Copertina di L'evento di Annie Ernaux

Memoir solitario

Come in tutti i romanzi precedenti, anche in L’evento (L’Orma editore, 2019) Annie Ernaux non si risparmia e non ci risparmia niente dell’avvenimento che da individuale e segreto assume la forza della testimonianza universale, che travalica il personale per diventare storia, legge, politica.

La Ernaux ricostruisce, con la sua scrittura precisa e sincera, l’ottobre dei suoi ventitré anni, la scoperta solitaria di essere incinta, le riflessioni sullo spartiacque che questo rappresenta.

Ricorda le reazioni degli altri, che vanno dalla morbosità alla fascinazione all’indifferenza. Riconosce che pure vi è stato qualche sprazzo addirittura di luce. Si rivede girovagare per strada senza meta, ripensare a quei momenti in forma letteraria, trovare assonanze metaforiche nei titoli di Céline e di Nietzsche – Viaggio al termine della notte, Al di là del bene e del male –, riascoltare i Concerti brandeburghesi che Bach suonava per lei in quei giorni sospesi.

In un periodo storico in cui la donna che decide di abortire – così come i medici, i farmacisti e chiunque favorisca questa azione – è punibile con la detenzione, con sanzioni pecuniarie, con la perdita del permesso di soggiorno, non viene offerta alle ragazze altra alternativa che rivolgersi a un sottomondo talmente lontano da quello che dovrebbe garantire uno Stato, che i suoi protagonisti hanno nomi che suonano fantastici: i cucchiai d’oro sono i medici clandestini, le fabbricanti d’angeli sono donne che inducono l’aborto a casa propria per poi lasciare la donna libera di completare l’azione nell’incertezza di una strada, di un autobus, di un bagno qualunque.

È a una di queste fabbricanti che la Ernaux ragazza si rivolge dopo tentativi inutili svolti in solitudine che si risolvono in dolore e null’altro ma che le offrono la consapevolezza che quello che vive suo malgrado accade per essere raccontato, che anche i fatti scomodi o repellenti possono trasformarsi in lingua, parole, diritti.

«Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla, non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei ad oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo».

Nella produzione della Ernaux ogni libro è dedicato a qualcosa o a qualcuno o a un singolo momento della sua vita: ai genitori, separatamente, alla propria giovinezza, a una sorella mai nata. E ora in L’evento un’esperienza che da incubo riesce a trasformare in dono, che pare chiarire il motivo per il quale le cose (le) accadono, conferma lo scopo del suo percorso.

«Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intellegibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri».

(Annie Ernaux, L’evento, L’Orma editore, 2019, trad. di Lorenzo Flabbi, 113 pp., euro 15, articolo di Francesca Ceci)

 

Copertina di Gli dei notturni di Danilo Soscia

Quel che resta
del novecento

Misurarsi con il Novecento, tracciarne uno schema riassuntivo, è pratica consolidata, probabilmente perché si ha di fronte un secolo tra i più densi di “storia ufficiale”. Cento anni frastagliati, spesso polarizzati tra opposti inconciliabili: per esempio, quella strana dicotomia tra il Novecento come secolo “di massa”, fatto di movimenti globali, oppure come periodo caratterizzato dall’emergere di personalità forti, aggreganti, indimenticabili. Venerate come dei. Ma che cosa succede se questi dei si trasformano all’improvviso in figure fragili, votate a una tormentosa interiorità piuttosto che alla superficialità della massificazione di sé? Ecco il punto di partenza per Gli dei notturni di Danilo Soscia (minimum fax, 2020): una raccolta di quaranta brevi racconti che vengono definiti “ipnografie” o, per citare il sottotitolo, Vite sognate del ventesimo secolo.

Prendendo a prestito le parole di uno degli dei notturni, Ezra Pound, si possono cogliere l’ambizione, e forse il senso generale dell’intera operazione di Soscia: «Il racconto degli incubi non conservava niente della loro sconnessione originaria. […] Dovreste tornare alla semplicità degli interpreti antichi, li rimproverai una volta. Costoro avevano fama maggiore dei poeti, poiché avevano mutato in un’arte la capacità di tradurre la lingua confusa degli dei notturni».

Soscia assume la postura di un interprete, un tramite, o meglio, una sorta di medium per una seduta spiritica di rievocazione collettiva dall’oblio. Gli spiriti in questione, tuttavia, nell’oblio in realtà non sono mai caduti: si tratta, infatti, di personalità monolitiche del Novecento, dalla politica allo sport, dalla letteratura alla musica.

Così, gli spettri di Buffalo Bill e Pasolini, di Akira Kurosawa e di Elsa Morante, di Janis Joplin e di Aldo Moro sono riportati in vita, o meglio, della loro vita sono scandagliati gli angoli morti, le profondità interiori. Soscia dà voce agli abissi dell’esistenza inconscia di queste figure così eterogenee, tratteggiandone la vita sognata; non necessariamente una vita alternativa, ma senz’altro una prospettiva altra, dal basso più che dalla superficie. I percorsi dei personaggi sono, in gran parte, quelli che abbiamo imparato a conoscere; i loro cammini continuano a portare nella direzione che ci aspetteremmo, e anzi, spesso la loro conoscenza è data per scontata: l’esperimento dell’autore sta nel mostrarle, quelle stesse strade, dal fondo dei tombini di cui sono costellate. La luce filtra attraverso fori e feritoie, ma l’aria di fogna rimane.

 

Si può dire, allora, che il vero protagonista di ogni racconto non sia tanto il personaggio che agisce, quanto piuttosto lo scenario entro cui il personaggio si muove: emerge, in questo modo, una sorta di paesaggio onirico collettivo, all’interno del quale la Milano di Alda Merini, la Berlino di Marlene Dietrich e la Rio di Garrincha trascolorano e si fondono fino a diventare lo stesso luogo. Ciò che è importante è che lo spazio, proprio come la prospettiva, sia altro, concedendo così alle figure che lo abitano la possibilità di esprimere la loro interiorità visionaria e ingarbugliata. Viene in mente il Bardo/Aldilà descritto da George Saunders in Lincoln nel Bardo (Feltrinelli, 2017); oppure, specialmente quando la narrazione è costruita su più livelli – ossia quando Soscia racconta/sogna di un personaggio che racconta/sogna a sua volta –, lo spazio onirico grezzo di cui Christopher Nolan parla per descrivere il suo Limbo in Inception.

È, in definitiva, come se Soscia riunisse tutti i suoi personaggi, costringendoli a muoversi in uno spazio aggregante e senza tempo, simile alla haunted ballroom di Shining: in questo modo si crea per quei fantasmi una seconda vita, basata precipuamente sul loro essere spettri.

Così, forse proprio secondo le intenzioni dell’autore, Gli dei notturni produce domande, più che risposte. Che cosa è rimasto del Novecento? C’è qualcosa – o qualcuno – a cui vale la pena accostarsi ancora per una riscoperta? Ha senso, per la letteratura, rivolgersi per l’ennesima volta al passato, in un tempo che sembra aver perso la capacità stessa di pensare il futuro? Una carrellata come questa non corre anche il rischio di risolversi – suo malgrado – in enumerazione squisitamente postmoderna?

Le risposte variano a seconda del pubblico che si accosta alla lettura, ma si può provare a tracciare qualche linea generale.

Gli dei notturni pare soffrire di una contraddizione strutturale. Nel presentare la sua carovana di personaggi, Soscia dà l’impressione di volerli mettere in contatto l’uno con l’altro, come fossero le tante sfaccettature della stessa sfera: le quaranta “ipnografie” scorrono una dopo l’altra, richiamandosi e integrandosi a vicenda, fino a formare un tessuto omogeneo; specialmente dal punto di vista dello stile, che appare, nonostante l’eterogeneità delle figure, uniforme nel suo essere votato a una scrittura eterea, onirica.

Questa sorta di calligrafia del sogno è potente ed efficace di per sé, pur risultando talora ridondante, a volte compiaciuta, a causa dell’accumulo visionario eccessivo, che rischia di far perdere di vista al lettore le distanze tra un personaggio e l’altro, le loro specificità. D’altro canto, Soscia non rinuncia al suo approccio filologico alla materia, proponendo in calce ai suoi racconti una nota che chiarisce i singoli percorsi dei personaggi, ma che suona, in chiusura, quasi come una rettifica.

