlarle, sbrogliando la complessità delle storie senza rinunciare alla virtù della penna (si legga in proposito lo strepitoso incipit di “I primi sette anni”, autentico capolavoro di introduzione alla storia, ai personaggi e ai loro legami).

Nonostante la sua popolarità sembri oggi in appanno, circoscritta soprattutto agli ambienti letterari e un po’ adombrata dalle altre figure, Malamud ricevette in vita numerosi riconoscimenti, ma anche più rilevanti furono gli attestati di stima che riscosse dai colleghi. Al di là degli lodi di Saul Bellow e dello stesso Philip Roth – che confessò che alcuni dei suoi racconti fossero tra i migliori di sempre – resta particolarmente significativo l’elogio di Flannery O’Connor, che ammise candidamente: «è più bravo di me». Ed è particolarmente significativo proprio perché Flannery O’Connor rimane forse insuperabile nella tecnica del racconto e perché con Malamud condivide lo stesso terreno di gioco – su cui, pure, i due scelgono di muoversi diversamente.

Se entrambi eccellono per la solidità strutturale e per la pulizia della frase, è innegabile che nella O’Connor è presente una maggiore varietà di simboli e di sottotesti, laddove, in Malamud, la decodifica appare invece più immediata. Questa immediatezza, vera o illusoria che sia, è data giocoforza dall’impronta parabolica che assumono le sue storie. Per approdarvi, Malamud opera un sensazionale lavoro di cesellatura del testo, che riduce ai propri elementi essenziali. L’operazione tuttavia non sottrae la ricchezza ai racconti, ma conferisce loro un ordine e una completezza che hanno pochi rivali nella storia della letteratura.

 

(Bernard Malamud, Tutti i racconti, trad. di Giovanni Garbellini, Igor Legati, Vincenzo Mantovani, Donata Mignone e Ida Omboni, Minimum Fax, 2019, pp. 1004, euro 30, articolo di Giuseppe Del Core)

 

Ade Zeno copertina

Malinconia e mostri,
incanto su tela

«Ho sempre confidato nella sacra legge secondo cui l’immaginario è legittimato a divorarsi la verità come meglio crede». Partiamo da qui, dalla nota di Ade Zeno a chiusa del suo romanzo, a cui lui si riferisce semplicemente come a «l’Incanto». È chiamato in causa l’immaginario, dunque quel complesso insieme di sensazioni, sensibilità, tonalità, immagini proprie di ciascuno, e la parola «divorare». L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri, 2020) è infatti un libro in cui sono molto forti sia la componente onirica sia la componente cruda e corporea, legata proprio all’atto del consumare, fare a pezzi, distruggere.

In parte intessuta di elementi autobiografici, è la storia dell’impeccabile professionista Gonzalo, letterato di belle speranze prima e in seguito cerimoniere funebre, e del suo innominabile lavoro. Il lavoro innominabile non è quello di cerimoniere impiegato presso la Sala del Commiato di una grande Società per la Cremazione, ma quello che accetta dopo, pagato dieci volte tanto proprio in virtù della sua eleganza e cultura, della sua discrezione, del suo bell’aspetto, della sua metodica efficienza: procurare nutrimento, ovvero vittime, alla inquietante Signorina Marisòl, capostipite di una ricca e potente famiglia che «somiglia più a una stirpe, o se preferiamo a una tribù di consanguinei radicata nei tessuti di questo Paese da oltre un secolo». Irretito dal sinistro emissario Malaguti, che sembra sapere tutto di lui sin nei particolari più privati, Gonzalo si mette al soldo della famiglia, diventando co-responsabile e testimone delle mattanze compiute ogni settimana dalla Signorina.

Il motivo potrebbe apparire come un’attenuante, anche se l’autore si muove in altra direzione: l’amatissima figlia di Gonzalo, Inés, colpita da un male sconosciuto all’età di otto anni e in coma, grazie alla scelta del padre potrà essere ricoverata nella costosissima clinica privata di “Villa Ruben”, e forse curata. Ma il mistero e le reticenze di Gonzalo attorno al proprio lavoro gli costano la sua relazione con Gloria, madre di sua figlia, che decide di non scendere a compromessi con i silenzi di lui.