Se da un lato, dunque, si ha un atteggiamento ancora molto postmoderno (e novecentesco!) nei confronti della materia trattata, dall’altro è interessante notare come il libro offra la risposta migliore all’interrogativo forse più utile per i nostri giorni, che vale la pena ribadire: che cosa resta del Novecento?

Non i personaggi: di loro, certe volte, resta soltanto un nome. Essi sfumano l’uno nell’altro, giacché il sogno è territorio comune, fatto di archetipi collettivi, che tu sia Joseph Mengele o Rudol’f Nureev.

Non lo spazio, non il tempo: i personaggi abitano in città che sono sempre lo stesso luogo, in un momento che è l’eternità, dove la Storia filtra da schermi e spiragli, ma alla quale i personaggi stessi assistono solo da spettatori.

Del Novecento resta un limbo fatto di visioni, incubi e macerie, che Soscia ha trasposto sulla pagina con uno stile unitario; resta questo tono generale: lo stile, la voce del Novecento, con la sua eco.

Tutto il resto sfuma, e forse è meglio così, se diamo ascolto all’ultimo dio notturno, Virginia Woolf, quando pare rivolgersi a noi lettori – ma forse anche allo stesso Soscia:

«Chi sei tu, che vieni a chiedermi conto dei sogni che faccio, che pretendi io li riduca in figura come farfalle infilzate su uno spillo o santi asessuati sui vetri di una chiesa. […] Perché vuoi che io mi svegli? Perché tra i tanti di cui potevi profanare il sonno hai scelto me? L’ordine del caso mi ha uccisa mille volte, e l’esistenza con i suoi culti è una festa cui non voglio partecipare».

 

(Danilo Soscia, Gli dei notturni, minimum fax, 2020, pp. 248, euro 18, articolo di Emanuele Pon)
copertina di La parabola dei ciechi di gert hofmann

L’ombra di Beckett
in “La parabola dei ciechi”
di Gert Hofmann

«Signor Barthelme, perché scrive nel modo in cui scrive?», chiede uno studente della Johns Hopkins University di Baltimora. «Perché nel modo in cui scrive Beckett, già scrive Beckett», risponde prontamente lo scrittore americano. Parafrasando questo significativo scambio di battute, viene da chiedersi come mai una domanda simile non se la sia posta, riguardo a se stesso, anche il drammaturgo tedesco Gert Hofmann (1931-1993), quando nel 1985 pubblicò il racconto lungo La parabola dei ciechi, ripubblicato recentemente da Racconti edizioni (2019). Infatti ogni cosa, in questa storia ispirata all’omonimo dipinto del 1568 di Pieter Bruegel il Vecchio, che a sua volta si rifà al noto episodio del Vangelo di Matteo, pare presa a prestito dall’universo immaginifico, inquietante e profondamente amaro di Samuel Beckett, quasi ne fosse una sintesi o, per meglio dire, una sorta di appassionato collage.

Non c’è neanche bisogno di sapere che l’esperienza teatrale più importante della vita di Hofmann – peraltro vincitore di numerosi premi, tra i quali l’Alfred Döblin Preis e l’Ingeborg Bachmann Preis — sia stata assistere, nella Parigi del 1953, alla prima di Aspettando Godot. La sua influenza è così palese nella Parabola che si avverte immediatamente, fin dalle prime pagine: l’attesa angosciante, il patetico girovagare in tondo come sospesi in un tempo cristallizzato, il congelamento dell’azione, l’orizzonte disatteso, il tono da tragicommedia.

Debitore dell’andamento tipico del teatro dell’assurdo, con i suoi periodi senza senso, reiterativi e serrati — quali la ripetizione costante di parole all’interno di una stessa frase: «Più tardi probabilmente usciamo dal villaggio, che probabilmente si chiama Pede-Sainte-Anne» e lo schema cantilenante e ossessivo dei dialoghi: «No?». «No». «Bene, dice, allora non ne vedo. Allora probabilmente vedo…». «Sì?». «Che cosa dovrei vedere?, chiede». «Uno stagno, gridiamo». «Uno stagno?». «Sì, uno stagno», ecc. – il testo della Parabola non offre però una propria voce originale e autentica che lo giustifichi, differenziandolo rispetto a Jarry, Ionesco, Pinter o allo stesso premio Nobel irlandese.

Sicuramente molto ben confezionato, questo romanzo breve manca però del respiro del grande autore. È piuttosto un pastiche, la perfetta imitazione di stili, linguaggi e tematiche altrui. Come in Aspettando Godot, anche qui il protagonista è assente, tanto che non si è certi a quale dei personaggi appartenga la voce narrante, persa in un plurale maiestatis in cui ogni personalità è annullata; i ciechi difatti sono solo un insieme di cui non si sa con esattezza nemmeno il numero, che a volte sembra composto da cinque, altre ancora da sei membri. Alcuni di loro non hanno un nome, mentre altri personaggi si chiamano Chi-ha-bussato, il Bambino, la Serva, il Giardiniere, il Pittore, ecc. così come per esempio i personaggi beckettiani di Cosa dove hanno per nomi: Bim, Bum Bam, Bem e Bom. In maniera analoga, l’atmosfera surreale vissuta da Vladimiro ed Estragone, che si ripete ciclicamente nel primo e nel secondo atto, cristallizzando la pièce in un tempo astratto in cui non accade nulla, è la stessa dei verbi eternamente al presente della Parabola, in cui il gruppo dei ciechi – a cui fa riscontro un proprio doppio, venuto prima di loro, che dice di essere loro ma non lo è – vaga in tondo in una trama priva di eventi che si conclude tornando al punto di partenza, nello stesso modo in cui era iniziata.

Ma, se dei racconti e romanzi di Beckett è stato detto come fossero “illeggibili e impubblicabili”, la Parabola non è nemmeno questo. Non possiede l’originale assurdità del protagonista di Watt, che compare nella trama senza spiegazione e senza spiegazione ne esce, o la graffiante ironia del mondo oscuro di Murphy le cui ceneri, come da sempre sognava, non finiscono neppure nel gabinetto del teatro ma cadono a terra, e vengono spazzate via insieme alle cicche. È invece una favola crudele, una fin troppo ragionata e ben eseguita metafora dell’Occidente e dell’arte, in cui l’urlo dei ciechi che cadono nella fossa è trasparente, diretta, classica immagine della cecità e ingiustizia del cosmo.

Questo agghiacciante quadro del senso della vita ha in sostanza mancato la possibilità di presentarsi, a oltre cinquant’anni da La nausea di Sartre e a più di trenta da Aspettando Godot, con quel quid in più che lo rendesse nuovo, inedito, audace, per non dire d’avanguardia. Tra le sue pagine ben eseguite, in cui il lavoro di sottrazione del linguaggio e la costruzione sintattica minimale rafforzano e simbolizzano la dimensione claustrofobica della narrazione: «No, grida lui, che cosa?». «Verrai dipinto». «Lo so». «E perché verrai dipinto?». «Non lo so». «Nemmeno noi, diciamo». «Rubi ancora?». «Come, chiede, manca qualcosa?». «Non ancora, diciamo, non ancora» ecc., non si può fare a meno di sentire quanto, gigantesca e unica, sia la personalità di Beckett ad emergere, non quella di Hofmann.

 

(Gert Hofmann, La parabola dei ciechi, trad. di Tiziana Prina, Racconti edizioni, pp. 144, euro 14, articolo di Claudia Cautillo)

 

Poster di Diamanti grezzi su Flanerí

“Diamanti grezzi”, fare cinema a un’altra velocità

Tra i registi più interessanti del cinema indipendente statunitense ci sono, senza dubbio, di fratelli Bennie e Josh Safdie, arrivati a fine gennaio su Netflix Italia con il loro terzo film in coppia, Diamanti grezzi.

Partiamo da qui. Nella New York del 2010 Howard Ratner è un gioielliere con il vizio delle scommesse. Quando sta per piazzare il suo affare più importante – un opale nero arrivato di contrabbando dall’Etiopia – dopo l’incontro con il campione NBA Kevin Garnett si lascia risucchiare in una spirale autodistruttiva di accumulo e azzardo. L’occasione d’oro per risolvere i suoi problemi di debiti diventa una nuova miccia di caos.

Diamanti grezzi ha catalizzato l’attenzione della stampa internazionale prima di tutto per la scelta del suo attore protagonista. Howard Ratner è, infatti, interpretato da Adam Sandler, uno dei comici di maggior successo negli Stati Uniti da oltre vent’anni in film di qualità a dir tanto discutibile.

Sandler ha già dimostrato in passato le sue qualità fuori dal comune. Basta nominare Ubriaco d’amore del 2002, uno dei titoli meno ricordati di Paul Thomas Anderson. Ci sono anche Reign Over Me del 2007, sulle conseguenze dell’11 settembre, o  Funny People  di Judd Apatow, sulla solitudine del mondo dello spettacolo, o ancora più di recente The Meyerowtz Stories, penultimo film di Noah Baumbach prima di Storia di un matrimonio.

Nel film dei fratelli Safdie, però, il comico newyorkese riesce in modo unico a essere il centro pulsante di tutto, il corpo e l’anima frenetica di Ratner.

Howard Ratner è una contraddizione ambulante. Padre di famiglia che vuole essere presente, odiato e disprezzato dalla moglie che invece vuole il divorzio. Amante venerato da una sua dipendente. Uomo d’affari che gestisce somme enormi e scommettitore senza scrupoli. Uomo di casa che butta la spazzatura e criminale da quattro soldi.

Solo un attore mai del tutto compiuto come Adam Sandler poteva arrivare a un simile livello di grandezza. Un ruolo degno del miglior Robert De Niro, con più di un tratto con Ben Gazzarra di L’assassinio di un allibratore cinese di John Cassavetes, anche se molto meno misurato.

Howard Ratner è l’incarnazione di un consumismo continuo, del capitalismo votato all‘accumulo senza raziocinio, del brivido del denaro intangibile, di una società destinata ad auto-disintegrarsi.

I fratelli Safdie arrivano con Diamanti grezzi al loro film più compiuto, fino a questo momento. Continuando nel solco della velocità estrema di Good Time con Robert Pattinson, i due registi continuano a sviluppare un’estetica forte e riconoscibile. La base è la pellicola in 35mm, mostrata in tutte le sue caratteristiche, dalla grana ai colori saturi, grazie anche alla fotografia di Darius Khondji.

Su questo susseguirsi incessante di luci, corse e colori, si sviluppa lo studio umano su Ratner, anima diversa rispetto ai protagonisti di Good Time, ma comunque allo sbando.

(Diamanti grezzi, Safdie bros., 2020, drammatico, 160’)

 

Sensibilità collettiva e fisionomia letteraria: il gatto

Le fisionomie animali che popolano i bestiari medievali non svolgono sempre la medesima funzione simbolica, anzi: esse risultano, talora, oggetto di variazioni dovute a innovazioni non solo strutturali, ma anche compositive ‒ pertanto, se talvolta il medesimo tipo rappresentativo (positivo o negativo) è reiterato in differenti contesti, in altri casi la modifica dell’impianto tematico-formale conduce al ribaltamento dell’originale paradigma animale, traducendosi in chiaro rovesciamento della sua cifra simbolica.

La progressiva desacralizzazione che investe i bestiari medievali (per cui si rimanda a Gli animali: simboli religiosi esistenziali?) coinvolge anche le figure animali, reali o leggendarie, protagoniste sia di cataloghi bestiali di recupero classico (ispirati alle favole di Esopo e Fedro, seppur caratterizzati dalle stesse istanze didattiche della tradizionale forma religiosa), sia di bestiari amorosi, incentrati sulla rappresentazione di sentimenti umani (come si vede nell’influenza poi esercitata nella tradizione lirica italiana), sia di cataloghi di tipo “sociale”, strutturati su immagini figurate di specifiche categorie professionali.

 

Il gatto: un animale domestico e quotidiano

 

Nell’Alto Medioevo e nei secoli immediatamente successivi, il gatto risulta quasi completamente escluso dal numero degli animali ricorrenti in tutte queste diverse tipologie tassonomiche, dal momento che nell’immaginario collettivo esso non soltanto veniva associato all’idea di povertà (esclusa comunque ogni implicazione di ordine morale), ma anche percepito come il più quotidiano tra gli animali. Perciò, la sua figura, inadatta a rappresentare un elevato status sociale o a evocare pratiche tipiche delle categorie abbienti (al contrario, da esempio, dei cani o dei falconi da caccia), rappresenta una tra le fisionomie più raramente riprodotte (come suggerisce Gherardo Ortalli nell’intervento Gli animali nella vita quotidiana dell’Alto Medioevo, pronunciato in occasione di un incontro promosso del Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo nella seconda settimana dell’aprile 1983).

Tuttavia, alcune peculiarità che caratterizzano il comportamento felino (in primo luogo la sua attitudine notturna) hanno concorso a edificare, nella sensibilità collettiva, un immaginario esplicitamente connotato da segno negativo: il gatto, quale figura diabolica e stregonesca, è così divenuto simbolo ereticale, influenzando anche certe componenti tematico-simboliche proprie tanto della cultura popolare quanto della letteratura occidentale successiva (si pensi, ad esempio, al celeberrimo Gatto nero di Edgar Allan Poe).

 

Una rivalutazione della figura felina si è diffusa in età moderna, in conseguenza sia della mutata interazione nei rapporti fra animale e uomo, capace di esercitare maggior controllo sull’ambiente naturale, sia della circolazione di un giudizio positivo sull’animale, dedito a costanti pratiche di auto-pulizia (tanto più rilevanti in società oramai attente al rischio di contagi e via via caratterizzate da pur graduali e lente acquisizioni igieniche).

 

Il gatto nella letteratura

 

Penetrata nel novero degli animali protagonisti delle favole, la caratterizzazione simbolico-tematica del gatto si struttura su due differenti motivi, entrambi riproposti dalla tradizionale rappresentazione della volpe.

In primo luogo essa, come immagine del demonio che, nei bestiari medievali, inganna l’uomo per sottrargli l’anima, viene spesso raffigurata nell’atto di fingersi morta, al fine di tendere un tranello alle proprie prede mentre, sporca di terra e distesa con la lingua fuori dalla bocca, attende che gli uccellini si posino nei dintorni così da catturarli facilmente.

La medesima dinamica narrativa ricorre, pur privata delle originarie implicazioni religiose e riferita al gatto, nel panorama quattrocentesco, come dimostra esemplificativamente Un gatto si dormiva in sun un tetto di Domenico di Giovanni, detto il Burchiello: «Un gatto si dormiva in sun tetto / et un nibbio a cui parve fusse morto / gli diè di piglio, e ’l gatto come acorto / tel prese colle zampe pel ciuffetto» (da I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Einaudi, 2004, p. 110).

Il motivo si reitera fino al Settecento, come è visibile nei Due gatti di Giovanni Gherardo de Rossi (Favole, Stamperia Pagliarini, 1788, p. 100):

Pronto sul tetto [il gatto] ascende, e lì sdraiato

in tale atto si pone

che già morto rassembra;

e morto il crede un semplice augellino

che vuole curioso

mirarlo da vicino;

ma il traditor, quando sel vede accanto,

sorge veloce tanto,

che indarno nel periglio

tenta il misero augel le penne sciogliere,

già prigioniere del nemico artiglio.

 

La seconda tipologia rappresentativa della figura felina, ugualmente sovrapposta alla tradizionale fisionomia della volpe, ripropone la sua natura di abile ingannatrice pronta a intervenire nei litigi tra due animali, fingendo di accordarsi prima con l’uno e poi con l’altro, salvo tradire la parola data e divorare entrambi i contendenti.

Così ne Il topo e la donnola di Leonardo da Vinci, dove una gatta cattura un topolino dopo aver finto di salvarlo dall’assedio di una donnola intenzionata a mangiarlo (Aforismi, novelle e profezie, Newton Compton, 1993, p. 15):

Infrattanto venne la gatta e subito prese essa donnola, e immediate l’ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio a Giove d’alquante sue nocciole, ringraziò sommamente sua deità; e uscito for della sua busa a possedere la già persa libertà, de la quale subito, insieme colla vita, fu falle feroci unglia e denti della gatta privato.