Il meccanismo narrativo, sorretto peraltro da una forma espressiva di qualità anche se semplice, si attiva sin dalle prime pagine, e fa pensare a una regia consapevole capace di muoversi agilmente tra i piani temporali costruendo un’alternanza di presente e salti all’indietro, con fermo immagine al momento giusto ed effetti di dilatazione o cristallizzazione del tempo.

Ade Zeno taglia il superfluo – i capitoli non hanno nome, il discorso diretto è alleggerito dei segni tipografici – e dà vita a una galleria di personaggi emblematici con nomi dal sapore vagamente sudamericano (Miguel, Malaguti, Inés, Adolfo Lentini, lo stesso Gonzalo) oppure particolari, come il femminile Maylis, la intrigante receptionist di Villa Ruben. Ci sono poi Camelia, la giovane e temuta “nipotina” di Marisòl, dentini aguzzi e sorriso d’avorio, e i due arcangeli del male Zoran e Bardem, i gorilla della Signorina a metà tra gangster e creature bibliche.

«Mi piaci, Gonzalo. Mi piaci perché sei strano. Qualcuno una volta ha detto che la stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato», dice al protagonista Nardi, il suo mentore e predecessore in qualità di procacciatore di cibo per la mostruosa Signorina.

Oltre ai dettagli fisici e cruenti, l’autore inserisce nel libro almeno tre altri temi: quello dell’amore tra padre e figlia e del rapporto con la malattia, filtrato attraverso la musica, quello dell’essere continuamente sotto scacco, osservati – infatti Gonzalo risulta essere costantemente tenuto d’occhio dalle diverse parti in gioco, in un’ansiogena atmosfera di mancanza di privacy –, e quello della non troppo velata critica a certo tipo di cultura, a certo modo di fare informazione.

Mentre per dare corpo e passato al rapporto padre-figlia vengono immaginate delle fiabe, come “La storia del Re Tristezza e del pesce luna”, la preferita di Inés, per rappresentare questa compagine culturale da contestare viene tratteggiato il personaggio dello scrittore Adolfo Lentini.

Adolfo Lentini è il numero uno tra «quelli che amano sposare le cause giuste al momento giusto. Quelli che si indignano per scandali politici, corruzione, guerre di religione e respirano meglio quando viene loro offerta la possibilità di fimare petizioni contro la fame nel Terzo mondo. Quelli, insomma, che sfoggiano sul comodino la copia abbonati di “Theorema”, il settimanale più venduto del Paese, di cui Lentini è un’autorevole firma».

«Protégé di un ricco imprenditore argentino», Lentini ha conquistato «il consenso della borghesia cosiddetta intellettuale, colta, buonista e benestante». Persino il suo aspetto, rispetto all’aura di tranquilla sicurezza maschile emanata da Gonzalo, risulta antipatico, insufficiente: «Il profilo ossuto, quel naso ricurvo, le labbra sporgenti che provano a nascondere una dentatura irregolare», e una «languida effeminatezza in perfetta armonia con la postura molle e la cadenza mielosa della voce». Ma, poiché questo è il romanzo delle contraddizioni, in Lentini si nasconde l’uomo d’azione.

In L’incanto del pesce luna è netta l’alternanza tra passaggi di una concretezza che impatta con forza e impressiona, e passaggi umbratili, soffusi, evanescenti, in cui i piani si sfiorano e trascolorano l’uno nell’altro come attraverso una nebbiolina.

La stessa “realtà” del romanzo, cioè la sua ambientazione, il suo spazio-tempo, è ambigua, molto connotata ma mai immobilizzata in un nome, un riferimento geografico. I luoghi sono delle entità: il Tempio Crematorio. Villa Ruben. Una grande città. Villa Marisòl. Un posto sicuro dove fuggire.

Gonzalo è un personaggio riuscito perché non si spiega, è un protagonista che agisce e basta. Siamo dentro i suoi flussi di coscienza, talvolta dentro i suoi ricordi, ma non cogliamo mai i meccanismi psicologici: ci limitiamo ad ascoltare le risposte che dà.

È un romanzo, per certi versi allegorico, che gioca molto sulle antinomie, e che non ha l’intento di insegnare qualcosa di morale. Pur giocando sull’evanescenza dei riferimenti e costruendo un non-luogo a sé in cui cose molto strane possono accadere e sono anzi normali (come in una specie di Gotham City, ancora più tenebrosa), la storia scorre molto bene senza sforzo, mantenendo avvinta l’attenzione.