Questo motivo, pur suscettibile di alcune variazioni, ricorre nei secoli successivi fino al Settecento: ne Il gatto e il formaggio delle Cento favole esopiane scritte da Giovanni Battista Roberti, il felino, finalmente penetrato nella dispensa dove sono conservate le scorte alimentari, esclusa la possibilità di dividere il bottino con il roditore, sceglie piuttosto di mangiare sia il topo che il formaggio; ne Il gatto e il pipistrello di Luigi Fiacchi, invece, l’animale, impaurito dalla punizione promessagli dal padrone di un usignolo da lui divorato, prega gli dei di ricevere salvezza, promettendo in cambio di non cacciare più uccelli; ma, imbattutosi in un pipistrello, cede al suo appetito con un astuto escamotage: «Io, decide fra sé, mangiar lo posso / come uccello non già, ma come topo» (Le favole e i sonetti, Stamperia Fiaccadori, 1841, p. 100).

Inoltre, la rappresentazione figurata del gatto si incentra così frequentemente sull’abitudine di infrangere accordi e tradire promesse da venire spesso adoperata per satireggiare figure professionali di avvocati e di giudici (come ne La donnola e il gatto di Tommaso Crudeli).

 

 

L’approdo novecentesco

 

Nel Novecento, il modello rappresentativo proprio della figura felina varia considerevolmente.

In linea con la generale variazione relativistica propria della cultura del ventesimo secolo, le fisionomie animali assumono nuove connotazioni, tramutandosi in pretesto narrativo per riflessioni di carattere esistenziale o suggestioni dal tono dissacrante.

Ad esempio, ne La gatta di Umberto Saba, il motivo tradizionale della sofferenza d’amore viene rinnovato mediante l’adozione di questa figura animale in un contesto sentimentale, dominato dall’immagine della giovane innamorata (Tutte le poesie, Mondadori, 1988, p. 94):

Ai miei occhi è perfetta

come te questa tua selvaggia gatta,

ma come te ragazza

e innamorata, che sempre cercavi,

che senza pace qua e là t’aggiravi,

che tutti dicevano: «È pazza».

È come te ragazza.

 

Invece, nel Bestiario postmoderno e altri scritti (Muzzio, 1999), epigrammatico catalogo di animali rappresentati come simboli di vizi e virtù umani nel tentativo di costituire una sorta di simbolica zoologia paradisiaca e infernale, Giorgio Celli, uso a definirsi «gattofilo impenitente», espone l’attitudine di diversi personaggi felini (Il gatto un po’ genio, Il gatto a parlamento, La gatta psicosomatica) per poi proporre considerazioni di più ampio respiro; ad esempio, l’atteggiamento assunto dall’animale posto di fronte al proprio riflesso è ragione per citare la teoria dello psicanalista Jacques Lacan sullo stadio dello specchio.

Insomma, la fisionomia felina, ora immagine non solo dell’astuzia ma di un più ampio ventaglio di peculiarità umane, ora alter ergo dell’io narrativo nell’impianto strutturale di componimenti poetici e prosastici, diviene definitivamente simbolo dell’uomo novecentesco: «Non riconoscersi allo specchio equivale a non conoscersi come individui, per cui il mio gatto, per altri versi notevolmente intelligente, rivela in questo frangente una debole coscienza di sé» (Il gatto allo specchio, p. 45).

(Nel testo, la riproduzione di E. A. Poe, Racconti, Feltrinelli, 2014 e un’illustrazione dal ms. Bodl. 764 (Bodleian Library, XIII sec) che rappresenta i trucchi congegnati dalla volpe per catturare gli uccellini).

La fretta lenta dei Tame Impala

Il titolo dell’ultimo disco dei Tame Impala, The Slow Rush, suona come un ossimoro: “la fretta lenta”, o qualcosa del genere.
È interessante partire proprio da qui: l’unione di svariati opposti sembra essere, infatti, proprio ciò che contraddistingue questo gruppo di canzoni; ma forse, a ben vedere, occorre fare un passo indietro, per scoprire che questa mescolanza di stili e di influenze non è altro che il marchio di fabbrica dell’intera carriera dei Tame Impala.

Carriera in costante ascesa, tutta giocata intorno alla figura del guru musicale Kevin Parker, che arrangia, suona e produce ogni album.
Sin dagli inizi, l’australiano ha oscillato tra velleità psichedeliche – le cavalcate ed i trip del primo EP, Tame Impala, e dei primi due LP, Innerspeaker (2010) e Lonerism (2012) sono esemplari da questo punto di vista – e concessioni ad un’ottica decisamente più pop – di cui sono prova, invece, le collaborazioni relativamente recenti con star della musica mondiale, da Kanye West a Rihanna a Lady Gaga.

Dopo la consacrazione, avvenuta cinque anni fa con Currents, in The Slow Rush Parker sembra voler raccogliere in un’unica sede tutto ciò che ha seminato: siamo di fronte al disco senz’altro più ambizioso, finora, dei Tame Impala, e forse questo è proprio il suo limite più grande.
Kevin Parker è un geniale tessitore di suoni ed arrangiamenti: il suo modo di approcciarsi all’architettura e alla produzione di un pezzo è ormai diventato un marchio, non soltanto una mera cifra stilistica ma piuttosto un vero e proprio “effetto Parker”, “tocco Parker”, che lo ha portato ad accedere alle alte sfere della musica mondiale.

Ebbene, si può dire che questo “tocco Parker” tocchi il suo apice proprio con The Slow Rush: si tratta di una manciata di pezzi estremamente eterogenei, forse come mai prima d’ora in un disco dei Tame Impala, ma al contempo uniformati dalla produzione, che crea una sorta di liquido amniotico sonoro atto a tenerli tutti insieme, al caldo, nello stesso alveo musicale.

Da tutto ciò deriva una medaglia con una faccia perfetta, ma l’altra difettosa: esattamente questo è il modo in cui suona The Slow Rush.
Consideriamo l’eterogeneità dei brani, prima di tutto: si passa dalla psichedelia pura in apertura e chiusura – con le cavalcate a tratti eccessive e ridondanti di “One More Year” e “One More Hour” – alla acid house di “Glimmer“, dalla ballata post-apocalittica “Posthumous Forgiveness” ai Daft Punk che riecheggiano in “Is it true” (ma non solo), per arrivare all’R&B di “Breathe Deeper“.

Perché questo miscuglio di generi? Qual è il vero scopo?

È sicuramente presente la volontà da parte di Parker di prendere per mano l’ascoltatore e condurlo in un viaggio scandito secondo tappe che altro non sono se non i punti di riferimento, le influenze maggiori dei Tame Impala; tuttavia, non si può fare a meno di percepire, a tratti, un senso di enumerazione fine a sé stessa, uno sfoggio di sapienza tecnica. Come a dire: Parker ormai ha dimostrato di padroneggiare quasi qualsiasi genere musicale, ma qual è il suo genere musicale?

In una situazione di ambiguità analoga ci si trova se si prendono in considerazione, invece, i punti di contatto tra i brani, piuttosto che le loro specificità individuali.
Vale la pena di metterlo in chiaro: The Slow Rush, proprio a causa dell’eterogeneità di cui si è detto, è un disco inequivocabilmente meno compatto rispetto al suo predecessore Currents – album con cui, probabilmente, i Tame Impala hanno toccato il loro apice finora –; è come se Parker ci volesse portare, un po’ alla volta, verso tutte le direzioni che ha in testa, che sono davvero tantissime.

Pur nel solco di questa poliedricità, The Slow Rush è tenuto insieme da quello che, almeno nelle intenzioni di Parker, dovrebbe essere un collante solido e sicuro: si tratta di quella patina di pop elettronico con cui l’australiano sta sempre più contaminando la sua visione della psichedelia musicale. Le melodie accattivanti ci sono, i ritornelli anche (ascoltare “Borderline” o la già citata “Posthumous Forgiveness” per credere): il problema generale è che la musica dei Tame Impala si fonda sempre di più sull’ambizione, probabilmente eccessiva, di far coesistere il concetto di movimento musicale progressivo, psichedelico, finanche onirico e ipnotico, con una forma-canzone più tipica del pop-rock radiofonico.

Si può fare? Certo, e The Slow Rush ne è la dimostrazione: il risultato sarà una miscela i cui ingredienti non si sono perfettamente emulsionati tra loro – non basta il falsetto di Parker, a volte davvero estenuante, a tenerli insieme.
The Slow Rush si fa ascoltare, si fa apprezzare nelle sue complesse e magniloquenti architetture, nelle sue estrosità strumentali, nei suoi cambi improvvisi e nella sua eterogeneità; lascia più a desiderare quando si tratta, quella eterogeneità, di cucirla insieme col pop: i ritornelli provano disperatamente a rimanere in testa, ma non ci riescono del tutto.

Emergono chiaramente, scorporati l’uno dall’altro, i punti di riferimento di Parker nell’operazione: dal trip-hop di Tricky, ma soprattutto di Massive Attack e Portishead, all’art-pop elettronico e mescolato dei TV On The Radio. Ma allora, viene da chiedersi, non si fa prima ad ascoltare un qualsiasi disco di uno di questi gruppi?

I Tame Impala hanno osato, e per questo vanno premiati: hanno pensato di poter aggiungere un ingrediente in più, quel quid in grado di tenere insieme tutto.
Ci sono riusciti solo parzialmente: forse perché sono stati troppo lenti, o forse perché hanno avuto troppa fretta. Il risultato è una fretta lenta che convince a metà.

Copertina di Il ciarlatano di Singer

L’eros e la ricerca di Dio

Forse, contro la marea montante dell’antisemitismo di ritorno, a qualcosa potrebbero valere anche i libri (ove mai davvero i libri possano qualcosa, da sé, contro la brutalità del reale!), i libri come questo Il ciarlatano (Adelphi, 2019) di Isaac Bashevis Singer, premio Nobel nel 1978. Uscito solamente a puntate sul giornale yiddish americano Forverts fra il 1967 e il 1968, e mai più ristampato in volume, viene ritrovato ora, fra le carte dell’archivio di Singer, nella stesura originale manoscritta, in yiddish, e in una traduzione inglese, servite entrambe di base per questa italiana, di Elena Loewenthal, che ora finalmente ci arriva, come un inaspettato, fascinoso dono postumo dello scrittore.

Ecco: se un dubbio dovesse mai sfiorare le crasse menti dei poveri antisemitucci di queste nostre infelici giornate, un dubbio, s’intende, su quanto la cultura e l’educazione ebraica possano affinare una mente umana, e portarla a livelli di profondità e di brillantezza non di altro meritevoli che della stessa commossa ammirazione che ci prende per le musiche di Mozart, per la pittura di Vermeer, per la scienza di Galileo o di Darwin; bene, se un tale dubbio potesse essere sollevato in quelle misere menti, questo libro è uno di quelli che lo dissiperebbero, trionfalmente.

Ciò che contraddistingue, infatti, questo veramente “ultimo” romanzo di Singer (anche se qualche altra sorpresa, su quanto può ancora venir fuori dalle carte di Singer, ce la promette la scheda finale a cura di Elisabetta Zevi), ambientato nel mondo della diaspora ebraico-polacca a New York, è di certo, al primo e più immediato livello di lettura, la spericolata perizia affabulatoria con cui viene orchestrata intorno al protagonista Hertz Minsker, il Ciarlatano del titolo (ma vedremo presto in che senso, tutto speciale, va inteso questo termine), una vorticosa costellazione di almeno quattro figure femminili principali, più qualcuna minore.

Il legame fra loro e Hertz è, naturalmente, come in quasi ogni storia di Singer, quello dell’attrazione sessuale: irresistibile, eternamente ritornante, è forse la cifra principale di quella che vorremmo chiamare la ebraicità di questo autore, il suo presentarci l’eros come forza distruttiva, che nemmeno la ritualità del matrimonio è capace di esorcizzare, o incanalare una volta per tutte entro argini di normalità. E dunque, l’adulterio.

Hertz, che di suo ha strappato Bronia, la sua seconda moglie, a un altro uomo e ai due figli rimasti a farsi ingoiare nel gorgo delle persecuzioni hitleriane a Varsavia, a sua volta è l’amante di Minna, la moglie del suo migliore amico e ricco benefattore Morris (in realtà, Moshe, con un tradimento delle proprie origini di cui arriverà a vergognarsi, amaramente) Kalisher; mentre Bessie, invano innamorata di lui, finirà per gettarlo nelle braccia di Miriam, profuga polacca che si presta a impersonare, in ambigue sedute assai poco “spiritiche”, la prima moglie morta di Hertz.

Questo viluppo di casi umani, già di per sé difficile da dipanare, non fa che complicarsi quando ricompare, emergendo da non meno tortuose peripezie di fuga dall’Europa nazista, il primo marito di Minna, Krimsky, e si dà a contattare con ogni mezzo la ex moglie, per spillarle denari con la vendita di quadri di conclamata inautenticità, incappando invece ora in Hertz, ora in lei stessa, inviperita eppure implorante di non rovinarle la vita. Finché, ultima ed esilarante complicazione, sopravviene quella – vagamente reciproca delle martellanti richieste di Otello per Desdemona – dell’indizio sbadatamente lasciato da Hertz nel letto dei suoi incontri con Minna e ritrovato proprio dal marito di lei, Morris.

Non staremo qui ad insistere sulla straordinaria abilità con cui Singer orchestra, sul nudo strumento di un dialogo fitto, senza una sbavatura, un solo termine superfluo, le scene fra i personaggi a vario titolo coinvolti nell’adulterio e nel suo disvelamento: quello che ci preme notare, invece, è il fatto che il fazzolettino dal bordino rosso incautamente dimenticato da Hertz nel letto del suo migliore amico a cui sta rubando la moglie, innesca in realtà, proprio nella mente di Morris, una crisi che finirà per incrinarne tutta l’esistenza, e farla deragliare verso un quasi medioevale riconoscimento della vanitas vanitatum.

Ed è qui, a nostro parere, che emerge ancora più sfolgorante quella che chiamavamo l’ebraicità di Singer: perché questa crisi si svolge tutta entro i modi di pensare specifici della cultura ebraica, densa di assillanti riferimenti alla Torah, certo, ma anche e soprattutto al secolare patrimonio delle cavillose interpretazioni degli oscuri, spesso ambigui quando non contraddittori, dettami dell’Altissimo, confluite nella Gemarah e negli altri testi della tradizione rabbinica.

Diciamolo francamente: questo non è, o non è soltanto, il turbinoso, dolente e buffonesco – secondo la classica mescolanza di alto e basso, di ghigno e di lamento, tipica di certo ebraismo mitteleuropeo – benché mai pochadistico, romanzo della “carriera di un libertino”: questo è il romanzo della introvabilità di Dio. E, ciò nonostante, della sua mai dissetata ricerca.

Da qui, dalla dolorante impossibilità umana di abbandonare definitivamente la ricerca di un Padre di cui non si riesce in alcun modo a intuire la presenza, nel belluino mondo spalancato alle cavalcate di Hitler, di Stalin, non meno che allo spregiudicato homo homini lupus che detta legge all’ombra della statua della Libertà, da questa scabra urgenza di farGli domande, nascono le pagine più alte del libro.

Come quelle in cui Hertz Minsker finisce per rivelarsi, certo il libertino impenitente – per quanto consapevole, in lucide, puntute autoanalisi, non meno infarcite di riferimenti alla Scrittura, del proprio sguazzare nel fango – cui bastano poche frasi dettegli da una qualunque camerierina di bar a rinfocolare l’inesausto furore amatorio, ma anche, e sicuramente di più, l’uomo di ragione che fa, ai suoi interlocutori ma ovviamente a noi che lo leggiamo, le insistenti, cocciute, mai esaudite domande sul perché del male nel mondo, e sul grande, inspiegabile silenzio di Dio.

O, se non sulla sua vera e propria cattiveria, di sicuro sulla sua difettività: «è un Dio debole, oppresso. Siede da qualche parte in un ghetto celeste e porta una stella gialla. Ha un certo numero di discepoli […] ma non è in grado di aiutarli».

Che poi l’uomo provi, come farà Hertz in molti dei dialoghi del libro, a innalzare contro questo Dio corrucciato e bisbetico una pericolante architettura di non meno assurde formulazioni edonistico-cabalistiche, dovrebbe, a prima vista, giustificare la classifica di ciarlatano che gli viene data dal titolo (e da qualcuna delle molte vittime della sua divorante sessualità), ma serve, a guardar bene, a farci sentire quanto ci sia fraterno questo povero, umanissimo essere vivente, solo – per quante donne egli si affanni a trascinarsi dietro – di fronte alla vanità dei tentativi di vincere l’inspiegabilità di questo nostro esistere.