È un libro raccolto su se stesso e con regole che funzionano solo entro i suoi confini: ma regge. E dopo essere stato spiazzante e violento – questo nonostante il leitmotiv della malinconia, e numerosi piccoli cammei di tenerezza – riesce perfino a terminare in un respiro vitale, vitalistico, in un’ombra di romanticismo.

 

(Ade Zeno, L’incanto del pesce luna, Bollati Boringhieri, 2020, pp. 192, euro 16,50, articolo di Teodora Dominici)
poster italiano di jojo rabbit

Distruggere l’orrore con la fantasia

Le sei nomination agli Oscar per Jojo Rabbit sono una ventata di freschezza per un cinema che troppo spesso ha timore di confrontarsi in modo originale con la storia. Dopo il successo internazionale di Thor: Ragnarok, il neozelandese Taika Waititi esordisce con il suo primo film statunitense fuori franchise con coraggio e personalità.

Dietro Jojo Rabbit c’è il libro di Christine Leunens Come semi d’autunno (in Italia è stato pubblicato per la prima volta nel 2006 da Meridiano Zero), ma è solo un pretesto. Waititi, anche sceneggiatore, ha adattato il romanzo alla sua idea di cinema alleggerendone il contenuto ma senza perdere il giusto rispetto per l’argomento.

Nella Germania del 1945, il giovanissimo Johannes Betzler ha un amico immaginario, Adolf Hitler, il suo idolo assoluto, che lo consiglia e lo guida nel suo sogno di diventare un soldato al servizio del Reich. Dopo che un incidente al raduno della Gioventù hitleriana lo sfigura, Jojo, come lo chiamano tutti, si rinchiude in casa. Scopre così che sua madre nasconde una ragazzina ebrea e tutte le sue certezze iniziano a traballare.

Elenchiamo brevemente le cose che sembrerebbero assurde se non facessero parte dell’ottimo equilibrio di Jojo Rabbit: i titoli di testa uniscono immagini reali di adunate naziste a “I Wanna Hold Your Hands” cantata dai Beatles in tedesco; l’Hitler immaginario di Jojo si nutre di carne di unicorno; in una scena una decina di personaggi nella stessa stanza dicono «Heil Hitler» più di venti volte; un bambino si ferisce a una gamba lanciando un coltello; un bambino distrugge un negozio facendo cadere un lanciarazzi; un ufficiale delle SS affronta gli alleati conciato come un’icona camp.

Taika Waititi ha creato una favola nera irriverente e poetica, che diverte e commuove. Nella solitudine di Jojo ci sono proiettate le paure di tanti bambini: quella di non essere accettati, di venire abbandonati, di essere esclusi. La passione fanatica per il nazismo non è politica, è una disperata ricerca di appartenenza.

Per scavare in questa fragilità Waititi ha scelto una leggerezza vista poche volte al cinema per parlare di nazismo. Vengono in mente Vogliamo vivere Ernst Lubitsch, o il folle musical Springtime For Hitler all’interno di Per favore, non toccate le vecchiette di Mel Brooks, al massimo, ma messi in scena come se fossimo in un film di Wes Anderson meno patinato.

Per mettersi al riparo da qualsiasi tipo di polemica, il regista si è riservato il ruolo di Hitler. Per lui, maori di madre ebraica, è un modo inequivocabile per sottolineare la distanza da qualsiasi rischio di banalizzare il male. Al suo fianco sorprende l’ottimo esordio di Romain Griffin Davis (classe 2007) nei panni di Jojo , subito nominato ai Golden Globe come protagonista.

A rubare la scena, però, è una Scarlett Johansson perfetta, che conferma dopo Storia di un matrimonio il 2019 come il miglior anno della sua carriera interpretando la madre di Jojo con forza e delicatezza. La scena in cui si traveste dal padre del bambino, scomparso in guerra, ci ricorda tutta la sua bravura degli esordi.

(Jojo Rabbit, di Taika Waititi, 2019, commedia, 108’)

sorry we missed you poster italiano su Flanerí

Amazon rende liberi?

Sorry we missed you è forse la frase che l’Academy dovrebbe rivolgere a Ken Loach, guardando in retrospettiva alla sua carriera ignorata dagli Oscar, o anche solo a questo ultimo film da cui può prendere in prestito il titolo.

Anche questa volta Loach si dimostra un mostro di coerenza: in un tempo in cui a farla da padrone sul grande schermo è un cinema definibile come “puro”, fatto di intrattenimento e di estetica, l’inglese non cede di un millimetro di fronte alle lusinghe della macchina da presa.

Realtà: non serve altro a Sorry we missed you per colpire lo spettatore sotto la cintura, cogliendolo privo di difese e giustificazioni.

Loach mostra in presa diretta la vita di Ricky e della sua famiglia, naturalmente working class, naturalmente in una città poco patinata come Newcastle: la scelta dell’ambientazione lega a doppio filo Sorry we missed you al suo predecessore, Io, Daniel Blake, Palma d’Oro a Cannes nel 2016.

Ricky Turner ha perso la sua occupazione nell’edilizia, e cerca una nuova opportunità: è l’occasione perfetta per diventare una sorta di corriere freelance, sotto l’egida di una grossa azienda. Il nuovo lavoro lo assorbirà completamente, erodendo gli ultimi granelli dell’indipendenza che la famiglia Turner aveva faticato per ottenere.

Dalle prime battute la vita reale sconfina nel film, ed è chiaro che nessuna magia cinematografica salverà la situazione. Oppure, seguendo un’altra chiave di lettura, si potrebbe dire che la realtà è talmente assurda che, per farne cinema, non occorre alcun orpello.

La realtà di Amazon – per citare solo la punta dell’iceberg – è assurda e cinematografica in sé, proprio come lo era la catena di montaggio per il Chaplin di Tempi Moderni: la differenza, ci dice Loach, è che forse, se non abbiamo ancora afferrato il messaggio, non è più il caso di riderci sopra, ed è anzi urgente un corso di aggiornamento.

Questo è Sorry we missed you: un Tempi Moderni 2.0, spogliato dell’ultimo elemento distanziante, ossia la risata.

È assurdo che qualcuno possa lasciarsi tentare dalle sirene della gig economy, che promette flessibilità dando l’illusione di poter essere nuovamente imprenditori di se stessi; tuttavia, è proprio questo che accade a Ricky, che si convince di aver avviato un’attività in proprio, senza accorgersi di essere diventato schiavo di un nuovo padrone: l’odiosa scatoletta nera che ronza e fa bip di continuo, che contiene i dati dei pacchi da consegnare, i percorsi, le statistiche, e che lo richiama all’ordine – bip, bip! – se sta fermo fuori dal suo furgone per più di due minuti.

Loach – insieme al suo storico sceneggiatore, Paul Laverty – racconta la storia dell’illusione di Ricky in modo spietato e studia con approccio veristico gli effetti della nuova modernità su chi in essa ripone le proprie speranze.

Per farlo così bene, occorrevano il coraggio della sottrazione e la forza schietta della semplicità: al primo sono ascrivibili le scelte di azzerare la colonna sonora e di avvalersi di attori sconosciuti, i cui volti mai sembrano “recitare”; per quanto riguarda la seconda, invece, alcuni hanno visto nel film un atteggiamento più semplicistico che semplice.

È vero: il film taglia con l’accetta certi personaggi, presentandoli come figure archetipiche, in primo luogo Sebastian e Liza Jane, i figli di Ricky, ma anche sua moglie Abby.

Seb è un classico adolescente: cappuccio in testa, graffiti, incazzato col mondo in maniera del tutto innocua. Liza Jane è una classica pre-adolescente: scuola, amiche, non più di quindici minuti al computer prima di dormire. Abby è una classica madre-lavoratrice: infermiera a domicilio per anziani e disabili, fa turni massacranti, nutre e lava con il sorriso i suoi pazienti, che le danno in cambio il contatto umano, nonostante tutto.

Ciò che incrina l’equilibrio, allora, è proprio il nuovo lavoro di Ricky: disumano, spersonalizzante, annichilente. Tutta la sua famiglia ne è investita: da qui nasce il graffito ripetuto di Seb, che mostra due facce con lingue di serpente – allegoria dei suoi genitori che litigano –; da qui nasce l’idea di Liza Jane di rubare le chiavi del furgone. «Vogliamo solo che tutto torni come prima», sono le parole rivolte al padre.

La semplicità, dunque, si rivela un valore aggiunto ed imprescindibile: solo così Loach può far capire allo spettatore che il vero nemico è qualcosa di più grande, che dall’esterno agisce in maniera arbitraria sull’interno. La disperazione vera sopraggiunge nel rendersi conto che questo qualcosa è il lavoro: ciò porta Ricky ad avere costantemente l’impressione di stare facendo la cosa giusta, di stare lavorando per la propria famiglia.