 

(Isaac Bashevis Singer, Il ciarlatano, Adelphi, 2019, 268 pp., euro 20, articolo di Mario Massimo)

 

Copertina di Confidenza di Starnone

Il potere di una confidenza indelebile

Come si gestiscono i segreti profondi e il loro effetto sulle nostre vite? Domenico Starnone in Confidenza (Einaudi, 2019) prova con maestria a raccontarlo, partendo dalla relazione tempestosa dei due protagonisti iniziali, Pietro e Teresa. La confidenza è per lo scrittore l’essenza del sentimento e i protagonisti assumono il ruolo di sentinelle sui segreti reciproci. Un patto, in definitiva: contro le variabili fallaci della vita, quelle che fanno cambiare idee e progetti e pertanto minacciano l’unione.

Starnone accende una torcia sull’ambivalenza della natura umana e lo fa con una scrittura reale, intima. Il suo romanzo è diviso in tre atti: nel primo la voce è quella di Pietro Vella, insegnante di liceo, animato dalla voglia di riscatto ereditata da un padre elettricista, con scarsi mezzi economici e che lo renderà ossessionato dalla perfezione: «Non tolleravo niente che mi mettesse di fronte al fatto di non essere perfetto».

Ha una relazione tormentata con una sua ex allieva, Teresa Quadrato, che praticamente è il suo opposto: una donna viva e brillante, piena di ambizioni e dotata di un’ironia quasi crudele. Prima di lasciarsi definitivamente entrambi cercano un modo per fissare per sempre la loro reciproca dipendenza: e lo trovano. Una confidenza di un evento della loro vita che nessuno, oltre al loro nucleo, debba mai venire a sapere.

«Qualcosa che si sapesse ti distruggerebbe per sempre». I due protagonisti dell’alleanza iniziano a vivere due vite distinte: Pietro si sposerà con Nadia, avrà tre figli e scriverà un saggio sulla scuola italiana, mentre Teresa emigrerà verso gli Stati Uniti per intraprendere una sfavillante carriera in ambito scientifico.
Il secondo racconto fa compiere al lettore un maestoso balzo temporale: perché l’io narrante è Emma, primogenita di Vella, che racconta del padre e del suo percorso umano e professionale, mentre il terzo è affidato a Teresa, la donna della confidenza indelebile, con cui nel corso degli anni il protagonista ha sempre coltivato un rapporto ibrido.

Già in Lacci e in Scherzetto l’autore ci aveva abituati già ai temi più profondi e ambivalenti delle relazioni: la sua scrittura e i suoi personaggi sono subito riconoscibili dal lettore in quanto vivi e inquieti, ma soprattutto pronti a smascherare la natura umana, fragile e instabile, permeata dalle ambizioni, dalle paure e dal carattere che ciascuno ha in dote.

In tutto il romanzo spicca lo sforzo di raggiungere nella vita determinati risultati. Colpisce l’inadeguatezza di Pietro Vella, perfino quando avrà raggiunto numerosi consensi per la sua pubblicazione: «Siamo disposti a perderci, curvando la vita intera, pur di somigliare al nostro profilo migliore».

La moglie di Pietro, Nadia, incarna l’ideale della compagna che si sceglie per migliorarsi, per contribuire alla formazione di una identità migliore, che lo sosterrà per tutta la durata del loro matrimonio (e del romanzo), in particolare nello schierarsi al fianco del marito contro il sistema borghese scolastico. Aleggia però sempre lo spettro di Teresa, l’ex che non è mai ex, depositaria di una verità inconfessabile, mormorata come patto d’amore. «La ragione è che vuoi sapere se sono e sarò sempre la custode delle tue confidenze» scriverà Teresa a Vella, consapevole del potere della loro reciproca confidenza.

Raccontando le vicende della quotidianità e dell’evolversi della vita professionale di Pietro, Starnone non tralascia lo sguardo sui tradimenti reali o immaginati, i continui compromessi per stare insieme una vita, laddove la persona scelta non ci appare più la stessa: «Pensai: ci innamoriamo di persone che sembrano vere, ma non esistono, sono una nostra invenzione; questa donna così ferma, dalle frasi così scandite, questa donna senza timidezze, sferzante, non la conosco, non è Nadia. Una cosa è la persona amata, altra cosa è la persona reale che finché l’amiamo non vediamo mai davvero». La narrazione colloquiale del protagonista appassiona, tra finzione retorica che si poggia sui ricordi e sulla realtà, senza mai perdere di vista il sentimento.

«L’amore, che dire, se ne parla tanto, ma non credo di aver usato spesso la parola, ho l’impressione, anzi, di non essermene servito mai, anche se ho amato, certo che ho amato, ho amato fino a perdere la testa e i sentimenti».

Poi il colpo di scena nel terzo breve atto, quando sarà Teresa a raccontare la loro storia, la tipologia del contatto mantenuto negli anni. In Confidenza, Starnone riesce con una voce misurata ma al contempo profonda a consegnarci una doppia, anzi molteplice, sfumatura delle relazioni e della natura umana.

 

(Domenico Starnone, Confidenza, Einaudi, 2019, pp. 141, euro 17,50, articolo di Antonella De Biasi)

 

Susan Sontag: Abbandonare l’innocenza

Prima di leggere il secondo volume dei diari di Susan Sontag, La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980 (nottetempo, 2019), occorre fare un piccolo esercizio di stile, più difficile di quanto si possa immaginare: eliminate dalla vostra vita qualunque malsano ideale di perfezione, allontanate le immagini belle, le parole rassicuranti, gli oggetti inutili, le cose non essenziali. Tentate di sviscerare le questioni, di non inorridire di fronte alle cose brutali e squallide; di non voltare la testa quando vi troverete nel bel mezzo di un conflitto o faccia a faccia con la fragilità e la stupidità.

Perché entrare nella vita di Susan Sontag significa abbandonare l’innocenza del pensiero o la comodità dell’effimero: ogni cosa, infatti, acquista un peso, una densità, diviene tangibile, per poi dissolversi nuovamente e liberarsi dall’ossessione della materia. As Consciousness is Harnessed to Flesh è il titolo originale di questi appunti, raccolti dal figlio David Rieff: e dispiace aver perso nell’edizione italiana la forza della parola carne, addolcita da quel corpo. Un corpo scomodo, imperfetto, fragile, a volte non amato, capace di godere, soffrire, ammalarsi, e in perenne conflitto con la coscienza; ne parlerà ossessivamente per tutta la vita, fino a diventare il nucleo delle sue speculazioni filosofiche. Capire è forse l’unica salvezza degli uomini e Susan Sontag coltiva questa straordinaria, irresistibile ambizione, al punto da costringersi ad analizzare ogni cosa. Non c’è evento, sensazione, pensiero che non venga scritto e compreso.

Faticosamente. Perché scrivere è un atto complesso, che la condanna a pesare le parole, a curarne la forma, non perché siano belle, ma perché siano esatte, significative. In questi appunti, densi e taglienti, non c’è traccia di un’estetica vuota, ma di una precisione quasi severa, di una tensione continua e costante a sovrapporre forma e contenuto. «Se non posso giudicare il mondo, devo giudicare me stessa. Sto imparando a giudicare il mondo», scrive il 1° novembre del 1964. Non è indulgente Susan Sontag, soprattutto quando si tratta della sua vita privata: «Da scrittrice tollero l’errore, la prestazione insufficiente, il fallimento. Che importa allora se a volte fallisco, se un racconto o un saggio non funziona? Altre volte le cose vanno davvero bene, l’opera funziona. E ciò mi basta. È proprio questo l’atteggiamento che non riesco ad assumere rispetto al sesso. Non tollero l’errore, il fallimento, perciò sono ansiosa fin dall’inizio, ed è più probabile che fallisca». Sembra di ritrovare la Susan del primo volume (Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, nottetempo, 2018): insicura e desiderosa di impossessarsi della sua scrittura e quindi della sua identità. Ma se allora la gioventù la costringeva a una faticosa opera di costruzione del sé, ora i bisogni sono radicalmente diversi: decostruire, svelare, togliere, anche a costo di mostrare la carne viva, i lati oscuri, le debolezze quasi infantili. Ciò che stupisce è la varietà di questi appunti: liste di libri da leggere, elenchi di film, riflessioni su sé stessa («Nei miei confronti, predomina l’intolleranza. Mi piaccio, ma non mi amo»), sul suo corpo, sul perché porta i pantaloni, sul suo lavoro («Sapevo-so-di avere una buona mente, una mente persino potente. Sono brava a comprendere le cose – + [sic] a dare loro un ordine – + a usarle. (La mia mente cartografica.) Ma non sono un genio. L’ho sempre saputo»).