Proprio qui sta la forza di Sorry we missed you: Loach è lucidissimo nel leggere e mettere a nudo le contraddizioni intrinseche al nuovo approccio al lavoro, alla sua contaminazione, tipicamente tardo-capitalistica, con la tecnologia e con il miraggio di un’indipendenza illusoria, basata sul controllo, anzi, sull’ossessione.

«Abbiamo del tempo da recuperare» dovrebbe essere la lamentela rivolta a Ricky dalla sua famiglia, ma la realtà del capitalismo è più assurda di così: la frase è rivolta ai corrieri dal capo dell’azienda.

Le contraddizioni riguardano tutti: Sorry we missed you ci mette di fronte allo specchio, quale che sia il nostro ruolo.

I lavoratori avranno chiaro il modo in cui viene sfruttato il loro tempo, e vivranno il dramma di Ricky: continuare a lavorare per garantire un futuro alla propria famiglia, perché non si ha altra scelta. Persino i malviventi che pestano il protagonista verso la fine del film non fanno la figura dei “cattivi”, essendo corollari del meccanismo a ruota dentellata che è il “devo andare a lavorare”, sempre e comunque. Un “cattivo” che un uomo solo non può sconfiggere.

I giovani che si affacciano al mondo del lavoro avranno quasi vergogna del loro futuro: potrebbero finire come Ricky, proprio come dice Seb, perché lo scenario non presenta molte alternative. Fare l’università, certo: ma chi paga? I genitori, lavoratori come Ricky: i figli lo devono permettere?

Poi ci sono tutti gli altri, coloro che guardano dall’esterno la famiglia Turner divorata dal capitalismo tecnologico del nuovo millennio. L’errore da non commettere sarebbe quello di sentirsi assolti. Loach non lo permette: siamo tutti coinvolti, nella misura in cui siamo tutti clienti di Ricky. Chi non ha mai ordinato nulla su Amazon – o su IBS, o su qualsiasi piattaforma di e-commerce – scagli la prima pietra.

Di nuovo, il cul de sac: come reagire? Non comprando più su Amazon, facendolo fallire? Che ne sarà a quel punto dei milioni di lavoratori che perderanno il posto?

Sorry we missed you propone una via d’uscita, nonostante la secchezza in gola che lascia.

Per costruire un futuro alternativo, i Ricky, i Seb, le Liza Jane del mondo devono andare a lavorare con Abby: non sia mai che una delle “sue anziane” abbia una serie di foto che ritrae la mensa dei minatori britannici durante lo sciopero generale del 1984-1985 contro il governo di Margaret Thatcher. Qualcosa su cui meditare, ancora più uniti, per ripartire senza fare la stessa fine.

(Sorry We Missed You, di Ken Loach, 2019, drammatico, 100’)

Lina Pietravalle, una scrittrice dimenticata

Di Lina Pietravalle, o Lyna come si firma vezzosamente nei suoi primi libri, attualmente non è in commercio alcun lavoro. Nessuna novella, nessun romanzo, nessuna raccolta di racconti, niente circola della sua produzione, neppure quel Storie di paese, che le valse il secondo posto al Premio Viareggio nel ’31.

La fortuna critica di quest’autrice è stata ingiustamente breve, purtroppo in parte a causa di pregiudizi di genere; dove per genere s’intende sia quello letterario, che quello biologico. Riguardo quest’ultimo è noto, infatti, che la storia della letteratura femminile italiana di fine Ottocento e inizi Novecento è in gran parte frutto di riscoperte postume, se si escludono rari casi (Serao, Deledda). Riguardo il genere letterario, invece, la Pietravalle, oscilla tra il decadentismo dannunziano e il verismo di Verga, non aderendo pienamente a nessuna delle due correnti, e in questo limbo finisce per rimanere, ben presto espunta dalla rubricatura critica, scomparendo così dall’albo degli scrittori illustri già nel secolo scorso.

Ma la voce di questa scrittrice è forte e sorprendentemente moderna, e il pregiudizio di genere oggi non regge più come scusa per la sua damnatio memoriae.

«“La salute Gatà” gridò lietamente mio marito “è manza la cavalla della Novella mia?”

“È manza, con tutt’onore”.

“Ti piace Gatà, la Novella?”