E ancora: analisi sul complicato rapporto con la madre, citazioni di Lenin, appunti su Gadda, sul concetto di noia, su Moravia, sulla guerra del Vietnam, su Wittgenstein, Kant, Hegel, Kafka; parole nuove, annotate con lo stupore e il rigore di una studentessa, appunti di viaggio, frammenti politici, suggestioni psicoanalitiche. Disarmanti le considerazioni sulla maternità e sulla presenza salvifica di suo figlio David, essenziale per capire davvero con che spirito avvicinarsi al mondo intimo della Sontag. Resterà deluso chi cercherà in queste pagine solo la lucidità del suo pensiero: la scrittura diaristica, infatti, ci insegna che occorre sempre fare i conti non solo con le debolezze umane, ma anche con l’idea che non sia mai possibile trovare la verità. La scrittura personale ha spesso il difficile compito di colmare vuoti, costruire, analizzare, unire, placare conflitti o crearne di nuovi. E quella di Susan Sontag non fa eccezione.

 

(Susan Sontag, La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980, nottetempo, 2019, 594 pp. € 25,00 | Recensione di Elisa Carrara)

Bugo ai tempi della notorietà televisiva

Immaginarsi Bugo a Domenica In, mentre chiacchiera con Mara Venier e circondato da opinionisti di ogni genere pronti a dire “Eh, hai fatto bene”, “Eh, hai fatto male”, è una cosa che somiglia più a una realtà parallela scritta dagli sceneggiatori di Boris che a qualcosa di realmente possibile. Invece è tutto vero. Quello che è successo negli ultimi dieci giorni è un enorme cortocircuito che ha a che fare con il vecchio indie, il trash televisivo e il nuovo e mal interpretato indie. Il fatto è che, comunque, questa querelle ha portato alla ribalta un borderline come Bugo (non per meriti artistici, a meno che non pensiamo alla scenetta con Morgan come una stramba performance). E proprio in questo periodo, casualità, esce il suo nuovo album, Cristian Bugatti, che poi è anche il suo vero nome.

Bugo per la maggior parte dei telespettatori è stato il classico artista da “E questo chi è?” la prima volta che è salito sul palco. Ma non per colpa di una presunta ignoranza da parte di un pubblico che la narrazione vuole forzatamente ignorante (oramai, poi, Sanremo è seguito con morbosità da tantissima gente, anche da chi non si definisce il tipico ascoltatore di sanremo. Puro intrattenimento e  iper-commentabilità a colpi di hashtag su twitter, facebook etc ne fanno un prodotto simile a Game of Thrones). Bugo è stato sempre ai margini, ha sempre fatto parte di quella che una volta poteva essere una scena indie. Quel crogiolarsi naïf nella propria nicchietta, disagio, gasarsi per essere capiti da una manciata di ascoltatori. Un’epoca pre social, assurdo pensarlo ora. Le cose oggi sono cambiate e inevitabilmente è cambiato anche Bugo.

(Anche se le carriera e la tipologia di artista sono diverse, la stessa cosa si poteva dire di Diodato. In pochi lo conoscevano, ma il brano che ha deciso di portare a Sanremo, “Fai rumore”, è una perfetta scelta conservatrice del Festival, adeguata ai tempi, e infatti ha vinto).

Quindi Bugo in questi giorni è uscito con un nuovo album e il contrasto con Morgan non gli ha potuto che fare bene, almeno se parliamo di visibilità (“Sincero” è stato il video più visto di più in Italia nelle prime 24 ore su youtube). Questa è già una cosa folle, se pensiamo al personaggio con cui abbiamo a che fare.

Bugo, che per chi scrive ha portato la miglior canzone a quest’ultima edizione del Festival, ha sbagliato. Se l’intento fosse stato quello di vincere Sanremo, ma i dubbi rimangono, ha palesemente sbagliato. All’interno di Cristian Bugatti ci sono almeno un paio di canzoni che avrebbe potuto portare, “Un alieno” e “Fuori dal mondo” (le trombe iniziali potrebbero addirittura essere le trombe della nuova sigla di Sanremo).

Perché “Sincero” è un pezzo solo superficialmente semplice. Solo superficialmente una canzoncina da canticchiare e basta. Viene vomitata l’insoddisfazione dei due artisti, i propri demoni, le ipocrisie con cui hanno a che fare, le gabbie che si sono costruiti, le colpe impossibili da espiare. È troppo per Sanremo, che sembra più pronta ad accogliere Achille Lauro e non un testo del genere. A discapito poi di un ritornello orecchiabile, ma non orecchiabile come vuole Sanremo. Orecchiabile come vuole un club, una situazione diversa e non esposta ai riflettori di un evento di quella portata. E infatti “Sincero” è arrivato ultimo, e non sarebbe potuto essere altrimenti.

Questo suo ultimo lavoro è qualcosa che si distacca rispetto al suo passato, mantenendo sempre in prima linea i suoi riferimenti più chiari, Vasco Rossi e Lucio Battisti, ma oggi va a pescare anche tra altri cantautori italiani: “Come mi pare” va a rifarsi a quel disincanto oramai vintage alla Luca Carboni, “Mi manca”, dove possiamo apprezzare anche la voce di Ermal Meta, sembra un pezzo scritta da Biagio Antonacci in piena crisi esistenziale, “Al paese” ha a che fare con i Baustelle, tra memoria e ritmo incalzante.  C’è quindi un classico Vasco Rossi (“Che ci vuole”), mentre “Un alieno” somiglia a un pezzo di Battisti scritto per un’edizione del ’96 di Sanremo e in “Stupido eh?” il cantautore di Poggio Bustone emerge con grande prepotenza. Di fondo, c’è sempre un disagio tipicamente Bugo, che qui viene declinato in un sistema massimalista e non lo-fi.

Insomma, Bugo prova a farsi conoscere al grande pubblico con Cristian Bugatti, un lavoro piacevole e ben congegnato. E il disguido con Morgan è un po’ un’inquietante manna dal cielo. Vediamo quanto dura, perché ci vuole pochissimo a tornare nel dimenticatoio.

Cinque canzoni di Fabrizio De André per i suoi ottant’anni

In occasione dell’ottantesimo compleanno ideale di Fabrizio De André abbiamo scelto cinque canzoni per ricordarlo diverse dai brani più popolari di Spotify.

Sono scelte meno scontate, che non trovate –sempre – nelle classifiche delle migliori canzoni di De André ma che hanno lo stesso valore artistico delle canzoni più celebrate.

I brani vengono da Storia di un impiegato (1973); Volume 8 (1975); Rimini (1978); Fabrizio De André (1981) e Anime salve (1996).

“La canzone del padre” – Storia di un impiegato – Fabrizio De André – Giuseppe Bentivoglio/Fabrizio De André – Nicola Piovani, 1973

 

Storia di un impiegato è l’album più smaccatamente politico di De André. Contestato dalla sinistra extraparlamentare e da colleghi cantautori come Giorgio Gaber, non riuscito, parzialmente rinnegato dal suo stesso autore che ammette di non essere riuscito a spiegarsi come avrebbe voluto, il concept scritto con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani ha comunque consegnato alla storia due canzoni: “Il bombarolo” e “Verranno a chiederti del nostro amore”.

Canzone del padre”, invece, è un brano di passaggio, oscuro, criptico, denso di simbolismi. Ci si legge l’eterna inadeguatezza di De André nei confronti del mondo borghese. Qui si identifica più che mai nel bombarolo e nella sua incapacità di prendere il posto del padre nella società civile. Un’identificazione vissuta come un incubo da cui svegliarsi sudato, pronto ad andare avanti per la propria strada. E infatti la canzone successiva racconta il momento dell’attentato esplosivo.

“Canzone per l’estate” – Volume 8 – Fabrizio De André – Francesco De Gregori/Francesco De Gregori, 1975

 

Chi conosce bene sia De André che Francesco De Gregori ha con Volume 8 un rapporto ambiguo, sospeso tra delusione e amore. Non è un album del tutto riuscito e l’unica canzone si è iscritta nell’immaginario deandreiano collettivo è “Amico fragile”, scritta interamente da De André in un momento successivo al leggendario chiusone dei due cantautori in Gallura.

Canzone per l’estate”, però, è la sintesi perfetta di tutto quello che quell’incontro avrebbe potuto produrre. È il brano in cui più di tutti si avverte l’influenza del giovanissimo De Gregori su De André, con il cantato meno impostato e il predominio delle chitarre acustiche.