“Adda piacere a voi e speriamo che faccia figli”.

“E perché non li deve fare?”

“Ah padrone, che t’ho da dire? È troppo sonella”.

Questo sonella, ossia snella, passò poi alla leggenda domestica e ridi e ridi non finimmo mai di ridere. Figurarsi allora. Si levava il sole dietro Monte Totila, quadrato, barbaro, cinto di spade e di fulmini d’oro come un Dio olimpico». (da Marcia nuziale).

 

 

È evidente che la Pietravalle guardi ai veristi, ma in quel mondo realistico che pure lei costruisce, inscrive l’autobiografismo, alternando al racconto oggettivo la narrazione in prima persona, così come il linguaggio muove tra gli arcaismi, le frasi solenni, e i dialettismi e il linguaggio colloquiale.

Vero protagonista delle opere è un «sud arcaico, terra di tradizioni, mondo agro-pastorale non contaminato dalle forme della vita urbana, primitivo, di valori non compromessi, di forti sentimenti e passioni». E la descrizione dei luoghi, della terra per cui prova amore e che descrive a volte in maniera antropomorfa, a volte con toni mistici ed estatici, fa da controcanto a quella dei personaggi che sembrano impastati con la stessa materia del paesaggio.

«Passavano accanto uomini scabri e taciturni e pecorelle con vaghi ciuffi d’erba in bocca, filettate di luce come nelle immagini sacre. Le poppe azzurrine dondolavano. “Prà, prà, prà… Ziré, ziré” chiamavano i pastori. E lui amorosamente spiegando: “Ti piace? Lo senti com’è poetico questo linguaggio? Ziré vuol dire sorè, sorelle. Essi chiamano le pecore sorelle”». (da Marcia nuziale).

Alcuni critici le rimproverano proprio la passione nel linguaggio, una sintassi che si scompone, si scapiglia e finisce per esagerare nell’essere troppo partecipata e schietta con una «vena di umorismo caricaturale e grottesco, quasi al limite dell’espressionismo». Un linguaggio che a volte sfocia in barocchismi ed eccessi retorici, cui presto però ci si abitua, e la voce dell’autrice diventa una musica cui ci si abbandona volentieri: «“Va, core di mamma, dalla commare Santa e fatti dare due foglie di prezzemolo”. Il bambino tornò trampolando e tutto schiacciato nel pugno portava il prezioso messaggio. Ma la madre non c’era. Egli piagnucolò un poco sulla porta. “Oi mà, oi mà…” ed allora una vicina s’affacciò dalla finestra e lo consolò come poteva: “Zitto, citolillo, che tua madre è andata a fare una masciata”, oh, che masciata lunga! Lunghissima. Aspetta, aspetta. Col suo prezzemolo in mano, seduto sullo scalino diruto della porta bassa della casupola, ha aspettato degli anni con quella voce stracca della madre sparita, nell’orecchio, malinconiosa come il suono dei campanacci delle pecore che vanno in Puglia quand’è ovattato nella nebbia: “Va, core di mamma dalla commare Santa…” Anni erano passati». (da I racconti della terra).

L’accoramento di Lina non risponde a una nuova visione della letteratura che prevede l’impegno politico, quella arriva più tardi e il nome della Pietravalle viene presto rimpiazzato con quello di Silone, Alvaro e Jovine, il cui approccio nei confronti della realtà che narrano ha una diversa consapevolezza. Gramsci, nei Quaderni del carcere, prende spunto da un appunto sul romanzo Le catene (1930) per ragionare sulla distanza ideologica tra il naturalismo francese e il verismo. Nel «realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga: il popolo della campagna è visto con distacco, come natura estrinseca allo scrittore, come spettacolo naturale, un distacco appena velato da un sorriso bonario ed ironico». Sottintende chiaramente una distanza tra l’autrice e il mondo che descrive, cioè la mancanza di compenetrazione tra il mondo borghese-aristocratico della Pietravalle e quello rurale. Ma poi Gramsci afferma: «Le si perdona volentieri la sua sintassi da terremotata per merito di quel suo piglio franco e di quel linguaggio immaginoso […]. Ma vero è o non vero questo Molise fattucchiero, tarasconesco e attaccabrighe della Pietravalle? Aspetto di andarci».