La canzone è una critica della borghesia intellettuale comoda (De André la riconosce come una sua auto-critica), ormai incapace di slanci ideali e che si accontenta di «entusiasmi lenti» e di un «collezionismo di parole complicate».

Dopo Volume VIII lo stile di Fabrizio De André cambia: ci sono molti più Stati Uniti che Francia, molto più Dylan di Brassens, ma anche del già conosciuto e apprezzato Leonard Cohen. “Canzone per l’estate” serve proprio per capire questo passaggio.

“Rimini” – Rimini – Fabrizio De André – Massimo Bubola, 1978

 

Title track del primo album scritto in collaborazione con Massimo Bubola, “Rimini” sintetizza in modo unico i sogni frustrati del vivere in provincia.

Siamo in una Rimini crepuscolare che fa pensare subito ai Vitelloni di Fellini, ma anche a La prima notte di quiete di Zurlini e, in prospettiva, a Rimini di Pier Vittorio Tondelli. De André e Bubola raccontano la storia di Teresa, figlia di droghieri, che sogna un altrove ideale, che sia l’America di Colombo, la rivoluzione cubana o l’Harry’s Bar di Venezia, ma in fondo rimpiange di aver abortito il figlio del bagnino.

Siamo nel 1978, poco prima dell’esplosione dell’edonismo anni Ottanta, ma ci si legge già tutto.

“Hotel Supramonte” – Fabrizio De André – Fabrizio De André – Massimo Bubola, 1981

 

La canzone più dolorosa e personale di De André è, in realtà, una rivisitazione di “Hotel Miramonti”, un brano scritto ma mai inciso da Massimo Bubola.

“Hotel Supramonte” è l’elaborazione dei cinque mesi di prigionia di cui furono vittime Fabrizio De André e Dori Ghezzi tra agosto e dicembre del 1979. Legati l’uno all’altro con delle corde, portati da un angolo all’altro dell’entroterra sardo, i due cantanti vissero un’esperienza indescrivibile per chiunque. Non per il cantautore genovese, che l’ha trasformata nel racconto di un amore indissolubile e più forte della paura.

“Khorakhanè – A forza di essere vento” – Anime salve – Fabrizio De André – Ivano Fossati, 1996

 

Anime salve è un disco enorme e bellissimo che più di ogni altra cosa fa capire quanto la scomparsa prematura di De André ha fatto perdere alla cultura italiana. A cinquantasei anni, in collaborazione con Ivano Fossati – la prima con un artista già pienamente consolidato –, Fabrizio De André canta gli ultimi di tutto il mondo in un elogio della solitudine che è molto più di un testamento ideale.

Khorakhanè – A forza di essere vento” prende il nome dai rom musulmani originari del Kosovo e racconta la libertà e il dolore dei nomadi, chiamati al viaggio e condannati «a imbrunire su un muro» quando si fermano.

De André (autore del 90% dei testi dell’album per ammissione di Fossati) raggiunge in questo brano alcune delle vette più alte della sua poetica. Bastano passaggi come «sentieri costretti in un palmo di mano», o «un sollievo di lacrime ad invadere gli occhi / e dagli occhi cadere», o ancora «occhi limpidi come un addio». Poi c’è il finale in romanès cantato da Dori Ghezzi, che spalanca il brano come una sofferente liberazione.

Copertina di Madrigale senza suono di Tarabbia

Una meditazione su scrittura e morale

A un anno dall’ultima lettura torno su Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019) di Andrea Tarabbia, un libro intriso di umori saturnini, che si regge su una costruzione dottissima, ma capace di esprimersi liberamente attraverso le fascinazioni gotiche. Romanzo altresì vincitore del Campiello, e direi a sorpresa, non tanto per il suo valore letterario – indubbiamente alto – ma per le ben note consuetudini della provincia culturale, che predilige di buon grado narrazioni dall’esito più edificante. Scrivo di Tarabbia non tanto per spendermi in tardive recensioni, ma perché mi sembra un buon caso per fare un discorso intorno alla letteratura e su cosa significa scrivere al giorno d’oggi.

Riprendiamo brevemente il succo del libro: si tratta della biografia di Gesualdo da Venosa, compositore vissuto fra Sedicesimo e Diciassettesimo secolo, celebre madrigalista, nonché artista ammantato dell’aura di “maledetto”, perché assassino della moglie e del di lei amante. I madrigali di Gesualdo sono tornati alla ribalta nel Novecento perché oggetto di studio e reinterpretazione da parte di Igo Stravinskij. Tarabbia immagina uno Stravinskij alle prese con lo studio di una biografia fittizia di Gesualdo, scritta dal suo fedele servo Gioachino, e intento a penetrare la figura misteriosa anche grazie allo scambio epistolare con il musicologo Glenn Watkins. Una struttura a più strati che oppone molteplici cornici razionali a un cuore – quello della vicenda di Gesualdo – animato dalla passione, dal tormento, dalla tragedia come unico esito di un destino in apparenza già tracciato.

Tarabbia non architetta una canonica storia di genio&follia, quanto una ben più cerebrale parabola sull’inconoscibilità del genio, ma anche sulla materialità del male, inteso come cozzare organico di corpi. Non ci sono solo i corpi dei due amanti, uniti sia nell’atto erotico che in quello violento che spezza la loro vita. C’è anche il corpo e lo sguardo servile di Gioachino, una sorta di coscienza infelice e parlante del suo padrone, e ancora il corpo deforme di Ignazio, il figlio di Gesualdo partorito la notte del delitto e segregato nella vergogna. Al romanzo delle passioni se ne sovrappone poi uno sul documento, una narrazione epistolare, concettosa e anch’essa inquietante, perché traccia il riverberarsi della follia di Gesualdo nella mente febbrile di Stravinskij.

A mio parere il lavoro di Tarabbia si situa nel panorama italiano a metà fra il magistero manierista di Tuena e le sfuriate misantropiche di Mari (impossibile, nel leggere la vicenda di Gesualdo, non lasciare che si sovrappongano i ricordi e le fascinazioni dell’esordio di Mari, Di bestia in bestia); c’è anche una spruzzata di Landolfi, non tanto nella lingua – mai troppo carica sebbene calibrata sulla pastosità letteraria che si richiede a un romanzo dal sapore storico – ma soprattutto nelle geometrie volte a costruire un congegno letterario perfetto, per poi negarlo. È un romanzo molto personale che si pone come bussola morale la volontà di sviscerare il dilemma dell’agire umano, fra consapevolezza della perfezione estetica – allo stesso modo perfetti esteticamente l’omicidio, i madrigali, e la parabola che oggi diremmo bohémienne di Gesualdo – e concretezza di sentimenti come rabbia e tormento, capaci di incidere su pensieri e comportamenti, a tal punto da arrecare danno al prossimo.

Abbiamo, dunque, un romanzo che si occupa di morale. E credo che al giorno d’oggi non si possa chiedere di meglio alla letteratura. Storie che migliorano la nostra frequentazione con noi stessi, ci facciamo riconnettere con il peso dei nostri giudizi e delle nostre azioni, per tornare ad ancora il soggetto deflagrato della modernità a una fragile linea etica di cui abbiamo più che mai bisogno. Storie che in definitiva mettono al centro l’uomo, non tanto perché animate da ipotesi narcisiste o impegnate a riabilitare una vetusta mitologia umanista, ma perché capaci di guardare al prisma umano – al sinolo di magnificenza e decadenza del nostro animo – con spirito giudicante: siamo condannati a percepire noi stessi, tanto vale soppesare la nostra coscienza, calibrare il motore da cui si irradia la nostra natura di soggetti, e di soggetti in rapporto dialettico con il mondo esterno.

Fra tanti tentativi massimalisti che cercano di assorbire sul piano estetico una totalità che sfugge – chi cercando di riabilitare artificialmente un discorso pubblico atomizzato e che vede la letteratura in posizione ancillare, chi rapportandosi alle nuove sfide della contemporaneità ma perdendo, a volte in maniera anche comica, il senso della trasfigurazione letteraria – un episodio così ben calibrato, in grado di riflettere sull’orizzonte morale dell’uomo, è oro colato. Nonché la strada che ci sentiamo di sposare e seguire.

 

(Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri, 2019, 377 pp., euro 16,50, articolo di Giovanni Bitetto)