Se pure riceve alcune critiche negative, soprattutto in occasione del suo primo romanzo, molti sono i sostenitori della scrittrice, tra questi c’è Curzio Malaparte che si dice «suo amico, suo ammiratore e suo alleato». Ma se si può discutere su quanto la scrittrice abbia abbracciato una visione marxista della società, è invece indiscutibile la franchezza della narrazione nella misura in cui parla della sua vita attraverso i personaggi che costruisce e che direttamente o indirettamente vivono la sua vita.

 

 

Nata in Puglia, a Fasano, da genitori molisani, fece del Molise la sua terra d’elezione e vi ambientò quasi tutti i suoi scritti, annettendo, così, «il Molise alla letteratura, come Grazia Deledda ha annesso la Sardegna e Matilde Serao Napoli», ebbe a dire il Tilgher.

La sua attività si attesta a partire dalla metà degli anni Venti fino al 1932, anno dell’uscita di Marcia Nuziale.  Viene edita da Mondadori prima e da Bompiani poi (postuma da Ceschina), nel frattempo pubblica novelle su alcuni giornali nazionali. Molti eventi tragici personali condizionano la vita della Pietravalle, a cominciare dall’assassinio del padre medico, deputato radicale e vicepresidente della camera dal ’19, ucciso da un suo paziente. Il primo matrimonio di Lina con il giornalista Pasquale Nonno, di cui parla nel libro La marcia nuziale, fallisce presto e, dopo alcuni anni, sposa il fratello dello scrittore Riccardo Bocchelli, Giorgio, ma questi muore in guerra. Negli anni Trenta lavora anche per il cinema, ma a seguito della morte dell’unico figlio, avvenuta nel 1944, si dedica solo alla scrittura di elzeviri su vari quotidiani (“Il Tempo”, “Il Mattino”, “Il Messaggero”), fino al 1956, anno della sua morte.

«Parlerò delle mie prime nozze e dell’arrivo in terra di Molise come di un fatto leggendario successo ad una larva di me che guardo curiosamente come una di quelle farfalle irrigidite nei vaghi colori, col corsaletto fulgido trafitto dall’inesorabile spillo. Vissero, non vissero? Attraversarono un giorno il sole, inebetite dall’ubriachezza della vita effimera? V’erano alberi mansueti, cieli clementi e fioretti gentili che guardavano volare i pappi di seta, i calabroni d’oro ed anche queste grandi farfalle con gli occhioni sporgenti, tatuate ed ingemmate come regine. Ma il perfido amator era in agguato con lo spillo assassino e addio, povera farfalla! Sempre viva, uguale, vitrea pare ma non c’è più davvero». (da Marcia nuziale)

Nonostante il mercato editoriale, ça va sans dire, viva di mode, di rapide infatuazioni di editor o editori, quando gli editori o le mode passano, le copie si esauriscono e i magazzini si svuotano, e siccome non tutti gli scrittori resistono allo stesso modo al tempo, per molti non esiste una seconda primavera. Questo, almeno in parte, è quello che è immeritatamente accaduto a Lina Pietravalle. D’altronde accade alle volte, che qualcuno in cerca di qualche bel recupero finisca per rovistare in vecchi cataloghi o incappi in qualche articolo in rete, e riscopra antichi tesori finiti tra le cose dimenticate o da buttar via. Nell’attesa che questo miracolo accada, per leggere la Pietravalle non restano che i mercatini.

 

Sappiamo cosa farai da grande, Lucio

Lucio Corsi è bravo. Lucio Corsi è molto bravo. Lo si capiva già con il suo primo album, Bestiario musicale; lo si comprende ancora di più oggi con il suo Cosa faremo da grandi?. Se avesse passato gli ultimi dieci anni nascosto in una cascina della maremma senza internet la reazione di chi lo ascolta non sarebbe potuta che essere: “Bè, come avrebbe potuto scrivere altrimenti una cosa del genere?”. Sembra non essersi reso di come sia mutato il panorama musicale in questi tempi.

Si è messo in mezzo a qualcosa che sembrava più grande di lui, ma che ora dovrà fare i conti con lui. O almeno la speranza è questa. Che questo lavoro possa provare a scardinare certe regole della normalizzazione della banalità.

Lucio Corsi ha sicuramente avuto la fortuna di esser capitato tra le mani di Francesco Bianconi, che lo tratta come una sorta di figlio e che in quest’ultimo lavoro è stato il produttore. E si sente il tocco del leader dei Baustelle. Sarebbe stato impossibile diversamente.

Bianconi, però, non è stato ingombrante, anzi. È stato capace di far splendere Lucio Corsi, facendogli fare un salto enorme in avanti rispetto al suo giovanissimo passato.  Cosa faremo da grandi? è chiaramente un’evoluzione di Bestiario musicale.

Lucio Corsi è un rischio. In un mercato che ha trovato l’ennesimo modo per produrre soldi, l’itpop, l’indiestream,  Lucio Corsi è più che un rischio. Lucio Corsi è un enigma che si insinua tra le crepe del mercato e, di riflesso, tra quelle di un pubblico sempre più confondibile.

Un ponte tra sé e chi lo ascolta lo ha iniziato a costruire con la sua immagine. Siamo d’accordo su questo. Discorso che viaggia in parallelo con Liberato: mentre l’artista che canta in napoletano finge di sottrarre la sua immagine (sottraendo la sua identità), Lucio Corsi esaspera la sua immagine ed esaspera la sua identità, andando a calcare questa sua androginia, giocando a fare il David Bowie, cercando di turbare. (Altro parallelismo con Liberato riguarda i video: da Cosa faremo da grandi? esce un mediometraggio diretto da Tommaso Ottomano con Lucio Corsi protagonista).

I discorsi sull’immagine, però, possono suonare un po’ come quelli sulle copertine parlando dei libri. Perché parlare di come L’eccentrico Lucio Corsi sia diventato anche testimonial Gucci trova un po’ il tempo che trova. Sì, Lucio Corsi può sembra un po’ strano vestito in quel modo, qualcuno dirà pure “Ma chi crede di essere questo, Marc Bolan?”. Ma ci interessa davvero? Ma poi strano per chi? Meglio interessarsi a quello che scrive.

Già Bestiario musicale è un’idea folle solo da pensare, oggi. Ancora di più lo è metterla in pratica. Quell’album che sembrava un quadro di Antonio Ligabue messo in musica da un racconta fiabe allucinato. Quella fuorviante infantilizzazione del pop cos’era se non un suo tentativo di metterci alla prova. A quale specie si riferiva Lucio Corsi? Dietro a un universo costellato di immagini proto infantili di un mondo fatto di animali e insetti usciva fuori una narratore potente e denso di significato, che parlava di esseri umani.

Questa sorta di Ivan Graziani messo in Velvet Goldmine con Cosa faremo da grandi? scrive uno dei migliori album italiani degli ultimi anni. Senza senza, senza ma. Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno in un album. Una voce sicura, vera. Possiamo scomodare un aggettivo pericolosissimo: autentica. Ma che addosso a Lucio Corsi sta bene. Un linguaggio  che sembra muoversi con le logiche sconnesse dei sogni, assemblato per assonanza di immagini, per nulla conforme con quello che c’è in giro. E in questo può ricollegarsi paradossalmente a Vasco Brondi. Uno indirizzato verso il Paradiso, l’altro verso l’Inferno. Un’orecchiabilità sincera, non facilona o fastidiosamente costruita per rimanerti in testa come il jingle di una pubblicità.  A completare il tutto, l’autore di Pigro presente come bellissima ispirazione.

“Cosa faremo da grandi?”, il brano d’apertura, è l’esempio di come oggi dovrebbero essere scritte le canzoni. Di come dovrebbe essere fatto il pop, che sorregge una poesia esistenzialista che si prende la responsabilità di ciò che dice. Senza lasciare il tutto a un generico menefreghismo tanto è uguale. Sommiamo questo, poi, al contrasto con l’acidità della chitarra di “Freccia Bianca” e Lucio Corsi realizza uno dei migliori incipit possibili.

Cosa faremo da grandi? si muove tra ballate e immagini oniriche che vanno a sbattere costantemente (“ci sono troppe pareti, troppi muri dove sbattere la testa” canta in in “Freccia Bianca”) contro la concretezza di ciò che pensiamo come realtà, attraverso una lingua che cerca di innalzarla verso qualcosa che si spinga al di là della fisicità, del dolore e dalla sua triste finitezza, per consolarci. Per allietarci, tenendoci comunque sempre sull’attenti. Perché è vero, nemmeno da vecchi sapremo cosa faremo da grandi.

C’è poco da fare: Lucio Corsi ha addosso quella materia incorporea, quella magia rara. Lucio Corsi è semplicemente la speranza di una nuova generazione di cantautori.